Gianluca Scroccu-PIERO GOBETTI NELLA STORIA D’ITALIA-Una biografia politica e culturale-
Editore Le Monnier
Descrizione-Piero Gobetti (1901-1926) è stato un protagonista nella storia politica e culturale dell’Italia della prima metà del Novecento. La sua figura di oppositore intransigente del regime fascista e di formidabile organizzatore culturale ha destato un interesse costante nella storiografia italiana e anche internazionale. Il volume, che vuole essere il primo tentativo di sistematizzare in un profilo biografico le nuove tendenze interpretative emerse negli ultimi venti anni, analizzando nel capitolo finale anche la fortuna di Gobetti nella politica in età repubblicana sino al 2022, intende ricostruire la sua biografia umana e politica dalla iniziale esperienza di contestazione radicale della scena pubblica italiana post Prima guerra mondiale con la prima rivista «Energie Nove», sino a quelle più mature, elaborate insieme alla sua importante rete di collaboratori, di «La Rivoluzione Liberale» e de «Il Baretti», culminate con la coraggiosa quanto sfortunata opposizione al fascismo sino all’esilio e alla morte in Francia.
PIERO GOBETTI
Indice
Introduzione; 1. La rigenerazione giovanile: l’esperimento di «Energie Nove»; 2. Il fascismo come autobiografia della nazione. La battaglia della «Rivoluzione Liberale»; 3. Tra politica e cultura: «Il Baretti», la casa editrice e la morte a Parigi; 4. Gobetti oltre Gobetti: il lascito e la fortuna in epoca repubblicana; Note; Bibliografia; Indice dei nomi. pp. VIII-160 isbn: 9788800863940
PIERO GOBETTI
L’autore
Gianluca Scroccu è professore associato di Storia contemporanea all’Università di Cagliaridove insegna storia contemporanea nel corso di laurea in filosofia, storia dell’Italia repubblicana e storia dell’integrazione europea nel corso di laurea in Storia e società. È autore di numerosi saggi sulla storia del socialismo italiano, sulle figure di Antonio Giolitti, Sandro Pertini, Piero Gobetti, sulla storia della Sardegna contemporanea e sul rapporto fra la religione civile e i presidenti americani. Tra le sue monografie: La sinistra credibile. Antonio Giolitti tra socialismo, riformismo ed europeismo (1964-2010) (Carocci, 2016, premio Fiuggi storia 2016 e premio Matteotti – Presidenza del Consiglio dei Ministri 2017).
Francesco Daveri- Un cristiano per la libertà -di Alessandro Forlani
Francesco Daveri nacque il 1° gennaio 1903 a Piacenza da Cesare e Carolina Maldotti, una famiglia, come egli stesso avrebbe ricordato, «povera e numerosa»:il padre era impiegato presso la curia vescovile e i figli della coppia furono sette (due maschi e cinque femmine). Dopo aver frequentato le scuole elementari, D. fu ammesso al seminario vescovile, dove svolse le cinque classi del ginnasio, per poi superare nel 1919 il concorso per accedere al Collegio Alberoni, la prestigiosa istituzione piacentina per la formazione del clero che aveva anche annoverato personalità destinate al successo nelle diverse discipline scientifiche. Non avvertendo la vocazione religiosa, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, mantenendosi negli studi con il proprio lavoro fino al 1926, quando si laureò a pieni voti. Nel frattempo, iscrittosi anche al Partito popolare italiano nel 1921, divenne socio della Società della gioventù cattolica italiana, entrando nel 1922 nel consiglio della Federazione diocesana, di cui fu segretario per la propaganda nel 1924 e per le missioni nel 1926. Nel periodo universitario fece parte anche della Fuci, di cui fu il reggente del segretariato di Piacenza dal 1927 al 1929. Dopo due anni di praticantato legale, D. aprì uno studio insieme a Giuseppe Arata, con il quale, dopo aver condiviso la militanza nella Gioventù cattolica, avrebbe collaborato anche nella Resistenza su posizioni differenti, in quanto socialista. D. sposò Margherita Castagna, con la quale ebbe cinque figli, entrando, secondo le disposizioni statutarie, nell’Unione uomini di Azione cattolica. Ma a partire dal 1930 il suo impegno si concentrò prevalentemente sull’antifascismo attivo. Partecipò alle attività del Movimento guelfo d’azione, promuovendo la diffusione dei manifestini prodotti dal gruppo. Allacciò contatti con esponenti socialisti. Rimase in rapporto con i dirigenti del disciolto Partito popolare che non si erano piegati al regime. Nella seconda metà degli anni Trenta, quando fu aperta anche a Piacenza la sezione, D. prese parte alle iniziative del Movimento laureati di Azione cattolica e a partire dagli inizi del 1943, dopo la fondazione in diocesi dello Studium Christi, fu coinvolto nelle attività di questo centro che, pur avendo un taglio culturale, fu uno spazio prezioso nel maturare le prospettive per il dopoguerra. Le attività clandestine si intensificarono durante la II Guerra mondiale. Dopo lo sfollamento della famiglia a Bobbio, in provincia di Piacenza, alla fine del 1942, D. decise di rimanere a Piacenza, oltre che per continuare la professione, anche per non allentare l’opposizione al regime che si era fatta sempre più intensa. All’indomani della caduta del fascismo, che maturò il 25 luglio 1943, a Bettola diede fuoco pubblicamente a un ritratto di Mussolini, gettando i frammenti incandescenti dal balcone della pretura verso la folla che stava manifestando con spirito anche divertito per la scena. Intervenne anche per far scarcerare quanti avevano manifestato nel capoluogo per la caduta del duce presso il prefetto Amerigo De Bonis, il quale il 1º settembre 1943 lo nominò membro della giunta provinciale amministrativa. In seguito all’armistizio, fu tra i fondatori del Comitato di liberazione nazionale di Piacenza, che si costituì e poi si riunì a più riprese nel suo studio di via Pavone. Si attivò immediatamente per organizzare il rifornimento di armi per le prime bande partigiane che si andavano formando nell’Appennino piacentino. Lo stretto controllo del territorio seguito all’occupazione nazista accentuò la pressione sulle sue iniziative. Il Tribunale straordinario provinciale il 30 gennaio 1944 spiccò un mandato di cattura per l’oltraggio compiuto all’indomani della destituzione di Mussolini. Avvisato in tempo, D. si nascose in città, preparando la difesa in vista del processo, che si chiuse in contumacia nel marzo del 1944 con la «faziosa sentenza», determinata in cinque anni di reclusione. D. scrisse una dura lettera, diffusa in città, al prefetto Davide Fossa, al quale imputava la responsabilità di un recente eccidio, con la minaccia di rappresaglia da parte delle forze partigiane. Nel nascondiglio, preparò anche messaggi da inviare alla Resistenza. Il 15 marzo 1944, sotto il falso nome di Lorenzo Bianchi, mentre cercava di varcare il confine verso la Svizzera, fu fermato dalle guardie di frontiera, che lo trattennero e, dopo una estenuante trattativa, gli permisero il varco. Espletate le consuete procedure previste per i rifugiati, fu spostato alla casa d’Italia a Lugano, dove trovò alcuni antifascisti cattolici con i quali era in rapporto amicale, e poi fu spostato a Loverciano. Nel Ticino, comunque, D., su incarico del Clnai, fece da raccordo tra la Resistenza del Nord Emilia e gli alleati. Oltre a inserirsi nel dibattito politico che fu animato tra i rifugiati italiani, attraverso la fidata segretaria dello studio professionale, Bruna Tizzoni, che effettuò diversi viaggi in Svizzera, riallacciò i rapporti con la Resistenza della sua terra. Questi servirono anche per farli fruttare all’interno della rete dello Special Operation Executive, il servizio segreto inglese attivato durante la guerra, per conto del quale D. cominciò a operare. Attraverso questo canale, nel luglio del 1944 rientrò clandestinamente in Italia, operando prevalentemente a Milano sotto mentite spoglie, in collegamento con i servizi di informazione della Resistenza. Non smise però di tenere relazioni importanti con il piacentino, cercando anche di orientare a distanza la rappresentanza democristiana all’interno dell’organismo di coordinamento locale. La sua attività più importante fu comunque l’incarico di ispettore militare del Nord Emilia per conto del Clnai, che lo mise in continuo contatto con Ferruccio Parri ed Enrico Mattei. Nell’ottobre del 1944 D. rientrò nel piacentino, dove tenne alcuni incontri rivelatisi cruciali per il consolidamento in senso unitario della Resistenza, che lo consacrarono come punto di riferimento imprescindibile. Il 18 novembre, nel corso di un’operazione che fu favorita anche dall’«incompetenza» di altri delle «regole cospirative», fu arrestato a Milano e condotto al carcere di San Vittore, dove fu registrato con il nome di Lorenzo Bianchi, secondo quanto attestava il documento d’identità falso. Interrogato brutalmente dalle Ss, non rivelò informazioni compromettenti, addossandosi anzi la responsabilità per tentare di scagionare quanti erano stati arrestato con lui. Per un principio di congelamento al piede fu ricoverato nell’infermeria della struttura, anche se i reiterati tentativi per liberarlo, per il tramite del consolato inglese di Lugano non riuscirono. Il 17 gennaio 1945 D. fu deportato al campo di concentramento di Gries, nei pressi di Bolzano, da dove il 4 febbraio seguente, con l’ultimo convoglio di deportati italiani verso i lager nazisti, partì per la Germania, arrivando a Mauthausen il 7 febbraio successivo, venendo identificato con la piastrina n. 126.054. Una decina di giorni dopo fu assegnato al sottocampo di Gusen II, costretto al lavoro forzato nella cava di San Giorgio. Prostrato e ridotto allo stremo, D. fu ricoverato in infermeria, dalla quale il 30 marzo uscì febbricitante. Sentendo ormai prossima la liberazione, cercò di attingere alle residue energie per continuare il duro lavoro, ma, senza riuscire a resistere, fu bastonato. D. si spense dopo il 10 aprile 1945. Il certificato della Croce rossa internazionale, secondo il libro dei morti del campo, attestò come giorno del decesso il 13 aprile 1945 alle ore 6.50. Nel 1986 gli fu conferita la medaglia d’argento al valor militare alla memoria, con la seguente motivazione: «Uomo di azione, oltre che di cultura; organizzatore coraggioso e capace sin dai primordi della lotta partigiana in Val Padana; capo indiscusso del movimento di liberazione nel “piacentino” e collaboratore di spicco nel C.L.N. alta Italia. Ideatore e partecipe di importante operazione logistica di trasferimento armi e viveri per le formazioni partigiane fra le sponde emiliana e lombarda del Po, veniva catturato azione durante e inutilmente seviziato nel corso di due mesi di carcere. Deportato in campo di concentramento, ivi decedeva offrendo la nobile esistenza alla causa della libertà».
Francesco Daveri
Onorificenze
Medaglia d’argento al valore militare
Uomo di azione, oltre che di cultura; organizzatore coraggioso e capace sin dai primordi della lotta partigiana in Val Padana; capo indiscusso del movimento di liberazione nel “piacentino” e collaboratore di spicco nel C.L.N. alta Italia. Ideatore e partecipe di importante operazione logistica di trasferimento armi e viveri per le formazioni partigiane fra le sponde emiliana e lombarda del Po, veniva catturato azione durante e inutilmente seviziato nel corso di due mesi di carcere. Deportato in campo di concentramento, ivi decedeva offrendo la nobile esistenza alla causa della libertà.
Fonti e bibliografia
Luigi Donati, Ricordo di Francesco Daveri, A. Del Maino, Piacenza 1955.
Alessandro Forlani, Francesco Daveri (1903-1945). Un cristiano per la liberta, Emilstampa, Piacenza 1993.
Italo Londei, L’espatrio dell’avv. Francesco Daveri, in «Archivum bobiense», 25 (2003), pp. 499-508.
Claudio Oltremonti, Nelle S.P.I.R.E. del regime. Upi, Questura, Ovra, Mgir, missione alleate, intelligence partigiana a Piacenza (1943-1945), s.n.t., 2018.
Autore scheda: Paolo Trionfini-Fonte Biografie dei Resistenti
Francesco DaveriFrancesco DaveriFrancesco DaveriFrancesco DaveriFrancesco DaveriFrancesco Daveri
Andrea Frediani -La vera storia di Auschwitz – Newton Compton Editori-
Descrizione del libro di Andrea Frediani -La vera storia di Auschwitz –La storia della nascita e dello sviluppo di uno dei luoghi simbolo dell’Olocausto e dell’orrore nazista Auschwitz non nasce da un giorno all’altro, senza alcuna avvisaglia. Al contrario, è il punto di arrivo di un percorso che inizia nel momento stesso in cui il nazismo prende il potere, istituendo campi di concentramento dapprima per gli avversari politici e poi per gli emarginati sociali, ai quali si affianca una politica razziale sempre più esasperata. Il programma di eutanasia è un altro balzo in avanti verso l’orrore, che con la guerra non conosce più ostacoli né limiti. Durante il conflitto, l’intera gerarchia delle SS lavora costantemente per creare il campo totale, che soddisfi i requisiti per internare un numero sempre maggiore di prigionieri, sfruttarne la forza lavoro per l’industria bellica, ed eliminare subito chiunque non risulti utile. Dai primi esperimenti con i detenuti sovietici fino allo sterminio degli ebrei ungheresi, nell’arco di un triennio Auschwitz affina sempre di più le sue capacità assassine, fino a diventare l’unico lager in grado di mettere in pratica, e su ampia scala, tutti i sistemi escogitati dai nazisti per la “soluzione finale”: l’omicidio di massa mediante privazioni, lavoro coatto e camere a gas.Un autore da oltre un milione e mezzo di copie-La storia del campo di concentramento più tristemente noto, narrata da uno dei più stimati divulgatori storici italiani.
La vera storia di Auschwitz raccontata dallo scrittore Andrea Frediani
Andrea Frediani–È nato a Roma nel 1963. Divulgatore storico tra i più noti d’Italia, ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi e romanzi storici, tra i quali: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; 300 guerrieri; Missione impossibile; L’enigma del gesuita. Ha firmato le serie Gli invincibili, Invasion Saga e Roma Caput Mundi; i thriller storici Il custode dei 99 manoscritti e La spia dei Borgia; Lo chiamavano Gladiatore, con Massimo Lugli; Il cospiratore; La guerra infinita; Il bibliotecario di Auschwitz; I Lupi di Roma; L’ultimo soldato di Mussolini; Le Williams, con Matteo Renzoni, L’eroe di Atene, Il nazista che visse due volte, Il dio della guerra, Napoleone, Delitto al Palatino e Il gladiatore. Le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo.
La vera storia di Auschwitz-Articolo di Salvatore Galeone
In occasione del 27 gennaio, Giorno della Memoria, abbiamo chiesto ad Andrea Frediani, autore del libro “La vera storia di Auschwitz”, di raccontarci la storia della nascita e dello sviluppo di uno dei luoghi simbolo dell’Olocausto.
Auschwitz non nasce da un giorno all’altro, senza alcuna avvisaglia. Al contrario, è il punto di arrivo di un percorso che inizia nel momento stesso in cui il nazismo prende il potere, istituendo campi di concentramento dapprima per gli avversari politici e poi per gli emarginati sociali, ai quali si affianca una politica razziale sempre più esasperata.
In occasione del 27 gennaio, Giorno della Memoria, abbiamo chiesto ad Andrea Frediani, divulgatore storico tra i più noti d’Italia e autore del libro “La vera storia di Auschwitz“, di raccontarci la storia della nascita e dello sviluppo di uno dei luoghi simbolo dell’Olocausto e dell’orrore nazista.
La vera storia di Auschwitz
Dopo una sessantina di libri di storia, ho deciso di scrivere un libro sulla storia. Vi chiederete che differenza c’è: ebbene, è abissale. Un libro di storia obbliga lo storico a essere imparziale, oggettivo, distaccato. In uno sulla storia puoi metterci la tua passione, le tue convinzioni, le tue opinioni. E se c’era un argomento su cui valeva la pena prendere una posizione, era una delle più grandi mostruosità del Novecento: l’Olocausto. A indurmi a farlo è stato il negazionismo imperante, la tendenza di molti a minimizzare, se non a negare, e di altri a voltare lo sguardo da un’altra parte, per l’incapacità di sostenere il carico emotivo che tale argomento comporta.
Così, ho scritto un libro agile, che possa attirare l’attenzione anche del lettore distratto, e fornire ulteriori argomenti, e una visione più ampia, a chi invece il tema già lo ha affrontato. E l’ho fatto per permettere a chiunque di cogliere i segnali di un nuovo Auschwitz, laddove ve ne fossero: perché è noto che nella storia, quando qualcosa si dimentica, prima o poi si ripete, materializzandosi all’improvviso perché nessuno ne coglie le avvisaglie.
Auschwitz, lo spiego nel libro, non è nato all’improvviso. I segnali c’erano, eccome. Auschwitz segna la conclusione di un processo iniziato meno di un decennio prima, con l’avvento al potere di Hitler in Germania – un avvento, va ricordato, democratico, attraverso libere elezioni – cui segue immediatamente l’istituzione di campi di concentramento per i dissidenti politici. E’ il primo passo: fino ad allora, i campi di concentramento erano nati solo in ambito coloniale. Adesso, vi si rinchiude chiunque non sia gradito al regime; dopo i dissidenti politici, gli emarginati sociali e poi gli ebrei.
Ma siamo ancora in una fase embrionale. Il livello sale quando si ricorre a una politica di eutanasia, verso chi il regime non ritiene degno di vivere, a cominciare da malati di mente e disabili. Gas e iniezioni letali sono gli strumenti di morte prediletti dai nazisti, ma le proteste della Chiesa tedesca li costringono a sospendere il programma. Poi però la guerra offre una copertura per i loro crimini e la spinta a esasperare la loro politica razziale, internando le razze che considerano inferiori o pericolose, ovvero slavi, ebrei e zingari.
Ogni campo di concentramento viene potenziato per fare dei deportati degli schiavi, e qualcuno viene creato appositamente per eliminarli, con gli stenti, col lavoro o col gas. Ma solo uno risponde a tutti, ma proprio tutti i requisiti: un’ex caserma dell’esercito polacco, a breve distanza da una cittadina immersa nel verde a 60 km da Cracovia, Oświęcim, in tedesco Auschwitz.
E’ qui che i vertici del Reich scelgono di investire per creare il campo perfetto, totale, che risponda a tutte le esigenze di sfruttamento della forza lavoro dei prigionieri, e di annientamento delle razze inferiori: non un campo di concentramento, quindi, ma di sterminio; un campo che metta a disposizione degli aguzzini i più svariati metodi per mettere in atto la cosiddetta “soluzione finale”.
Se gli altri campi svolgono solo alcune delle funzioni richieste dai vertici del nazismo, e in particolar modo dal capo delle SS Himmler, Auschwitz, attraverso numerosi interventi e perfezionamenti nel corso del tempo, le assolverà tutte. Gli inizi sono timidi, con una limitata portata di internati, in gran parte prigionieri di guerra sovietici, condotti allo sfinimento con lavori pesanti e condizioni insostenibili. Ed è su di loro che si compiono i primi esperimenti stanziali col gas, il famigerato Zyklon B che sostituisce il monossido di carbonio utilizzato occasionalmente altrove fino ad allora.
Quando poi la macchina è oliata, con la disponibilità di strutture concepite appositamente in un nuovo campo, Birkenau, edificate con stanzoni al piano terra o interrato dove immettere il gas e crematori a quello superiore per bruciare i cadaveri, ai sovietici si aggiungono ebrei e zingari, e l’impresa assume un carattere industriale.
Auschwitz diventa pertanto un perfetto ingranaggio di morte dove ogni fase è curata e registrata nei dettagli, gli stessi che ci hanno permesso di venirne a conoscenza; dal rastrellamento nei paesi d’origine al terribile viaggio in treno in carri bestiame, fino all’arrivo al lager, dove ciascuno percorre una sua strada verso la morte: per vecchi, bambini e tante donne è la immediata camera a gas, per altri è il lavoro forzato in condizioni disumane nelle decine di sottocampi, per altri ancora la trasformazione in cavie per gli esperimenti dei medici delle SS, o il tifo e le tante malattie contratte in condizioni igieniche devastanti.
In mezzo a quest’orrore, sono tante le storie di meschinità e redenzione, amore e odio, crudeltà e bontà, altruismo ed egoismo, eroismo e pavidità, forza e debolezza. Ciascuna di queste storie potrebbe essere raccontata in un romanzo o in un film, e in effetti in molti casi è accaduto. Non si possono raccontare tutte in un libro, ma ne bastano alcune, per arricchire la nostra sensibilità.
Salvatore Galeone -Giornalista pubblicista
Biografia breve di Salvatore Galeone –Giornalista pubblicista, community manager, appassionato di letteratura e di comunicazione social e digitale, Salvatore Galeone è laureato in Scienze della comunicazione con Laurea Magistrale in Comunicazione e Multimedialità. Nato a Taranto, vive e lavora a Milano dal 2011 e si occupa di Libreriamo, insieme al fondatore del progetto Saro Trovato, fin dal primo giorno.
Ilse Koch -Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch -la “cagna di Buchenwald”-la “donnaccia di Buchenwald” Articolo di Fabio Casalini
Il 15/01/1951 veniva condannata all’ergastolo Ilse Koch, la “cagna di Buchenwald”, la “donnaccia di Buchenwald”. Uno dei peggiori esseri umani che mai abbia calpestato il suolo terrestre.
La Koch era già stata processata e condannata all’ergastolo nel 1947, pena poi commutata in 4 anni “perché non erano state fornite prove evidenti”.
Fu rilasciata però nel 1949 dal Generale Lucius Clay, comandante statunitense della zona tedesca, ma venne subito arrestata e processata dalla corte tedesca, viste le proteste che si erano scatenate per la sua liberazione.
Chi era questo essere immondo?
La sua crudeltà iniziò nel 1936, quando diventò sorvegliante presso il campo di concentramento di Sachsenhausen. Qui conobbe e sposò il comandante Karl Otto Koch. Nel 1937 arrivò al campo di concentramento di Buchenwald, come moglie del comandante: influenzata dal potere e dalla posizione del marito, iniziò a torturare gli internati.
Nel processo a suo carico venne riferito che la Koch fosse solita annotarsi i numeri dei prigionieri che avevano tatuaggi particolarmente originali, che li facesse uccidere e utilizzasse la loro pelle per realizzare paralumi, copertine di libri, album di foto e guanti.
l’ex internato Herbert Froeboeß testimoniò che: “Nell’estate del 1940 stavamo lavorando nello stadio delle SS. Era una giornata calda, e abbiamo lavorato con la parte superiore del corpo esposta. Avevamo un giovane francese o belga che lavorava per noi, di nome Jean Collinette. Era conosciuto in tutto il campo per i suoi tatuaggi. Particolarmente vistosi erano un serpente cobra colorato arrotolato intorno al suo braccio sinistro fino in cima, e un veliero a quattro alberi particolarmente ben tatuato sul petto. Ilse Koch passò a cavallo, tenne il suo cavallo davanti a Jean, guardò i tatuaggi e scrisse il suo numero. Quella sera Jean fu chiamato al cancello e non lo vedemmo più. Sei mesi dopo,nel dipartimento di patologia del campo, ho riconosciuto un pezzo di pelle con il veliero di Jean. Più tardi ho visto la stessa nave in un album di foto dei Koch“.
Karl Otto Koch nello stesso anno, 1937, fu nominato comandante del campo di concentramento di Majdanek.
Il tenore di vita dei coniugi Koch mutò radicalmente dal loro arrivo a Buchenwald. L’espropriazione di quelli che erano stati i beni dei prigionieri del campo e il loro sfruttamento come schiavi fecero sì che la coppia si arricchisse in modo spropositato.
Tale comportamento non passò inosservato, sia a livello locale che nazionale.
L’operato di Koch a Buchenwald in qualità di comandante del campo destò l’attenzione dell’Obergruppenführer Josias di Waldeck e Pyrmont, nel 1941. Scorrendo la lista dei morti di Buchenwald, Josias aveva fatto una croce accanto al nome del dottor Walter Krämer, del quale si ricordava poiché era stato suo paziente in passato. Josias investigò il caso e scoprì come Koch avesse ordinato l’uccisione di Krämer e Karl Peixof, altro aiutante all’ospedale del campo, come “prigionieri politici”, perché lo avevano curato dalla sifilide ed egli temeva che potessero diffondere la voce
Nel 1943 furono arrestati entrambi dalla Gestapo per malversazione e altri crimini.
Nel 1945 suo marito fu condannato a morte dalla corte SS a Monaco di Baviera e giustiziato in aprile.
Ilse fu rilasciata e andò a stabilirsi con la propria famiglia a Ludwigsburg. Fu nuovamente arrestata dalle autorità statunitensi il 30 giugno 1945.
Si impiccherà nella sua cella in Baviera nel 1967.
Troppo tardi.
Articolo di Fabio Casalini
Nella fotografia uno dei cani che usava aizzare contro i detenuti.
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Appendice e nota di redazione
Ilse Koch la “cagna di Buchenwald”
Lo scenario della II Guerra Mondiale è sicuramente uno dei più sanguinosi e violenti che l’umanità ancora oggi ricordi. Tutti conoscono Hitler e l’olocausto e purtroppo tutti conosciamo gli orrori che si consumarono in quegli anni. Stasera, nella FASCIA DARK, parliamo però nello specifico di un caso in cui il nazismo incontrò il sadismo. Stasera parliamo di Ilse Koch, la “strega di Buchenwald”, “cagna di Buchenwald”, “donnaccia di Buchenwald” o “iena di Buchenwald”. Graziosa e gentile, viene scelta come moglie per Karl Otto Koch, con il fine di formare la coppia modello del regime nazista, quella a cui tutti i tedeschi dovrebbero aspirare. Niente fa presupporre la sua natura sadica e violenta. Tutto ha inizio nel 1937 quando suo marito viene nominato comandante del campo di concentramento di Buchenwald. Ilse viene influenzata dal potere e dalla posizione del marito conducendo una vita agiata, circondata da lusso e privilegi e godendo della sofferenza altrui finché non inzia a torturare lei stessa gli internati.
Agli inizi si concede dei piccoli vezzi, come farsi chiamare dai prigionieri con titoli nobiliari, ma poi, accortasi del piacere che le procura ammirare i flagelli e le piaghe degli “elementi antisociali” si spinge ben oltre, frustando i detenuti che incrociano il suo cammino o aizzando il suo cane contro le donne incinte.
Il marito non è da meno, è solito torturare i prigionieri con un frustino modificato con lame di rasoio, approva l’uso degli schiaccia pollici e dei ferri per marchiare, ma più di tutto ama l’uso degli animali. Tra le numerose perversioni di Ilse, pare ci sia una vera e propria ossessione per il corpo umano che la porta ad organizzare orge saffiche con le mogli degli ufficiali per poi passare agli altri componenti delle SS. Si dice che scateni la sua fame sessuale anche all’interno del campo, costringendo gli internati ad eseguire qualsiasi sua richiesta a sfondo sessuale e girando in topless all’arrivo di ogni nuovo convoglio di prigionieri, massacrando chiunque si giri a guardarla. Queste potrebbero essere solo dicerie è vero, ma è nella dimora dei coniugi Koch che si nascondono le prove dei loro orrori: casa Koch è infatti decorata con paralumi di pelle umana, quadri con lembi di pelle tatuata e tsantsa (teste rimpicciolite), tutto ovviamente preso dagli internati del campo. È troppo anche per la Gestapo che nel 1943 arresta i coniugi Koch per malversazione, eccessiva brutalità, infamia e corruzione. Ilse viene imprigionata nel 1944 l’anno dopo il marito viene condannato a morte e giustiziato. Un tribunale delle SS che arresta due aguzzini può sembrare un paradosso che però aiuta a comprendere il livello di follia omicida che avevano raggiunto Ilse e Otto Koch.
Ilse viene assolta per mancanza di prove, finché nel 1947 viene nuovamente arrestata. Durante la sua permanenza in carcere rimane incinta di un detenuto e approfitta della situazione per rimandare il processo finchè, finalmente, dopo svariati errori giudiziari,viene processata e condannata. La pubblica accusa dichiarò “Se mai un grido è stato udito nel mondo, è quello degli innocenti torturati e morti per mano sua”.
Il sacrificio del sacerdote Massimiliano Kolbe e il silenzio di molti-Articolo di Roberto Guidotti-
Ascoli Piceno – Il sacrificio del sacerdote Massimiliano Kolbe- Entrando in quel gioiello architettonico che è la Chiesa di San Francesco ad Ascoli Piceno, sono in diversi a notare e chiedere chi siano i personaggi moderni raffigurati in una vetrata del finestrone della navata destra.
L’uomo prigioniero davanti a un ufficiale delle SS è il sacerdote polacco Massimiliano Kolbe. Kolbe aiutò i profughi ebrei durante la seconda guerra mondiale. Nel 1941 fu mandato nel campo di concentramento di Auschwitz, dove offrì la sua vita al posto di quella del detenuto Franciszek Gajowniczek, condannato a morte. Dopo averlo lasciato a morire di fame, alla fine gli praticarono un’iniezione di fenolo e lo cremarono. Le sue ceneri si mescolarono insieme a quelle di tanti altri condannati, nel forno crematorio.
Kolbe fu beatificato nel 1971 da Paolo VI e canonizzato nel 1982 da Giovanni Paolo II che a proposito del suo martirio disse che aveva riportato “la vittoria mediante l’amore e la fede, in un luogo costruito per la negazione della fede in Dio e nell’uomo”.
San Massimiliano Kolbe
Come si vede nella vetrata, il sacerdote aveva al petto un triangolo rosso quello che i nazisti affibbiarono ai prigionieri politici tipo i comunisti o i socialdemocratici.
Paradossalmente la deportazione di Kolbe nei lager, pur non costituendo un unicum in ambito cattolico e sacerdotale, contrasta con l’atteggiamento di pensiero e azione della maggioranza dei sacerdoti e vescovi che non si opposero al nazismo o si schierarono a favore approfittando dell’acquiescenza delle gerarchie, come dimostrato ampiamente dalle ricerche di Kevin Spicer (I sacerdoti di Hitler), Guenter Lewy (I Nazisti e la chiesa) e più recentemente da Hans Kung (Ebraismo) e Daniel Jonah Goldhagen (Una questione morale – La Chiesa cattolica e l’Olocausto).
Nel gennaio 1995, nel cinquantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, la segreteria della Conferenza dei vescovi tedeschi fece una dichiarazione in cui si rammaricava che durante il regime nazista così pochi cristiani avessero aiutato gli ebrei. “Le omissioni e le colpe di questi giorni riguardavano anche la Chiesa. Durante il Terzo Reich, i cristiani non portarono avanti la resistenza necessaria all’antisemitismo razzista… Non pochi si lasciarono affascinare dall’ideologia nazionalsocialista e rimasero indifferenti ai crimini commessi contro la vita e i beni degli ebrei. Altri favorirono alcuni crimini o divennero criminali essi stessi”. (I Nazisti e la chiesa)
Nella loro suddivisione delle “categorie” di prigionieri i nazisti attribuirono solo a una confessione religiosa, i Testimoni di Geova un triangolo specifico, quello viola, che li distingueva dagli ebrei, dai rom, dai sinti, omosessuali, politici, fino a un totale di otto, nove categorie. Il motivo era chiaro: in blocco i testimoni di Geova, circa 20.000 in Germania, rifiutarono di schierarsi con il regime nazista, pagando duramente la resistenza religiosa e morale mostrata sin dall’inizio del cancellierato di Hitler nel 1933 con l’oppressione, la deportazione e la morte.
Una vicenda quella dei Bibelforscher che ha portato alcuni storici, come la professoressa di studi ebraici e storia dell’antisemitismo Susannah Heschel a chiedere: “Che cosa sarebbe accaduto se la chiesa luterana o quella cattolica si fosse comportata come i testimoni di Geova? A mio avviso questo avrebbe mutato l’intero corso della storia”. Su questo punto in una recente intervista, è intervenuto anche Claudio Vercelli storico e docente che pur segnando la differenza tra “la posizione delle chiese concordatarie rispetto a un gruppo minoritario”, ha affermato che “il clima di compromissione (per la coscienza) e collusione amorale che il regime medesimo incentivò in tutta la società tedesca era una strategia di cooptazione, che funzionò per una parte rilevante del cattolicesimo e del protestantesimo germanici”.
Mentre si avvicina la Giornata della Memoria con i suoi programmi e rituali, è giusto ricordare che oltre alle povere e sventurate vittime, ci furono martiri veri e propri che si opposero per motivi religiosi al mostro nazista: Kolbe e altri preti, la suora Edith Sthein, alcuni pastori protestanti e compatti ideologicamente i Testimoni di Geova europei.
Storie consolanti anche in tempi moderni e poco luminosi come i nostri. Nello stesso tempo è la conferma che nella storia dell’uomo di ogni epoca, lo stimolo e la forza della propria coscienza e delle proprie idee può essere più forte di ogni vessazione, prevaricazione e afflizione. Anche se il saldo di questa integrità può costare la libertà e la vita stessa.
Roberto Guidotti-Iscritto Albo Giornalisti Marche
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La Leggenda della Fondazione-La Scuola Medica Salernitana è considerata la più antica ed importante Istituzione medica medioevale dell’Occidente per l’insegnamento e l’esercizio della Medicina, che ha innovato profondamente nei principi, staccandoli dagli influssi religiosi. Ha unito i principi della scienza medica dell’Occidente e dell’Oriente; ha accolto le donne, sia come studenti che come docenti; ha teorizzato che le malattie si possono prevenire, mantenendo in salute il corpo, attraverso l’adozione di precise regole igieniche, di una corretta dieta alimentare ed un sano regime di vita. Molto probabilmente è nata nel IX secolo ed ha avuto il massimo splendore nei secoli XI-XIII, diventando famosa in tutta l’Europa.
SCUOL A MEDICA SALERNITANA-
Da molti studiosi è considerata la prima vera Università, che ha formato molte generazioni di medici, famosi in tutta l’Europa fino al XIV secolo,quando,lentamente, inizia la sua decadenza.
Esiste la seguente Leggenda sulla fondazione della Scuola Medica Salernitana:
Un pellegrino greco, di nome Pontus (o Areteo), proveniente da Alessandria d’Egitto,dove ha perso tutti i suoi familiari, arriva a Salerno e si rifugia per la notte sotto gli archi dell’antico acquedotto dell’Arce. Essendo scoppiato un temporale, si ripara nello stesso luogo un altro viandante:è il latino Salernus (o Antonio), che è ferito ad un braccio. Il greco Pontus gli si avvicina per osservare come sta medicando la sua ferita. Intanto arrivano altri due viandanti, l’ebreo Helinus (o Isacco), che viene da Betania, e l’arabo Abdela (o Abdul) originario di Aleppo (Siria), che sono amici. Anche costoro si interessano alle medicazioni della ferita che sta praticando Salernus, al quale tutti cercano di dare dei consigli. Così,,i quattro scoprono che tutti praticano l’arte della Medicina. Diventano amici e decidono di creare un sodalizio, costituendo una Scuola (Schola) Medica per mettere in comune e divulgare le loro specifiche conoscenze sanitarie, allo scopo di curare e guarire i malati.
Altre Leggende
Oltre alla Leggenda della Fondazione, ci sono altre leggende che attestano la bravura dei Medici della Scuola. Vediamone alcune.
Leggenda del Povero Enrico
Una delle leggende più celebri è la cosiddetta Leggenda del Povero Enrico, tramandata dai menestrelli tedeschi medievali e riscoperta nell’Ottocento.
Secondo la leggenda,il Principe Enrico di Germania, un giovane splendido e forte, fidanzato con la giovane Principessa Elsie, è colpito dalla lebbra e comincia a deperire rapidamente, tanto che i sudditi, vedendolo ormai destinato a morte certa, lo ribattezzano “il Povero Enrico”. Il Principe, una notte sogno il diavolo che gli suggerisce di andare a farsi curare dai medici salernitani,ma gli dice anche che sarebbe guarito solo se avesse fatto un bagno nel sangue di una giovane vergine,che fosse morta volontariamente per lui. La Principessa Elsie si offre immediatamente per il sacrificio, ma Enrico lo rifiuta, preferendo ascoltare il parere dei medici salernitani. Pertanto,Enrico, con la sua Corte,va a Salerno. Però, prima di andare alla Scuola Medica, si reca nella Cattedrale per pregare sulla tomba di S. Matteo, dove ha una visione mistica e miracolosamente guarisce. Sposa quindi Elsie sull’altare di S. Matteo.
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Leggenda di Roberto e Sibilla
Molto nota è anche la Leggenda di Roberto di Normandia e di Sibilla da Conversano.
Il Re Roberto di Normandia, durante la Crociata, è colpito da una freccia avvelenata e le sue condizioni appaiono subito gravi. Pertanto, decide di ritornare in Inghilterra. Durante il viaggio,si ferma a Salerno per consultare i Medici della Scuola, i quali gli dicono che l’unico modo per salvare la vita è quello di succhiargli via il veleno dalla ferita, ma colui che l’avrebbe fatto sarebbe morto. Roberto rifiuta l’intervento di tutti, preferendo morire, ma durante la notte sua moglie Sibilla da Conversano gli succhia il veleno e poi muore.
Questa leggenda è raffigurata in una miniatura sul frontespizio del Canone di Avicenna, in cui si vede Roberto con la sua Corte che, alle porte della città di Salerno, saluta e ringrazia i medici, mentre sullo sfondo le navi stanno partendo;sulla sinistra, altri quattro medici si occupano della Regina Sibilla,riconoscibile dalla Corona sulla testa, che è avvizzita dal veleno.
LA STORIA
Nella storia della Scuola Medica si distinguono tre periodi:
IX-X secolo: le origini, di cui si hanno scarse notizie;
XI-XIII secolo: il massimo splendore;
XIV-XVI secolo: la decadenza
Primo Periodo: IX-X secolo (le origini)
Le origini della ScuolaMedica sembra che risalgano al IX secolo, ma di questo periodo esiste una scarsa documentazione. In particolare, si sa poco della natura, laica o monastica, dei medici che ne fanno parte e non è certo che la Scuola avesse già un’organizzazione.
Nel X° secolo, Salerno è una città molto famosa,non solo per il suo clima salubre, ma anche per la bravura dei suoi medici. Di essi si racconta che «erano privi di cultura letteraria, ma erano forniti di grande esperienza e di un talento innato». Infatti in questo periodo la natura degli insegnamenti medici è essenzialmente pratica e le nozioni sono tramandate oralmente.
Secondo periodo: XI-XIII secolo (il massimo splendore)
Nel XI secolo,la fama della Scuola Medica si diffonde in tutta l’Europa.
La posizione geografica di Salerno ha avuto sicuramente un ruolo molto importante nella diffusione della fama della Scuola Medica. Infatti, la città, con il suo porto ubicato al centro del Mediterraneo, subisce e rielabora gli influssi della cultura greco-bizantina ed araba.
Attraverso il commercio marittimo, arrivano i libri di scienza sanitaria di Avicenna ed Averroè.
A Salerno arriva anche il medico cartaginese Costantino l’Africano che vi si ferma per diversi anni e traduce in latino dal greco e dall’arabo molti testi di Medicina: gli Aphorisma e i Prognostica di Ippocrate; i Tegni ed i Megategni di Galeno; il Kitāb-al-malikī (ossia Liber Regius, o Pantegni) di Ali ibn Abbas (Haliy Abbas); il Viaticum di Al- Jazzar; il Liber divisionum e il Liber experimentorum di Rhazes (Razī); il Liber dietorum, il Liber urinarium e il Liber febrium di Isacco da Toledo.
Si riscoprono così le opere classiche di Medicina, conservate nei monasteri, ma dimenticate.
In questo periodo, la ScuolaMedica di Salerno si sviluppa fino a raggiungere il massimo splendore tra il XII ed il XIII secolo:la città ottiene il titolo di Hippocratica Civitas (Città di Ippocrate), di cui ancora oggi si fregia.
Giungono alla Schola Salerni persone provenienti da tutta Europa, sia malati che sperano di essere guariti, sia studenti che vogliono apprendere l’arte della Medicina. Il prestigio dei medici di Salerno è ampiamente testimoniato dalle cronache dell’epoca e dai numerosi manoscritti conservati nelle maggiori biblioteche europee.
Nel 1231 l’Imperatore Federico II sancisce ufficialmente il prestigio della Scuola Medica Salernitana, attraverso la Costituzione di Melfi, nella quale si stabilisce che la professione di medico può essere esercita solo da persone che hanno conseguito il diploma rilasciato dalla Schola Salerni.
Terzo periodo: XIV-XIX secolo (la decadenza)
Con la costituzione e lo sviluppo dell’Università di Napoli, la ScuolaMedica Salernitana incomincia a perdere la sua importanza. Con il passare del tempo, infatti, il suo prestigio è lentamente oscurato da quello delle nuove Università, in particolare Montpellier in Francia,Padova e Bologna in Italia. Comunque, la Schola Salerni rimane attiva ancora per alcuni secoli fino alla soppressione, il 29 novembre 1811, da parte del Re Gioacchino Murat, in occasione della riorganizzazione dell’Istruzione pubblica nel Regno di Napoli. Però, le “Cattedre di Medicina e Diritto” della Scuola Medica Salernitana continuano ad essere operative ,nel “Convitto nazionale Tasso” di Salerno, ancora per un cinquantennio, fino alla loro soppressione definitiva nel 1861,da parte Ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia,Francesco De Sanctis.
I PRINCIPI INNOVATIVI
IL SINCRETISMO
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Uno dei Principi fondamentali della Scuola Medica Salernitana è il sincretismo, ricordato nella Leggenda della fondazione da parte dei quattro medici. Infatti, le basi teoriche della Scuola si fondano sul “sistema degli umori” elaborato da Ippocrate e da Galeno, ma la tradizione medica greco-latina è completata dalle nozioni provenienti dalle culture ebraica ed araba. La Scuola Ha quindi unito i principi della scienza medica dell’Occidente e dell’Oriente.
La posizione geografica di Salerno ha avuto sicuramente un ruolo molto importante nella diffusione della fama della Scuola. Infatti, la città, con il suo porto ubicato al centro del Mediterraneo, subisce e rielabora gli influssi della cultura greco-bizantina ed araba. Attraverso il commercio marittimo, arrivano a Salerno i libri di Medicina di Avicenna ed Averroè.
IL LAICISMO
Un altro principio importante praticato nella Scuola è il laicismo. Infatti, fino ad allora,la pratica e l’insegnamento della Medicina è appannaggio dei Monaci e degli Ecclesiastici, che ne tramandano oralmente l’insegnamento. Inoltre, gli influssi religiosi sono molto forti, tanto da ritenere che sia inutile “curare il corpo”,dato che la salvezza riguarda solo l’anima. Pertanto, si accetta passivamente la morte, come manifestazione del destino dell’uomo e della volontà divina.
La Scuola Medica Salernitana, invece, innova profondamente i principi dell’insegnamento della Medicina,staccandoli dagli influssi religiosi. In particolare, elabora la teoria che le malattie possono e devono essere curate e che,addirittura, si possono prevenire, cercando di mantenere la salute del corpo, attraverso l’adozione di precise regole igieniche,di una corretta dieta alimentare ed un sano regime di vita.
La Scuola, in questo modo, dà origine alla cultura della Prevenzione delle malattie, che pertanto non devono essere più accettate passivamente.
La Scuola, inoltre, elabora concetti vicini alla moderna psicosomatica, consigliando,oltre al buon mangiare, anche il riposo e l’allegria. La “cura del corpo”è quindi fondamentale per il benessere fisico. Con il tempo, questi nuovi insegnamenti, considerati rivoluzionari ed in parte eretici, si affermano sempre di più, tanto che il Concilio di Reims proibisce ai religiosi l’esercizio della Medicina.
L’ACCOGLIENZA DELLE DONNE COME STUDENTI E COME DOCENTI
Altra importante innovazione della ScuolaMedica Salernitana,è l’accettazione delle donne ,sia come studenti che come docenti. Pertanto, è di particolare importanza, dal punto di vista culturale,il ruolo svolto dalle donne sia nell’esercizio che nell’insegnamento della Medicina, in cui hanno introdotto molte innovazioni, soprattutto nella Ostetricia.
Le donne che operano ed insegnano nella Scuola sono conosciute con l’appellativo di Mulieres Salernitanae, le più famose delle quali sono Trotula de Ruggiero, vissuta nell’XI secolo,Abella Salernitana, Rebecca Guarna, Costanza Calenda e Maria Incarnata, vissute nel XIV secolo.
In particolare, Trotula de Ruggero diventa una famosa ostetrica e scrive il De mulierum passionibus in, ante e post partum, in cui elabora importanti principi di Ostetricia e dà istruzioni per le partorienti. Scrive anche un famoso Trattato di cosmesi De ornatu mulierum. Trotula fa parte di una famiglia di medici famosi. Infatti sono importanti esponenti della Scuola sia suo marito, Giovanni Plateario,che i due figli Giovanni Plateario il Giovane e Matteo Plateario. In particolare, quest’ultimo,nel suo Trattato di fitoterapia De medicinis simplicibus, descrive oltre 500 piante, classificate in base alle loro proprietà medicamentose,ed informa sulla sofisticazione dei prodotti medicinali.
L’IMPORTANZA DELLA PRATICA
La Scuola Medica Salernitana, rappresenta inoltre un momento fondamentale nella storia della Medicina anche per le innovazioni che introduce nella metodica medica, che si basa fondamentalmente sulla Pratica e sull’esperienza maturata nella quotidiana attività di assistenza ai malati.
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LO SVILUPPO DELLA FARMACOLOGIA
La Scuola, inoltre, con la traduzione dei testi arabi di Medicina,elabora una vasta cultura fitoterapica, sulle proprietà curative delle erbe, che porta allo sviluppo della Farmacologia,cioè l’arte di preparare i rimedi (medicamenti)per la cura delle malattie.
LO SVILUPPO DELLA CHIRURGIA
Nella ScuolaMedica Salernitana si sviluppa fin dal XII secolo una nuova pratica sanitaria: la Chirurgia, che per la prima volta, si eleva alla dignità di una vera e propria Scienza Medica.
Ruggero Frugardo scrive nel XIII secolo il primo Trattato di Chirurgia, che si diffonde rapidamente in tutta l’Europa.I suoi insegnamenti sono raccolti dal suo discepolo Guido d’Arezzo nel Trattato Chirurgia Magistri Rogerii, che è il testo ufficiale di Chirurgia fino alla fine del XIV secolo.
Nel settore della Chirurgia , ricordiamo anche Giovanni da Casamicciola, che inventa una particolare tecnica per la legatura dei vasi sanguigni,con un filo di seta.
Per apprendere le tecniche chirurgiche, arrivano a Salerno molti studenti stranieri, specialmente tedeschi.
LO SVILUPPO DELL’OCULISTICA
La Schola Salerni sviluppa anche l’Oculistica. Al riguardo, ricordiamo Benvenuto Grafeo che scrive il Trattato De arte probatissima oculorum, che ha una notevole diffusione in Europa.
IL CORSO DI STUDI
Il Corso di Studi (Curriculum studiorum) della Scuola Medica Salernitana è ben strutturato, per far apprendere allo studente sia i principi dell’Arte Sanitaria che la necessaria esperienza pratica per poter curare efficacemente le diverse malattie. Infatti, il Corso di Studi è costituito da:
3 anni di Logica;
5 anni di Medicina (studio dei Trattati, dell’Anatomia, con dissezione di cadaveri per studiare gli organi, esercitazioni pratiche );
Esame finale con il Maestro del Corso e con un Collegio di medici (l’Almo Collegio) che rilascia un attestato (Privilegio Dottorale), che deve essere convalidato dal Re.
Un anno di pratica presso un medico anziano, necessario per esercitare la professione.
Nella Scuola, oltre all’insegnamento della Medicina si tengono anche corsi di Filosofia,Teologia e Giurisprudenza . Per questo motivo, la Scuola è considerata da molti storici come la Prima Vera Università, anche se non è stata mai chiamata
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“Università”.
LE MATERIE DI INSEGNAMENTO
Le materie di insegnamento nella Scuola Medica Salernitana ci sono note attraverso lo Statuto.
L’insegnamento della Medicina allora si distingue in Teoria e Pratica. La prima serve per far conoscere l’anatomia del corpo, con i vari organi e le loro funzioni. La seconda, invece, serve per apprendere le tecniche per curare le malattie e per conservare la salute.
Anche nella ScuolaMedica Salernitana si seguono, nell’insegnamento, i principi di Ippocrate e di Galeno. Le lezioni consistono essenzialmente nell’interpretazione dei loro testi.
Riguardo alla Filosofia, si insegnano i principi di Aristotele.
L’ALMO COLLEGIO MEDICO SALERNITANO
Il Collegio Medico è un Corpo accademico indipendente della Scuola, che deve sottoporre gli studenti, che hanno compiuto i prescritti anni di studio, a un rigoroso esame,necessario non solo per ottenere il “Dottorato” (la Laurea) per poter esercitare la professione medica, ma anche per poter insegnare.
Il primo provvedimento legislativo che convalida le prerogative del Collegio Medico,diretto da un Priore (Prior), dando il riconoscimento giuridico ai titoli accademici da esso rilasciati, è emanato dall’Imperatore Federico II nella Costituzione, emanata a Melfi nel 1231.
La cerimonia per il conferimento della Laurea (Privilegio Dottorale) si svolge in origine nella Chiesa di S. Pietro a Corte ed in seguito in quella di S. Matteo e nella Cappella di S. Caterina.
Il giuramento che deve prestare il neo laureato è rappresentativo dell’alta concezione morale della funzione del medico: infatti, da un lato giura di aiutare il malato povero, senza chiedere nulla, e contemporaneamente giura davanti a Dio e agli uomini di vivere onestamente e di conservare una severità di costumi. Invece, per poter esercitare la Farmacia, cioè l’arte di preparare i rimedi (medicamenti),si richiedono qualità morali molto elevate, onestà e illibatezza di costumi. Alla Scuola spetta quindi il grande merito di aver stabilito per la prima volta le norme che il Medico deve seguire nella cura del malato,da cui si evince la grande importanza che essi attribuivano alla “missione” del medico o del farmacista.
L’autenticità del Diploma di Laurea (Privilegio Dottorale),rilasciato dall’Almo Collegio Medico di Salerno, è attestata dal Notaio ed ha valore dovunque il laureato si presenta per esercitare la professione. Nei Privilegi Dottorali non solo è segnata la data in cui si è sostenuto l’esame, ma anche l’anno del Pontificato del Papa dato che il calendario civile varia secondo i diversi Stati.
I Diplomi inoltre hanno il sigillo in ceralacca dell’Almo Collegio Medico, di forma circolare, con al centro lo stemma della città di Salerno,rappresentato dal Patrono S. Matteo nell’atto di scrivere il Vangelo.
L’ORGANIZZAZIONE DELLA SCUOLA
Fino al Medioevo, l’insegnamento della Medicina è esercitato da singoli Medici, molti dei quali sono avviati all’Ars medica per tradizione di famiglia.
La Scuola Medica Salernitana, invece, all’inizio dell’XI secolo, è un Istituto con una propria organizzazione,costituita da Docenti con particolari meriti,di cui è responsabile il Praeses ( Preside), che è una figura diversa dal Prior (Priore), che è invece la suprema dignità dell’Almo Collegio, sorto più tardi, e che è eletto per merito oltre che per anzianità.
Nella Scuola Medica Salernitana si distinguono il medicus e il medicus et clericus , che segnano due periodi distinti della Schola Salerni.
Il medicus è il titolo attribuito alle origini della Scuola, in cui l’arte medica è basata essenzialmente sull’empirismo ed il medico ricorre a espedienti pratici per curare il malato.
Il medicus et clericus, invece, conosce profondamente la Medicina perchè ha studiato sui Trattati,scritti da eminenti scienziati, e perciò è un “dotto”.
LE SEDI DELLA SCUOLA
La ScholaSalerni ha avuto varie sedi, anche se al riguardo le notizie non sono suffragate da riscontri documentari. Le sedi d’insegnamento, in ordine cronologico e spesso in contemporaneità tra di loro, sono state: la Reggia di Arechi II o le sue adiacenze; la Cappella superiore e inferiore di S. Caterina; l’atrio e la scalinata marmorea del Duomo.
A causa dell’inagibilità della Cappella di S. Caterina, la sede della Scuola è diventata il Palazzo della Pretura, in via Trotula de Ruggiero. L’ultima sede della Scuola è stato invece l’ex Seminario Arcivescovile,nel Palazzo Copeta.
I DOCENTI DELLA SCUOLA
La Scuola Medica Salernitana ha avuto numerosi importanti docenti. Nell’XI secolo,nel suo periodo aureo, c’è Garioponto, di origine longobarda (forse era monaco), la cui opera più famosa è il Passionarius, un Trattato in 5 volumi ( con un appendice di altri 3 libri sulla febbre),in cui descrive le varie malattie, indicandone la cura. Garioponto è anche famoso per il fatto che, nel tradurre in latino i concetti medici formulati nella lingua greca, ha coniato dei termini che ancora oggi sono usati in Medicina come cauterizzare, cicatrizzare,polverizzare, gargarizzare.
Contemporanea di Garioponto,alla metà dell’XI secolo, c’è la la famosa donna medico Trotula de Ruggiero,che diventa Docente della Scuola e scrive il De mulierum passionibus in,ante e post partum, in cui elabora importanti principi di Ostetricia. Scrive anche un famoso Trattato di cosmesi De ornatu mulierum.
Nell’XI secolo c’è Alfano, I’Arcivescovo benedettino, di nobili origini longobarde, che scrive due importanti Trattati: De quattuor umoribus e De pulsibus.
Ricordiamo anche Romualdo di Guarna, un prelato, che è chiamato due volte al capezzale del Re di Sicilia Guglielmo I.
Nello stesso periodo, c’è il famoso medico cartaginese Costantino l’Africano, che traduce in latino molti Trattati di medicina in lingua greca ed araba.
Nella seconda metà del XII secolo, si distinguono: Maestro Salerno e Matteo Plateario junior . Maestro Salerno, nelle sue Tabulae Salernitanae e ne Il Compendium ( che forma con le Tabulae un Trattato di Terapia generale e di preparazione dei farmaci) classifica i rimedi (detti “semplici”) secondo le loro proprietà curative.
Matteo Plateario junior (uno dei figli di Trotula de Ruggiero e di Giovanni Plateario- anch’egli famoso medico-), nel suo Trattato di fitoterapia De medicinis simplicibus descrive oltre 500 piante, classificate in base alle loro proprietà medicamentose,ed informa sulla sofisticazione dei prodotti medicinali.
Nel XII secolo, ricordiamo anche Niccolò Salernitano, a cui si deve lo sviluppo della Farmacopea, con il suo Trattato Antidotarium, che l’Imperatore Federico II diffonde in tutta l’Europa.
Nel XIII secolo, ricordiamo Ruggero Frugardo, che è considerato il fondatore della moderna Chirurgia. I suoi insegnamenti sono raccolti dal suo discepolo Guido d’Arezzo nel Trattato Chirurgia Magistri Rogerii, che è il testo ufficiale di Chirurgia fino alla fine del XIV secolo.
Alcuni famosi medici salernitani partecipano ad operazioni belliche. Al riguardo, ricordiamo Bartolomeo da Vallona e Filippo Fundacario, che nel 1299 prestano servizio in Sicilia,nell’Esercito di Roberto d’Angiò, Duca di Calabria.
Alla fine del XIV secolo, opera il famoso medico Antonio Solimena, molto stimato dalla Regina di Napoli Giovanna II,e che è nominato Maestro Razionale della Magna Curia.
Purtroppo, molte opere scientifiche dei Maestri Salernitani sono andate perdute.
LA REGOLA SANITARIA SALERNITANA
I precetti della Scuola Medica Salernitana sono elencati nel Flos Medicinae Salerni, meglio noto come Regola Sanitaria Salernitana (Regimen Sanitatis Salernitanum), chiamato anche Lilium Medicinae.
La Regola è stata scritta in versi latini, probabilmente nei secoli XI-XII e quasi certamente è il risultato di un “lavoro collettivo”. E’ dedicato ad un “Re Britanno”( di Inghilterra) non meglio individuato.
Della Regola esistono numerose redazioni, anche molto diverse nel contenuto. In origine, i versi latini erano 363, ma in seguito ne sono stati aggiunti altri.
Il primo Capitolo della Regola è dedicato ai “rimedi generali” (De remediis generalibus), tra i quali ricordiamo l’opportunità, per la salute del corpo,di scacciare l’ira, di fare una cena frugale, di alzarsi dopo il pasto per fare del movimento e di non trattenere l’orina.
Nei successivi Capitoli, si danno suggerimenti per mantenere viva la mente, sul sonno ( da evitare, possibilmente, nel pomeriggio), sulla cena (che deve essere possibilmente “parca” e si deve fare solo se si è digerito il cibo mangiato in precedenza).
Altri Capitoli sono dedicati ai cibi, sia quelli “nutrienti” (buoni) per il corpo, sia quelli che devono essere evitati.Tra gli alimenti, il pane deve essere “ben cotto” e con “poco sale”.Riguardo alle carni, sono da preferire quelle di vitello, che “assai nutrisce”, di gallina e di volatili (tortora, storno,quaglia, merlo, pernice…) mentre quella di maiale deve essere bevuta con il vino affinché sia più facilmente digeribile. Anche il formaggio deve essere mangiato insieme con il vino. Ottimi alimenti sono il cervello di gallina e la lingua di mucca e l’uovo deve essere “fresco”.
Riguardo alle bevande, il vino non si deve bere bere in eccesso, con preferenza per quello rosso, la birra deve essere “fermentata bene”, “ben chiara” e si deve bere con sobrietà e l’acqua deve essere bevuta frequentemente mentre si mangia. E’ da evitare l’aceto.
Riguardo ai pesci, sono da preferire quelli “molli” e le anguille vanno mangiate insieme con abbondante vino.
Alcuni Capitoli sono dedicati ai vari tipi di latte ( di mucca, di capra, di giumenta, di cammella, ognuno con proprie proprietà medicamentose), al burro, al formaggio ( che è un’ottima vivanda , insieme con il pane, ma per coloro che hanno buona salute).
Altri Capitoli riguardano le proprietà dei vari tipi di frutta: la pera ( quella cotta fa bene allo stomaco), la ciliegia (che fa “ottimo sangue”), la prugna,la pesche,l’uva, i fichi,le nespole.
La Regola stabilisce anche le proprietà curative di molti tipi di verdure. Ad esempio,le rape fanno bene allo stomaco ed ai reni, l’anice e la menta fanno bene allo stomaco,il cavolo e la malva sono depurativi, la ruta fa bene agli occhi,la salvia e le cipolle hanno vari effetti salutari.
La Regola attribuisce molta importanza alla dieta (distribuendo i vari pasti durante la giornata e mangiando “cose buone”), tanto da essere considerata la “metà del medicar”. Ha quindi una chiara funzione nella prevenzione delle malattie.
Un Capitolo è dedicato ai rimedi contro i veleni (Contra venenum).
La Regola detta anche prescrizioni igieniche, come il lavarsi le mani, sia prima che dopo i pasti. Stabilisce anche dei rimedi per il miglioramento della vista e della voce roca, contro il mal di denti, i reumatismi, il mal di testa e per guarire le fistole.
Altri Capitoli sono dedicati all’esame delle ossa ( sono 200), dei denti ( sono 32) e delle vene ( sono 65) ed ai quattro “umori del corpo”(sangue, collera, flemma e atrabile) ed anche all’analisi dei caratteri umani (sanguigni,biliosi, flemmatici,ipocondriaci.
Alcuni capitoli riguardano le terapie, come il salasso ( che non deve essere fatto prima di 17 anni di età), di cui si stabiliscono le modalità ed i periodi migliori in cui effettuarlo (in primavera ed in estate si deve fare nella vena destra, mentre in autunno ed inverno nella vena sinistra) nonché gli effetti benefici sulla salute, con particolare riguardo al cuore (meglio se fatto in primavera), al fegato (meglio in estate),alle gambe (meglio in autunno) ed alla testa (meglio in inverno).
Beppe Fenoglio- I ventitré giorni della città di Alba-Einaudi editore Torino
Centro Studi Beppe Fenoglio-DESCRIZIONE“Difesero Cascina Miroglio e, dietro di essa, la città di Alba per altre due ore, sotto quel fuoco e quella pioggia. Ogni quarto d’ora l’aiutante si staccava dal telefono e si sporgeva a gridare: – Tenete duro che vi arrivano i rinforzi! – Ma fino alla fine arrivarono solo per telefono. […] Tutti avevano già spallato armi e cassette, ma non si decidevano, vagabondavano per l’aia, al bello scoperto. Pensavano che Alba era perduta, ma che faceva una gran differenza perderla alle tre o alle quattro o anche più tardi invece che alle due. Sicché il Comandante fu costretto a urlare: – Ritirarsi, ritirarsi o ci circondano tutti! – e arrivava di corsa alle spalle dei più lenti, come fanno le maestre coi bambini delle elementari. Scesero la collina, molti piangendo e molti bestemmiando, scuotendo la testa guardavano la città che laggiù tremava come una creatura.”
In foto il Capitano Fede, Comandante della difesa di Alba nei 23 giorni, insieme a Pinot Gallizio, Teodoro Bubbio, membri del CLN delle Langhe, e i comandanti dei partigiani il primo anniversario della battaglia per Alba libera.«”I ventitre giorni della città di Alba”- sono il primo capitolo di un unico grande libro fenogliano». (Davide Longo). Storie partigiane trattate con piglio disincantato, antiretorico, talora epico-burlesco; storie di Alba e delle Langhe, vicende sanguigne e beffarde, drammi di miserie antiche e di speranze impossibili: con quel suo linguaggio crudo, privo di ostentazione, con quel suo stile asciutto ed esatto, Fenoglio restituisce le prime cronache veramente sincere delle contraddizioni vitali della Resistenza e penetra il «mistero» della spietatezza dei rapporti umani. Con una ‘Presentazione’ di Dante Isella e la cronologia della vita e delle opere.Beppe Fenoglio nacque ad Alba il 1° marzo 1922 e vi trascorse quasi tutta la vita, esclusi i mesi del servizio militare a Roma. L’8 settembre ritorna sulle Langhe, dove combatterà tutta la guerra partigiana, sino alla Liberazione. Si era fatto una profonda cultura letteraria sui poeti e sugli scrittori inglesi, e sulla civiltà anglosassone nel suo complesso, che ammirava come antidoto e rivalsa sulla meschina realtà provinciale del fascismo. Dopo la guerra si impiegò in una ditta vinicola di Alba, per cui tenne la corrispondenza estera. Nell’estate 1962 fu colto dal male inguaribile che lo spense a Torino il 18 febbraio 1963, e che sopportò con stoica fermezza.
Esordí nel 1952 con I ventitre giorni della città di Alba (Einaudi) cui seguí nel 1954 La malora (Einaudi). Nel 1959 apparve il romanzo Primavera di bellezza, diretto riflesso della sua esperienza nell’esercito italiano. Il partigiano Johnny, la grande «cronaca» della guerriglia apparsa postuma da Einaudi nel 1968 ne costituisce il seguito cronologico. Postumi sono apparsi anche il volume di racconti Un giorno di fuoco (che comprende anche il romanzo Una questione privata, Garzanti, 1963) e il romanzo giovanile La paga del sabato (Einaudi, 1969).
Di Beppe Fenoglio Einaudi ha pubblicato: I ventitre giorni della città di Alba, La malora, Il partigiano Johnny, La paga del sabato, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale, L’affare dell’anima e altri racconti, Primavera di bellezza, Una questione privata, Un giorno di fuoco, L’imboscata, Appunti partigiani ’44-’45, Diciotto racconti, Quaderno di traduzioni, Lettere 1940-1962, Una crociera agli antipodi, Epigrammi, Tutti i racconti, Teatro, La favola delle due galline e Il libro di Johnny. Nel 2012, negli ET Biblioteca, è uscita la raccolta Tutti i romanzi.
Beppe Fenoglio-
Nota di Noemi Cuffia-Beppe Fenoglio è uno degli scrittori italiani più grandi, liberi, monumentali e innovatori del Novecento. Uno degli autori di più ampio e solido respiro di tutta la nostra letteratura. Fenoglio è lo scrittore schivo, appartato, stroncato in giovane età, a soli quarant’anni, che però ha rivoluzionato il linguaggio, lo spirito, l’epica e il sentire di più generazioni di lettori. Scriveva e pensava in inglese e poi traduceva. Aveva imparato l’italiano sui libri, perché la lingua madre era il piemontese di Alba, dialetto capace di raccontare la guerra, la Resistenza, la giovinezza, il territorio, l’amicizia e l’amore come nessuno. Con dignità, poesia, genio, smarrimento e civiltà.
Fenoglio Nasce ad Alba, in provincia di Cuneo, il 1° marzo 1922. Cresce in una famiglia di lavoratori (il padre è macellaio) e frequenta le scuole. Si iscrive poi alla Facoltà di Lettere di Torino ma nel gennaio 1943 è chiamato alle armi. Nel 1944 si unisce alle prime formazioni partigiane. Pubblicherà solo alcuni suoi lavori di scrittore, poi soccombe alla malattia. Muore il 18 febbraio 1963.
La guerra di Spagna è già stata oggetto di una grande quantità di pubblicazioni, tra studi di storici e la memorialistica di coloro che ne furono protagonisti. Tuttavia, negli ultimi venti anni, la documentazione archivistica a disposizione degli storici è notevolmente aumentata, grazie a nuove fonti resesi disponibili in Spagna, alla digitalizzazione parziale e alla messa in rete degli archivi dell’Internazionale Comunista e del Comintern, quest’ultima realizzata sotto gli auspici del Consiglio Internazionale degli archivi e del Consiglio d’Europa.
Altra documentazione si è resa disponibile grazie al lavoro dell’Istituto Gramsci, mentre varia documentazione, scritta e iconografica è disponibile ma non ancora completamente utilizzata presso l’AIVACS (Associazione Italiana Combattenti Antifascisti in Spagna).
Proprio con il contributo dell’AIVACS e utilizzando, almeno in parte, le nuove fonti citate, lo storico Marco propone un nuovo libro sulla guerra di Spagna, che esce presso le Edizioni Kappa Vu di Udine (Garibaldini in Spagna, Storia della XII Brigata Internazionale nella guerra di Spagna, Kappa Vu, pag. 240, €16).
Come si comprende già dal titolo, il lavoro di Puppini si concentra sulla formazione e sugli avvenimenti che videro protagonista la XII Brigata Internazionale, inquadrata nella quarantacinquesima divisione dell’esercito repubblicano. Tale Brigata fu composta e comandata prevalentemente da italiani e prese per questo il nome di Garibaldi, deciso unitariamente dai tre partiti che ne furono promotori (comunista, socialista e repubblicano).
Tra i pregi di questo libro è però il suo punto di vista ampio, che permette di inquadrare la partecipazione italiana alle Brigate Internazionali nel vasto contesto dei fatti politici, militari e umani generali vissuti dal fronte repubblicano in Spagna e anche da quello antifascista italiano. Si può dire che questo libro permette di leggere molti fatti e problemi della guerra di Spagna attraverso la lente della storia della Brigata Garibaldi.
Il libro prende avvio da quella che Puppini definisce “la crisi dell’antifascismo italiano” alla metà degli anni trenta, in anni particolarmente difficili tra persecuzioni, prigioni ed esilio. In questo modo si può capire quale fosse la composizione politica e sociale dei circa 3500 volontari italiani che combatterono in Spagna, alcuni dei quali presenti in altre formazioni (come la Centuria Gastone Sozzi), oltre alla Garibaldi, già prima della costituzione delle Brigate Internazionali. Di questi combattenti, la maggior parte non proveniva direttamente dall’Italia ma da altri paesi europei dove si era dovuta rifugiare per ragioni politiche e di lavoro.
La maggior parte dei volontari proveniva dalla Francia, dove tra il 1920 e il 1940 si trasferì un milione di italiani e una percentuale assai minore invece arrivava dal Belgio, dove era presente una forte comunità italiana, altri dalla Svizzera e dall’Unione Sovietica. Non mancarono però arrivi dagli Stati Uniti e dal Sud America, attraverso difficili viaggi pagati dalle organizzazioni antifasciste. Infine, una parte dei combattenti si trovava già in Spagna, poiché vi aveva cercato riparo dopo la proclamazione della Repubblica spagnola, nel 1931.
Dal punto di vista sociale, essi erano soprattutto lavoratori più o meno qualificati, muratori, minatori, operai di fabbrica, contadini. Gli intellettuali erano pochi, la maggior parte dei quali costituita in realtà da “rivoluzionari di professione” come Togliatti, Longo e Vidali. Erano presenti anche una sessantina di donne italiane, impegnate soprattutto come infermiere, la più nota delle quali era la fotografa Tina Modotti. Il viaggio verso la Spagna era in ogni caso difficile e faticoso per tutti, poiché si dovevano costruire corridoi e passaggi clandestini per arrivarci, soprattutto dai paesi caduti sotto la dominazione nazifascista.
La decisione di costituire le Brigate Internazionali fu parte della risoluzione del Presidio dell’Internazionale, presa il 18 settembre 1936, che avviò una complessa e imponente operazione di invio in Spagna, dai porti dell’URSS o di altri paesi, ma a carico dell’URSS, del materiale bellico e logistico necessario alla difesa della repubblica spagnola.
La Brigata Garibaldi, a composizione italo-spagnola, fu costituita a partire dagli organici del precedente Battaglione Garibaldi, già operativo in Spagna, integrato da italiani presenti in altri reparti e da nuove reclute. A comandarla fu designato il repubblicano ed ex ufficiale dell’esercito Randolfo Pacciardi, mentre Ilio Barontini, comunista, ne fu nominato commissario politico.
Quello del “commissario politico” era un ruolo delicato, già esistente nelle brigate bolsceviche e nell’Armata Rossa. La sua presenza voleva dare corpo all’idea di un esercito nuovo, popolare e, nel caso della Spagna, internazionalista, e a un concetto di disciplina diverso da quello delle forze armate degli stati capitalisti. Infatti, il combattente doveva essere considerato nel suo aspetto interamente umano; gli era ovviamente richiesta disciplina, ma aveva anche diritto di udienza per i suoi problemi, a condizioni di vita le migliori possibili nella situazione bellica e alle cure necessarie.
Il commissario politico doveva quindi occuparsi dell’alloggio, dell’alimentazione e del benessere dei combattenti e costruire una disciplina basata sulla consapevolezza e lo spirito di sacrificio e non sull’autoritarismo, facendosi anche carico dei diversi problemi umani dei militari.
Quella del commissario politico fu una figura istituita in seguito anche nelle brigate partigiane, molti combattenti e comandanti delle quali si forgiarono nella guerra di Spagna. Purtroppo, le buone intenzioni di costituire un esercito popolare e umano si scontrarono non solo con una realtà di guerra molto difficile, ma soprattutto con le concezioni autoritarie e militaresche di molti comandanti e del comando generale, composto in gran parte da ufficiali formatisi negli eserciti tradizionali.
Infatti, non era facile conciliare, nella situazione di guerra, gli atteggiamenti di alcuni comandanti con un esercito di volontari che erano anche militanti politici e che quindi erano disposti al sacrificio ma pretendevano chiarezza nelle relazioni e nelle decisioni. Lo stesso comandante della Garibaldi, Randolfo Pacciardi, fu criticato per i suoi atteggiamenti da militare di vecchio stampo, per avere istituito alloggi e mense distinte per ufficiali e soldati e per la scarsa adattabilità a una organizzazione diversa da quella vissuta nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale.
Inoltre, i combattenti delle Brigate Internazionali non erano residenti in Spagna e avevano bisogno, di tanto in tanto, di permessi e licenze per vari problemi o semplicemente per poter rivedere la famiglia e riprendere le forze dopo battaglie estenuanti combattute in condizioni difficili, d’inferiorità di armamenti e mezzi rispetto ai franchisti.
Lo stato maggiore spagnolo era però sordo a queste richieste di licenza, nonostante le insistenze di Longo, commissario generale delle Brigate Internazionali. Questo fatto contribuì a creare malcontento e disagio che si unirono alla fatica dei combattimenti nel creare, nel 1937, una crisi nella Brigata.
Naturalmente, le difficoltà vissute dalla Brigata Garibaldi, come dalle altre brigate, non furono dovute solo ai problemi citati, ma furono causate soprattutto dalle diverse linee politiche dei partiti che avevano contribuito alla sua costituzione, prima di tutto tra la componente socialista e comunista e quella repubblicana, ma in alcuni casi anche tra socialisti e comunisti. Queste divergenze, a volte anche forti, furono una delle ragioni dei frequenti cambiamenti al vertice della Brigata, con i continui e controproducenti avvicendamenti nella direzione.
Se il primo comandante fu Randolfo Pacciardi, questi giunse, in seguito a delle valutazioni politiche discutibili e a insofferenze personali, a proporre a un certo punto persino lo scioglimento della Brigata; vari altri comandanti si avvicendarono, in seguito, al dirigente repubblicano e lo stesso avvenne per i commissari politici. I frequenti cambiamenti nel comando della Brigata Garibaldi, come in altre, furono dovuti peraltro, oltre ai contrasti politici, alla morte e ai ferimenti di cui i comandanti e i commissari politici furono vittime; non si deve dimenticare che le Brigate Internazionali nel loro complesso ebbero una percentuale di caduti altissima, che sfiorò il 25% degli organici.
Una percentuale di caduti che fu dovuta anche all’imperizia dei comandi generali dell’esercito spagnolo e all’impiego delle Brigate Internazionali come truppe d’assalto in condizioni a volte di scarsa considerazione per la vita dei volontari. In tale contesto, una terza ragione dei continui cambi al vertice delle Brigate fu anche la fatica psicofisica vissuta dai comandanti, esposti, in una situazione già difficile sul campo, a critiche politiche e di conduzione militare.
Il libro di Marco Puppini segue tutte le vicende politiche e militari vissute dalla Brigata Garibaldi attraverso le numerose battaglie a cui partecipò, a volte concluse con importanti vittorie, come quella di Guadalajara, contro l’esercito fascista italiano e purtroppo più spesso con dolorose sconfitte, come nel caso di Huesca, sino a quella decisiva e finale sul fronte dell’Ebro.
Battaglie che furono tutte segnate da grande spirito di sacrificio e spesso da eroismi dei volontari; mi sembra importante che Puppini abbia svolto un lavoro di ricerca per poter dare un nome e qualche informazione sul maggior numero di caduti possibile, operazione di memoria e di omaggio a quanti sacrificarono la loro vita in per la difesa della democrazia, non solo in Spagna ma in tutta Europa. Infatti, la guerra di Spagna non fu solo una tragedia nazionale, ma un episodio del più vasto quadro della lotta tra fascismo e nazismo e forze democratiche e popolari.
In una precedente occasione1 ho avuto modo di ricordare come molti combattenti della battaglia dell’Ebro (luglio-novembre 1938), che segnò la svolta finale della guerra a favore dei franchisti, ricordano con rimpianto che la sconfitta fu dovuta, in gran parte, al grande squilibrio di armamenti tra i due eserciti e aggiungono che se le armi bloccate alla frontiera franco-spagnola fossero giunte a destinazione, forse gli eventi avrebbero preso un’altra strada.
Infatti, se l’URSS si era impegnata per far giungere rifornimenti all’esercito repubblicano, tali invii seguivano ovviamente percorsi tortuosi e difficili e si scontravano in particolare con la linea di “non intervento” delle potenze occidentali, segnatamente Gran Bretagna e Francia, i cui governi bloccavano regolarmente le spedizioni.
Tale linea politica di “non intervento” fu una delle cause della vittoria dei franchisti che invece disponevano del sostegno dei rifornimenti e dell’aviazione della Germania e dell’Italia fascista. L’intervento italiano si concretò oltre che con la collaborazione dell’aviazione e della marina, anche con l’invio di circa 75.000 soldati. Mussolini sognava un Mediterraneo fascistizzato che andasse dalla Grecia alla Spagna e si prolungasse sino al Portogallo di Salazar.
La ragioni dell’offensiva lanciata dai repubblicani sull’Ebro, ci chiarisce Puppini, non furono solo militari, ma in gran parte politiche. La situazione internazionale era difficile poiché l’URSS era impegnata sul fronte orientale a fronteggiare l’invasione giapponese dalla Mongolia e probabilmente avrebbe avuto in futuro meno risorse da destinare alla Spagna; diventava quindi importante dimostrare la vitalità della Repubblica nella speranza che Francia e Gran Bretagna, di fronte anche alla conclamata aggressività dei nazisti che stavano aggredendo la Cecoslovacchia, avessero una reazione.2 Che non venne.
Fu così che il capo del governo spagnolo Juan Negrin giocò la carta, rivelatasi controproducente, del ritiro delle Brigate Internazionali, che comunicò il 21 settembre 1938 alla Società delle Nazioni. La situazione era tale che la presenza delle Brigate Internazionali non avrebbe, probabilmente, potuto ribaltare le sorti della guerra e Negrin chiese in cambio della loro partenza, il ritiro del sostegno tedesco, italiano e portoghese ai franchisti.
Ma la mossa di Negrin fu inutile, poiché proprio in quei giorni, alla conferenza di Monaco, i governi francese e inglese scelsero l’accordo con Hitler concedendogli la vittoria nella questione dei Sudeti. Dichiarando che con quell’accordo “avevano evitato la guerra” (sappiamo come finì la storia), l’inglese Chamberlain e il francese Daladier posero anche la pietra tombale sulla Repubblica Spagnola.
Il governo francese non fu meno ostile verso la Repubblica nel comportamento che tenne in seguito, quando gran parte dei volontari si ritirarono in Francia, paese dove, tra l’altro, erano massicciamente residenti prima della guerra. Furono internati in diversi campi di concentramento, dove furono praticamente prigionieri, in condizioni di vita pessime e umilianti, che solo l’inziativa degli antifascisti rese più accettabili dal punto di vista umano.
Questo prima di essere, in molti casi, consegnati alla polizia del paese natale, che, nel caso degli italiani, significava confino o prigione. Questi antifascisti il riscatto lo avranno, nella loro maggioranza, durante la Resistenza, quando si avvarranno dell’esperienza politica e militare maturata nella guerra di Spagna.
2 E’ il caso di ricordare che l’URSS invece aveva promesso il suo sostegno alla Cecoslovacchia e in caso di guerra avrebbe dovuto sostenere un ulteriore impegno militare.
ILSE WEBER: Da Terezin verso Auschwitz Birkenau-Articolo di Anna Foa
Elsa Weber, di religione ebraica, nata a Witkowitz nel 1903, scrisse poesie e fiabe per bambini fin da giovanissima, entrando a far parte del grande mondo intellettuale ceco. Come tutti gli ebrei cechi, era di lingua tedesca. Sposatasi con Willi Weber, Ilse si dedicò poi alla famiglia, pur senza interrompere la sua attività di scrittrice. Nel 1930 aveva già pubblicato tre fortunati libri di fiabe ed era divenuta una valente musicista. Patriota della sua Cecoslovacchia, diede al suo secondo bambino il nome di Tomáš in onore del presidente Masaryk.
La Cecoslovacchia degli anni Trenta era un’isola di democrazia e una crogiolo di attività intellettuali, che spiccava nel panorama degli altri Stati dell’Europa orientale, sottoposti a regimi dittatoriali e caratterizzati dal prevalere dell’antisemitismo.
Elsa Weber
Nel 1939, dopo l’occupazione nazista, i Weber decisero di mandare il primo figlio Hanuš in Inghilterra, affidandolo all’amica di Ilse, che lo avrebbe lasciato in Svezia presso sua madre e che sarebbe poi morta nel 1941. Il piccolo Weber partì così insieme ad oltre seicento bambini ebrei, sottratti ai nazisti grazie all’attività di salvataggio di un agente di borsa inglese, Nicolas George Winton, e spediti in treno nell’unico paese europeo che accettò di accoglierli, l’Inghilterra. Ilse non lo avrebbe più rivisto. Nel 1942, Ilse con il marito e il piccolo Tomáš furono deportati a Theresienstadt, “il ghetto modello” da cui partivano i trasporti per Auschwitz. Qui Ilse fece l’infermiera nell’ospedale dei bambini, creando per loro e per gli altri prigionieri poesie e canzoni, suonando per loro il liuto e la chitarra. Una sua poesia, Le pecore di Lidice, suscitò violente reazioni da parte delle SS, senza fortunatamente che Ilse ne fosse individuata come l’autrice. Un’altra, Lettera al mio bambino, indirizzata al figlio Hanuš, fu tradotta e pubblicata nel 1945 in Svezia e Hanuš poté così leggerla. Nel 1944, Willi fu per primo deportato ad Auschwitz. Poco dopo anche Ilse e Tomáš furono inseriti in un “trasporto all’Est”. Sembra che Ilse abbia scelto volontariamente la deportazione per non abbandonare i bambini a lei affidati. E qui, insieme con loro, Ilse e Tomáš furono subito mandati alle camere a gas. Tornato a Praga dopo la guerra, Willi riprese con sé il figlio, che era vissuto in Svezia affidato alla madre di Lilian, Gertrud. Un ricongiungimento difficile, perché il ragazzo, dopo quei sei anni lontano, rifiutava di parlare con il padre su quanto era avvenuto durante la Shoah. Nel 1968, dopo l’invasione da parte dei russi, divenuto giornalista e legato alla primavera praghese, Hanuš fuggì in Svezia dove si stabilì. Lentamente, alla rimozione dei suoi primi anni si sostituì il desiderio di ricostruire la sua storia. Nel 1974, Willi si preparava a raggiungere in Svezia il figlio per collaborare ad un film sui campi di concentramento che questi stava preparando, quando morì improvvisamente d’infarto. Ora questo libro, con la presentazione di Hanuš e un’ampia prefazione di Ulrike Migdal, viene a riproporci la storia di Ilse e della sua famiglia.Se la storia dei Weber è in sé una storia straordinaria, le poesie composte nel campo da Ilse sono di una struggente bellezza, mentre le sue lettere a Lilian, che vanno dal 1933 al 1944, cioè fino alla deportazione a Auschwitz, sono un eccezionale e vivissimo ritratto, oltre che della sua vita, dei suoi affetti e della sua arte, anche del suo paese, la Cecoslovacchia, man mano che l’ombra dell’antisemitismo e di Hitler si faceva più vicina. Dopo la partenza del figlio, nel 1939, la maggior parte delle lettere sono indirizzate al bambino, che Ilse cerca di seguire a distanza, della cui educazione si preoccupa, di cui lamenta la pigrizia nello scrivere, di cui sollecita il mantenimento dell’appartenenza ebraica. Le ultime lettere sono da Theresienstadt, dove Ilse fa ancora in tempo, prima della deportazione, a piangere in una lettera alla madre di Lilian la morte dell’amica. Subito dopo, Auschwitz.
Poesie di NOÉ JITRIK, critico letterario e scrittore argentino-
Noé Jitrik (Rivera, 23 gennaio 1928- Pereira, 6 ottobre 2022), poeta. Docente universitario, si trasferì nel 1966 in Francia e nel 1974 in Messico, dove rimase esule ai tempi della dittatura argentina. Tornato in patria, diresse la rivista di semiotica sYc.
FRECCE
a Leopoldo Marechal
I giorni non sono
– mi sembra –
frecce
come diceva un poeta
amato
e perduto
quando tutto faceva credere
che avremmo condiviso
un tavolino di caffè
un po’ di chiacchiere
dichiarative
e amichevoli
i giorni sono
un ammiccare di occhi
stupiti
uno stare
tra due attese
mattino e notte
notte e mattino.
(da Calcolo errato, 2009)
FESTA NAZIONALE A LAGUNA PAIVA
Per Paco Urondo
Per Giulio Gargano
Cosa significa un giorno perso
nell’accumulo di giorni trascorsi e sepolti?
Ti ho fatto notare che l’amore è una questione di pulsazioni
del diverso ritmo del polso in ciascuna mano:
donne che sono femmine, uomini che sono maschi
e un alone di gin sulle dolci aiuole.
Ridiamo della nostra reciproca insonnia
guardandoci dolcemente
come se ognuno fosse oggetto di tutti gli incidenti:
finalmente rimaniamo al nulla iniziale
di una lingua legata, impedita e goffa.
Sarai così eroico da sopportare le recite
e le lunghe conferenze coscienziose?
La tua città è un concentrato di ardori,
un tripudio di discorsi, è un respiro
di due che hanno freddo e giocano con i loro sessi.
(da L’anno prossimo e altre poesie, 1959)
NOÉ JITRIK
.
.
LE TAZZE
Come nel tango
la vera tristezza
la tristezza senza ritorno
possiede l’immobile
dipinge le pareti
risuona nei rubinetti mal chiusi
puzza sugli asciugamani e nelle scarpe
dissesta le finestre
nega alle porte il silenzio e la scorrevolezza
respinge i postini ritardatari
piega la punta dei tappeti
e quanto alle tazze, oh le tazze
nella solitudine desertica della notte si frantumano
la tristezza le scheggia
fa grezzo il loro bordo
reprime il caffè
e di conseguenza non c’è niente da fare
è anche inutile
ricordare
senza nemmeno il ricordo di un amore ben fatto
o il ricordo di un insondabile tradimento:
il caffè diventa amaro e duro
a quale serietà puoi aspirare così
senza stoviglie
senza ricordi
proprio come i bambini che non hanno un insegnante
non hanno nemmeno un padrone
nessun amore.
(da Mangiare e mangiare, 1974)
.
.
ESSERE O NON ESSERE
Il treno che adesso mi sveglia
sdraiato
sui sassi
accanto al mare di grano rosso
e i treni della mia infanzia
sono diversi per il fumo
non mi restituiscono
il tempo che è passato
il sapore del carbone
nella pampa
un altro mare
non mi restituiscono
mio padre e le sue fatiche
promesse eroiche
in cui solo io credevo
il treno ora non mi offre
più nulla
solo un’altra città
piena di pioggia
incessante
incandescente
ansiosa.
(da Viaggi. Oggetti ricostruiti, 1979)
NOÉ JITRIK
Adiós al escritor y crítico
Noé Jitrik
El escritor, crítico y docente argentino se encontraba en la ciudad colombiana de Pereira para dictar una serie de conferencias cuando sufrió un ACV. Tenía 94 años. El Ministerio de Cultura de la Nación lo despide con profundo dolor y hace llegar sus condolencias a su familia y amigos.
Noé Jitrik
El Ministerio de Cultura lamenta profundamente el fallecimiento del escritor, crítico literario y docente Noé Jitrik, quien tenía 94 años y había sufrido un ACV, mientras se encontraba en la localidad de Pereira (Colombia), para dictar una serie de conferencias. Estuvo acompañado de su mujer, la escritora Tununa Mercado, y sus dos hijos, Oliverio y Magdalena.
Noé Jitrik
El Ministerio de Cultura lamenta profundamente el fallecimiento del escritor, crítico literario y docente Noé Jitrik, quien tenía 94 años y había sufrido un ACV, mientras se encontraba en la localidad de Pereira (Colombia), para dictar una serie de conferencias. Estuvo acompañado de su mujer, la escritora Tununa Mercado, y sus dos hijos, Oliverio y Magdalena.
Noé Jitrik, en su visita al Centro Cultural Borges.
Entre su prolífica producción, abordó primero la poesía, como en Feriados (1956), El año que se nos viene y otros poemas (1959) y Addio a la mamma, Fiesta en casa y otros poemas (1965). Y continuó con otros géneros como el ensayo, entre ellos, Leopoldo Lugones, mito nacional (1960), Cuando leer es hacer (1987), Temas de teoría. El trabajo crítico y la crítica literaria (1987) y Lectura y cultura (1987). La novela fue también un género al que le dedicó gran parte de su vida: Del otro lado de la puerta: rapsodia (1974); El ojo de Jade (1978); Amaneceres (2006) y La vuelva incompleta (2021), entre otras.
Además, Jitrik dirigió la colección de doce volúmenes de Historia crítica de la literatura argentina, editada por Emecé. Allí recolectó ensayos y textos críticos de diversos autores, en lo que se abordaron las diferentes épocas de la literatura argentina.
Noé Jitrik
En 1953 había comenzado a colaborar en la Revista Contorno, junto a David Viñas, Ismael Viñas, León Rozitchner, Juan José Sebreli, Oscar Masotta y Carlos Correas. En la Universidad de Córdoba, ejerció la docencia, donde conoció a la escritora Tununa Mercado y con quien se casó en 1961. Jitrik también trabajó en Francia y México, donde permaneció tras las amenazas de la Triple A, hasta su regresó a Buenos Aires, en 1987. Fue investigador principal en el CONICET y, desde 1991, ejerció el cargo de Director del Instituto de Literatura Hispanoamericana de la Universidad de Buenos Aires.
A lo largo de su vida, Jitrik recibió diversos premios y distinciones, entre ellos: Premio Xavier Villaurrutia por su libro Fin de ritual (1981); Caballero de las Artes y las Letras en Francia (1993); Premio Konex, categoría “Ensayo literario” (1994); Doctor honoris causa, por la Universidad Nacional de Cuyo (2009); Doctor honoris causa de la Universidad de la República (Uruguay, 2010); Miembro de la Academia Mexicana de la Lengua (2021), y Doctor Honoris Causa de la Universidad de Buenos Aires (2021).
Sus colegas argentinos lo habían elegido como candidato al Premio Nobel de Literatura, que casualmente se entregó hoy a la autora francesa Annie Ernaux.
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