Antonio Gramsci, Lettera alla mamma del 15 dicembre 1930.
Antonio Gramsci:”Carissima mamma,ecco il quinto natale che passo in privazione di libertà e il quarto che passo in carcere. Veramente la condizione di coatto in cui passai il natale del 26 ad Ustica era ancora una specie di paradiso della libertà personale in confronto alla condizione di carcerato. Ma non credere che la mia serenità sia venuta meno. Sono invecchiato di quattro anni, ho molti capelli bianchi, ho perduto i denti, non rido più di gusto come una volta, ma credo di essere diventato più saggio e di avere arricchito la mia esperienza degli uomini e delle cose. Del resto non ho perduto il gusto della vita; tutto mi interessa ancora e sono sicuro che se anche non posso piú «zaccurrare sa fae arrostia» [«sgranocchiare le fave arrostite» in lingua sarda], tuttavia non proverei dispiacere a vedere e sentire gli altri a zaccurrare.
Dunque non sono diventato vecchio, ti pare? Si diventa vecchi quando si incomincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a vedere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. In questo senso sono sicuro che neanche tu sei diventata vecchia nonostante la tua età. Sono sicuro che sei decisa a vivere a lungo, per poterci rivedere tutti insieme e per poter conoscere tutti i tuoi nipotini: finché si vuol vivere, finché si sente il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualche scopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie. Devi persuaderti però che occorre anche risparmiare un po’ le proprie forze e non intestarsi a fare dei grandi sforzi come quando si era di primo pelo. Ora mi pare appunto che Teresina, nella sua lettera, mi abbia accennato, con un po’ di malizia, che tu pretendi di fare troppo e che non vuoi rinunziare alla tua supremazia nei lavori di casa. Devi invece rinunziare e riposarti. Carissima mamma, ti auguro tante cose per le feste, di essere allegra e tranquilla. Tanti auguri e saluti a tutti di casa.
Ti abbraccio teneramente.
Antonio Gramsci, 15 dicembre 1930.
Antonio Gramsciè tra i fondatori del Partito comunista italiano. Fatto arrestare da Mussolini muore nel 1937, dopo 11 anni di prigione.
Antonio Gramsci è nato ad Ales (Cagliari) nel 1891 da famiglia piccolo-borghese. Di salute cagionevole fin dall’infanzia, vince una borsa di studio per l’Università di Torino, laureandosi in lettere e filosofia. Nel 1913 aderisce al Partito socialista del quale diventa, nel ’17, segretario della sezione torinese. Affascinato dal pensiero e dall’opera di Lenin, in Russia, nel 1919 promuove la formazione della corrente comunista nel Partito socialista, dalla quale, nel 1921, nasce il Partito comunista d’Italia. Direttore del quotidiano L’Ordine nuovo, nel ’22 è componente dell’Esecutivo dell’Internazionale comunista. Si sposa a Mosca; avrà due figli per i quali, dal carcere italiano, scriverà una serie di commoventi favole pubblicate con il titolo L’albero del riccio. Rientrato in Italia, è eletto deputato per il collegio Veneto e segretario generale del Partito comunista. Nel 1926 viene arrestato dalla polizia fascista nonostante l’immunità parlamentare, il re e Mussolini sciolgono la Camera dei deputati, mettendo fuori legge i comunisti. Gramsci e tutti i deputati comunisti sono processati e confinati: Gramsci nell’isola di Ustica e successivamente nel carcere di Civitavecchia e Turi. Non essendo adeguatamente curato è abbandonato al lento spegnimento fra sofferenze. Muore nel 1937, dopo 11 anni di prigione, senza aver mai rivisto i figlioletti. Negli anni della reclusione scrive 33 quaderni di studi filosofici e politici, definiti una delle opere più alte e acute del secolo; pubblicati da Einaudi, nel dopoguerra, sono noti universalmente come i Quaderni dal carcere, tradotti in tutte le lingue più importanti.
Ne l’ora in che si affaccian caute ed escono
Da i nascondigli de la casa l’ombre
E s’incontran, si mescon circonfuse
Ai morenti chiaror de le finestre,
Ne la dimora solitaria un vecchio,
Pascendo sè de le tristezze sue,
Pensa gli anni lontani, l’imminente
Ultima sera e, sospirati invano
I dì che più non tornano, sospira
Invano i dì che non vedrà, sospira
Una parte di sè gittar vivente
Ne l’avvenir, almeno un disïoso
Guardo che si lontani e parli ancora
Quando l’occhio sia chiuso, una infocata
Stilla di pianto almen che ancor non resti,
Che ancor non geli. Va pensando i cori
In che più fida ed ogni più diletta
Cosa cui giunger la memoria sua:
Capelli sacri di chi amò e scomparve
Ne la morte, gioielli, antiche tele
Il 25 marzo del 1842 nasceva a Vicenza, Antonio Fogazzaro (Vicenza, 25 marzo 1842 – Vicenza, 7 marzo 1911) è stato uno scrittore e poeta italiano.
Nasce a Vicenza, nella casa al numero civico 111 dell’attuale corso Fogazzaro, da Mariano, industriale tessile, e da Teresa Barrera, in un’agiata famiglia di tradizioni cattoliche: lo zio paterno Giuseppe era prete e una sorella del padre, Maria Innocente, era suora nel convento di Alzano, presso Bergamo. Antonio scriverà di sé stesso: «Dicono che sapessi leggere prima dei tre anni, che fossi un enfant prodige, antipatico genere. Infatti ero poco vivace, molto riflessivo, avido di libri. Mio padre e mia madre mi istruivano con grande amore. Avevo un carattere sensibile, ma chiuso».
Nel maggio 1848, nelle giornate della prima guerra di indipendenza, la madre lo porta con la sorella minore Ina a Rovigo: Vicenza è insorta e prepara la sua difesa contro la reazione dell’Imperial regio Esercito austro-ungarico. Il padre Mariano e lo zio prete don Giuseppe partecipano ai preparativi della città, ma sarà tutto vano e il 10 giugno l’esercito di Radetzky entra in Vicenza.
Concluse gli studi elementari nel 1850: scriverà poi di non avere «mai studiato con gran zelo quello che dovevo studiare, anche da ragazzetto leggevo con avidità ogni sorta di libri dilettevoli; per il vero studio non avevo nessun entusiasmo. Leggevo poi malissimo, in fretta e furia, disordinatamente […] Il mio libro prediletto erano le Mémoires d’Outre-tombe del Chateaubriand. Andavo pazzo dell’autore; m’innamoravo fantasticamente di Lucile del Chateaubriand, come più tardi mi innamorai di Diana Vernon, un’eroina di Walter Scott».
Nel 1856 inizia a frequentare il liceo; tra i suoi professori è il poeta Giacomo Zanella: «Fu lui che mi fece innamorare di Heinrich Heine. Io non vedevo, non sognavo più che Heine». Non si crea amici fra i suoi compagni di scuola: «Passavo per aristocratico, reputazione che ho poi avuto più o meno dappertutto per il mio esteriore freddo, riservato e soprattutto per il mio odio della trivialità» ed è un adolescente timido e romantico: «Le mie fantasie amorose erano sempre tanto fervide quanto aeree: mi figuravo di avere un’amante ideale, un essere sovrumano come Chateaubriand descrive la sua Silfide. Con le signore ero di un imbarazzo, d’una timidezza, di una goffaggine straordinarie».
Scrive modeste poesie d’occasione, conservate in un suo quaderno e in lettere familiari, come una Campana a stormo, del 1855, o La Rassegnazione, del 1856.
Terminato il liceo nel 1858, i suoi interessi lo spingerebbero verso studi di letteratura ma trova l’opposizione del padre, che non trova in lui capacità letterarie e intende farne un avvocato. Iscritto all’Università di Padova, tra alcune lunghe malattie e la stessa chiusura d’autorità dell’Università nel 1859 a causa delle proteste studentesche contro il regime austriaco, Antonio perde due anni di studi. Nel novembre del 1860 la famiglia Fogazzaro si trasferisce a Torino e Antonio è iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’Università sabauda. Studia poco e malvolentieri, frequenta più spesso i caffè, giocando al biliardo, che le aule dell’Università e perde anche la fede cattolica; scrisse poi di aver provato allora «una certa soddisfazione come per aver rotto una catena pesante; sentivo però anche un lontano dubbio di errare. Lo provai specialmente la prima Pasqua che passai senza Sacramenti. So di avere passato delle ore di grande agitazione interna, passeggiando per il giardino deserto del Valentino».
Continua a scrivere poesie e il giornale Universo ne pubblica alcune nel 1863: si ricordano Campana del Mezzogiorno, Nuvola, Ricordanza del Lago di Como; si laurea nel 1864 con voti modesti. Nel novembre dell’anno successivo la famiglia si trasferisce a Milano e Antonio svolge il proprio praticantato presso uno studio legale.
Fogazzaro conosceva fin dall’infanzia la famiglia vicentina dei conti Valmarana; rivide in particolare la giovane Margherita già a Torino nel 1862 e poi durante le vacanze degli anni successivi, finché i Valmarana resero visita a Milano alla famiglia Fogazzaro nel 1866, in quella che doveva essere la preparazione a una richiesta di fidanzamento, avvenuta qualche mese dopo. I due giovani si sposarono il 31 luglio 1866 a Vicenza, da poco occupata dalle truppe italiane a seguito della terza guerra di indipendenza, e pochi mesi prima che il Veneto entrasse ufficialmente a far parte del Regno d’Italia.
Il suo lavoro di collaboratore svogliato di uno studio legale non gli permette di mantenere se stesso e la moglie senza il soccorso economico della sua famiglia di origine. A Milano conosce Abbondio Chialiva, un vecchio carbonaro che lo introduce nell’ambiente letterario degli scapigliati, scrittori che, come Emilio Praga, i fratelli Arrigo e Camillo Boito, Iginio Ugo Tarchetti, cercavano, consapevoli del provincialismo letterario italiano, nuove strade nell’arte, rifacendosi alle tradizioni romantiche tedesche e francesi. Si lega in particolare con Arrigo Boito ma non farà mai parte di quella corrente che, per quanto confusa e velleitaria, appariva troppo ribelle ai suoi occhi di borgheseconservatore e intimamente conformista.
Nel 1868 supera gli esami di abilitazione alla professione di avvocato; scrive allo zio Giuseppe il 21 maggio: «Eccomi avvocato; bell’affare per i miei futuri clienti! Intanto metto il Codice Civile in disponibilità, mando la Procedura in licenza e condanno il Codice Penale alla reclusione». Pensa infatti di dedicarsi ancora alla poesia; nel 1869 nasce Gina, la prima figlia, e intanto comincia a lavorare a un romanzo e a un poemetto in versi.
Fogazzaro inviò al padre il manoscritto del poemetto Miranda il 3 dicembre 1873: «A me pare buono e in certe parti, devo dirtelo? molto buono, ma sono il primo a convenire che tutti gli autori, sino a’ più ladri, hanno la stessa opinione delle cose proprie». Anche al padre, che è deputato del collegio di Marostica al Parlamento italiano, l’opera pare «bella, bellissima […] ho divorato i tuoi versi tutti d’un fiato […]» e ricerca un editore che la pubblichi, ricevendo tuttavia solo rifiuti, tanto da far pubblicare il libro a proprie spese nel 1874.
Sollecitò giudizi da un letterato di fama come Gino Capponi che, non si sa con quanto spirito di circostanza, ne dà una valutazione lusinghiera ma riceve, il 15 giugno 1874, un giudizio netto e severo dal grande critico, e collega al Parlamento, Francesco de Sanctis:
«La maniera pare un po’ arida e asciutta ma l’autore ha voluto così fare per reagire contro la morbosa abbondanza de’ nostri periodi poetici e per stare un po’ più dappresso alla natura. Forse ha oltrepassato il segno, come fanno tutte le reazioni. Ci ho trovato dei bei motivi psicologici, ma poca ricchezza e poca serietà nel loro sviluppo e nelle loro gradazioni. Il meno interessante è Enrico. Il suo Libro non ci mostra che velleità di poeta e di amante e nessuna potenza a esser l’uno o l’altro. E se l’autore mi dirà che questo appunto voleva significare, allora la forma doveva esser comica e ironica, e il lavoro doveva riuscire tutt’altro.
Miranda è un carattere muto, come direbbero i tedeschi, che si sviluppa poco a poco sotto la fiamma latente dell’amore. Concezione bellissima e anche originale, ma poco studiata e poco scrutata. Che l’autore abbia la forza di far meglio si vede in certi momenti psicologici colti felicemente e ben rappresentati, specialmente nel Libro di Miranda. Questi difetti organici producono una monotonia che giunge talora sino alla stanchezza e all’ineloquenza, un difetto d’espressione, un soverchio di muta concentrazione che può nutrire una scena, ma non una poesia così lunga.»
Miranda si compone di tre parti: La lettera, Il libro di Miranda e Il libro di Enrico svolgendo la vicenda di un amore irrealizzato: in Enrico, Fogazzaro avrebbe voluto rappresentare la figura di un giovane poeta estetizzante e troppo egoista per amare altri fuori di sé stesso, un figlio del suo tempo visto nel lato più negativo, mentre in Miranda è raffigurata una ragazza – come scrive il Gallarati Scotti (Vita di A. F.) – «nata tutta dal sogno, anima e corpo, e dei sogni ha perciò il pallore e l’inconsistenza. I suoi piedi non toccano terra e il suo cuore, in fondo, non batte con violenza, come chi ami in questo mondo reale un uomo reale […] essa ci commuove per quel tanto del mondo interiore che del suo poeta che si accende in lei. Ma non appena essa si muove come un personaggio che è centro di un piccolo intreccio di avvenimenti […] noi sentiamo che essa non ha mai avuto vita vera».
Se non ai critici e ai letterati, quella poesia piacque però al pubblico dei lettori dei quali solleticava l’allora dominante spirito sentimentale e Fogazzaro ne trasse incoraggiamento per proseguire nella via intrapresa della scrittura letteraria.
Valsolda
Due anni dopo, nel 1876, esce la raccolta di versi Valsolda, legata alla omonima località sul lago di Lugano, presso una piccola casa editrice milanese, giacché il maggior editore dell’epoca, il Treves, rifiuta di pubblicarla. Questa volta, all’insuccesso critico si somma la delusione del pubblico, che in quei versi non trova il tono sentimentale di Miranda, che tanto era piaciuto agli spiriti romantici del tempo; in Valsolda Fogazzaro privilegia la nota paesistica ma il suo verseggiare, pur immaginoso e musicale, è privo di note personali, ha un che di accatto dilettantesco: vi si trova del Prati e dello Zanella, dell’Aleardi, dell’Hugo e del Heine, ma la poesia è assente.
Era intanto ritornato alla fede cattolica; scriverà anni dopo che a questo passo un influsso decisivo aveva avuto un libro di Joseph Gratry, la Philosophie du Credo:
«Volevo aver fede, riposarmi, ristorarmi in Dio, sola pace sicura, e tante volte non potevo. Incominciai a leggere con desiderio e speranza; ero molto commosso quando chiusi il libro».
Fu forse la consapevolezza di non avere nelle sue corde l’espressione poetica a spingerlo verso la prosa. Iniziato nella seconda metà degli anni settanta, nel 1881 esce il suo primo romanzo, Malombra. Protagonista è Marina di Malombra, bella e psicotica nipote del conte Cesare d’Ormengo, nel cui palazzo vive dopo la morte dei genitori. Qui trova casualmente un biglietto scritto nei primi anni dell’Ottocento da un’antenata – moglie infelice del padre del conte d’Ormengo e amante di un certo Renato – Cecilia Varrega, che invitava chi avesse trovato il suo messaggio a vendicarla contro i discendenti del marito.
Puntualmente Marina, che si considera una reincarnazione della disgraziata Cecilia, consumerà la vendetta, facendo morire lo zio Cesare e uccidendo lo scrittore Corrado Silla, a sua volta considerato come la reincarnazione dell’amante di Cecilia. In una notte tempestosa, Marina scomparirà nelle oscure acque del lago.
I protagonisti del romanzo, Marina e Corrado, sono figure che Fogazzaro riprenderà pressoché in tutti i suoi romanzi successivi: Marina è la donna bella, aristocratica, sensuale ma inafferrabile, inquieta e nevrotica; Corrado Silla è l’intellettuale ispirato da importanti ideali che vorrebbe realizzare, ma ne è impedito dalle lusinghe del mondo e dall’inettitudine che lui stesso sente come fondamento del proprio essere.
Nel romanzo, percorso da un’atmosfera morbosa di occultismo, sensualità e morte, Fogazzaro introduce personaggi umoristici e generosi (il segretario del conte e sua figlia Edith, di casta purezza) o macchiettistici, come la contessa Fosca e il figlio Nepo. L’utilizzo del dialetto nei dialoghi di alcuni personaggi e il cogliere l’umana cordialità della provincia lombarda attenua la tensione di mistero e d’imminente tragedia che agita la vicenda.
Il libro, che mostra anche gli interessi spiritisti dello scrittore, suscitò reazioni contrastanti. Criticato da Salvatore Farina e da Enrico Panzacchi, fu parzialmente lodato da Giovanni Verga, che lo definì «una delle più alte e delle più artistiche concezioni romantiche che siano comparse ai nostri giorni in Italia». Anche Giuseppe Giacosa lo descrisse come «il più bel libro che siasi pubblicato in Italia dopo I promessi sposi», ma le maggiori riviste letterarie non lo citarono nemmeno.[1]
La vicenda è ambientata sulle rive del lago del Segrino, un piccolo lago della Brianzacomasca. Il palazzo, invece, è l’antica villa Pliniana sul Lago di Como, che Fogazzaro visitò e che con la sua lugubre atmosfera costituì una delle principali fonti di ispirazione del romanzo. La versione cinematografica di Mario Soldati (1942), uno dei capolavori del cinema italiano, venne girata nella stessa villa Pliniana.
Si conosce con esattezza il periodo di composizione del successivo romanzo, il Daniele Cortis, indicato dallo stesso scrittore: iniziato il 30 maggio 1881, fu compiuto l’11 marzo 1884. In tale periodo Fogazzaro ebbe una relazione, che si prolungherà per una decina d’anni, con Felicitas Buchner, una bavarese istitutrice dei figli del cognato dello scrittore, vissuta da entrambi con forti sensi di colpa, fra sensualità e volontà misticheggianti, che si riflette nello stesso intreccio del romanzo.
Protagonista è un deputato cattolico che si propone la costituzione di un nuovo partito nel panorama dell’Italia del tempo, una democrazia cristiana che raccolga l’adesione dei tanti cattolici alla vita politica – vietata allora dal Non expedit papale – e abbia a capo un uomo di alte qualità intellettuali e morali. Il tentativo si rivela un fallimento, come un fallimento è la vicenda d’amore del Cortis con la cugina Elena, sposata a un personaggio indegno, che si conclude con la rinuncia in nome di un amore sublimato nel sacrificio e nella lontananza degli amanti.
Nel romanzo Fogazzaro esprime, per bocca del suo protagonista, le proprie convinzioni politiche: «Io lascerò dunque la Camera, augurando che vi entrino presto degli uomini sciolti dalle superstizioni e dalle ignoranze di un certo individualismoliberale, che si crede alla testa dell’umanità, e non s’accorge di passare alla coda; non si accorge di aver lavorato utilmente sì, a distruggere tante cose, ma di aver lavorato non per sé, sibbene per uno molto più forte, molto più potente, che ora, trovando le vie sgombre, arriva e se lo piglia lui il mondo, e lascerà forse a simili liberali qualche prato d’Arcadia e poche pecore. Questi uomini penetrati dal futuro, questa gente positiva, verrà alla Camera, convinta, a differenza di altri retori e mitologi, che nel lungo lavoro di rinnovamento sociale cui le forme moderne della produzione impongono, il migliore strumento sarà una monarchia forte, sciolta da qualunque legame con qualunque chiesa, ma profondamente rispettosa del sentimento religioso».
Il libro ebbe successo e il Giuseppe Giacosa, che lo propose all’editore torinese Casanova per la pubblicazione, scrisse a Fogazzaro che « […] Daniele Cortis va per la strada del trionfo. Quanti lo leggono ne sono entusiasti; io me lo rilessi e me lo gustai deliziosamente: ho inteso Verga esclamare leggendolo: questo non è solamente il primo romanziere d’Italia ma dei primissimi in Europa».[2]
Nel 1887 comparve una mediocre raccolta di novelle e poesie, Fedele e altre novelle; l’11 aprile di quell’anno morì il padre: la figura di Mariano Fogazzaro rivivrà nel protagonista del suo migliore romanzo, Piccolo mondo antico da cui è tratto l’omonimo film del 1941 ad opera di Mario Soldati, che ne consacra il titolo fra i classici del cinema italiano.
Il 28 marzo Fogazzaro aveva tenuto al Circolo filologico di Firenze una conferenza sul tema Un’opinione di Alessandro Manzoni, criticando il rifiuto dello scrittore milanese di trattare nel suo romanzo dell’amore – più propriamente potremmo dire dell’erotismo. Manzoni aveva scritto, motivando con la consueta, sottile ironia, la sua scelta, che « […] l’amore è necessario a questo mondo: ma ve n’ha quanto basta e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farlo nascere dove non fa bisogno». Fogazzaro, romanziere del resto estraneo in tutto al Manzoni, ne critica l’assunto, sostenendo che è proprio dell’arte dover esaltare l’amore che « […] incompreso da loro stessi tende continuamente là, aspira al suo fine, all’unità piena, impossibile su questa terra». È la teorizzazione del “grande amore”, quello esclusivo, delle anime nobili o singolari o tormentate, un amore che appartiene sostanzialmente alla letteratura ma non alla realtà.
Fogazzaro e l’evoluzionismo darwiniano
Con L’origine delle specie (The Origin of Species), pubblicata nel 1859, Charles Darwin diede un colpo decisivo sia alle teorie creazioniste che si fondavano sulla tradizione biblica dell’origine delle specie, sia all’evoluzionismo lamarckiano che postulava che gli organismi fossero il risultato di un processo graduale di modificazione che avveniva sotto la pressione delle condizioni ambientali. Nonostante le polemiche sulla teoria darwiniana si trascinassero ancora per diversi decenni, Fogazzaro, che lesse il libro del Darwin nel 1889, ne fu conquistato e turbato insieme; consapevole dei seri problemi che la nuova teoria, alla quale aderì senza riserve, comportava per il magistero della Chiesa, egli volle tentare di conciliarla con la tradizione del pensiero cattolico. Credette di trovarla nella lettura del libro di Joseph LeConteEvolution and its relations with religious thought, ove lo scrittore statunitense formula l’ipotesi che le forze naturali responsabili dell’evoluzione delle specie sarebbero una diretta emanazione della volontà divina.
Con questo spirito Fogazzaro tenne, il 22 febbraio 1891, una conferenza all’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti di Venezia (del quale sarà anche presidente tra il 1902 e il 1905[3]), sul tema Per un recente raffronto delle teorie di Sant’Agostino e di Darwin sull’evoluzione, che tuttavia scontentò i cattolici senza peraltro conquistarsi le simpatie dei darwiniani. Il vescovo di CremonaGeremia Bonomelli gli scrisse il 2 maggio invitandolo alla prudenza, perché «le ottime sue pagine sono gravissime e domandano maggior svolgimento: è necessario a cessare certi pericoli e certe accuse». Fogazzaro rispose due giorni dopo sostenendo di essere stato spinto, « […] col desiderio sincero di dar gloria di Dio», a contrastare « […] la protervia, la ignoranza e la malafede di quegli evoluzionisti che giudicano spacciato il cristianesimo e così predicano facendo un male immenso come io stimo, sopra tutto ai giovani di ingegno e di cuore, cui la dottrina dell’Evoluzione, ormai professata da una grande maggioranza di scienziati, invincibilmente attrae».
Il 2 marzo 1893 tenne, al Collegio Romano, una conferenza sull’Origine dell’uomo e il sentimento religioso, presente anche la regina Margherita di Savoia, ove ribadì la sua adesione alla teoria darwiniana, sostenendo anche la teoria, ripresa da Antonio Rosmini, sull’origine dell’anima che non si formerebbe immediatamente con l’embrione, ma solo dopo un certo grado del suo sviluppo.
Fu attaccato dal quotidiano L’Osservatore Cattolico il 16 marzo e da La Civiltà Cattolica il 15 e il 31 ottobre che rimproverò che un « […] laico di sua privata autorità si presenta a insegnare ad altri fedeli ciò che è o non è da credere e come s’abbia a concepire d’ora innanzi la creazione», ravvisando in questa pretesa un pericolo di compromissione non solo della dottrina teologica ma della stessa struttura gerarchica della Chiesa.
Lo studioso vicentino Paolo Marangon scrive: «In buona sostanza l’autore di Piccolo mondo antico, nel momento stesso in cui riconosce la grandezza di Darwin e la sua onestà di studioso, ne riduce l’opera a livello di spiegazione tecnica dell’origine e della varietà delle specie, sostituendo il meccanismo mutazione-selezione-caso tipico del darwinismo con un Potere occulto, una segreta Potenza, che presiederebbe internamente non solo al processo dell’evoluzione biologica, ma all’ascensione complessiva dell’universo e della storia umana secondo un immenso, imperscrutabile disegno trascendente».[4]
Nel luglio 1894 decise di cessare la relazione con la Buchner – la Elena del Daniele Cortis – la quale, dopo la morte di Fogazzaro scrisse al Gallarati Scotti, nel settembre 1911, che dopo aver provato « […] un dolore amaro, durai fatica a perdonare; la ragione comprendeva molto bene ma il cuore non voleva comprendere, si ribellava […] tre anni fa […] avevo ritrovato l’equilibrio morale e sentivo che quel passato era un tesoro che nessuno poteva togliermi […] cominciavo a dire al Signore, pensando all’amore perduto: Tu l’hai donato, tu l’hai tolto, sia benedetta la tua mano severa».
Il 16 maggio 1895 morì a vent’anni il figlio Mariano; scrisse alla cugina Anna: « […] adesso è lui che guida me, è lui che mi assiste, che mi consiglia, che mi aiuta col mio stesso pianto».
L’anno dopo uscì il suo capolavoro, Piccolo mondo antico, meditato e lentamente composto fin dal 1889. Ambientata negli anni che precedono la seconda guerra di indipendenza, sullo sfondo del lago di Lugano, è la storia della famiglia del nobile Franco Maironi, cattolico e liberale, e della piccolo borghese Luisa Rigey, al cui matrimonio si era opposta la filoaustriaca marchesa Orsola, nonna di Franco. Le difficoltà economiche e il senso profondo di schiettezza e di giustizia che anima Luisa, rispetto al carattere flessibile di Franco, rendono difficile il rapporto fra i due coniugi fino ad allontanarli quando la piccola figlia Maria muore annegando nel lago; ma mentre Luisa si chiude in sé stessa e si dedica allo spiritismo nell’illusione di ricostituire un contatto con la bambina, Franco si trasferisce a Torino, dove lavora e acquisisce la coscienza della necessità di partecipare attivamente alla liberazione delle terre italiane dall’occupazione austriaca.
Il romanzo si conclude con l’incontro dei due coniugi all’Isola Bella, nel 1859, dove Franco s’imbarca per raggiungere la riva lombarda del lago Maggiore e combattere con le truppe italiane: l’annuncio del rinnovamento risorgimentale allude a un prossimo, rinnovato rapporto tra Franco e Luisa.
Come scrisse il Gallarati Scotti nella sua biografia, in questo romanzo il Fogazzaro « […] ha scoperto le pure sorgenti della sua sincerità e della sua ispirazione. L’accento nuovo e originale egli l’ha trovato nella rinuncia a tutti i sentimenti torbidi e convenzionali che attraggono le masse e in una più intima comunione con gli ideali che gli erano stati trasmessi dai suoi padri; con gli uomini e la terra della sua infanzia. Egli ha voluto glorificare le cose umili e non comprese dal mondo: un paese nascosto tra le ultime pieghe della terra lombarda; anime generose, dolorose e buone, nascoste tra le pieghe della grande storia del Risorgimento; virtù eroiche ma non apparenti, vicende piane, affetti sani, l’amore nel matrimonio, il dolore nella famiglia, il dramma intimo fra le pareti di una modesta casa borghese».
Fu l’unanime successo del romanzo a spingere re Umberto I a emanare, il 25 ottobre 1896, il decreto di nomina a senatore del Fogazzaro il quale tuttavia, avendo un censo inferiore alle canoniche 3.000 lire d’imposta, poté entrare in Senato solo il 14 giugno 1900, soddisfacendo allora ai requisiti richiesti.
Il 2 marzo 1897, centenario della nascita di Antonio Rosmini, furono pubblicati dall’Accademia degli Agiati di Rovereto due volumi sul filosofo trentino, nei quali è contenuto anche lo studio di Fogazzaro La figura di Antonio Rosmini, da lui considerato « […] il propugnatore dell’unità italiana, delle istituzioni liberali e d’una riforma ecclesiastica; il contraddittore formidabile di certi teologi e moralisti e soprattutto il patrono, per così dire, di una specie di opposizione costituzionale cattolica, che osa disapprovare l’azione del partito preponderante nella Chiesa».
Il 6 giugno, a Vicenza, tenne un discorso dalla loggia della Basilica Palladiana per l’inaugurazione di un busto di Cavour, esaltando l’opera del politico piemontese che « […] affrontò intrepido, per la libertà dei commerci, le collere di plebi ingannate; stette nella questione ecclesiastica, a difesa della libertà civile, contro tutto che nel suo paese era più potente, l’alto clero, gran parte della classe cui egli stesso appartenne, gli uomini più provati nel servizio del Re e dello Stato», opponendosi a ogni ipotesi di restaurazione del potere temporale e facendo propria la massima famosa della «Libera Chiesa in libero Stato».
Il 21 novembre 1900 terminò il manoscritto del nuovo romanzo Piccolo mondo moderno, pubblicato l’anno dopo. Protagonista è Piero Maironi, il figlio di Franco e Luisa; sposato a una donna mentalmente malata, è attratto dal fascino sensuale di Jeanne Dessalle, un’intellettuale raffinata, bella e ricca, appartenente al “bel mondo” internazionale; il rapporto, fatto di ambiguità e di desideri deviati, non si conclude: con la morte della moglie, Piero decide di vivere asceticamente, ripromettendosi di agire per la riforma della Chiesa.
Anche per i protagonisti di questo romanzo può riferirsi il giudizio che Luigi Russo (I Narratori, 1922) diede per tutti gli altri – con l’esclusione di quelli di Piccolo mondo antico: «I personaggi del Fogazzaro parlano spesso di Dio, ma sempre in compagnia di una donna; immaginano di amare, ma non amano mai attivamente: sentono i contrasti e i richiami dei doveri superiori, ma come se obbedissero allo scatto di una molla meccanica. Donde quel misticismo diffuso, quell’erotismo cronico, che non arriva mai a una conclusiva catarsi di vita e di arte».
Il 20 luglio 1903 morì papa Leone XIII: a suo successore, Fogazzaro sperava nell’elezione del cardinale Alfonso Capecelatro di Castelpagano, nel quale credeva di vedere interpretati i suoi desideri di rinnovamento della Chiesa; ma il 4 agosto venne eletto il cardinale Giuseppe Sarto, col nome di Pio X. Fu una delusione per lo scrittore, che vide nel nuovo papa uno spirito semplice, persino rude, ma nemico delle sottigliezze della politica come dei tormenti delle meditazioni dell’intelletto; ne temeva un’accentuazione dell’autoritarismo gerarchico e una chiusura nei confronti dello spirito più moderno.
Il 27 dicembre 1902 Fogazzaro scriveva al vescovo Geremia Bonomelli che le « […] letture di Loisy, di Houtin, di Tyrrell, conversazioni con Semeria, P. Gazzola, don Brizio, P. Genocchi mi hanno scosso, illuminata, qualche volta pure, se vuole, turbata l’anima; turbata di quel turbamento del quale il Tyrrell dice che è facile prenderlo per una febbre mortale mentre non è che una febbre di sviluppo. Ho finalmente capito, leggendo quei libri, quello che Semeria mi disse anni sono: “bisogna conoscere la critica biblica“» e alla contessa Caterina Colleoni: « […] ora ho per le mani due libri nuovi dell’abate Loisy: L’Evangile et l’Eglise è una confutazione di Harnack che mi fa particolarmente piacere, perché Harnack col suo cristianesimo depurato (Das Wesen des Christenthums) mi pare abbia sedotto molti».
Il Loisy sosteneva che la Chiesa aveva mostrato nella storia capacità di adattare i dogmi ai bisogni dei tempi, senza con ciò alterare la propria tradizione; il 16 dicembre 1903 il Sant’Uffizio condannava gli scritti del Loisy, al quale Fogazzaro fece pervenire la propria solidarietà.
Nel novembre 1905 uscì il nuovo romanzo Il Santo, protagonista ancora Piero Maironi che, ortolano nell’abbazia benedettina di Subiaco, si fa chiamare Benedetto e conduce una vita di preghiera e di penitenza. Qui è riconosciuto da Jeanne Dassalle che, rimasta vedova, sperava di poter riallacciare una relazione ma si rende subito conto che Piero è ormai troppo mutato; venerato come un santo nel paesino di Jenne, Piero va a Roma, contando di convincere lo stesso papa della necessità di una radicale riforma della Chiesa, ma viene ostacolato tanto dai cattolici tradizionalisti che dagli esponenti dello Stato laico. Sfiduciato e malato, muore in casa di un amico, assistito da Jeanne.
Se non ebbe successo di critica, grande fu la sua risonanza fra il pubblico; gli espresse la propria ammirazione perfino il presidente degli Stati Uniti d’America – e premio Nobel per la pace – Theodore Roosevelt: « […] it is a good book for any sincerly religious man or woman of any creed, provided only that he realizes that conduct counts for more than dogma», ma fu condannato tanto dai laici intransigenti quanto dai cattolici. Si pensò subito alla sua messa all’Indice: nel romanzo, il personaggio di padre Clemente, monaco di Subiaco, sostiene che « […] probabilmente dopo la morte le anime umane si troveranno in uno stato e in un ambiente regolati da leggi naturali come in questa vita» e Piero sostiene la presenza attiva delle anime dei defunti su questa terra.
E in effetti, il 4 aprile 1906 il libro fu condannato con un Decreto della Congregazione dell’Indice. Lo scrittore fece atto di obbedienza: « […] ho risoluto fin dal primo momento di prestare al Decreto quella obbedienza che è mio dovere di cattolico, ossia di non discuterlo, di non operare in contraddizione di esso autorizzando altre traduzioni e ristampe».
Pur avendo fatto atto di sottomissione, Fogazzaro continuò a ribadire la convinzione della necessità di un rinnovamento delle istituzioni ecclesiali che le rendessero aperte alle esigenze dello spirito moderno. Il 18 gennaio 1907 tenne all’École des Hautes Études di Parigi una conferenza su Le idee di Giovanni Selva, uno dei personaggi del romanzo Il Santo, l’intellettuale modernista le cui dottrine sono riprese da Piero Maironi.
Vi sostiene che « […] l’avvenire vedrà uno straordinario ringiovanimento della Chiesa», certo che vi coopereranno forze nuove e vitali. La religione è per lui, più che dogma, azione e vita, e soprattutto carità attiva e amore fraterno, le migliori dimostrazioni della verità cattolica, e un rinnovato spirito evangelico quale egli credeva di vedere espresso da un George Tyrrell « […] l’uomo davanti al quale tutti i Giovanni Selva del mondo s’inchinano con venerazione», che tuttavia la Chiesa scomunicherà solo pochi mesi dopo.
A ribadire ogni chiusura col mondo moderno viene, l’8 settembre 1907, l’enciclicaPascendi Dominici gregis, che condanna il movimento modernista, accusato di non porre « […] già la scure ai rami e ai germogli, ma alla radice medesima, cioè alla fede e alle fibre di lei più profonde […] ogni modernista sostiene e quasi compendia in sé molteplici personaggi: quello di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore»; di qui la necessità di istituire in ogni Diocesi un Consiglio di disciplina che scruti « […] gli indizi di modernismo tanto nei libri che nell’insegnamento, con prudenza, pacatezza ed efficacia, stabilendo quanto è necessario per l’incolumità del clero e della gioventù».
Come scrive il Gallarati Scotti, « […] si entrava in un’ora grigia di spionaggi e di denunce, forme odiose e non infrequenti in tutti i secoli e in tutte le società, ma che il Fogazzaro s’illudeva non dovessero e non potessero mai più risorgere nel mondo cosiddetto moderno e che perciò lo turbavano e gli parevano maggior male degli errori stessi, per l’antipatia che avrebbero provocato nei regimi di libertà contro la Chiesa».
Iniziato nel 1905, Leila, l’ultimo romanzo di Fogazzaro, fu presentato a Milano l’11 novembre 1910 ma era già noto da una decina di giorni: infatti, il 10 novembre, il critico Giuseppe Antonio Borgese poteva già scriveva dalle colonne de La Stampa di Torino che « […] i personaggi di Leila partecipano vivamente alla vita dello spirito. Vi sono i rappresentanti dell’estrema destra, l’arciprete don Tita, il canonico don Emanuele, le bizzochere che fan loro bordone, gente di costumi immacolati, ma di cuor gretto e di mente chiusa, cristiani osservantissimi secondo la lettera, ma ignari di ciò che sia veramente la fede e la carità, sepolcri imbiancati. La gente di mal costume, il losco sior Momi, padre di Leila, la madre galante, i furbi e gl’imbroglioni fan lega con costoro: sante alleanze.
L’estrema sinistra è rappresentata, fino a un certo punto, da Massimo Alberti. Egli è divenuto un vero e proprio modernista. Scolaro ed amico del Santo, ne ha portato tropp’oltre gli insegnamenti, è giunto a credere che l’organismo del cattolicesimo è consunto, e che dalla Chiesa esaurita nascerà una nuova fede migliore, come dalla Sinagoga nacque la Chiesa […] Leila è l’estrema ombra fuggiasca di quella figura femminile che ha per lunghi anni tormentato la fantasia di Fogazzaro, l’estrema progenie spirituale di quella “sciura Luisa”, devota a un’altra fede morale nel cuore, vagamente e capricciosamente ribelle alla Chiesa nella sua piccola mente irrequieta. Ma è appena un’ombra, è appena un ricordo. Le sue crisi sono scatti di nervi provocati da onde torbide di sensualità».
Fogazzaro scrisse di aver voluto, col nuovo romanzo, presentare una « […] propaganda religiosa e morale conforme alle mie profonde convinzioni cristiane e cattoliche, ottenuta rappresentando un’anima ignara delle lotte che oggi straziano la Chiesa, penetrata di Vangelo e ferma nelle credenze tradizionali», così che il libro deluse tanto i cattolici progressisti che i conservatori e fu condannato dalla Chiesa.
Gli ultimi mesi della sua vita furono segnati dalla delusione e dal senso di aver fatto il proprio tempo. Era molto malato e alla fine di febbraio venne ricoverato all’Ospedale di Vicenza: operato il 4 marzo 1911, si aggravò rapidamente; il 7 marzo ricevette l’unzione degli infermi: « […] con le labbra già bianche della morte, l’agonizzante rispose con l’ultimo soffio di voce alle preghiere della Chiesa: amen. E chi gli era vicino comprese che egli si era addormentato in lumine Vitae».
Un saggio di Benedetto Croce, apparso nel 1903 e poi inserito nella sua Letteratura della nuova Italia, era molto critico nei confronti del vicentino: « […] cattolico, tiene fermo persino all’infallibilità del papa: ma è insieme ossequente alla moderna scienza naturale darvinistica, e pensa che la fede non le si opponga, e anzi la compia e le si armonizzi; e riconosce importanza ai fenomeni della suggestione, della telepatia, dello sdoppiamento, della chiaroveggenza, dello spiritismo, come segni di futura unione della scienza con la fede.»[5] Messa così in luce la contraddizione fra il panteismo dinamico di Darwin e la fede in un Dio trascendente di Fogazzaro, e rilevato anche come l’etica dello scrittore odorasse « […] di blandizie e di alcova», il filosofo napoletano ne criticava la visione politica: « […] la sua politica sembra antistorica, un neoguelfismo socialistico, che la chiesa e il gesuitismo imperante respingeranno, salvo il caso che non si riveli adatto a servire da maschera a intenti di reazione».
Il critico Natalino Sapegno coglie nel poemetto Miranda e nelle liriche di Valsolda gli elementi della formazione letteraria di Fogazzaro: il romanticismo sentimentale di Aleardo Aleardi e certe irrequietezze della Scapigliatura. I temi dei romanzi, evidenziati da Sapegno, sono: il gusto degli ambienti aristocratici, dei conflitti interiori che agitano le anime elette e i cuori sensibili; gli influssi del Romanticismo, specie inglese[6] tedesco e francese; il lirismo e l’ambiguità delle situazioni tra erotiche e religiose, infernali e paradisiache; la tendenza all’autobiografia; l’amore del vago, dello strano, del misterioso; il cattolicesimo torbido e combattuto, incerto fra tradizione e rinnovamento. Importante fu poi per lo scrittore l’adesione al modernismo.[7]
Mentre la biografia del Gallarati Scotti resta fondamentale per la mole di informazioni che racchiude, ma poco plausibile per l’intenzionalità programmatica di presentare la sua vita come un itinerarium ad Deum, lo scrittore fu ammirato dal Momigliano, che trovava in lui « […] un’inquietudine, un’ombra, un’indeterminatezza, che il nostro romanticismo non aveva conosciuto e che ti fa pensare a uno Chateaubriand meno solenne e più nervoso. Lo spirito del paesaggio del Fogazzaro non è pittoresco, ma musicale: Fogazzaro, in certo modo, ha preceduto Pascoli, e aperto in Italia la via di quella sensibilità indefinita, fatta di accordi occulti che accosta inevitabilmente la poesia alla musica».
Scrisse il Piromalli che Fogazzaro era stato giudicato « […] in relazione a una determinata società ottocentesca chiusa e narcisista, era uno scrittore di un luogo e di un tempo, di un particolare pubblico; saltavano in aria l’universalità e l’eternità; il magismo musicale che i crociani vi avevano rinvenuto era l’estenuazione letteraria del sentimentalismo veneto tardo-romantico, era l’elegia della falsa spiritualità, l’orgoglio fatuo di volere essere spiritualmente al di sopra degli altri, di avere per sé e per il proprio amore un cantuccio riservato in un paradiso dell’aldilà quando le leggi della società civile non lo consentivano sulla terra», finché un saggio di Gaetano Trombatore, pubblicato nel 1945, « […] aveva fatto cadere le impalcature mistificatrici, i belletti fasulli, la maschera idealistico-cattolica, aveva fatto vedere la miseria morale di una società angusta e greve». In realtà Fogazzaro è stato uno dei romanzieri italiani più aggiornati e consapevoli (da qui la sua fortuna internazionale): la sua critica alle debolezze concettuali della cultura decadente, in particolare all’estetizzazione del male, operata da Charles Baudelaire, è arrivata diversi decenni prima di quella identica proposta da autori come Hermann Broch o Elias Canetti.[8]
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Commento: La sezione che segue è tutta una citazione di critici (o di un critico!) non menzionati. È necessario esplicitare il nome degli estensori (o dell’estensore) di queste critiche, altrimenti la sezione pare POV
«Fogazzaro fu l’idolo della borghesia italiana nel periodo che corre all’incirca tra il 1880 e il 1910; dell’alta borghesia prevalentemente intellettuale e terriera, che confinava con l’aristocrazia, con cui talvolta riusciva a confondersi; e anche della borghesia media e piccola in quanto seguiva i gusti di quella e ne condivideva i sentimenti e ne ammirava le forme. E fu adesione tanto più spontanea e naturale, in quanto lo scrittore stesso apparteneva a quella classe sociale; e vi apparteneva non pure per la nascita, ma per la sua formazione intellettuale e morale, con tutte le fibre del suo essere» (Gaetano Trombatore).
Se scrittori come il Farina, il Barrili e il Rovetta, pur scrivendo per gli stessi lettori, non ebbero il suo stesso successo, si dovette, secondo il Trombatore, al fatto che essi non li seppero, come fece il Fogazzaro, « […] scuotere e rasserenare, commuovere e divertire e lusingare, e soprattutto non seppero farli vivere, e vivere pienamente, in un mondo che pareva reale ed era ideale, che pareva ideale ed era reale, e che rimaneva pur sempre il loro mondo».
I personaggi dei romanzi di Fogazzaro appartengono essi stessi alla borghesia « […] ma i loro parenti sono conti e marchesi; accanto al lustro dei blasoni essi portano la luce della loro nobiltà d’animo, della loro intelligenza, della loro cultura, e vivono perfettamente intonati in quegli ambienti di elegante mondanità. Siamo in quella zona di confine in cui le due classi riescono a convivere fino a confondersi insieme. La scena è di solito una villa con un paesetto fra i monti o in riva a un lago; ma non così isolata che non vi giungano le voci del mondo circostante. Non manca in Malombra qualche riflesso della mondanità milanese, c’è la mondanità romana del Santo; e non bisogna neanche dimenticare le località del turismo mondano, Isola Bella, l’abbazia di Praglia, Subiaco, Bruges, Norimberga. Ecco veramente gli ambienti in cui potevano alimentarsi e fiorire i nobili pensieri, le alte passioni. Il Fogazzaro non deludeva mai i suoi lettori. Mentre rispondeva alle loro tendenze sentimentali e morali, egli ne appagava e ne lusingava le esigenze mondane e intellettuali».
I lettori che amavano Fogazzaro « […] aspiravano, almeno nell’illusione, a evadere in una vita più nobile e alta, avevan perduta la fede e volevano credere, si sentivano insozzati di colpa e anelavano alla purezza, volevano amare non grettamente ma col tumulto dei sensi e dell’anima: lo scrittore offrì il vasto pascolo ideale che cercavano, fece, di là dalle tenebre della carne, balenare la sublimità dello Spirito, ed essi arsero nella fiamma della sua anima».
Il declino del successo sopravvenne con un mutamento del gusto che pure partiva da quelle premesse, il romanticismo crepuscolare espresso dallo scrittore vicentino non essendo più adeguato all’esigenza di un «…sublime che, abbandonata la sua sede sopramondana, si celebrasse tutto sulla terra, incarnandosi nell’individuo e sollevandolo sulla servile umanità a sbramare la sua bruciante sete di conquista e di dominio. Nacque, o meglio, si perfezionò così il gusto della vita come avventura inimitabile, e, secondo alcuni, il Fogazzaro dové a poco a poco consegnare i suoi lettori a un incantatore ben più agguerrito e più ricco di multiformi e incestuose magie: il despota dell’estetismodannunziano, lordo di sangue e d’oro». In realtà, a Fogazzaro interessava una critica radicale dei presupposti dell’estetismo, del suo soggettivismo esasperato, come mostra chiaramente il romanzo Malombra: «Se l’illusa Emma Bovary di Gustave Flaubert è prima di tutto la giovane donna preda del ciarpame romantico di cui ha nutrito da ragazza il suo spirito, analogamente Marina incarna la deriva di quella cultura e degli sviluppi che essa aveva avuto alla metà dell’Ottocento. ‘Non le mancava un solo romanzo della Sand’ – osserva nel cap. V (Parte Prima) del romanzo l’autore, che descrive anche Corrado come un viaggiatore “fantastico”, con un aggettivo capace di riportare subito, per associazione, a Ernst T. A. Hoffmann e al giovane «innamorato e fantastico come lo Stenio di George Sand» dell’operetta satirico-parodica Un romanzo in vapore dell’estroso Collodi. Ciò chiarisce meglio perché Fogazzaro proceda ad una “contemporaneizzazione del fantastico”, unendo nella sua narrazione alcuni elementi realistici e altri contrari nel senso dell’astratto, della fascinazione, dell’oscuramente misterioso, dell’invisibile. Tale patronato letterario spiega anche molto dei personaggi: […] per loro, i diritti della passione verranno prima di qualsiasi altra cosa o si dovranno imporre ineluttabilmente contro ogni barriera. Non per nulla Silla, orgoglioso, superbo, incapace di “giusto equilibrio” fra spirito e sensi, si definisce “inetto a vivere”: ha “la forza […] di resistere a qualunque disinganno, a qualunque amarezza”, ha un “cuore ardente”, ma gli mancano la “potenza” e “l’arte” per portare a compimento le cose (Parte Prima, cap. VIII). Per questa carenza di volontà, nel segno di Arthur Schopenhauer, […] il personaggio sembra assomigliare piuttosto a certe moderne figure di Svevo e della narrativa nordica del Novecento. Corrado Silla vorrebbe resistere a Marina, ne avrebbe la possibilità, ma non riesce a compiere questa scelta morale.[…] Silla non è capace di seguire la sincera e appassionata Edith, letteralmente impaniato nella “mala ombra” del fascino di Marina: intelligente, questa, brillante, innamorata dell’amore oltre tutto e tutti, ma allo stesso tempo circondata da amicizie fatue, frivola, piena di sarcasmo, di “pensieri torbidi” (Parte Prima, cap. IV), di uno spirito “scettico e falso” (Parte Prima, cap. I). In breve la giovane donna è angelo e demonio insieme. Marina è, come Enrico di Miranda al maschile, una versione femminile del dandy: bella, elegante, sprezzante, ma anche capricciosa, annoiata e ricca di odio. Disdegna le parole di Friedrich Schiller e Johann Wolfgang Goethe che gli cita il segretario Steinegge, padre amatissimo di Edith, e possiede, significativamente accanto ai Fiori del male di Baudelaire che l’ebbe particolarmente cara, l’opera di Edgar Allan Poe, il cui destino fu presto segnato dall’alcoolismo e dalle allucinazioni. Inoltre “al concetto del bene e del male” Marina ha voluto sostituire “il concetto meno volgare del bello e del brutto” (Parte Prima, cap. V): cede così alla lusinga baudelairiana della bellezza del Male, confondendo l’etica con l’estetica e dando a quest’ultima il primato assoluto».[10]
L’amore
Fogazzaro apparteneva dunque a una borghesia moderna e attiva e a un pubblico di tal fatta egli si rivolgeva; moderno, ma che teneva ben presenti le tradizioni di un cattolicesimo non gretto, ma sostanzialmente conservatore, capace di rendersi conto della necessità di accogliere quanto di nuovo lo sviluppo sociale proponesse ma senza stravolgimenti. Nella rappresentazione della vita familiare Fogazzaro si mosse seguendo quell’impostazione e, seguendo il proprio temperamento, preferì trattare, nell’ambito dei rapporti familiari, il tema dell’amore.
«La precedente esperienza romantica aveva sancita l’incompatibilità dell’amore con il matrimonio, nel senso che l’amore non può raggiungere le vette della passione senza un forte ostacolo che lo alimenti e lo esasperi. Perciò l’amore fogazzariano è preconiugale o extraconiugale (nel caso di Franco e Luisa [i protagonisti di Piccolo mondo antico] la questione non verte sull’amore, ma sui contrasti ideologici dei due coniugi). Anche l’amore preconiugale si alimenta di ostacoli: in Violet [la protagonista de Il mistero del poeta] è il senso dell’occulta colpa, è il suo carattere irresoluto, è la sua salute cagionevole; in Leila è la fede giurata al morto fidanzato, è il suo orgoglio […].
S’intende che la più ricca è l’impostazione dell’amore extraconiugale, quello di Piero e di Jeanne [in Piccolo mondo moderno] o quello di Daniele e di Elena [in Daniele Cortis], che è rimasto il più caratteristico. Ma sempre in lui l’amore è un ardore nascosto, una pena struggente, un lento spasimo, vi si sentono i brividi della voluttà sfiorata, le seduzioni del peccato; si rasenta l’orlo della colpa. Ecco l’innovazione: codesto amore ideale e platonico egli lo fa vivere alle sue eroine con le fiamme della passione vera, coi sensi sempre in subbuglio. Ma è sempre un amore d’eccezione e l’istituto matrimoniale, se non è proprio salvo, è almeno conservato; il Fogazzaro corre sempre ai ripari; ognuno patisce la sua tragedia nel chiuso della propria anima; non vi sono scandali; le norme della moralità borghese non sono sovvertite».
Il romanticismo
Il percorso del romanzo italiano quasi non conobbe il romanticismo, inteso come letteratura di forti contrasti, che spazino dal dramma all’idillio, dal sentimento del patetico alle vette del sublime; non poté averlo nel Manzoni, per il programmatico rifiuto di quello scrittore a farsi interprete dei pur tanti temi romantici che nei Promessi sposi erano presenti; quanto alla Scapigliatura, fu un fenomeno di breve durata, un’artefatta costruzione intellettualistica, non l’espressione di un’esigenza intimamente sentita; in Italia il romanticismo ebbe la sua maggiore espressione nella musica, raggiungendo il vertice del successo popolare nel melodrammaverdiano.
Secondo alcuni critici, fu proprio il Fogazzaro a farsi interprete dell’esigenza romantica presente nei lettori italiani: « […] lo spirito borghese fu al tempo stesso il movente e il limite del romanticismo fogazzariano: lo fece nascere ma ne circoscrisse i motivi e l’intensità. Perciò non fu tutto genuino e compiuto; tuttavia, anche a giudicarlo deteriore, bisogna riconoscere che esso rispose largamente all’aspettativa. Il Fogazzaro ebbe il senso del Destino, pur senza saperne sceverare e decifrare il volto maligno e inesorabile, l’implacabilità che atterra e annichila; non seppe perciò riuscire veramente tragico, nel senso alto della parola, ma decadde nel suo surrogato che è il teatrale. Sincero e costante fu però il suo gusto delle situazioni drammatiche, e suggestive le sue evasioni nell’atmosfera del sublime […]». Queste tempeste dell’anima sono vissute da esseri culturalmente e spiritualmente superiori: gli umili vivono accettando con semplicità la volontà divina, non le provano né le comprendono quando le vedono vissute dai “signori”, e questo è motivo, nel Fogazzaro, di ricorrere all’umorismo e alle risorse del macchiettismo. In realtà, Fogazzaro alimenta la sua scrittura di un confronto profondo con il più impegnativo pensiero teologico, cosicché le consuete categorie “romanticismo”, “macchiettismo” e simili, decadono subito non appena si individuino le sue fonti da sant’Agostino a Ruysbroek il Mirabile, da san Tommaso d’Aquino a Madame Guyon (che si chiamava Jeanne, si noti, come la protagonista di Piccolo mondo moderno).[11]
Ma nei protagonisti dei suoi romanzi vi è un « […] mareggiare fra l’ideale e il reale, fra l’essere e il dover essere, fra un’ansia di elevazione e un ardore di perdizione. E da questo conflitto non si può uscire per una composizione armonica dei due termini, si può uscire solo per la via che conduce al sublime […] e tutto quel vario agitarsi e cozzare di passioni aspira sempre a risolversi e a sublimarsi nell’atmosfera assorta del Mistero, dove, a tratti, par di scorgere anche il volto velato del Destino. Il tema del mistero è forse il tema più alto e romantico del Fogazzaro. Sempre è avvertibile in lui il senso di una nascosta, arcana realtà […]. Allora anche la natura partecipa all’azione con una sua vasta coralità […] Questo largo fremito romantico, non incomposto, anzi sempre decorosamente atteggiato, fu l’elemento decisivo della vittoria del Fogazzaro, quello per cui egli riuscì a rapire e a sollevare con sé l’animo dei suoi lettori».
La religione
Fogazzaro fu profondamente cattolico e osservante e se tentò di conciliare Darwin e sant’Agostino fu soltanto perché riteneva, così facendo, di non violare alcun articolo di fede. Anche la sua adesione al modernismo, che non portò a nessun contributo concreto, era dettata dalla sua convinzione di mantenersi nel solco dell’ortodossia, tanto che si piegò subito alla condanna.
La sua vera innovazione fu l’espressione del sentimento religioso; in sintonia con le esigenze dei lettori del suo tempo, manifestò nei suoi romanzi una fede religiosa che « […] si alleava con l’amore e si profumava di peccato; sempre compromessa, sempre in pericolo e pur sempre divincolantesi e risorgente, viveva nella coscienza e pur anche nel subcosciente; non era un fatto ma un fare perenne, un’inesausta esperienza. Perciò si attirava facili anatemi e sarcasmi; eppure sempre avvinceva, sempre attirava nel suo gorgo meduseo, specialmente le donne. E sempre salvo rimaneva il principio, sempre intatta splendeva la maestà di Dio.
In fondo, la maggior seduzione dei romanzi del Fogazzaro consisteva nell’appagare il gusto borghese di affrontare il rischio e di ritraersene in tempo. Nella religione, come nella politica e nell’amore, si era condotti all’orlo del baratro, ma non ci si cadeva; si provavano le vertigini dell’abisso, ma da un fidato belvedere. Era come – tanto per restare nell’Ottocento e cioè in un’epoca che non conosceva ancora le acrobazie aeree – era come sulle montagne russe, che facevano sentire le ebbrezze delle ascese, le angosce dei vorticosi aggiramenti, lo spasimo della caduta; girava la testa, la coscienza si smarriva e si oscurava, ma solo per un attimo; il carrello funzionava a dovere, e alla fine si toccava terra palpitanti e felici».
La politica
Negli anni ottanta, dopo la caduta della Destra, era diffuso in Italia un senso di sfiducia e di scontento verso una classe politica, considerata corrotta e pronta a ogni compromesso, e verso il parlamentarismo, considerato inefficiente e limitante una possibile e auspicata azione della monarchia. Si era fatta largo l’idea che occorresse l’azione di un uomo forte, un Bismarck italiano che limitasse l’istituto parlamentare, desse forza alla monarchia, risolvesse la Questione romana e rendesse l’Italia autorevole e rispettata nel mondo. Sono le idee espresse nel Daniele Cortis e sono i progetti che Fogazzaro non ripresentò più nei suoi romanzi: nel Piccolo mondo antico torna ai passati ideali del Risorgimento, a un patriottismo semplice e generoso, che scaturisce dall’animo come un dovere morale, come affermazione di dignità contro la sopraffazione e l’ingiustizia.
Erano temi troppo forti, innaturali per un Fogazzaro che se poteva esprimere il dramma dei sentimenti, non poteva sottrarsi all’idillio nella rappresentazione della vita sociale che, nei suoi romanzi, è « […] una beata e quieta arcadia, dove tutto va per il suo giusto verso, che è poi il verso gradito a chi sta in alto […] in lui, profondamente sincero e convinto cattolico, viveva e operava sempre implicito il senso dell’uguaglianza delle anime, e questo non gli faceva avvertire, o gliela faceva avvertire troppo scarsamente, l’ingiustizia delle disparità sociali. L’uguaglianza giuridica e formale, che allora si era già raggiunta, lo appagava compiutamente […] Fra i vari strati sociali non corrono relazioni d’interesse, ma d’affetto. Gli abitanti dei ranghi superiori trattano gl’inferiori con arguta bonomia, con amorevole condiscendenza, e ne riscuotono una commovente devozione».
Utilizzando il dialetto, introducendo effetti comici con l’impostare figure macchiettistiche al limite del verismo, e senza dar loro troppo rilievo, Fogazzaro trovò « […] il talismano segreto che lo salvò dall’arcadia […] Questo vivace brulicare di vita minuscola è sempre in funzione di quel che vibra nell’alto declamato della vita superiore. La scala sociale di questi romanzi si dispone come una scala armonica e non tollera né dissonanze né stonature: al virtuosismo del compositore rimane però la risorsa di ricavarne pregevoli effetti di contrappunto».
Antonio Fogazzaro fu molto amico del compositore italiano Gaetano Braga, il quale musicò il testo Il canto della ricamatrice. A sua volta, il Fogazzaro, ritrasse il compositore nella novella Il Maestro Chieco.
Il vescovo Geremia Bonomelli intrattenne un’amicizia sincera con Fogazzaro, che lo portò ad essere richiamato più volte dalle autorità papali per avere espresso giudizi positivi su alcune opere dello scrittore, questo anche se Bonomelli tentò di tenere un po’ a freno le teorie sulla evoluzione darwiniana che il Fogazzaro, in un certo periodo della sua vita, approvava. Il Fogazzaro scrisse nel 1901, su invito del vescovo che intendeva così favorire e incrementare lo spirito religioso dei marinai italiani, la Preghiera del marinaio. [12]
Lascito
Nei primi mesi del 2011, in occasione del centenario della morte dello scrittore, è stato aperto uno scatolone donato alla Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza nei primi anni sessanta contenente tutti i taccuini e i diari di Fogazzaro che per disposizioni testamentarie doveva essere aperto proprio in questo anno. Sempre per volere dello scrittore molti carteggi sono conservati nell’Abbazia di Praglia a Teolo in provincia di Padova
1899 – Ascensioni umane. Teoria dell’evoluzione e filosofia cristiana. Baldini e Castoldi.Rieditato da Longanesi nel 1977 con introduzione di Paolo Rossi.
^Per un recente ed importante studio sul Daniele Cortis si consiglia la lettura di Antonio Fogazzaro e Felicitas Buchner: un incontro nel Daniele Cortis. Con lettere inedite di Ileana Moretti, Roma, Bulzoni, 2009.
^Antonio Fogazzaro e l’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Con presentazione di Manlio Pastore Stocchi, Venezia 2011, ISBN 978-88-95996-32-5
^Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, ed. La Nuova Italia, Firenze, 1982, vol. 3, pag. 322.
^Cfr. Daniela Marcheschi,Introduzione a Antonio Fogazzaro, Malombra, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Oscar Mondadori, 2009; e Introduzione a Antonio Fogazzaro, Piccolo Mondo Antico, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Oscar Mondadori, 2010.
^Daniela Marcheschi, Introduzione in Antonio Fogazzaro, Malombra, Milano, Oscar Mondadori 2009, pp. 5-7.
^Cfr. Daniela Marcheschi, Introduzione a Antonio Fogazzaro, Piccolo Mondo Moderno , a cura di Roberto Randaccio, Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Fogazzaro, Volume I, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 11-45.
Benedetto Croce, L’ultimo Fogazzaro, in “La Critica”, marzo 1935
Piero Nardi, Antonio Fogazzaro, Milano, Mondadori, 1938
Benedetto Croce, La letteratura della Nuova Italia, Bari, Laterza, 1912 – 1940
Annibale Alberti, Lettere a Fogazzaro, Nel centenario della nascita di Antonio Fogazzaro, Venezia, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, 1942, pp. 35-47.
Antonio Piromalli, Fogazzaro e la critica, Firenze, La Nuova Italia, 1952
Attilio Momigliano, Storia della letteratura italiana, 3 voll., Milano, Principato, 1955
Luigi Maria Personè – Antonio Fogazzaro. S.l.; Lions Club, 1961.
Corrispondenza Fogazzaro-Bonomelli, a cura di C. Marcora, Brescia, Morcelliana, 1965
Mario Gabriele Giordano, “Idealismo e realtà in ‘Piccolo mondo antico’“, in “Nostro tempo”, a. XXI, nov. 1971-apr. 1972; ora in M.G. Giordano, A. Pavone, “Lo studio critico della letteratura italiana“, Vol. III, Tomo I, Napoli, Conte, 1974.
Stefano Bertani, L’ascensione della modernità. Antonio Fogazzaro tra santità ed evoluzionismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, ISBN 88-498-1516-6
Carmelo Ciccia, Antonio Fogazzaro fra arte e propaganda, in Saggi su Dante e altri scrittori, Pellegrini, Cosenza, 2007, pp. 163-186. ISBN 978-88-8101-435-4
Arnaldo Di Benedetto, Fogazzaro, Di Giacomo e Heine, in Fra Germania e Italia. Studi e flashes letterari, Firenze, Olschki, 2008.
Ileana Moretti, Antonio Fogazzaro e Felicitas Buchner: un incontro nel Daniele Cortis. Con alcune lettere inedite, Roma, Bulzoni, 2009. ISBN 978-88-7870-406-0
Ileana Moretti, Antonio Fogazzaro, Felicitas Buchner e il cristianesimo sociale, Lanciano, Carabba, 2010. ISBN 978-88-6344-135-2
Marco Cavalli, Fogazzaro in tasca, Vicenza, Colla Editore, 2011, 8889527609
Marco Pasi, “Antonio Fogazzaro e il movimento teosofico. Una ricognizione sulla base di nuovi documenti inediti”, in: Octagon. La ricerca della totalità (a cura di Hans Thomas Hakl), Scientia Nova, Gaggenau, 2017, vol. 3, pp. 231-265.
L’Alba dell’Italia democratica-Articolo di Valdo Spini-
L’Alba dell’Italia democratica-Articolo di Valdo Spini-Questo del 25 aprile 2023 non è un anniversario qualsiasi. Si svolge dopo che le elezioni dello scorso settembre hanno dato vita a un governo di destra-centro presieduto da Giorgia Meloni, leader di un partito, Fratelli d’Italia che ha nel suo simbolo la Fiamma tricolore che aveva caratterizzato il Movimento sociale italiano, la formazione politica di estrema destra fondata a suo tempo da reduci e nostalgici del fascismo della Repubblica di Salò. Il modo in cui verrà celebrato il 25 aprile rappresenta quindi un test importante del comportamento degli esponenti di questo partito, che oggi rivestono importantissime cariche istituzionali come la Presidenza del Consiglio e la Presidenza del Senato. Ma è importante allora il modo in cui ci prepariamo a questa ricorrenza noi che ci riconosciamo nella Resistenza e nella lotta di Liberazione e che ci richiamiamo alle tradizioni di quei partiti che l’hanno guidata politicamente.Credo che la cosa importante che dobbiamo sottolineare è il carattere nazionale assunto dalla lotta di Liberazione, un richiamo a cui nessuno si può sottrarre. Da dove parte infatti la Resistenza e dove arriva.
Il 3 settembre 1943 a Cassibile, in Sicilia, viene firmato l’armistizio dal generale Castellano inviato del capo del governo Badoglio e il generale Bedell Smith, inviato dal generale Eisenhower. Solo che questo armistizio non viene annunciato, e tanto meno le nostre truppe vengono a questo avvenimento preparate e informate. Fino a che, l’8 settembre, lo stesso comandante in capo delle truppe alleate, dal suo comando in Algeri, lo rende noto. Seguono a Roma ore concitate, fino a che Badoglio non va alla radio, annuncia l’armistizio con le Forze armate alleate e pronuncia quella frase del tutto incomprensibile: «le Forze armate italiane reagiranno ad eventuali altri attacchi di qualsiasi altra provenienza». Avviene così che circa seicentomila militari italiani vengono catturati senza colpo ferire e inviati nei campi di concentramento, mentre le truppe tedesche occupano il territorio italiano non già liberato dagli Alleati e vi installano il governo collaborazionista della Repubblica Sociale italiana con alla testa Benito Mussolini. È un momento così tragico che fece parlare allo storico Ernesto Galli Della Loggia di “morte della patria”. Rispose il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che non di morte della patria si trattava ma di Rinascita della patria, della nascita dell’Italia democratica. Si riferiva al fatto che in realtà era nata l’Italia democratica e che questa era nata grazie a chi, in questo sfascio totale, aveva preso le armi contro i tedeschi occupanti e i fascisti della Repubblica Sociale italiana.
Cominciò così la lunga lotta di Liberazione che doveva durare per tutto l’aprile del 1945 fino al 5 maggio, la resa della Germania. Una lotta che fu condotta con molto valore anche nelle valli valdesi. La celebriamo il 25 aprile, che è la data dell’insurrezione generale proclamata dal Clnai, Comitato nazionale di liberazione dell’Alta Italia.
Questa lotta fu condotta dai partigiani e dai patrioti (così si chiamarono nella valorosa Massa Carrara), ma anche dagli internati militari, gli Imi che scelsero il campo di prigionia nazista piuttosto che venire a combattere per la Repubblica Sociale. Pensiamo infatti quanto sarebbe stata più lunga la guerra di liberazione se i tedeschi avessero potuto rovesciare qualche centinaio di migliaia di militari a combattere al loro fianco sul fronte italiano. Ma anche le Forze regolari italiane ricostituite al Sud svolsero un ruolo importante nella guerra di Liberazione, in particolare nello sfondamento del fronte ad Alfonsine. Ma un discorso particolare va riservato ai civili. Senza un appoggio dei civili non c’è Resistenza che tenga. Donne e uomini pagarono un prezzo pesantissimo nelle rappresaglie e nelle stragi con cui si cercò invano di fiaccare la Resistenza del popolo italiano.
Ma guardiamo questa vicenda a guerra conclusa. Qual è stata la condizione delle altre nazioni sconfitte. L’Austria, che pure aveva subito l’Anschluss, l’unificazione nel Reich tedesco, occupata e divisa fino al 1955. Il Giappone sotto il proconsolato del generale Mac Arthur fino alla guerra di Corea del 1953. La Germania, occupata e divisa fino al crollo del muro di Berlino nel 1989. Che cosa sarebbe stato dell’Italia se non avesse partecipato, con la Resistenza e la guerra di Liberazione, alla lotta contro il nazifascismo e questa lotta non fosse stata guidata dall’unità dei partiti antifascisti nel Comitati di Liberazione? E nonostante questo il Trattato di pace non fu lieve, ma sarebbe stato assai più duro se non ci fosse stata la Resistenza e la Guerra di Liberazione.
D’altro canto la nostra Costituzione è antifascista, perché non è una Costituzione concessa dai vincitori a una nazione vinta, ma è il frutto della lotta condotta dal popolo italiano contro i nazisti e i fascisti. Noi dobbiamo. rivendicare il carattere nazionale di questa lotta, al cui ricordi e alla cui celebrazione nessuno si può sottrarre. Questo valeva per ieri, ma vale per l’oggi e per il domani.
Il XXV Aprile è festa di tutti e tutte nel nostro paese; dopo l’8 settembre la lunga lotta di Liberazione coinvolse i partigiani e i militari che dissero no a Salò.
La Costituzione è conseguenza di quell’impegno di popolo.
VALDO SPINI, già professore universitario associato alla facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri di Firenze, è stato deputato al Parlamento per otto legislature (fino al 2008) e vicesegretario nazionale del Partito socialista (1981-1984).Ministro dell’Ambiente, sottosegretario all’Interno (1986-1992) e agli Esteri, presidente della Commissione Difesa della Camera, è stato cofondatore dei Democratici di sinistra di cui è stato eletto presidente della direzione nel 2000. Oggi presiede l’Associazione delle Istituzioni culturali italiane (AICI).
VALDO SPINI,Uomo politico italiano (n. Firenze 1946), figlio di Giorgio. Socialista, vice-segretario nazionale del PSI (1981-84), nel nov. 1994 ha promosso la scissione dal partito della componente che ha dato vita alla Federazione laburista, di cui è stato eletto presidente e che è poi confluita nei Democratici di Sinistra (DS). Deputato dal 1979, è stato ministro dell’Ambiente (1993-94) e presidente della commissione difesa della Camera dei Deputati (dal 1996 al 2001). Confermato alla carica di deputato nelle elezioni politiche del 2006 con la lista dell’Ulivo, l’anno successivo ha aderito al nuovo Partito socialista ma non è stato rieletto nelle politiche del 2008 a causa del risultato negativo ottenuto dalla nuova formazione. Tra le pubblicazioni: Naia? No grazie (1997); La rosa e l’ulivo (1998); Compagni siete riabilitati! Il grano e il loglio dell’esperienza socialista, 1976-2006 (con G. M. Gillio, 2006); Vent’anni dopo la Bolognina (2010); La buona politica. Da Machiavelli alla Terza Repubblica. Riflessioni di un socialista (2013); Sul colle più alto. L’elezione del presidente della Repubblica dalle origini a oggi (2022).
IDA BINCHI:”Da tempo volevo scrivere qualcosa su questo capolavoro che ho letto due volte ed avrei voglia di rileggerlo, per condividere con il gruppo i pareri al riguardo.
I Buddenbrook è stato il primo romanzo che ha scritto T. Mann, all’età di 26 anni e che fu premiato con il Nobel quando aveva 29 anni. Questo grandissimo capolavoro , che è in gran parte autobiografico, è la storia di una famiglia di commercianti di Lubecca e si sviluppa nell’ arco di 4 generazioni. Il romanzo inizia con il successo economico e la conquista del prestigio sociale della famiglia, fino ad arrivare alla decadenza di questa.
I Buddenbrook è un romanzo bellissimo, con una descrizione della personalità dei personaggi e del loro ambiente così elevata che sembra di vederli e viverli. Il romanzo inizia con persone della famiglia molto unite che condividono la visione della vita, pieni di energia e che con molta disciplina e dedizione seguono il lavoro e la famiglia. I discendenti invece vivranno conflitti interiori e relazionali tra di loro, perché scegliere di vivere per il prestigio e la ricchezza della famiglia impone delle grandi rinunce ed il sacrificio delle loro inclinazioni. L’ arte che secondo la mentalità trasmessa dalla famiglia è sregolatezza e superficialità, diventa il tradimento dei valori della famiglia”.
I Buddenbrook-DESCRIZIONE
Il primo grande romanzo di Thomas Mann racconta la storia di una famiglia tedesca dell’Ottocento che dopo anni di prosperità è esposta a una tragica decadenza: le basi di un patrimonio e di una potenza che sembravano incrollabili sono sgretolate da una forza ostinata e segreta. Opera di ispirazione autobiografica, questo romanzo, capolavoro della letteratura europea, esprime compiutamente la concezione estetica e politica dello scrittore tedesco, il suo rimpianto per una mitica e solida borghesia, la coscienza della crisi di un mondo e di valori destinati inesorabilmente a scomparire.
Francesco Riccio-Lo rifarei. Vita di partito da via Barberia a Botteghe Oscure –
prefazione di Gianni Cuperlo
DESCRIZIONE- del libro di Francesco Riccio -Una serie di racconti, un viaggio nella vita del Partito, del Pci, con il dichiarato intento di rendere omaggio alle donne ed agli uomini, alle compagne e ai compagni con i quali l’autore ha trascorso (da militante-funzionario-dirigente) un importante trentennio. Un omaggio a quelle figure sconosciute al grande pubblico e spesso genericamente indicate come “apparato”, anche con un certo disprezzo. In realtà si trattava di una comunità che ha dedicato la propria vita agli ideali della solidarietà, della difesa dei più deboli, del progresso sociale. Donne e uomini che non avevano nulla di quel grigiore con il quale venivano descritti. Anzi, attraverso la caratterizzazione di ciascuno si disegna il quadro di un popolo che sapeva coniugare la massima serietà dell’impegno politico con lo spensierato divertimento. Certo, c’è nostalgia di quel tempo e di quel popolo. La storia ha assegnato a quella vicenda un esito ben noto. Ciò non può impedire che ciascuno di quelli che l’hanno vissuta avverta un sentimento di nostalgia e di rimpianto. Nella consapevolezza che i sentimenti possono sempre reinventarsi se non si nega il loro valore profondo.
Gianni Cuperlo, che ha curato la prefazione, coglie brillantemente gli aspetti principali del racconto. Bruno Magno, storico grafico del Pci, li sintetizza con maestria nella copertina. Due omaggi all’autore per tanti anni loro compagno in quel viaggio.
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Il “Berlinguer rivoluzionario” che vogliamo ricordare
-articolo di Alba Vastano-Enrico Berlinguer-La storia del segretario del Pci e i temi cardine della politica berlingueriana nel libro di Guido Liguori. L’uomo e il politico che ha contribuito alla costruzione del Partito Comunista Italiano negli anni Settanta e Ottanta. Da funzionario togliattiano alla segreteria di Luigi Longo.
La storia del segretario del Pci Enrico Berlinguer e i temi cardine della politica berlingueriana nel libro di Guido Liguori. L’uomo e il politico che ha contribuito alla costruzione del Partito Comunista Italiano negli anni Settanta e Ottanta. Da funzionario togliattiano alla segreteria di Luigi Longo. Il compromesso storico e la questione morale. La politica internazionale. L’invito rivolto ai giovani, ma soprattutto la svolta finale a Sinistra.
Come non ricordarlo nel trentennale della sua scomparsa. Come non ricordarlo sempre. Come non ripercorrere oggi con la memoria quegli anni della nostra gioventù in cui c’era lui. Ripercorrerli per avere delle risposte a quel che é stato l’uomo e il politico, a quel che è stato il Partito Comunista Italiano. E il feedback della sua storia, della storia del partito di quel periodo è sicuramente positivo e vincente.“Un uomo introverso e malinconico, di immacolata onestà e sempre alle prese con una coscienza esigente”, lo ricordò così Indro Montanelli, in occasione dei suoi funerali nel 1984. Gli anni Settanta del Novecento sono stati per la storia del comunismo italiano gli anni di Berlinguer, anni che hanno segnato la storia della nostra “bella gioventù”. Berlinguer ci faceva sognare un’Italia migliore “..un’Italia che non era famosa solo per il cibo e per il vino, ma anche per la ricerca di un’originale coniugazione di democrazia e socialismo che suscitava interesse e rispetto in tutto il mondo”.
Così descrive quel periodo felice, Guido Liguori nella premessa del suo ultimo saggio “Berlinguer rivoluzionario”, edito da Carocci. E ci voleva questo saggio. Ci voleva per pensare, per ricordare e per riflettere sul senso che davamo alla politica, su cosa significava un tempo essere comunisti. L’appartenenza a un partito in cui non c’erano altre forze che quella dell’unità e della lotta di classe, soprattutto non c’erano tante sinistre, né divisioni in correnti. Non c’era altro che la lotta di classe per contrastare il capitalismo e per conquistare l’egemonia in un paese già allora dilaniato dalla corruzione. Di quel comunismo, di quel modo di fare le nostre lotte, Berlinguer ne era il protagonista. Un politico in “totus”. Soprattutto un uomo di grande integrità morale e intellettuale che ha saputo coinvolgere le masse popolari. Vi era un tempo quindi, il tempo di Berlinguer, in cui la politica era una cosa seria e priva di interessi personali, un tempo in cui le idee erano gli ideali, i nostri ideali da sventolare con orgoglio e con convinzione. E, riferendosi alla possibilità reale di fare una buona politica, scrive Liguori “ ..chi si sacrifica per essa e a essa dedica la vita, è un uomo da rispettare, come fu rispettato universalmente, quel comunista forte e timido insieme che fu Enrico Berlinguer”.
Già dalla copertina del libro curiosità e attrazione per i contenuti sono inevitabili. Perché l’uomo del compromesso storico e del sostegno ai governi di solidarietà nazionale viene definito un rivoluzionario? In realtà l’autore, nel suo libro avanza molte riserve sul compromesso storico, pur riconoscendo le motivazioni che spinsero tutto il Pci a proporlo alla Dc. È soprattutto nel secondo Berlinguer, quello dei primi anni Ottanta che riconosciamo il politico “rivoluzionario”, citato così dall’autore. Non solo l’uomo della ‘questione morale”, ma il fautore dei grandi movimenti dell’epoca, come sono stati il movimento femminista e quello pacifista, ma anche quello ecologista, oltre a quello operaio. Questa è stata la migliore politica di sinistra di Berlinguer, quella più viva e vivace, quella che più è rimasta nel cuore del Pci.
Fra una presentazione e l’altra della sua ultima opera letteraria su Berlinguer, Guido Liguori, docente universitario dell’Universita’ della Calabria, scrittore e saggista di molti testi gramsciani, si è fermato a parlarne, il 15 novembre, anche alla “BiblioGramsci”, la biblioteca popolare del circolo Prc di Valmelaina-Tufello, “nata” il quattro ottobre scorso. Intervistato da Valerio Strinati, presidente dell’Università popolare “Antonio Gramsci”, ha risposto con un’accurata analisi sui punti cardine della politica berlingueriana. «Partire dalle questioni internazionali per delineare la figura di Berlinguer è giusto e necessario. Berlinguer ha sempre avuto una vocazione per la politica internazionale, perché negli anni Cinquanta il giovane segretario faceva parte della Fgci e per un paio d’anni fu il principale esponente del movimento che comprendeva tutti i giovani comunisti a livello mondiale. Tant’è che fa la spola tra Budapest (sede dell’organizzazione) e l’Italia. Ha modo quindi di conoscere, fin da giovane, il mondo sovietico e il mondo del comunismo internazionale e di avere rapporti con i compagni dell’Unione sovietica». Liguori poi prosegue sulla scelta di Longo di affidare la direzione del partito a Berlinguer: «All’indomani dei fatti di Praga, Berlinguer scavalca il candidato numero uno, Giorgio Napolitano, e viene scelto come futuro segretario del Pci, proprio per la sua esperienza internazionale. Napolitano non aveva, né la frequentazione, né la capacità che aveva Berlinguer di dialogare con i sovietici e di non cedere alle loro pressioni». «Ovviamente questo è un processo contradditorio», continua l’autore. «Il fatto di rivendicare l’autonomia dei comunisti italiani e poi sempre più negli anni di marcare l’importanza della visione del partito comunista italiano, fa sì che la divisione con l’Unione Sovietica cominci ad essere una divisione di fondo sull’idea di socialismo da costruire nella democrazia». Liguori ricorda al proposito il famoso “Memoriale di Yalta” che Togliatti scrive pochi giorni prima di morire, da consegnare ai sovietici, in cui ribadiva la possibilità di raggiungere il socialismo attraverso vie diverse dal modello dell’Urss.
Il saggio di Liguori è davvero un tuffo in quel ventennio di storia vissuta con passione, una storia che non va dimenticata. Si potrà riattualizzare il pensiero del segretario del Partito Comunista Italiano in questa “povera” Italia e in una possibile (?) altra Europa? E nella ricorrenza del trentennale della sua morte, strumentalizzata da alcune correnti politiche che hanno paragonato il compromesso storico alle larghe intese, come ricordare onestamente Berlinguer? «Non è detto che bisogna fermarsi a Berlinguer e alle sue idee, ma sicuramente esse non vanno rimosse o mal interpretate. Bisognerebbe rileggere tutto ciò che lui ha scritto per renderci conto che le sue sono idee ancora importanti e valide che hanno ancor oggi molto da insegnarci», pensa l’autore.
E un invito ai giovani dall’autore (nella premessa del libro). “Mi piacerebbe che anche i più giovani, le ragazze e i ragazzi di oggi, imparassero a capire chi è stato e che cosa ha pensato Berlinguer. Vorrei che innanzitutto loro fossero i destinatari di questo libro”.
Autore dell’Articolo Alba Vastano “La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re. Non si rende conto che in realtà è il re che è il Re, perché essi sono sudditi” (Karl Marx)-
Nina G. Jablonski,NELLA PELLE DELL’ALTRO, Saggio edito da Bollati Boringhieri.
Articolo di Esperance H. Ripanti
Nina G.Jablonski arriva in Italia con un saggio illuminante che aiuta a riflettere su un tema dibattuto ma mai affrontato così a fondo: la pelle. Tra preistoria, vitamina D e pregiudizi.
Quanta importanza ha avuto il colore della pelle negli anni? Quante descrizioni? Quali ruoli? Quante discussioni? Quale valore profondo e decisivo l’essere umano del passato e del presente gli ha attribuito? L’antropologa Nina Jablonski (Hamburg, NY, 1966) dopo anni di docenza presso la Pennsylvania State University e numerose ricerche sulla pigmentazione della pelle umana ha scritto un testo chiaro ed esaustivo sull’argomento. Colore vivo (Bollati Boringhieri, 2020) è stata una gradevole novità sugli scaffali della divulgazione scientifica e sociologica. Un trattato, una guida per incamminarci – privi di preconcetti e diffidenza – nel lungo e complesso cammino all’interno della pelle umana.
Un lavoro accademico che da anni si incrocia con la battaglia di sensibilizzazione verso tematiche fondamentali per il mondo occidentale attuale: la diversità e il razzismo. Con Colore vivo l’antropologa statunitense studia e narra nel dettaglio la storia dell’evoluzione della pigmentazione cutanea. Lo fa attraverso la storia; partendo dalla preistoria studiata sui libri da tutti e seguendo con un filo immaginario, ma sempre preciso e chiaro, le migrazioni e le modifiche delle diverse popolazioni in base ai territori scelti, all’esposizione solare e alle abitudini quotidiane. Un viaggio cronologicamente affascinante ed educativo. La possibilità di riguardarsi indietro e comprendere o riscoprire nozioni non solo biologiche o storiche ma anche sociali, umane.
Come il colore della pelle condiziona tutt’ora la società e i comportamenti tra le diverse popolazioni? Quanto influisce nei rapporti, nelle relazioni e nella quotidianità sempre più “mescolata”? Jablonski riesce a rispondere a queste domande con rigore accademico ma senza mai dimenticare l’idea di divulgazione. Immagini, box di approfondimento e curiosità tengono compagnia il lettore per tutta la durata della lettura. E seppur l’impatto visivo risente leggermente delle immagini in bianco e nero, la scrittura del testo è costantemente efficace e immediata. Si passa dall’aspetto biologico al piano storico con naturalezza, senza mai tralasciare gli aspetti comportamentali e scientifici legati proprio alla questione “colore della pelle” che negli anni sono sfociati poi in vere e proprie discriminazioni razziali.
Un testo accessibile, una lettura che arricchisce e non si dimentica di aiutare il lettore italiano ad entrare in punti di vista lontani e differenti; ragionamenti che da occidentale e in maggioranza portatore di pelle bianca, caucasica non è portato a fare. Nei capitoli “Aspirare al bianco” e “Desiderare il nero” è illuminante l’esercizio che la scrittura e le nozioni riportate dall’antropologa permettono di fare a chi è profondamente convinto di non aver alcun tipo di pregiudizio razziale o di essere vissuto in un ambiente privo da esso. Jablonski con Colore vivo riesce a far entrare il lettore curioso nella pelle dell’altro e ad aumentare la consapevolezza dell’involucro che ci protegge e ospita in tutte le nostre diversità e bellezze.
Colore vivo, Nina G. Jablonski, Bollati Boringhieri, 2020, 352 p., 25 euro
Fonte-Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Nina G. Jablonski è docente di Antropologia presso la Pennsylvania State University. Tra i primi membri eletti della Fletcher Foundation, «per i suoi sforzi tesi a migliorare la comprensione pubblica del significato del colore della pelle», è stata anche onorata della Guggenheim Fellowship. Le sue ricerche sulla pigmentazione della pelle umana hanno stabilito la relazione di equilibrio evolutivo tra il colore della pelle, la produzione di vitamina D e l’intensità dei raggi ultravioletti in ogni luogo specifico del pianeta. I suoi studi paleontologici, inoltre, hanno portato al primo ritrovamento di fossili di scimpanzé. Oltre alla sua ampia produzione scientifica specialistica, ha pubblicato Skin. A Natural History (2006). Colore vivo è il suo primo libro tradotto in italiano.
«Come al solito», rispose la Sibilla, «ho cominciato pescando nella mia memoria. La memoria dei nonni è importante per i bambini, dà loro la dimensione della fluidità del tempo, del continuo scontro-incontro tra passato e futuro. Il passato è l’assuefazione a modelli costruiti in precedenza, il futuro la trasgressione critica per migliorarli e superarli».
Joyce Lussu, Il libro delle streghe
Introduzione
Da un finestrino appannato di un piccolo treno regionale marchigiano che una sera d’inverno da Porto San Giorgio mi porta a casa, una manciata di chilometri più giù, guardo il cielo notturno. La linea adriatica corre lungo il mare aperto, ora calmo, bellissimo, anche se in quel periodo lo spettacolo è sopra, nello spazio profondo. Sono i mesi della grande stella che passa a chiudere un secolo denso e complicato. A voler essere definitivi, chiude un intero millennio. La stella si mostra ogni sera in tutto il suo splendore, nitida e dinamica, è la cometa più luminosa che si sia mai vista.
È il 1997 e vivo a Milano da un po’, dopo un periodo passato a Bologna dove mi sono trasferita per l’università. Le volte che torno nelle Marche, invece di rivedere i vecchi amici ormai persi per strada, prendo questi vecchi treni regionali e corro da Joyce Lussu, o arrivo fino ad Ancona dove mi aspetta il nostro comune editore e amico Massimo Canalini della Transeuropa.
I miei ritorni quegli anni nelle Marche sono principalmente per lavoro e per studio. Laggiù, in una bella casa di campagna tra Porto San Giorgio e Fermo che si chiama San Tommaso, località Paludi, vive una donna formidabile, saggia e generosa, ricchissima di pensieri, intuizioni, toni, bellezza, forza, argomenti, intelligenza. La mia Joyce, la mia sibilla.
Quando la incontro la prima volta è il novembre del 1991, un mese dopo l’uscita del mio primo libro. Lei ha settantanove anni, io ventuno. È nata nel 1912, come mia nonna Fernanda, e io di fama la conosco da sempre. Da quando la maestra alle elementari ci leggeva la sua poesia Scarpette rosse, che avevamo stampata nel sussidiario accanto a poesie di Brecht, Tagore, Neruda, e i miei compagni scoppiavano a piangere, perché è una poesia che fa piangere. Il suo nome mi è noto da sempre perché in casa si parlava di Joyce come della sorella di Gladys, per via di parenti comuni.
Mi ha mandato a chiamare lei ma sono anni che desidero conoscerla. Lei non sa che io l’ho già sentita al telefono. Infatti Canalini in casa editrice ad Ancona, rispondendo alle chiamate, aveva questo dannato vizio di mettere le persone in vivavoce per lasciarsi le mani libere di continuare a trafficare con bozze e floppy disk (era ancora l’epoca dei dischetti, dei nastri registrati e dei manoscritti). Avevo dunque avuto modo di assistere, spettatrice silenziosa, a una tremenda scenata di Joyce contro di lui che non si decideva a ripubblicare l’introvabile Portrait. Alquanto seccata, la scrittrice riversava via telefono accuse, insulti, reprimende severe e giuste su quei giovani editori anconetani che avevano costruito la loro iniziale fortuna proprio grazie ai suoi libri. Canalini taceva, incassava, annuiva, le dava ragione. Però non ristampava.
«Ma perché cavolo non ristampi, pure tu», gli dicevo. «È un libro bellissimo».
Me ne aveva data una copia e lo avevo divorato. Avevo preso anche Il libro delle streghe, Alba rossa che conteneva Fronti e frontiere, e poi il libro della nonna di Joyce, Lanostra casa sull’Adriatico, e Le inglesi in Italia, un albo di grandi dimensioni sulla storia della famiglia (e del territorio). Tutti editi da Transeuropa/Il lavoro editoriale a partire dagli anni Ottanta.
Portrait è stata la prima autobiografia di Joyce. Nella sua edizione anconetana contiene «116 foto rare, mai pubblicate». Penso che molti dei problemi che ostacolavano un’eventuale ristampa fossero legati al costo della riproduzione delle foto. Almeno credo, perché della piccola editoria, e di quella marchigiana in particolare, ci sarebbe molto da dire (e si dirà: molti dei libri di Joyce sono usciti, per sua scelta, da piccoli editori, indipendenti e di cultura).
Comunque, conservo gelosamente quella copia introvabile con le sue foto straordinarie. Tante Joyce, dall’infanzia alla vecchiaia, in vari contesti. Una piccola Joyce a Firenze coperta solo di meravigliosi capelli lunghissimi, alla moda vittoriana delle foto inglesi di Lewis Carroll. Joyce con i fratelli, Max e Gladys. Una Joyce signorina vestita da amazzone con maestosi cavalli, nelle Marche, a casa del nonno. Una Joyce studentessa di filosofia nella Heidelberg degli anni Trenta. Poi una ragazza in Africa, approdata lì in cerca di lavoro con un fascicolo già aperto a suo nome nel Casellario politico centrale della polizia fascista. Una foto con Benedetto Croce, amico e primo curatore delle sue poesie. Quindi, una serie di scatti di Joyce ripresa dietro a un microfono, in piazze o in case della cultura, trasmissioni televisive (però all’estero, rare le sue apparizioni in televisione in Italia), in sedi o a congressi di partito, riunioni di partigiani, di intellettuali mondiali per la pace, di scrittori. Il momento in cui un generale appunta la medaglia d’argento al valor militare sull’abito che so essere rosso di una Joyce sorridente in occhiali da sole. Joyce con Emilio, Joyce con il figlio Giovanni. Joyce in Sardegna, poi in marcia con i guerriglieri del Curdistan, della Guinea-Bissau. Joyce con Nazim Hikmet, penna in mano e fogli ben distesi. Joyce su una sdraio con un bel nipotino, roseo e attento, seduto sulle ginocchia. Entrambi guardano nell’obiettivo, sorridenti e fiduciosi. Aspettano il futuro, sereni.
È per un libro di foto che Joyce mi ha mandato a chiamare. Si intitolerà Streghe a fuoco, parlerà di donne, e sarà composto collettivamente, con una serie di testi di donne scelte da Joyce e relative fotografie fatte da Raffaello Scatasta, fotografo di Fermo che vive a Bologna da sempre (scoprirò con sorpresa, subito, che abita praticamente oltre il muro della casa in cui mi sono trasferita da due mesi, in una traversa di Strada Maggiore, lui al 3 io al 5, e che le nostre finestre sono adiacenti: roba da streghe, davvero).
Arrivo, dunque, a casa di Joyce per la prima volta una sera di novembre del 1991. È buio e sono anni che non vado in visita da qualcuno che abita in campagna, ma è una situazione che mi è molto familiare e mi porta indietro alla mia infanzia, a cose che mi sono note: una luce accesa su un portoncino di legno di una grande villa padronale, con attorno la notte che avvolge i campi fino al fiume, i rumori e gli odori dei fossi, l’umido autunnale, la pioggia sulle foglie del giardino. È la prima volta che vedo casa di Joyce (e di Gladys e di Max, insomma dei Salvadori), ma tutto quello che c’è fuori lo conosco bene: è la campagna marchigiana disegnata dalla mezzadria, è la provincia picena in cui pure io sono nata, è una delle vallate che corrono tra l’Adriatico e i Sibillini.
Gladys ha disegnato un albero genealogico che, a casa dei miei, è sistemato su un leggio di peltro brunito. Quando eravamo piccole, noi figlie lo ammiravamo intimorite, fiorito com’era di ghirigori e nomi scritti in caratteri con le grazie, su pergamena, con in cima un’intestazione latina: Ciccus Gratianus, che sarebbe il capostipite della famiglia materna di mio padre. Noi bambine cantavamo quei nomi solennemente, per poi ridere, avvolte in lenzuola che dovevano fungere da mantelli, perché eravamo attratte dagli svolazzi e dal latino e dai nomi di quegli sconosciuti che, in qualche modo a noi oscuro e lontano, ci avevano preceduto.
Le famiglie Graziani e Salvadori si erano incontrate a metà dell’Ottocento e questa lontana parentela era testimoniata dalla presenza, in entrambe, di echi di nomi inglesi: mio padre aveva infatti un cugino di nome John, anche se tutti lo chiamavano Gione (così come Joyce veniva chiamata dai contadini anche Iole, Gioice, Giove: la storia dei nomi di Joyce/Gioconda comincia subito). C’era un legame tra le due famiglie, dunque, che risaliva alla «tribù anglo-marchigiana» (definizione di Joyce) nata con l’arrivo nelle Marche di un gruppo di signorine inglesi, e se nella nostra parte di british rimaneva ben poco, nel ramo Salvadori quelle ladies avevano lasciato un imprinting preciso: il loro pensiero cosmopolita, libertario e femminista aveva prevalso sull’immobilismo marchigiano della parte maschile della genealogia.
Non parlerei di tutto questo se, a un certo punto, non diventasse importante, per Joyce, risalire all’indietro, ad ascendenze che spiegano l’amalgama culturale e ‘antropologico’ di un posto, di una famiglia, di una storia. Succederà dopo un po’ nel suo percorso, dopo che si sarà messa sulle carte a fare la storia da una prospettiva un po’ diversa, originale come è originale tutta la sua opera. Perché Joyce la storia l’ha fatta di persona, da protagonista, ma anche da studiosa.
La storia è anche dentro casa di Joyce, in quella casa in cui entro per la prima volta e che colpisce molto chiunque l’abbia visitata. Intanto, a quell’epoca, c’è dentro Joyce. Avvolta in un elegante e caldo scialle colorato, mi accoglie con un gran sorriso, contornata da amiche che chiacchierano, ridono, fumano (e mi squadrano: ovvio, sono quella che, giovanissima, ha appena pubblicato un libro). Mi parla subito del suo progetto di libro sulle streghe, mi fa dono di un libro di Mimmo Franzinelli sui cappellani militari che devo leggere assolutamente, mi dice, e uno su padre Agostino Gemelli e i suoi legami col fascismo.
Dopo quel giorno, tornerò tutte le volte che posso.
Non c’è solo quel libro iniziale, collettivo e fotografico, a tenere insieme i nostri discorsi. Ce ne sarà un altro, anni dopo, frutto di decine di incontri con lei fissati su nastro. Ore e ore di registrazioni che realizzo nel corso di mesi, di anni, andando a trovarla per parlare della sua vita, dei suoi pensieri, della sua storia, per raccogliere la sua lezione. Non uso a caso questa parola: per anni Joyce ha girato per le scuole parlando ai più giovani, facendo storia tra i banchi, confrontandosi con studenti e studentesse di ogni età e anche con i loro insegnanti, cercando di rispondere a domande semplici e per questo fondamentali. Per esempio: che vuol dire ‘civiltà’? Come nasce la violenza nella società? Com’è stato possibile che una minoranza si sia impossessata delle ricchezze a scapito di una maggioranza sfruttata e sottomessa? Che cos’è la pace? Come mai le donne sono state perseguitate per secoli? E ancora, cosa significa combattere nella resistenza per un’antimilitarista?
Vado da lei a porre a mia volta delle domande, come secoli fa pellegrini e viandanti salivano sui Sibillini, fino alla grotta della signora che, narra la leggenda, circondata dalle sue fate tesseva i fili di passato, presente e futuro, e di cui la stessa Joyce ci ha lasciato un’interpretazione nuova e molto affascinante. D’accordo, non proprio, non le ho mai detto: «Cara Joyce, tu sei una sibilla: sei tu la nostra sibilla»; tuttavia, molte persone la chiamavano in questo modo e capitava spesso, quando veniva invitata in giro per l’Italia, che venisse presentata così in pubblico. Naturalmente ne rideva, di questa storia della sibilla che le attribuivano.
Anche dopo la sua morte, molti sono stati gli interventi, incontri, approfondimenti in cui si è usata questa dicitura per definirla. C’è un titolo che ricorre spesso, in articoli di giornale o nei convegni sulla sua figura: Joyce Lussu, sibilla del Novecento. Anche il Novecento è stato usato spesso per parlare di lei, perché lei è stata il Novecento. È stata un tempo, un intero secolo, ed è stata un mondo.
Quando mi capita di doverla definire, raccontare a chi non la conosce, a volte snocciolo un elenco: partigiana, poetessa, scrittrice, traduttrice, storica, politica, combattente, medaglia d’argento per la lotta di liberazione, compagna di Emilio Lussu, intellettuale, agitatrice culturale, saggista… A volte cambio l’ordine, di alcune definizioni so che avrebbe da ridire (per esempio su «intellettuale», e probabilmente pure su «agitatrice culturale»), quasi sempre mi sembra che nessuna di queste etichette riesca a dar conto della sua grandezza, neanche se messe – appunto – tutte assieme.
E allora forse sibilla è una figura che sono autorizzata a usare, adesso, anche io, per dire di Joyce.
E sono di nuovo su quel treno di tanti anni fa, che corre lungo il mare nella notte, sotto la cometa, continuando a pensare a Joyce, a Emilio, alla loro vita luminosa
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Già durante quei viaggi di ritorno da casa di Joyce, anche se l’avevo lasciata da pochi minuti, mi capitava di pensare a Joyce ed Emilio insieme e di provare una sorta di ‘mancanza’. Gli incontri con Joyce erano impegnativi, nel senso che sollecitavano molte questioni e costituivano una sorta di richiamo a studiare, lavorare, approfondire. Ed erano straordinariamente intensi perché, per una lettrice e per una persona alle prese con la scrittura com’ero, c’era davvero moltissimo per riflettere e di cui fare tesoro. Faceva un certo effetto sapere che certe storie che sembravano pura fiction, le storie che leggevo nei suoi libri e che la riguardavano, erano invece avvenute davvero e che i protagonisti erano esistiti e si erano comportati in maniera così magnifica. Una di quei protagonisti la conoscevo, ce l’avevo avuta davanti fino a un attimo prima, e magari in quel momento stava mangiando un gelato al marron glacé con l’amica con cui mi aveva accompagnato alla stazione di Porto San Giorgio. Io, invece, stavo tornando a casa col mio bottino di cassette registrate, stordita da tutti gli argomenti venuti fuori e discussi sempre col taglio alla Joyce, brillante e vivace, inaspettato, mirato, scomodo, ed ecco che nella solitudine un po’ appannata del treno cominciavo a pensare a Joyce ed Emilio giovani, insomma trentenni, o almeno adulti (lei giovane adulta, all’epoca del loro incontro, lui uomo maturo, dato che aveva ventidue anni di più, ma insomma non anziani), ed era facile per me pensarli come ‘amici’ reali, umani, pieni di spessore e sostanza.
Mi dispiaceva non averli potuti conoscere in coppia, particolarmente perché in quella fase della mia vita – e dello ‘studio’ della scrittrice Joyce – sentivo di dovermi concentrare soprattutto sulle vicende della resistenza che li avevano visti protagonisti coraggiosi e bellissimi. Intanto avrei voluto ringraziarli per i rischi che si erano presi. Poi non avrei mai smesso di chiedere storie su quel periodo. Un po’ perché appartengo alla generazione dei nipoti che da piccoli si facevano raccontare dai nonni le storie di guerra, essendo i genitori concentrati a fare altro e non avendo per motivi anagrafici troppi ricordi su quel periodo, un po’ perché ho sempre considerato la seconda guerra mondiale un punto decisivo e fondamentale per capire tutto quello che era arrivato dopo. E a scuola, naturalmente, non ci si arrivava mai, col programma. O meglio, alle scuole elementari avevo avuto una maestra molto sensibile all’argomento (era stata vittima delle leggi razziali del ’38) e le avevo frequentate in un periodo in cui in classe si parlava molto della pace e si leggevano appunto le poesie di Joyce Lussu, però poi alle superiori, quando si sarebbe dovuta approfondire e analizzare la storia del Novecento, tutto veniva travolto dalla fretta della maturità incombente, delle ultime interrogazioni ecc. ecc., insomma tutti i problemi che ci sono – incredibilmente – ancora oggi. Così a quell’epoca stavo cercando di recuperare i pezzi che mi mancavano e, allo stesso tempo, avevo avuto questa fortuna pazzesca di trovarmi Joyce, storica e scrittrice, a portata di mano, disponibile a raccontare e condividere.
Pensavo spesso a Joyce ed Emilio, alle loro storie. Le avevo lette, le avevo ascoltate. Erano storie straordinarie. Il loro incontro, la loro storia insieme non smetteva di stupirmi.
Ed è da lì che partirò.
Chi è, dunque, Joyce quando, a ventun anni, incontra per la prima volta Emilio Lussu a Ginevra?
È la figlia di due persone che il capitano sardo conosce già, una ragazza in esilio da tempo insieme alla sua famiglia. Alta, bionda, occhi azzurri, portamento aristocratico, Gioconda Salvadori (così all’anagrafe: Beatrice Gioconda Salvadori, ma per tutti Joyce) è una donna di bellezza eccezionale, con un notevole fascino che le arriva da nascita e formazione. Determinata, pragmatica, colta, ha una coscienza politica molto forte. E poi, scrive poesie.
Pur essendo giovane, ha già viaggiato molto, per scelta e per necessità. Appena può si sposta tra la Svizzera, dove ha seguito i genitori fuoriusciti, e l’Italia, dove torna a casa dei nonni marchigiani; è stata un semestre in Africa per lavoro; ha soggiornato un paio di anni in Germania per studio.
Nata a Firenze l’8 maggio del 1912, terza dopo Gladys (Perugia, 1906) e Max (Londra, 1908), Joyce è in fuga dal ’24. Ha dodici anni, infatti, quando nella sua vita di ragazzina accade un evento cruciale, un atto di grave violenza che condizionerà la storia della sua famiglia: il pestaggio subito dal padre, uscito vivo solo per un caso dall’assalto di una squadraccia fascista.
Suo padre, Guglielmo Salvadori, filosofo positivista-evoluzionista, professore di Sociologia (uno dei primi laureati in Italia in Scienze sociali, con seconda laurea in Filosofia presa a Lipsia), è il traduttore dell’opera del filosofo Herbert Spencer, uscita per l’editore Bocca. A Firenze ha una libera docenza che esercita a titolo gratuito. Scrive su riviste e giornali, collabora con il «New Statesman» e la «Westminster Gazette», mentre sua moglie è corrispondente del «Manchester Guardian» per il quale scrive diverse critiche al regime. Sono, per questo, due intellettuali nel mirino.
Entrambi appartengono a nobili famiglie marchigiane di proprietari terrieri del fermano, ma Willy (così viene chiamato in casa Guglielmo) ha rotto i rapporti col padre a causa di divergenze politiche. Né lui né la moglie condividono il conservatorismo retrogrado delle ricche famiglie d’origine. Il padre di Guglielmo, il conte Salvadori Paleotti, è uno degli agrari che hanno organizzato i primi fasci nelle campagne picene e Willy, che ha studiato, è un laico repubblicano con tendenze liberali – meglio dire liberal, all’inglese, per intendersi – e simpatizza con i socialisti (a Porto San Giorgio si è iscritto alla Società operaia), non può tollerarlo. La moglie Cynthia (all’anagrafe Giacinta Galletti di Cadilhac, ma chiamata anche lei all’inglese), che lo ha accompagnato a Lipsia appena sposati per togliersi anche lei da quell’ambiente, la pensa come lui. Come molte donne della sua generazione, non ha frequentato scuole pubbliche e a differenza dei fratelli maschi non è andata in collegio per non rinunciare alla vita in campagna e al suo amore per piante e animali, però parla quattro lingue, soggiorna spesso a Roma con la famiglia per motivi di lavoro del padre deputato, ha studiato disegno a Napoli prendendo lezioni dal pittore Flavio Gioja, è stata un anno a Madras (dove suo fratello Arthur si è trasferito dopo aver studiato al Trinity College di Oxford diventando funzionario britannico in India), è convinta antimilitarista e neutralista. Proviene da una famiglia in cui l’innesto inglese da parte femminile ha lasciato una robusta base di impegno, orgoglio, indipendenza e sensibilità libertaria soprattutto nelle donne, già ‘emancipate’ da qualche generazione e in contrasto con i loro mariti (parlando, in un racconto, di una parente d’inizio Ottocento che si era salvata da un’aggressione grazie al suo atteggiamento, Joyce accenna a «spalle erette e sguardo gelido e diretto, secondo le regole del Collier’s pluck, la grinta di famiglia»). Suo padre, ex ufficiale garibaldino originario di Roma, è stato sindaco di Torre San Patrizio e per cinque volte deputato liberale del collegio di Montegiorgio ma è un uomo che si comporta in modo arrogante, «una specie di Don Rodrigo locale» dice Joyce, un feudatario vecchio stampo che gira per i suoi possedimenti, e per le piazze dei paesi dove fa campagna elettorale, con la carrozza equipaggiata di campieri armati di fucile. La figlia preferisce guardare alla madre scrittrice (che a un certo punto si separa dal marito e se ne torna in Inghilterra), ai cugini inglesi che sono molto attivi nel movimento pacifista e anticolonialista sorto attorno a Bertrand Russell. Parla tranquillamente di rivoluzione: «diceva che l’avremmo dovuta fare nel 1914, per impedire la guerra», scrive Joyce della madre, ricordando certi pranzi a villa Marina, la casa dei nonni Salvadori, dove tornano d’estate «facendo inorridire il parentado» con le loro uscite sovversive (e certe poesie provocatorie scritte dalla piccola Joyce fatte trovare a tavola alla famiglia riunita, infilate per scherzo tra i tovaglioli delle zie).
Orgogliosamente e coerentemente con la scelta di rompere con la loro classe sociale d’origine, Willy e Cynthia hanno rinunciato al sostegno economico dei padri possidenti ma non avendo una vera formazione professionale, e con tre figli da crescere, si sono arrangiati tra lezioni, traduzioni e corrispondenze per giornali inglesi.
In quegli anni scelte del genere – esporsi politicamente, contrastare la propaganda – si pagano care, ed essere prelevati a casa da una squadra di otto fascisti armati fino ai denti per andare a ‘discutere di stampa libera’ alla sede del fascio, dopo esser stati segnalati da una gentildonna della colonia anglo-fiorentina per due pezzi usciti sui giornali inglesi, significa una cosa sola: botte, minacce, torture.
Sono anni molto violenti a Firenze. La città è percorsa da bande di fascisti terribili, duri e fanatici, riuniti in squadracce dai nomi paurosi. Una su tutti, ‘La Disperata’, al cui soccorso arriva ogni tanto ‘La Disperatissima’, composta da squadristi di Perugia che si muovono anche fuori regione spingendosi a fare incursioni fin nelle Marche. Gentaccia pronta a usare bastone e olio di ricino senza alcuno scrupolo, teppisti, criminali come Amerigo Dumini, il capo degli squadristi che un paio di mesi dopo sequestrano e uccidono Matteotti (e che, ricorda Lussu ne La marcia su Roma, era solito presentarsi dicendo «Amerigo Dumini, nove omicidi»).
Il professor Salvadori, per non mettere in pericolo la famiglia, obbedisce alla convocazione senza fare storie e va a piazza Mentana. Entra nel covo alle diciotto del primo aprile e ne esce a tarda sera, coperto di sangue e barcollante. Max, all’epoca sedicenne, che gli è andato appresso perché aveva delle lettere da impostare alla stazione e l’ha aspettato fuori, ha sentito tre brutti ceffi che ciondolano per la piazzetta dire alcune frasi inquietanti.
«Occorre finirlo».
«Già, ma chi l’ha comandato?»
«L’ordine viene da Roma».
In quel momento Willy esce dal palazzo circondato da una dozzina di fascisti esagitati che brandiscono bastoni. Il padre, ammutolito, è coperto di sangue, e quando Max gli si fa incontro per sostenerlo e aiutarlo riceve la sua razione di botte: i picchiatori non hanno finito, la squadraccia li segue fin sul ponte Santa Trinita, vogliono buttare padre e figlio al fiume. I due si salvano solo grazie a una pattuglia di carabinieri che passa di lì per caso, e quando infine arrivano a casa a mezzanotte, malconci e umiliati, sebbene Cynthia mantenga calma e lucidità e Willy cerchi di minimizzare, lo shock è forte per tutti loro. Scrive Joyce in Portrait:
Tornarono tardi, e la scena è ancora nei miei occhi. Noi due donne (mia madre e io, mia sorella era in Svizzera), affacciate alla ringhiera del secondo piano, sulla scala a spirale da cui si vedeva l’atrio dell’entrata; e loro due che dall’atrio salivano i primi gradini, il viso rivolto in alto, verso di noi.
Il viso di mio padre era irriconoscibile; sembrava allargato e appiattito, e in mezzo al sangue che gocciolava ancora sotto i capelli, si vedevano i tagli asimmetrici fatti con la punta dei pugnali: tre sulla fronte, due sulle guance, uno sul mento. Mio fratello aveva il viso tutto gonfio e un occhio che pareva una melanzana. «Non è niente, non è niente», diceva mio padre, cercando di sorridere con le labbra tumefatte. Capii in quel momento quanto ci volesse bene.
In quella sera drammatica che costituisce uno spartiacque nella storia della loro famiglia, Joyce fa tesoro dell’esempio dato dai genitori e dal fratello. Il padre che coraggiosamente cerca di sminuire la portata della violenza e il fratello che lo sostiene forniscono alla Joyce dodicenne «solidità, in quanto alle scelte da fare. Servì a pormi di fronte a ciò che è barbarie e a ciò che invece è civiltà».
La scelta è chiara. Insieme alla pena per quello che è successo ai suoi cari, nella giovanissima Joyce, quella sera di primavera, si impone repentina una reazione, un’intuizione:
Ma un altro pensiero mi traversò il cervello come una freccia.
Noi donne eravamo rimaste a casa, in relativa sicurezza; mentre i due uomini della famiglia avevano dovuto buttarsi allo sbaraglio, affrontare i pericoli esterni, la brutalità di una lotta senza quartiere. E giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anch’io.
Questa promessa di Joyce, la sua risoluzione, scandita in quell’enunciato finale breve come una sentenza e con la scelta di una parola forte come «rissa», mi è sempre sembrata molto potente. Una di quelle decisioni prese in un’età precisa e a cui attenersi, fedelmente, per tutta la vita. Un fondamento ineludibile, un ‘cosa voglio fare da grande, chi voglio essere’. Un centro, un asse, la definizione della propria, fortissima, personalità, ciò che intendiamo con carattere, e in questo caso anche con tempra, che ci arriva da formazione e circostanze, ma soprattutto da nostre scelte.
Sembra una formulazione semplice, cristallina, ma dietro c’è una scelta etica esistenziale molto impegnativa. Joyce racconta quella scelta sempre con grande linearità, senza mai lamentarsene, anzi rivendicandola come una cosa naturale, il da farsi in quel momento. Ma non è affatto una cosa ovvia, anzi. Né ovvia né facile.
I giovani Salvadori stanno già pagando un prezzo alto per le loro scelte. Max è stato pestato a scuola, da un gruppo di compagni del ginnasio, un anno prima. E adesso la violenza contro il padre con annuncio di «sentenza di morte», la fuga, l’esilio.
Guglielmo darà poi mandato al suo avvocato di avviare un procedimento legale contro gli aggressori, ma la macchina della violenza continuerà ad agire indisturbata: avvocato minacciato, studio del successore sfasciato, intimidazione testimoni, insabbiamento procedura, impunità per gli aggressori. Tutto questo viene raccontato da Salvadori in un articolo di due pagine comparso sul quindicinale parigino «Il becco giallo» (I fasti del duce e del fascismo, 1928) e da Gaetano Salvemini in The Fascist Dictatorship in Italy (pubblicato a New York nel ’27) per spiegare come il potere fascista si fondi su violenza, asservimento delle istituzioni e autoritarismo. A quell’epoca, all’estero, si pensa ancora che si tratti di un momento transitorio e che il regime sia tutto sommato rispettabile: molte cancellerie provano simpatia per Mussolini, non avendo ancora chiara la portata del fenomeno (Churchill, all’inizio, aveva definito Mussolini «un leader ammirevole»). Serviranno i racconti dei fuggiaschi per far uscire voci e testimonianze da un’Italia completamente bloccata dalla censura.
Ai figli Salvadori il rientro in Italia è consentito ma ogni volta devono chiedere permessi e passaporti, perché per il momento il loro paese li considera nemici, il sistema li ha rigettati come oppositori ‘per nascita’. Tutto ciò comporta un senso di sradicamento, conferma la precarietà, la disparità di diritti: fanno una vita da emarginati, da esclusi, da respinti.
Rileggendo alcune dichiarazioni di Joyce, che si trovano magari in piccole prefazioni a suoi libri meno noti, in un paio di occasioni il peso di quella condizione si scorge in filigrana. È la condizione dei perseguitati, in questo caso per motivi politici, per i loro ideali, e la persecuzione non è indolore. Scrive, riflettendo sulla sua storia, in una introduzione a un libro sui suoi avi: «Non ho nostalgia per l’infanzia e la gioventù, che rappresentano per me epoche di immaturità, d’insufficiente autonomia e perciò di frustrazioni; sto molto meglio ora, con una maggiore padronanza di me e delle cose».
A cosa si riferisce? A un errore di gioventù che vedremo più avanti (un matrimonio finito male), ma anche alla sua situazione generale, credo. Alla condizione che il regime ha ritagliato per lei senza che, troppo piccola, potesse ancora opporvisi fino in fondo come avrebbe fatto dopo.
E probabilmente Joyce sta pensando a una fase della vita problematica per molti, sempre (l’adolescenza, l’incompiutezza dei primi anni da giovani adulti), ma sorprende scoprire che la magnifica oratrice, la donna capace di affascinare intere piazze, che non esita a salire su un palco per discutere e rispondere alle domande di chiunque e che in privato non si sottrae a confronti anche duri e memorabili lasciando gli interlocutori strapazzati e ammutoliti, fino a una certa età sia stata molto timida. Ed è lei stessa a raccontarlo: «Il fatto di non essere mai andata a scuola mi aveva reso difficile la comunicazione, perché innanzitutto la scuola serve non per quel che impari a fare ma per la possibilità di stare insieme agli altri, per un fatto ‘sociale’ che a me era mancato. Di fronte al mio simile avevo dei blocchi, avevo l’incapacità di comunicare, una scarsissima fiducia in me stessa. È quel che capita ai giovanissimi, credo». La Joyce silenziosa e insicura, tra la bambina allegra e desiderosa di imparare tutto e scherzare (Giacinta, nel suo diario, la descrive come una bambina di grande vitalità, serena, che «non sente che il bisogno di vivere e agire»; ne documenta gli interessi, vivissimi, il tempo trascorso ad ascoltare con stupore la zia Minnie che suona, l’ammirazione per i discorsi complessi del fratello Max, le passeggiate a cavallo con Gladys, le battute scambiate col padre, le domande che pone ai genitori e per le quali i genitori non hanno tutte le risposte) e la donna piena di verve e «gioiosa aggressività» che diventerà, è un inedito assoluto per chi l’ha conosciuta. Ma è assolutamente credibile, vero, naturale.
E frustrazione e impotenza sono sensazioni note a Joyce: il regime ha cercato di imporgliele ma lei le ha sempre combattute, cercando in tutti i modi di contrastarle con l’azione, altro principio fondativo della sua vita. È il fascismo che l’ha spinta fuori dal suo paese, le ha tolto i documenti, ha punito i suoi familiari. A questo Joyce reagisce con la rivolta. E con non poca rabbia, sentimento indispensabile per la sopravvivenza.
Dunque, la sua rivolta personale risale alla prima giovinezza. Per lei che ha sempre tenuto in grandissima considerazione il giudizio dei genitori («sarei morta piuttosto che rischiare, con un atto di vigliaccheria, di perdere la stima di mia madre»), deve essere stato pesante, a quell’età, subire la persecuzione fascista, assistere alle violenze contro i suoi cari, essere costretta all’esilio. Dall’altra parte, la saldezza delle posizioni dei genitori la tengono ancorata a principi e valori che lei condivide in toto e che le offrono una vita molto più ricca e interessante di quella che potrebbe avere se, per esempio, volesse andare a vivere con i nonni. Su questo è molto chiara e non ha tentennamenti: «Le cose che loro m’avevano insegnato per me andavano benissimo e ho continuato su quella strada. Ma a me è andata anche bene, poiché non ho mai subito quel genere di traumi che incombono su tutti i ragazzi che hanno dei veri conflitti coi genitori. Non è naturale mettersi contro i propri genitori. Mio padre, che l’aveva fatto, è rimasto traumatizzato non poco. Certo, il suo coraggio è servito a noi, ma per lui è stato un trauma terribile. Io credo fermamente che poiché lui l’aveva subito, noi ci siamo salvati».
Joyce è insofferente verso il sistema, a quell’età, non certo verso la sua famiglia. E il sistema non è solo spietato, ma si regge su persone mediocri, conformiste, piccoli burocrati a cui viene conferito un potere di arbitrarietà spaventoso. Lo racconterà bene in apertura di Fronti e frontiere, il suo testo sulla guerra di liberazione, quando narra del passaporto annullato, della fatica di avere i documenti sempre sottoposti a valutazione e giudizio, di sentirsi respinta dal suo paese.
Ma è anche vero che l’intelligenza non è necessariamente collegata all’esperienza, alla maturità: «Non so se il tempo è veramente qualcosa che matura, poiché secondo me l’intelligenza viene per illuminazioni rapide e profonde. Le cose da cui ho imparato di più non erano dovute al tempo o alla ripetizione, ma erano proprio delle luci che si accendevano».
Joyce si definisce «proletarizzata dalla lotta». Da una parte la famiglia d’origine, con gli agi, le rendite da aristocrazia terriera, il blasone, dall’altra i genitori convintamente indipendenti, libertari, che vivono da intellettuali e non vogliono saperne dei privilegi della loro classe di partenza. Commentando le foto di Portrait,Joyce scrive: «Quelle che mi sembrano più incongruenti e quasi comiche, sono le fotografie dell’infanzia e della prima gioventù. Si vede una graziosa bambinetta ben pettinata e lavata, con l’abitino buono (povera mamma, che ci cuciva tutti i vestiti riciclando vecchi cenci e ci cucinava la dieta mediterranea perché aveva tanti pochi soldi!); oppure una cavallerizza con splendidi cavalli, che sembra la figlia di un lord senza preoccupazioni economiche».
La bambina pettinata e lavata coincide solo in parte con il quotidiano della piccola Joyce a Firenze. Assomiglia di più, forse, alla ragazzina che passa le estati dai nonni in campagna, arrivando dalla città.
Pochi giorni dopo l’aggressione, minacciati dalla promessa che i fascisti sarebbero tornati per la seconda, definitiva, lezione («davano lezioni, questi», commenterà Joyce), i Salvadori lasciano Firenze. Cynthia ha un passaporto con il nome da ragazza, fatto l’anno prima per andare a trovare sua madre in Inghilterra, Willy solo una tessera del Touring Club (i documenti gli sono stati sequestrati) che gli permette di passare cinque giorni oltreconfine per ‘motivi turistici’. Partono a scaglioni, diretti al cantone di Vaud, nella Svizzera francese. Hanno individuato quella destinazione, a differenza dei loro pari fuoriusciti della prima immigrazione che scelgono la Francia, perché lì, grazie a qualche parente e a conoscenti inglesi, hanno contatti con gruppi libertari cosmopoliti.
C’è una scuola lungo il lago Lemano, in un paese chiamato Gland, la Fellowship School, una scuola che trae ispirazione dall’esperienza del Cabaret Voltaire (il locale di Zurigo sorto con intenti artistici e politici, culla di dadà, avanguardia, sperimentalismo e radicalismo). La gestisce Emma Thompson, quacchera nata nel Kent, prima donna a diplomarsi in Scienze sociali presso lo Stockwell College of Education di Londra, che dopo una vita di insegnamento tra Francia e Inghilterra con i suoi risparmi ha aperto in Svizzera una propria scuola in cui mettere in pratica le sue teorie pedagogiche in modo libero e innovativo. In questa scuola che si regge con i fondi di quaccheri britannici e di mecenati antimilitaristi, i ragazzi alloggiano in villette e hanno la possibilità di incontrare le celebrità del pacifismo di quegli anni, da Romain Rolland a Coudenhove-Kalergi, da Bertrand Russell a Pandit Nehru, più vari personaggi di passaggio che tengono lezioni interessanti e attuali. Joyce e Max la frequentano per un po’, mentre i genitori sono ospiti di amici, poco lontano. Gli scolari si applicano in attività pratiche, puliscono, cucinano; fanno belle passeggiate negli idilliaci scenari svizzeri di prati, montagne, laghi e villaggi. Arrivano da tutto il mondo e l’impostazione internazionalista è molto forte, ci si rivolge agli insegnanti con espressioni in sanscrito perché serve una lingua comune; si imparano canti e danze popolari di varie culture; si fa meditazione.
I mesi in quella scuola nuova e alternativa sono uno dei pezzi della particolarissima formazione di Joyce, non il più importante ma di sicuro il più singolare. Fino a quel momento ha ricevuto un’educazione frammentaria, essendo stata ritirata dalle elementari già nel ’23, dopo la riforma Gentile, sia per motivi economici – in casa non si riescono a pagare divise, tasse, libri di scuola di tutti – sia per l’impostazione troppo fascista della scuola italiana quanto a pedagogia e contenuti. In famiglia ha ricevuto molti insegnamenti in storia, storia dell’arte, letteratura, latino, greco, geografia, disegno, ma si sente un po’ carente nelle materie scientifiche come matematica e chimica. Dell’infanzia fiorentina rievocherà spesso la quantità di libri che i genitori si erano portati dalle Marche, il fatto che leggessero tutti insieme, anche in lingua originale («mio padre aveva una bella voce sonora ed era un ottimo dicitore»).
Ai bambini Salvadori viene dato da leggere di tutto, dalla letteratura inglese per l’infanzia di ottima qualità, ai fumetti, ai libri di storia, ai classici che i genitori ritengono adattissimi anche per la più piccola. Le fanno leggere la Divina commedia liberamente, senza particolari spiegazioni o commenti, e lei la apprezza molto e impara, arricchisce il suo linguaggio, familiarizza con la versificazione. «Un giorno che mio padre in cucina aveva alzato un po’ troppo la voce sono arrivata e gli ho detto ‘Taci maledetto lupo, consuma dentro te con la tua rabbia!’ e la lite si è risolta in risate».
Non avendo molti soldi ma tempo e cultura, Willy e Cynthia si applicano per coinvolgere la più piccola (Max e Gladys un loro percorso scolastico lo stanno facendo) in attività che non richiedano grandi spese: nel periodo fiorentino, passeggiate nei giardini di Boboli con relative osservazioni di piante e panorami, visite agli Uffizi e al museo Stibbert, nei giorni gratuiti, con racconti su arte e usi degli altri popoli, letture dei classici da Ariosto a Orazio, dal Don Chisciotte a Longfellow.
I bambini di Willy e Cynthia non sono stati battezzati ma i genitori hanno fornito una panoramica sulle religioni più diffuse, proposto la lettura di Bibbia e Vangeli, Corano, discorsi di Gautama Buddha, i detti di Confucio e i sogni di Lao Tse. È un’educazione laica, quei testi vengono letti come testi storico-poetici: «il dogma e l’assoluto ci apparivano come segni di arretratezza mentale e civile». Storicizzate le religioni e lasciati liberi di scegliere, i ragazzi non subiscono particolari richiami mistici. Visitano varie chiese di varie confessioni, moschee, sinagoghe, chiese calviniste, ma nessuna religione li affascina o colpisce in maniera particolare (solo Gladys, da adulta, si convertirà al cattolicesimo al momento del matrimonio, su richiesta del marito). La mamma propone tutti i tipi di narrazioni senza interferire più di tanto, ma un giorno che Joyce sta sfogliando una vecchia Bibbia ricca di incisioni, le indica altri libri, di storia e di poesia, dicendole che «questi hanno fatto solo del bene e la gente è diventata più intelligente e più buona. Mentre questi», riferendosi ai libri di religione, «hanno fatto ammazzare un sacco di gente. C’è in questi libri qualcosa che non va».
Poi ci sono le spiegazioni e gli esempi forniti dal quotidiano, dalle osservazioni della bambina. Già da piccolissima i genitori la portano in manifestazione, assistono insieme ai cortei dei lavoratori, degli operai della Pignone, dei reduci che chiedono la pace in piazza della Signoria e vengono dispersi dalle cariche della polizia a cavallo; Joyce osserva la folla, le bandiere rosse rimaste a terra, i gruppetti di squadristi che si affacciano dalle vie laterali, abbigliati di nero e con simboli paurosi, pugnali, teschi, striscioni con scritto me ne frego.
Quando, a sei anni, vede un gruppo di prigionieri austriaci malridotti, o legge sul «Corriere dei Piccoli» il fumetto italiano infarcito di nazionalismo e pedagogia della guerra, e chiede spiegazioni al padre, lui le dice che quegli austriaci sono come i poveri contadini che lavorano per il nonno: i Gegé, i Nemo, il figlio della Cognigna, mandati al fronte esattamente come i soldati nemici. Le spiega, da neutralista com’è, cos’è un fronte, cos’è un prigioniero, cos’è un soldato.
Quando, a nove anni, durante la campagna elettorale del ’21, una campagna durissima segnata da violenze terribili, viene sorpresa a scrivere su un muro abbasso mussolini! abbasso il fascio e viva la repubblica! da un fascista che le molla due sberle, e corre dalla madre per chiedere, orgogliosa, se ha fatto bene a non cedere a quello che pretendeva immediata ritrattazione, la madre le risponde: «Certo che hai fatto bene». Più avanti nella vita, quando sarà a sua volta madre, capirà quanto può costare a un genitore rispondere così in circostanze del genere.
Joyce ama e stima profondamente i genitori, li ammira. E non vuole assolutamente deluderli.
Terminata un po’ malamente l’esperienza con la ‘scuola della fratellanza’ (non sempre, purtroppo, queste istituzioni sperimentali funzionano perfettamente) e preferendo i genitori, a quel punto, una cultura più tradizionale per i figli, i Salvadori girano per un po’ in cerca di una sistemazione svizzera meno precaria.
La trovano lì vicino, a soli cinque chilometri. Begnins è un villaggio di meno di mille anime ma ospita otto castelli che sono in realtà ville fortificate, con torri e smerli, restaurate e abitabili. Si stabiliscono nel castello di Martheray, un edificio a due piani con una splendida vista sul lago e sul Monte Bianco, prendendolo in affitto a una cifra accettabile dal vignaiolo che l’ha avuto in eredità. È una casa dagli spazi enormi: corridoi larghi cinque metri e lunghi trenta, saloni che potrebbero ospitare duecento persone, una cucina gigantesca con un immenso piano di lavoro su cui loro appoggiano un fornelletto da campeggio. D’inverno ci fa un freddo tremendo e si raccolgono attorno al focolare in cucina, aiutati da uno scaldabagno elettrico che permette di rifugiarsi in una confortevole vasca d’acqua bollente quando proprio non si resiste. Le ampie soffitte diventano palestra di giochi per i ragazzi. Joyce occupa la stanza rotonda più alta, dove si chiude a declamare le poesie che viene scrivendo.
La scrittura, la poesia, l’interesse per la lettura, sono, diremmo oggi, nel Dna di Joyce. Non solo per via dei genitori, ma anche grazie alla nonna materna. Margaret Collier, Madame Galletti di Cadilhac, ha scritto due libri noti anche in Inghilterra: Our Home by the Adriatic (1886, Richard Bentley and Son) e Babel (1887, William Blackwood and Sons). Entrambi i libri, il primo una sorta di saggio antropologico su quello strano e ignoto angolo di mondo chiamato Marche e l’altro un vero e proprio romanzo con protagonista una giovane marchigiana che si reca a Londra, hanno avuto un buon successo e diverse ristampe.
Incoraggiata dai genitori Joyce, sin da piccola, scrive componimenti e già a dieci anni pubblica delle poesie su un giornalino mensile illustrato della casa editrice Claudiana di Firenze, «L’amico dei fanciulli», con cui continuerà a ‘collaborare’ per qualche anno. Scrive e pubblica qualche esercizio poetico anche per «La strenna dei fanciulli», una pubblicazione per bambini che le famiglie regalavano ai figli a Natale. Anche in Svizzera continua a pubblicare le sue poesie, alcune per la Fellowship School, altre per la rivista «Unsere Jugend».
Nella formazione di Joyce gioca un ruolo importantissimo la conoscenza delle lingue. Con i genitori mezzi inglesi, si parla l’inglese; grazie ai vari giri in Svizzera e al papà che ha studiato a Lipsia, si impara il tedesco; il francese si apprende in un attimo, nel cantone di Vaud, e si studia perché in quegli anni è la lingua straniera più insegnata e richiesta anche nelle scuole italiane. Willy, infatti, non ha assolutamente rinunciato a un’educazione ‘italiana’ per i suoi figli: considera un diritto irrinunciabile rimanere italiani, seppure temporaneamente esuli in Svizzera per cause di forza maggiore, e punta proprio a lottare «affinché l’Italia diventasse un paese dove gente come noi potesse vivere e lavorare», scriverà. Non intende alienarsi più del dovuto, dunque, dal suo paese d’origine e spinge i figli a dare gli esami, da privatisti, nelle Marche. Joyce torna per sostenere la licenza ginnasiale a Fermo e Max quella liceale a Macerata (dove anche Joyce farà la maturità nel ’30).
È in occasione di uno di quei ritorni in Italia dai nonni che Joyce visita Napoli per la prima volta. Ha diciassette anni e bussa a palazzo Filomarino per incontrare Benedetto Croce, amico di Willy per via di una corrispondenza che hanno intrattenuto tra filosofi discutendo di Spencer. Annunciata dunque da una missiva del padre, va a sottoporre al celebre filosofo alcuni suoi scritti: poesie, racconti, un dramma a sfondo politico.
Don Benedetto accoglie molto favorevolmente i lavori di Joyce. È colpito dalla personalità della signorina Salvadori (così la chiama), dalla qualità dei suoi versi che elogia molto e che si adopererà per far pubblicare su «La Critica» e più tardi, in raccolta, dal suo editore napoletano Ricciardi.
Il ritratto che ne fa Joyce è un po’ irriverente ma molto affettuoso ed efficace: «Don Benedetto era un uomo piccolo, con una testa a pera e un naso molto grande. Leggeva con rapidità incredibile, voltando le pagine una dietro l’altra, col naso che quasi toccava il foglio; tanto che pareva che non usasse gli occhi, ma che aspirasse le parole scritte con la proboscide».
Nasce un’amicizia che diventerà anche, in qualche modo, collaborazione politica, seppur con prospettive e posizioni diverse.
La casa di Croce le ricorda quella del nonno, lei chiama entrambe le sue «oasi di benessere», forse perché sono grandi, comode, sicure. Differentemente dagli ambienti che la sua famiglia frequenta di solito (vagoni di terza classe, latterie in cui ci si sfama con una tazza di latte, sedi dell’Esercito della salvezza per avere una cuccetta e una scodella di minestra durante i giri svizzeri, anticamere di questure dove si aspetta per ore il rinnovo di un documento, case di fortuna), le dimore di questi proprietari terrieri sono palazzi forniti di tutti i comfort. Villa Marina dei conti Salvadori, una costruzione in stile neorinascimentale risalente al Settecento, con i suoi viali alberati, le piante, gli animali, la buona cucina, le appare più accogliente. Palazzo Filomarino risulta più imponente e freddo: «un susseguirsi di stanze abbastanza scure interamente tappezzate di libri, con tavoli coperti di carte e sedie dallo schienale rigido». Non c’è, all’apparenza, nulla di «decorativo», nota Joyce, nessun oggetto riconducibile a un gusto femminile nonostante la presenza delle molte donne di casa Croce, la signora Adelina e le quattro figlie.
Gli animali a cui si riferisce Joyce parlando della casa del nonno sono principalmente cavalli, per i quali nutre una passione che condivide con sua madre (Cynthia è sempre stata provetta cavallerizza, capace di domare puledri con la gentilezza, e continuerà a usare sempre i cavalli per spostarsi una volta tornata nelle Marche, persino da anziana, visto che a quell’epoca saranno ancora il principale mezzo di locomozione), ma sono anche motivo di conflitto con le nobili zie: capita che da piccola Joyce venga esclusa da tavola perché puzza di stalla. Lei infatti passa ore nelle mangiatoie con i cavalli, accudendoli, nutrendoli, offrendo fave e zucchero, anche recitando per loro le sue poesie di bambina. Ha un pessimo rapporto con l’aiuto cocchiere, tal Mustafà che ambirebbe a guidare la Lancia del conte Salvadori, una delle prime automobili, bellissima, con gli strapuntini dietro, nera lucida, se il posto non fosse già preso dallo chauffeur Lanfroy, un reduce decorato. Mustafà tratta male i cavalli e Joyce non lo sopporta. Lo detesta anche per il suo servilismo. Il giovane garzone di stalla, ossequioso verso la proprietà e devoto alla causa dei padroni, sarebbe diventato di lì a breve il capo di una squadraccia dedita a picchiare pacifici socialisti e repubblicani in strada e nelle case. Il periodo è quello delle agitazioni degli operai e dei contadini e anche se nel piceno non ci sono stati grossi movimenti come nelle campagne del Nord, qualcosa si teme.
Quando d’estate tornano a Porto San Giorgio, i piccoli Salvadori sono colpiti dall’ingiustizia della disparità di classe tra i loro parenti rentiers e il paese popolato da mezzadri, artigiani, piccoli commercianti, pescatori. Loro sono abituati, a Firenze, a frequentare persone di ogni estrazione sociale senza porre steccati o esclusioni: le famiglie con cui intrattengono rapporti sono per lo più famiglie di operai, impiegati, artigiani. E sì, a Cynthia capita di frequentare anche signore inglesi e salotti, ma quando la moglie di un agrario umbro, la contessa Grace di Campello, le dice «Ma Cynthia, tu dovresti essere col fascismo; il fascismo difende la nostra classe», lei le risponde: «La vostra non è più la mia classe».
Invece, nelle Marche, la distinzione tra padroni e mezzadri, tra potenti e sfruttati, è molto netta, fa parte dell’ordine sociale dell’ex Stato pontificio ancora ben radicato. I nipoti ‘fiorentini’, però, quando tornano da quelle parti, criticano il nonno conte, i suoi silenzi e la sua bellissima papalina ricamata che indossa in casa, il suo incedere autoritario che però nasconde inanità (la proprietà è gestita, di fatto, da fattori e contabili), lo prendono in giro perché legge Salgari, considerano quei loro parenti arretrati e il loro modo di vivere un po’ assurdo, anacronistico.
Ricordando l’estate del 1920 e i giorni caldi dello sciopero generale, Max dirà di essere rimasto molto impressionato dalla disuguaglianza dell’ambiente sangiorgese. Quando una delegazione dei ‘sovversivi’ si era recata alla villa di suo nonno per esporre le proprie istanze, differentemente dai suoi cugini, lui ne aveva appoggiato le ragioni. In paese c’erano molti socialisti e repubblicani, una società operaia e la camera del lavoro. Echi del biennio rosso erano arrivati sin lì. La rivolta di Ancona (distante poche decine di chilometri) del giugno 1920, con la ribellione armata dei bersaglieri che non volevano partire per l’Albania, ne era stata uno degli episodi più significativi. Era stata sostenuta da una parte consistente della popolazione, dai lavoratori del porto, dagli anarchici che in città costituivano una presenza attiva e numerosa sin dalla fine dell’Ottocento, accresciuta nella settimana rossa di Errico Malatesta del 1914; da Ancona, la sommossa si era estesa anche ai paesi vicini e c’erano stati scontri in tutte le Marche, in Romagna, in Umbria, scioperi di solidarietà a Roma e Milano, blocchi ferroviari. La rivolta, che aveva lasciato morti sul campo sia da una parte sia dall’altra, era stata repressa a colpi di cannone, ma aveva avuto come effetto la rinuncia all’occupazione dell’Albania.
È così che dalle parti dei Salvadori, un po’ più a sud appunto, si parlava di fare di villa Marina una casa del popolo, e Joyce ricorda che vi era stato un piccolo assalto bonario alle cantine della villa da parte di alcuni socialisti che si erano rivolti così al nonno: «Sor conte, volemo spartì?». La cosa si era risolta senza incidenti, ma la famiglia era rimasta molto scossa e il pomeriggio stesso il conte aveva chiamato a raccolta gli altri proprietari terrieri della zona per «armare un loro piccolo esercito privato» diventando così uno dei primi finanziatori del fascismo in zona.
Joyce bambina ha grande simpatia per i contadini-reduci che non le parlano delle loro esperienze di guerra ma sorridono con franchezza, sono amichevoli e «giocavano con i bambini come se i bambini fossero importanti e preziosi». Al contrario, non sopporta gli ufficiali-reduci che capitano a casa del nonno, arroganti e odiosi e che considerano i bambini una seccatura.
Le persone a cui vuole bene e che rievoca spesso come esempio di onestà e correttezza sono quelle del ‘popolo’. Come la Cognigna, moglie del vergaro che abita in una casa colonica vicina alla villa; Filomena, una marinara che vive in una capanna sulla spiaggia; il giardiniere Nazzareno, che è un vecchio socialista; Nannì Felici, un fabbro anarchico dall’invettiva sempre pronta.
Porto San Giorgio è anche questo, un villaggio di persone pacifiche e laboriose, ed è un posto in cui la famiglia Salvadori ha un ruolo importante per varie ragioni. È stato infatti il bisnonno Luigi a bonificare decine di ettari di terreni, per dodici chilometri di costa, frutto della regressione marina di fine Settecento che ha interessato il tratto di spiagge sotto Fermo, tra il porto e il Tenna. Il bisnonno era stato sindaco per più mandati, priore del porto, imprenditore agrario moderno e innovativo. A dar lustro al territorio, anche suo figlio Tommaso, nominato da Joyce in varie opere come l’unico intellettuale e studioso della famiglia prima di Willy: laureato in Medicina a Pisa, aveva preso parte alla spedizione dei Mille, poi era diventato un celebre ornitologo (a lui sono dedicati i nomi di varie specie di uccelli, tra cui un’anatra della Papuasia, oltre a un fagiano, uno scricciolo, un canarino); autore di numerosissime opere scientifiche e collaboratore dei cataloghi del British Museum, aveva riorganizzato la raccolta del museo zoologico di Torino, uno dei più importanti d’Europa, di cui era stato vicedirettore per una vita.
Ottenuto dunque da privatista il diploma al liceo classico Leopardi di Macerata, Joyce, sulla scia del padre che aveva a suo tempo studiato con i migliori professori di Lipsia, decide di iscriversi all’università di Heidelberg, la cui facoltà di Filosofia a quell’epoca è la più prestigiosa d’Europa. Per farlo, deve mettere insieme un po’ di soldi e trova impiego come istitutrice e cameriera presso una famiglia napoletana a Bengasi, dove rimarrà sei mesi soffrendo per la convivenza con quei suoi datori di lavoro piuttosto ottusi e ignoranti. Anche i suoi fratelli lavorano. Max in una fabbrica poi in una mensa per studenti, Gladys, laureata a Ginevra in Psicologia, si occupa di bambini handicappati, attività all’avanguardia per l’epoca che poi coltiverà tutta la vita, anche una volta tornata nelle Marche.
Ha ancora diciotto anni quando, messo da parte un gruzzolo sufficiente, Joyce torna in Italia, passa dalla Svizzera per salutare i genitori, e va nella Germania di Weimar.
A Heidelberg vive in un pensionato con altre ragazze, si mantiene insegnando francese e italiano in un collegio o facendo la babysitter, frequenta le lezioni dei migliori professori, tra cui l’esistenzialista Jaspers e il neokantiano Rickert. È in contatto con gli studenti di sinistra (i sozi,i giovani socialisti e socialdemocratici che si oppongono ai nazi), frequenta un maneggio in cui può cavalcare in cambio di lavori da scuderia. Ogni tanto esce con dei ragazzi per andare a ballare. Fa, insomma, vita universitaria.
Una volta riceve una visita di Willy che, per farle un regalo, la porta a sentire un concerto al festival di Bayreuth: c’è Toscanini che dirige il Lohengrin di Wagner, in un teatro in cui si esibiscono i massimi maestri dell’epoca. Joyce, però, non apprezza molto i toni che le ricordano le marce di un reggimento («il senso dell’umorismo di Wagner non era molto sviluppato, c’era un sottofondo razzistico-militaristico») e la lunghezza estenuante dell’opera, né le piacciono le facce che vede attorno, dall’aria già nazista.
Ci sono le corporazioni studentesche, a Heidelberg, le confraternite che organizzano dei duelli al pugnale, i Mensuren, illegali ma tollerati in quanto folkloristici e tradizionali, importanti per la formazione patriottica del bravo tedesco.
Nel ’32, poi, in città arriva Hitler; il borgomastro gli ha concesso l’uso della Stadthalle e gli studenti di sinistra si preparano a riceverlo, pensando di organizzare un contraddittorio. In quanto ‘esperta’ di opposizione al fascismo, per averlo sperimentato in prima persona in Italia da perseguitata, Joyce viene scelta dai compagni come loro portavoce. Dovrà illustrare le loro ragioni e butta giù anche una scaletta per il suo intervento, ma le cose vanno diversamente. Già la sera prima del comizio si capisce che aria tira, con i bivacchi di nazisti in uniforme che occupano la città tra bevute e canzoni tra il patriottico e l’osceno. La descrizione di Joyce di quelle ore è l’istantanea della tenebra che, già apparsa in Italia, si è fatta ancora più scura e paurosa e comincia ad allungarsi su tutto il continente senza trovare opposizione:
L’indomani la città era in stato d’assedio, riempita di camicie cachi e vessilli rossi, i negozi erano chiusi, le strade bloccate, la gente tappata in casa. Dal balcone del municipio, altoparlanti potentissimi diffondevano ovunque il nevrotico, cadenzato abbaiare della voce di Hitler, il fragore degli applausi, l’esplodere delle canzoni. Altro che contraddittorio!
Ero molto scossa. Corsi all’università in cerca dei miei professori. Ne trovai un paio all’entrata, non mi ricordo nemmeno chi fossero, e concitatamente descrissi loro quel che stava accadendo.
Mi guardarono con un sorriso di paziente sopportazione. «Non se la prenda», mi dissero. «Quando quei ragazzoni si saranno sfogati, tutto tornerà come prima».
La loro ottusità mi sconvolse; e quando trovai Jaspers e Rickert, la risposta non fu molto diversa. Feci allora alcune riflessioni sugli accademici, le università e la cultura libresca. Forse, la cultura che mi serviva, avrei dovuto cercarla da un’altra parte.
Una prima fase della vita di Joyce si chiude così, con il rigetto per l’establishment culturale delle accademie e delle università, del sapere ufficiale ai massimi livelli di raffinatezza del pensiero che però non ha saputo o voluto riconoscere i segni della tragedia incombente neanche quando ce li ha avuti sotto gli occhi. Distratto e miope.
2
Un piccolo passo indietro per collocare, nelle varie zone d’Europa in cui si muovono e nelle diverse svolte della loro esistenza, tre dei protagonisti di questa storia che stanno per legarsi gli uni agli altri.
Dunque, da una parte abbiamo i fratelli Salvadori, Joyce e Max, e dall’altra Emilio Lussu. Il punto comune sarà Giustizia e Libertà, il movimento antifascista al quale i Salvadori aderiranno da subito. Sorto a Parigi nel 1929 intorno a un gruppo di esuli fuggiti dal confino e dalle squadracce mussoliniane, ha come obiettivo l’insurrezione e il rovesciamento del regime.
Di Joyce sin qui abbiamo detto. Lasciamola per un attimo, per capire invece chi è Emilio Lussu e cosa rappresenta ai suoi occhi nel momento in cui le loro vite si incrociano la prima volta.
Quando Joyce incontra per la prima volta Emilio a Ginevra, nel 1933, è consapevole di trovarsi al cospetto di un mito: l’uomo a cui deve consegnare un messaggio segreto per conto di Giustizia e Libertà è un prestigioso rivoluzionario ricercato dalle polizie fasciste di tutta Europa.
Carismatico, coraggioso, indomito, Lussu è un figlio della Sardegna più profonda. Nato ad Armungia nel 1890, laureato in Giurisprudenza a Cagliari, amatissimo comandante della brigata Sassari (nella prima guerra mondiale ha ricevuto ben quattro medaglie dopo quattro anni di trincea per azioni sull’altipiano del Carso e della Bainsizza), ex deputato del Partito sardo d’azione, ha pagato cara, fin lì, la sua militanza, ma ha anche ottenuto una gran bella vittoria su un regime che sembra inattaccabile.
Capelli e occhi neri, slanciato, elegante, occhiali dalla montatura di metallo, baffi e pizzetto, sguardo ironico e tagliente, in quel periodo si fa chiamare ‘Mister Mill’ e vive in clandestinità. Agli occhi dei giovani dell’epoca, lo dice Joyce stessa, è un personaggio leggendario, per le gesta in Sardegna e per la sua avventurosa fuga da Lipari.
I fatti della Sardegna sono questi: la sera del primo novembre 1926, centinaia di fascisti hanno assediato la casa dell’avvocato Lussu. Non è un’azione isolata, è solo una delle rappresaglie che bande di fascisti organizzano in tutta Italia – devastando case, sedi di giornali, picchiando e assaltando – non appena si è diffusa la notizia dell’attentato fallito a Mussolini, avvenuto il giorno prima a Bologna per mano del sedicenne Anteo Zamboni. Lussu, che è un antifascista, ha partecipato alla secessione dell’Aventino dopo l’assassinio di Matteotti, è antimonarchico, ha lavorato a un progetto federalista-rivoluzionario per unire azionisti, repubblicani e socialisti, è nel mirino dei fascisti della sua città: l’ordine è di saccheggiarne la casa e linciarlo sul posto. L’organizzazione dell’assalto, nella sede del fascio, è durata tutta la giornata per cui c’è stato tempo e modo, per Lussu, di ricevere informazioni da voci amiche e preparare una reazione. Gli amici gli consigliano di scappare ma lui decide di restare in casa, situata nella piazza più centrale di Cagliari, lasciandola ben illuminata, «per dare un esempio di incitamento alla resistenza».
Scende in strada per vedere che succede, sente gli squilli di tromba che chiamano a raccolta i fascisti mentre la piazza si fa deserta. Risale, manda via la domestica. La città continua a serrarsi, i negozi abbassano le saracinesche, i cinema si svuotano. Al ristorante vicino casa dove va a pranzare, il cameriere – che è stato un suo soldato durante la guerra e ora è diventato fascista ma nutre ancora grande rispetto del capitano – lo scongiura di partire subito. La sentenza contro Lussu è stata emessa e lo sa tutta Cagliari. Persino gli inquilini del suo palazzo, tra cui un magistrato di Corte d’appello, si chiudono e tacciono terrorizzati.
«Incominciai a preparare la difesa. Un fucile da caccia, due pistole da guerra, munizioni sufficienti. Due mazze ferrate dell’esercito austriaco, trofei di guerra, pendevano al muro». Due giovani amici e compagni si presentano per aiutarlo ma lui li congeda senza discutere. Spegne la luce e si avvicina alla finestra. Assiste alla devastazione della sede della tipografia del giornale «Il Corriere» all’angolo, poi a quella dello studio dell’avvocato Angius.
Quindi risuona il grido «Abbasso Lussu! A morte!».
È sorpreso di riconoscere tra gli assalitori persone che conosce bene, di cui è stato amico o compagno di scuola.
La colonna si divide in tre parti e l’attacco arriva da tre punti: una squadra sfonda il portone e sale dalle scale, una cerca di entrare da un cortile sul retro, l’ultima si arrampica dai balconi. «Confesso che, nella mia vita, mi sono trovato in circostanze migliori. I clamori della piazza erano demoniaci. La massa incitava gli assalitori dalle finestre con tonalità di uragano».
Lussu lancia un primo avviso, grida «Sono armato!» da dietro le persiane.
Poi, mira e spara al primo che arriva sul balcone. Un giovane fascista, Battista Porrà, colpito a morte piomba giù, sul selciato della piazza. Gli altri scompaiono in un lampo.
Nonostante lo svolgimento dei fatti dimostri la legittima difesa (e infatti verrà assolto) e nonostante l’immunità parlamentare, Lussu viene portato in carcere. Ci vorrà un anno prima di arrivare a sentenza ma l’ordine di scarcerazione immediata è seguito da un ordine di domicilio coatto. Lussu è condannato alla pena di cinque anni di confino per misure di ordine pubblico e definito «avversario incorreggibile del regime».
In quell’anno di carcere si è ammalato di pleurite, non ha ricevuto cure adeguate e ha sviluppato una lesione tubercolare. Sebbene dichiarato intrasportabile da un medico, violando il regolamento carcerario Lussu viene spedito a Lipari. Non gli permettono neanche di salutare la madre. Lungo il percorso verso l’imbarco incontra solo militari schierati e armati: le banchine sono deserte e solo un pescatore, ritto su una barca in mezzo al mare, grida «Viva Lussu! Viva la Sardegna!» prima di approdare in porto e finire a sua volta accerchiato dalla polizia.
Lussu viene imbarcato febbricitante e provato. Sperano che muoia durante la traversata.
Due giorni dopo, invece, approda a Lipari e, seppure sfinito e ammanettato con doppia catena, riesce a scendere sulle sue gambe.
Ad attenderlo, una fila di camicie nere che improvvisano un’accoglienza intonando il de profundis, ma anche compagni e amici che lo salutano con affetto e rispetto. Sull’isola c’è un piccolo drappello di ex deputati come lui, è come se a Lipari si fosse ricostruito in scala ridotta il parlamento di un tempo. Ci sono democratici, repubblicani, liberali, cattolici, c’è il capo della massoneria, e naturalmente ci sono socialisti, comunisti, anarchici.
I colleghi gli fanno subito notare che è seguito da agenti in borghese. Lussu è infatti considerato molto pericoloso dal regime ed è stato disposto per lui un trattamento speciale.
Non che manchi la sorveglianza, a Lipari. Isola bellissima, così come Ponza, Ustica, Favignana, Pantelleria, Lampedusa, Tremiti, dal novembre del ’26, data dell’entrata in vigore delle leggi eccezionali fasciste, è destinazione di confino. In quegli anni è la principale colonia per gli oppositori politici. Il paese è piccolo e gli abitanti non si mischiano ai confinati. La natura è amena, il clima d’estate è molto caldo, il mare spettacolare, ma quel posto è un carcere a cielo aperto.
Tutto attorno, a terra e in acqua, guardie, vedette, pattuglie, spioni, ronde. In porto, mas armati di mitragliatrice e riflettori; al largo, incrociano motoscafi veloci e imbarcazioni a vela e a motore; sull’isola quattrocento uomini armati sorvegliano cinquecento prigionieri, più o meno un agente ogni due confinati. Tra i deportati vi sono anche pericolosi agenti provocatori, ex fascisti in punizione disposti a ogni bassezza pur di riguadagnare stima e favori dei loro vecchi capi.
La vita è scandita da orari da rispettare, c’è un coprifuoco, ci sono ronde di controllo che passano per le case abitate dai confinati. La corrispondenza in arrivo e partenza, compresi libri e riviste, è censurata e vistata. È proibito parlare di politica, ma di cosa parleranno mai dei deportati per motivi politici? E dunque il modo si trova. Sostituendo la parola ‘fascisti’ con la parola ‘polpi’, si passano ore ad analizzare la vita dei polpi, la loro organizzazione sociale, il loro comportamento in natura e via così.
Il controllo su Lussu è molto pesante: «Essere di continuo pedinati sembra una cosa indifferente. Invece è molto penoso e irritante. Bisogna avere i nervi a posto per non diventare nevrastenici, sentendo sempre dietro di sé degli uomini che vi seguono come la vostra ombra. Uscire di casa ed essere seguiti: avvicinarsi ad un amico ed essere seguiti: parlare ed essere uditi: fermarsi e sentire che anche l’altro si ferma; entrare in un caffè, in un negozio, in una casa, e vedere sempre la stessa faccia; non poter sorridere; stringere la mano a un passante, non poter ricevere in casa un amico, senza che la vostra ombra ne prenda nota, questo diventa in breve un’oppressione e un incubo».
Dal primo momento in cui ha messo piede sull’isola, Lussu ha avuto una sola idea in testa: la fuga. È convinto che, con un buon piano e complicità esterne, è possibile «evadere da qualunque posto, anche da una fortezza», ma nessun confinato è mai riuscito nell’impresa.
Ci vorranno anni, vari tentativi, un gran lavoro di preparazione. Alla fine, scapperanno in tre: il capitano sardo considerato pericoloso agitatore politico, un giovane intellettuale fiorentino, il nipote di un ex presidente del consiglio.
Emilio Lussu, Carlo Rosselli, Fausto Nitti.
Destinazione Francia.
Nel libro La catena, scritto subito dopo l’arrivo a Parigi, Lussu riserva alla fuga vera e propria un solo capitolo. Gli preme di più spiegare il contesto, raccontare le condizioni di vita dei confinati, ricostruire il clima che ha portato alla nascita delle leggi eccezionali. Però gli è chiaro che il raid di Lipari è stato «un sasso gettato al centro di un lago calmo in una giornata di sole. Attorno al punto toccato dal sasso, i cerchi si formano, si moltiplicano, si estendono, e ridanno animazione all’immobilità, vita improvvisa alla morte apparente», e sa, perché molti sono interessatissimi all’aspetto ‘sportivo’ e chiedono tutti i dettagli, che «il giovane lettore che s’interessi di avventure romanzesche ha probabilmente saltato le pagine sul tribunale speciale, e attende la fuga».
C’è il contesto politico e c’è l’azione.
O anche, c’è la cornice e c’è l’opera d’arte. Perché la fuga è davvero rocambolesca, come viene spesso definita per sottolinearne l’audacia e la dinamica, ed è un capolavoro, per riuscita ed effetto. E per ciò che segue, ossia la nascita del movimento che da lì trae ispirazione e forza. Una volta arrivati in Francia i protagonisti, intervistati dai giornali di tutto il mondo, non possono svelarne tutti i dettagli (uno dei fondamentali ‘complici’, Gioacchino Dolci, viene chiamato Caio perché il nome non si può ancora dire), ma un libro uscito nel 2009, Lipari 1929 di Luca Di Vito e Michele Gialdroni, ne ricostruisce accuratamente la preparazione con documenti, lettere, testimonianze, accidenti, tentativi, dispacci e dati tecnici. Ed è una storia avvincentissima, piena di suspense.
L’ex militare Lussu, appena messo piede sull’isola, ha immediatamente individuato i punti strategici; da quei luoghi non passerà mai, per non destare sospetti. Comincia a rispettare orari ferrei e si impone una disciplina da cui non derogherà mai – uscite alla stessa ora, passeggiata quotidiana in quella che la polizia ritiene la zona più adatta all’evasione ma che è all’opposto di quella prescelta, luoghi fissi da frequentare per apparire prevedibile e rassicurante. Come alloggio, sceglie una casa danneggiata dal terremoto (Nitti racconta che in una stanza c’era un buco al centro del pavimento e si doveva camminare rasente al muro, per andare in bagno bisognava fare gli equilibristi su una passerella) che ha il pregio di avere una terrazza alta da cui si può osservare il mare e controllare i quattro punti cardinali. Dispone, inoltre, di quattro vie di fuga attraverso i tetti.
In quella casa passerà molto tempo, in inverno, colpito da una ricaduta della tubercolosi. È a letto febbricitante, quando riceve la prima visita di Carlo Rosselli, appena sbarcato a Lipari. È il gennaio del 1928, Lussu racconta: «Venne a trovarmi il giorno dopo il suo arrivo. Sorridente, con la guida di Lipari in mano, sembrava un turista. L’isola gli faceva dimenticare l’aria compressa dal carcere». Il ventottenne Rosselli, infatti, è appena uscito di prigione, dove ha scontato dieci mesi di reclusione per aver favorito, insieme a Sandro Pertini e Ferruccio Parri, l’espatrio di Filippo Turati in Corsica.
Lussu e Rosselli diventano subito amici. Confinati sull’isola, si vedono quotidianamente, ma anche dopo, per circa sei anni, dal ’29 al ’34, non passerà giorno senza che siano insieme, concentrati a progettare, elaborare, discutere, confrontarsi. Da militanti, con obiettivi ben precisi. Da azionisti.
Lussu, rievocando la figura di Rosselli, dirà: «Un temperamento d’eccezione il suo. L’ho sempre visto senza riposo e senza stanchezza, a Lipari come a Parigi. Solo un uomo di quella tempra e di tanto entusiasmo morale poteva dare tanto prestigio all’antifascismo e a un movimento come Giustizia e Libertà».
Da subito, Lussu e Rosselli parlano di fuga e continueranno a parlarne. Rosselli: «Abbiamo poi sempre parlato di fuga, fino alla noia, fino alla reciproca esasperazione. Fuga con variazioni, in tutti i tempi. Passati, presenti, futuri, condizionali. Fughe in barca, in motoscafo, in piroscafo, in aeroplano, in dirigibile.
Giorgia Antonelli | doppiozero | 17 gennaio 2023
Quando si entra nel cimitero acattolico di Roma si viene sopraffatti dalla bellezza e dalla quiete, e in mezzo ai dedali di percorsi fra tombe di personaggi più o meno celebri, quasi non si fa caso a una piccola pietra miliare posta proprio all’ingresso, per terra, su cui si legge «In memoria di Joyce Salvadori 1912 – 1998 Emilio Lussu 1890 – 1975». È qui che sono custodite, insieme per l’eternità così come insieme avevano vissuto, le ceneri di due dei più importanti protagonisti della Resistenza italiana.
La storia della loro vita è la geografia di una guerra e al contempo la mappa di un amore, e se per tutta la loro esistenza l’importanza politica e letteraria di Emilio Lussu (scrittore, partigiano, padre costituente e deputato) sembra aver offuscato il ruolo di Joyce nella scrittura e nella Resistenza, lasciando la conoscenza di questa importantissima figura del ‘900 a un pubblico ristretto di intellettuali, adesso la bella biografia scritta da Silvia Ballestra per Laterza, La Sibilla, vita di Joyce Lussu, restituisce al grande pubblico la consapevolezza di un personaggio storico, culturale e letterario di prim’ordine.
Ballestra ha svolto un accuratissimo lavoro di ricostruzione della vita di Lussu, basandosi non solo sui documenti e sui libri, ma anche sulla testimonianza diretta di Joyce, conosciuta quando Ballestra era poco più che ventenne e a cui è rimasta legata per tutta la vita da un intenso rapporto di amicizia e condivisione di intenti letterari, oltre che dalle comuni origini marchigiane.
Ballestra segue dunque le orme di Beatrice Gioconda Salvadori (detta Joyce) fin dalla nascita, avvenuta a Firenze l’8 maggio del 1912, ultima dei tre figli di Guglielmo Salvadori Paleotti (detto Willy), filosofo, professore di filosofia e traduttore italiano di Herbert Spencer, e di Giacinta Galletti di Cadilhac (detta Cynthia), donna coltissima e poliglotta, che trasmette a Joyce il Collier’s pluck, la grinta che proviene dal ramo femminile inglese trapiantato nelle Marche della sua famiglia: entrambi provengono da nobili famiglie di possidenti terrieri marchigiani ed entrambi hanno rinnegato le loro famiglie d’origine, ritenute distanti dagli ideali socialisti che li animano.
È dunque in seno alla famiglia che Joyce inizia a sviluppare la propria coscienza politica, segnata, appena dodicenne, dal pestaggio del padre e del fratello maggiore Max a opera dei fascisti. È dal ’24 dunque che Joyce conosce la fuga: prima in Svizzera, da cui fa la spola con le Marche, al seguito dei genitori, poi in Africa per lavoro e in Germania per studio.
Questo primo episodio di violenza lascia una traccia profondissima nella coscienza della giovanissima Joyce, la stessa consapevolezza che attraverserà in quegli anni altre scrittrici italiane della resistenza come Alba de Céspedes e che porta in sé una domanda che è una rivoluzione epocale: dove sono le donne?
Mentre gli uomini combattono, vanno in guerra, si armano per la Resistenza e subiscono attacchi, le donne restano a casa, al sicuro. Cosa possono fare le donne? Moltissimo, sembra mostrarci Joyce con l’esempio della sua vita, fedele al principio dei suoi dodici anni, quando «giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anche io».
Ed è proprio questo che viene fuori dalla scrittura di Ballestra, il ritratto di una donna forte, determinata, senza peli sulla lingua tanto da usare liberamente il turpiloquio e capace di raccontare le esperienze umane senza tabù, dalla guerra all’aborto del primo figlio di Emilio – che non poté tenere perché fuggitiva – al parto di suo figlio Giovanni, in grado di arringare le piazze con determinazione e mantenere il sangue freddo nelle situazioni più controverse, capace di lasciare a guerra terminata il figlio piccolissimo alle cure di sua madre Giacinta nelle Marche per girare la Sardegna – terra del suo amato Emilio – a cavallo, per parlare con le donne sarde e smuoverle dal loro torpore, per instillare in loro una coscienza politica.
Joyce non è sempre stata così, racconta Ballestra, è stata timida in giovinezza, ma è stata la vita a forgiarla. Scrive Ballestra: «È il fascismo che l’ha spinta fuori dal suo paese, le ha tolto i documenti, ha punito i suoi familiari. A questo Joyce reagisce con la rivolta. E con non poca rabbia, sentimento indispensabile per la sopravvivenza».
Ci vuole coraggio, determinazione, e anche la forza di sfidare le convenzioni per essere Joyce Salvadori e diventare Joyce Lussu: mettere a tacere un primo matrimonio fallito nelle Marche degli anni ’30, legarsi per la vita e negli intenti a un rivoluzionario e seguirlo e sostenerlo per tutta la vita, sopportare i pettegolezzi che vedevano nella caparbietà del suo carattere e nella scelta di essere una donna libera i tratti di una poco di buono, ma Joyce non è una che si fa piegare dalle convenzioni sociali, né dai ruoli convenzionali e precostituiti. È una donna bellissima, colta e tenace che anche nei momenti più duri – la depressione che segue l’aborto, la lontananza da Emilio, dal fratello Max e dai suoi familiari, che rivedrà solo a guerra finita – non smette di apprezzare le piccole cose belle che la vita può offrire, quelle che restituiscono dignità anche nella disperazione: «i fiori, gli animali, il paesaggio, il buon cibo, le case accoglienti, l’aspetto ordinato di capigliatura e vestiario», sono questi gli elementi che rendono possibile resistere, combattere, perché «la lotta – scrive Ballestra – è un rimedio alla disperazione, l’azione è un richiamo morale ma anche di sopravvivenza alle atrocità della guerra».
Ed è con questo animo che seguiamo Joyce mentre si unisce al gruppo di Giustizia e Libertà, impara a falsificare documenti, assume identità sempre nuove e diverse, porta in salvo ricercati come i coniugi Modigliani, viene addestrata e reclutata a Londra nelle file del SOE (Special Operations Executive, agenzia segreta britannica nata per volere di Churchill) e nel settembre 1943, con il nome in codice di Simonetta, attraversa l’Italia per arrivare nel sud liberato dagli Americani per conto del Comitato di Liberazione Nazionale, perché «una donna può farcela dove tre uomini hanno già fallito». E Joyce riesce, supera difficoltà, mantiene i nervi saldi, e dimostra quello che si era prefissata da ragazzina: che una donna può essere nella lotta allo stesso modo di un uomo, tracciando così, con il suo esempio, un luminoso modello per le sue contemporanee e per le donne a venire.
La Storia di Joyce è dunque prima di tutto la storia di una vita, poi quella di una scrittrice. E a chi volesse obiettare che nel libro trova più spazio la narrazione della attività politica di Joyce piuttosto che di quella letteraria e che la dimensione narrativa possa perdersi tra le pieghe della Storia che inghiotte, sospende, trasforma, si può controbattere che la vita di Joyce fuori dalla scrittura è parte integrante della scrittura di Joyce.
Nelle pagine di Ballestra le doti letterarie di Joyce viene fuori immediatamente, ne sono prova le poesie giovanili tanto lodate da Benedetto Croce, ma lei mette da parte il suo incredibile talento per un’urgenza più grande: la resistenza partigiana e la militanza politica per le quali si spende senza sosta, sia durante la lotta al regime fascista che dopo, quando gira l’Italia e la Sardegna a verificare con mano ciò di cui c’era bisogno per la ricostruzione, per lavorare fianco a fianco delle donne, smuovendo la loro coscienza di partecipazione politica alla vita del Paese.
Gertrude Stein scrisse in Autobiografia di tutti: «E se si è un genio e si è smesso di scrivere si è ancora un genio se si è smesso di scrivere», e questa definizione sembra calzare a pennello per Joyce, la cui scrittura si è nutrita della vita quando per necessità ha smesso di scrivere, per ritornare più forte a guerra finita, quando l’abilità di scrittrice viene messa a servizio della traduzione letteraria e della testimonianza politica della Resistenza. Anche lo stile della sua produzione poetica cambia, si fa scabro, vivo, ricercato nella scelta di parole autentiche, di una precisione nel dire che vuole arrivare a più persone possibili e che la porterà ad autodefinirsi «scrittrice di complemento, non di professione».
Con questa idea di scrittura Joyce torna dunque a scrivere dopo la guerra, con un figlio piccolo da accudire e una carriera politica appena iniziata nelle liste del Partito d’azione in cui mette in atto un modo di fare politica molto diverso da quello del marito, che dopo la guerra lavora alla Costituzione e diventa deputato. A Joyce infatti sta stretto il ruolo di first lady, così prende treni, va nelle piazze a parlare con la gente, punta i piedi se non trova donne in politica con cui interloquire gridando a gran voce quel suo Dove sono le donne?
Joyce Lussu non vuole essere “un caso eccezionale” tra le donne, come le diceva Benedetto Croce, ma vuole che le donne tutte rendano quella che è considerata un’eccezione la norma dell’agire quotidiano, così organizza il primo convegno nazionale delle donne sarde per rappresentare «le aspirazioni della massa femminile, la più oppressa nell’oppresso popolo di Sardegna».
È in questi anni, racconta Ballestra, che germoglia in lei un nuovo modo di fare poesia, e che nasce uno dei suoi libri più celebri: Fronti e frontiere, quello che Joyce rievoca come la sua storia d’amore per Emilio Lussu anche se, o forse soprattutto perché, racconta il loro peregrinare per l’Europa durante la guerra e quella telepatia che li legava anche a distanza e che insieme all’ironia – che Ballestra mai dimentica di sottolineare – e alla comunanza di visione e intenti, aveva reso inossidabile il loro legame.
Nella produzione letteraria di Lussu il talento è quindi medium di un significato più ampio, in cui la letteratura si fa politica. Anche all’interno della sua esperienza come traduttrice, negli anni ’70 (è stata, tra gli altri, traduttrice di Nazim Hikmet, Agostinho Neto, José Craveirinha e Marcelino dos Santos), Joyce sceglie sempre poeti e scrittori che soffrono per una condizione di mancata libertà, che si fanno portavoce di Paesi – e popoli – che non hanno voce, e che proprio per questo vanno divulgati con più attenzione e con più forza, in modo da portare all’attenzione di un pubblico più ampio non solo le loro storie, ma quelle di intere nazioni impegnate in lotte di liberazione, come l’Africa e il Kurdistan.
Gli anni ’70 però, oltre al suo impegno terzomondista, a nuovi libri e alle traduzioni, porteranno anche un immenso dolore nella sua vita: nel marzo del 1975 Emilio muore, lasciandola sola. Ma Joyce continua la sua attività politica e letteraria, e si occupa di storia focalizzandosi sul suo territorio, inizia così a studiare la sibilla appenninica delle sue terre, raccontando di donne sapienti e rivoluzionarie, perseguitate come streghe per le loro conoscenze e la loro libertà, e lo fa per la prima volta dal punto di vista di una donna. Le donne, l’ambiente, la pace (guerra alla guerra, soleva dire), resteranno i suoi campi d’indagine prediletti fino alla fine dei suoi giorni, il 4 novembre 1998, quando si ricongiunge a Emilio nell’eternità degli scrittori di valore e dei combattenti per la libertà.
L’operazione letteraria di Silvia Ballestra nel suo La Sibilla, vita di Joyce Lussu, è dunque una perfetta ricostruzione di uno dei periodi più importanti della storia recente, ma anche la narrazione di un’esistenza particolare che si fa racconto universale, in cui la vita di Joyce Lussu è quella di una scrittrice talentuosa a servizio della vita attiva e di una donna con una personalità unica, fatta di dignità, ardore e sensibile intelligenza, capace di cambiare la Storia.
Dopo aver terminato il libro sono tornata a Testaccio a cercare quella pietra su cui sono incisi i nomi di Joyce ed Emilio Lussu, ho parlato con loro come si fa con qualcuno che ora mi sembra di conoscere da sempre e ho lasciato lì un fiore di gratitudine per la poetessa partigiana, vissuta per la libertà.
C’è un paio di scarpette Rosse di Joyce Lussu
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald.
Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald.
Servivano a far coperte per i soldati.
Non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas.
C’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald.
Erano di un bimbo di tre anni,
forse di tre anni e mezzo.
Chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni,
ma il suo pianto
lo possiamo immaginare,
si sa come piangono i bambini.
Anche i suoi piedini
li possiamo immaginare.
Scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald,
quasi nuove,
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…
Sinossi del libro Fratelli Cervi- Collana: Collana dell’Istituto Alcide Cervi, La tragica storia dei sette fratelli Cervi, fucilati dai militi fascisti a Reggio Emilia il 28 dicembre 1943, costituisce uno dei miti più potenti della storia dell’Italia contemporanea. Ma chi sono stati davvero i Cervi? Non solo i fratelli, ma l’intera famiglia?
Questo libro ricostruisce le loro storie: investiga l’universo contadino in cui vissero; segue i diversi percorsi che li portarono all’opposizione al fascismo, al rifiuto della guerra, alla scelta partigiana, fino all’arresto e alla fucilazione; ripercorre gli anni successivi, nei quali ha preso forma la narrazione del loro sacrificio e si è strutturato il loro mito, rivelando difformità e conflitti che emergono dall’analisi del rapporto fra storia e celebrazione.
Toni Rovatti insegna Storia contemporanea all’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni: Lo specchio della giustizia fascista, in Giustizia straordinaria fra fascismo e democrazia (il Mulino, 2019); Repressione, eversione e uso consapevole della forza, in Il comunismo in una regione sola? (il Mulino, 2023).
Alessandro Santagata è ricercatore presso l’Università di Padova. Per i nostri tipi ha pubblicato La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68 (2016); Una violenza “incolpevole”. Retoriche e pratiche dei cattolici nella Resistenza veneta (2021).
Giorgio Vecchio ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Parma. Per i nostri tipi ha pubblicato Il soffio dello Spirito. Cattolici nelle Resistenze europee (2022). È coautore, con G. Formigoni e P. Pombeni, della Storia della Democrazia cristiana, 1943-1993 (il Mulino, 2023).
Prefazione di Albertina Soliani
Introduzione
Giorgio Vecchio
Una famiglia di contadini nella Bassa Reggiana
1. Il Po, la Bassa
2. Una famiglia di mezzadri a Campegine e una protesta sacrosanta
3. Il giovane Alcide e la sua nuova famiglia
4. I Cervi, i cattolici e i socialisti tra età giolittiana e Grande guerra
5. Il dopoguerra, il Partito popolare, l’Azione cattolica
6. Gli anni Venti: da Campegine a Olmo e ritorno
7. Il 1929: una svolta? Il “caso Aldo”
8. Negli anni Trenta
9. Ai Campirossi
10. Antifascisti militanti
Toni Rovatti
«Sovversivi-comunisti». I Cervi tra guerra e Resistenza
1. Una necessaria premessa storiografica
2. Rifiuto e opposizione alla guerra
3. Antifascismo esistenziale e battaglia sulle risorse
4. Dall’accoglienza al salvataggio
5. Presa delle armi e guerra civile: “primi fra i primi”
6. Arresto e fucilazioni esemplari: il giudizio contro i “traditori”
7. Resistenza al dolore e prima definizione del ricordo
8. Dopo la Liberazione. Giustizia, cordoglio e riconoscimento
Alessandro Santagata
«I figli di Alcide non sono mai morti». La costruzione del mito
1. Caratteri originari e primi contrasti
2. Le genesi del mito
3. La svolta del decennale
4. I miei sette figli. Quale eroismo?
5. Diffusione e ricezione
6. L’opposizione ai Cervi
7. Casa Cervi
8. Il passaggio della contestazione
9. Il mito dopo papà Cervi
10. Epilogo
Indice dei nomi
In copertina: I funerali dei sette fratelli Cervi, 28 ottobre 1945. Archivio fotografico dell’Istituto Alcide Cervi.
L’Olio di Oliva nella Mitologia-Un mito greco attribuisce ad Atena la creazione del primo Olivo che sorse nell’Acropoli a protezione della città di Atene.
La leggenda racconta che Poseidone ed Atena, disputandosi la sovranità dell’Attica, si sfidarono a chi avesse offerto il più bel dono al Popolo. Poseidone, colpendo con il suo tridente il suolo, fece sorgere il cavallo più potente e rapido, in grado di vincere tutte le battaglie ; Atena, colpendo la roccia con la sua lancia , fece nascere dalla terra il primo albero di Olivo per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Zeus scelse l’invenzione più pacifica ed Atena divenne Dea di Atene. Un figlio di Poseidone cercò di sradicare l’albero creato da Atena, ma non vi riuscì, anzi si ferì nel commettere il gesto sacrilego e morì. Al British Museum di Londra si può ammirare una scultura del frontone occidentale del Partenone, dove l’artista Fidia ha rappresentato questo episodio mitologico. Secondo una leggenda riferita da Plinio e da Cicerone, sembrerebbe che sia stato Aristeno lo scopritore dell’Olivo e l’inventore del modo di estrarre l’olio all’Epoca fenicia. Lo stesso Plinio, invece, su altri suoi scritti, parlando dell’Italia, racconta che l’Olivo fu introdotto da Tarquinio Prisco quinto Re di Roma, questa ipotesi è la più verosimile visto che le più antiche tracce archeologiche finora raccolte sull’olivicoltura in Etruria risalirebbero al VII sec. a.C., descrivendo ben 15 metodi di coltivazione di questa pianta, che, ai suoi tempi, rappresentava già la base di importanti attività economiche e commerciali. L’olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; l’Iliade e l’Odissea narrano spesso dell’Olivo e del suo Olio. A Roma l’Olivo era dedicato a Minerva e a Giove. I Romani, pur nella loro praticità di considerare l’Olio d’Oliva come merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono dai Greci alcuni aspetti simbolici dell’olivo. Onoravano i Cittadini illustri con corone di fronde di Olivo; così pure gli sposi il giorno delle nozze e della loro prima notte nunziale; ed infine i morti venivano inghirlandati per significare di essere dei vincitori nelle lotte della vita umana. Nell’area islamica molte leggende fanno riferimento all’Olivo e al suo prodotto; tra le tante storie si vuole ricordare quella di Alì Babà ed i suoi 40 ladroni nascosti negli otri che dovevano contenere Olio di Oliva.
Il quadro allegato rappresenta Dispute de Minerve et de Neptune, (1748)-Louvre,Parigi- “… e Atena ottenne di governare sull’Attica, poiché aveva fatto a quella terra il dono migliore, quello dell’ulivo……”
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