-Arch. Carlo Cusin: “Ponte del diavolo-che non c’è-“.
Arch. Carlo Cusin:”Oggi cacciagrossa al “Ponte del diavolo-chenonc’è-” in Sabina ! Così ho incontrato il mio vecchio amico, il Console Manivs Cvrivs Dentatvs a “Septem Balnea”Settebagni per cercare di trovare,sul tracciato arcaico della Salaria vicino a Mefila (oggi Scandriglia),quell’originale struttura di 2300 anni fa,che doveva costituire un imponente sbarramento/briglia idraulica del Fosso delle Vurie e,nello stesso tempo, una solida sostruzione del piano stradale antico… Una grande costruzione con 14 assise/filari di blocchi di calcare locale,montati a secco,non isodomi,in parte montati per diatoni-ortostati,lunga 20 mt,alta circa 13 mt e spessore,in sommità,di circa 5 mt !”.
Questo e’ il semplice schema costruttivo dello sbarramento – briglia idraulica, tutto realizzato su filari abbastanza regolari ma con blocchi non isodomi, parzialmente montati con DIATONI ed ORTOSTATI,cioè di “testa” e “taglio”… al centro si nota il condotto di passaggio/scarico dell’acqua del torrente, così imbrigliato ed i pilastri sporgenti ad intervalli quasi regolari, con funzione di contrafforti, che infatti da 2300 anni è ancora tutto al suo posto…. non come certe costruzioni moderne che sappiamo !
L’Olio di Oliva nella Mitologia-Un mito greco attribuisce ad Atena la creazione del primo Olivo che sorse nell’Acropoli a protezione della città di Atene.
La leggenda racconta che Poseidone ed Atena, disputandosi la sovranità dell’Attica, si sfidarono a chi avesse offerto il più bel dono al Popolo. Poseidone, colpendo con il suo tridente il suolo, fece sorgere il cavallo più potente e rapido, in grado di vincere tutte le battaglie ; Atena, colpendo la roccia con la sua lancia , fece nascere dalla terra il primo albero di Olivo per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Zeus scelse l’invenzione più pacifica ed Atena divenne Dea di Atene. Un figlio di Poseidone cercò di sradicare l’albero creato da Atena, ma non vi riuscì, anzi si ferì nel commettere il gesto sacrilego e morì. Al British Museum di Londra si può ammirare una scultura del frontone occidentale del Partenone, dove l’artista Fidia ha rappresentato questo episodio mitologico. Secondo una leggenda riferita da Plinio e da Cicerone, sembrerebbe che sia stato Aristeno lo scopritore dell’Olivo e l’inventore del modo di estrarre l’olio all’Epoca fenicia. Lo stesso Plinio, invece, su altri suoi scritti, parlando dell’Italia, racconta che l’Olivo fu introdotto da Tarquinio Prisco quinto Re di Roma, questa ipotesi è la più verosimile visto che le più antiche tracce archeologiche finora raccolte sull’olivicoltura in Etruria risalirebbero al VII sec. a.C., descrivendo ben 15 metodi di coltivazione di questa pianta, che, ai suoi tempi, rappresentava già la base di importanti attività economiche e commerciali. L’olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; l’Iliade e l’Odissea narrano spesso dell’Olivo e del suo Olio. A Roma l’Olivo era dedicato a Minerva e a Giove. I Romani, pur nella loro praticità di considerare l’Olio d’Oliva come merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono dai Greci alcuni aspetti simbolici dell’olivo. Onoravano i Cittadini illustri con corone di fronde di Olivo; così pure gli sposi il giorno delle nozze e della loro prima notte nunziale; ed infine i morti venivano inghirlandati per significare di essere dei vincitori nelle lotte della vita umana. Nell’area islamica molte leggende fanno riferimento all’Olivo e al suo prodotto; tra le tante storie si vuole ricordare quella di Alì Babà ed i suoi 40 ladroni nascosti negli otri che dovevano contenere Olio di Oliva.
Il quadro allegato rappresenta Dispute de Minerve et de Neptune, (1748)-Louvre,Parigi- “… e Atena ottenne di governare sull’Attica, poiché aveva fatto a quella terra il dono migliore, quello dell’ulivo……”
-Cenni storici-Il Borgo si affaccia sul fiume Salto , deve la sua importanza come centro di interesse artistico all’Abbazia di San Salvatore Maggiore, il più importante monumento medievale di questa zona ricca di molti reperti e siti archeologici risalenti a varie epoche storiche .Concerviano fu fondato, nell’VIII secolo, sul Monte Latenano dall’Abbazia di Farfa e la sua fortuna e prosperità fu dovuta alla protezione degli imperatori carolingi. nell’arco di circa un secolo. Il Borgo subì l’assalto dei Saraceni nel IX secolo, ma fu ricostruito nell’arco di quasi cento anni. La decadenza dell’Abbazia di San Salvatore, dovuta alle guerre tra i vari Castelli limitrofi, comportò ridusse il Borgo a semplice Commenda, poi nel XVII fu definitivamente soppressa. La chiesa subì una radicale trasformazione nel corso del seicento. Oggigiorno si possono vedere i resti di pitture e affreschi medievali, mentre nell’abside resta oramai quasi illeggibile, un bell’affresco risalente al XII secolo rappresenta il Salvatore tra schiere di angeli.
Il Complesso monumentale di San Salvatore-
Il Complesso monumentale di San Salvatore maggiore, tra la fine del XX sec. e l’inizio del XXI sec., dopo alcuni decenni di abbandono, è stato ricostruito con un criterio scientifico che consente di leggere le tre stratificazioni edilizie che nel corso dei secoli sono state realizzate.
L’edificio è stato fondato come villa rustica, con, alla base della costruzione, criptoportici; un sistema costruttivo tipico del II e I sec. a. C..
La seconda stratificazione appartiene all’età medievale ed è stata realizzata per la funzionalità dell’Abbazia.
La terza stratificazione, quella che ha maggiormente trasformato l’edificio, iniziata nel XVII sec. viene completata la trasformazione dell’edificio come attualmente si presenta, ed è stata funzionale alle esigenze del Seminario delle Diocesi di Sabina, Poggio Mirteto e Rieti, ed è quella che ha portato l’edificio allo stato attuale.
Dopo la soppressione dell’Abbazia, e per le esigenze della nuova funzione dell’edificio come Seminario, furono eseguite opere edilizie che ampliarono l’edificio, secondo i criteri costruttivi ed architettonici rinascimentali. Fu modificato il prospetto della chiesa (scompare il portico riportato nell’incisione del 1685), furono sopraelevati di un piano i corpi di fabbrica est e nord, e fu costruito un nuovo corpo di fabbrica nel lato ovest.
RIETI-padre Marcello Bonforte-Tra Vangelo e pennelli: trovare Dio tra i colori
Rieti,Incontro con padre Marcello Bonforte, frate minore della fraternità inter-obbedienziale di Rieti, ma anche pittore appassionato alla ricerca di un continuo approfondimento artistico e umano-Rieti-16 ottobre 2023-«Prima c’è stato l’ingresso nella vita fraterna e francescana, poi la scoperta di questo dono che non avevo riconosciuto per tanti anni». Così padre Marcello Bonforte, uno dei tre frati che compongono la fraternità inter-obbedienziale di Rieti, racconta la sua vocazione di pittore, maturata all’interno di quella religiosa. Tra le stanze di Palazzo San Rufo, che condivide con il cappuccino fra Fabio e il conventuale padre Luigi Faraglia, ce n’è infatti una speciale, dove il frate minore ha ricavato il suo studio. Un atelier oggi affollato da tele, tavolozze, tubetti di colore, pennelli. E su un piccolo tavolo, una pila di compact disc da far suonare in uno stereo portatile, come necessario sottofondo al momento creativo. Ma le cose non sono sempre andate così. All’università Marcello studiava ingegneria meccanica. E la vita in fraternità è stata una scoperta quasi casuale, avvenuta seguendo quelle strane coincidenze con cui chiamiamo le vie del Signore.
Imperativo categorico
A volte i Suoi progetti si manifestano come figli del caso, in altre circostanze le cose maturano lentamente. La chiamata alla pittura di padre Bonforte è invece arrivata forte e chiara e il frate la ricorda con precisione: «È successo in una maniera un po’ strana, a Teramo, dov’ero sfollato dopo il terremoto dell’Aquila. Era un’assolata giornata di giugno, con un cielo di quell’azzurro intenso che ti conquista. Stavo attraversando il convento quando a un certo punto arriva un’ingiunzione secca, limpida, sonoramente chiara e pungente: dipingi! Ne ero anche un po’ contrariato. Poi mi sono reso conto che questa cosa è sempre stata presente nella mia vita. Amavo passare il tempo guardando i quadri nelle gallerie, ma non avevo riconosciuto di dover obbedire a questa esigenza artistica. Invece mi ha cambiato la vita: ho comprato l’attrezzatura, mi sono accorto che la città era piena di pittori. Prima non l’avevo notato ed è stata una cosa entusiasmante. E non mi ha più mollato. Anzi, cerco di mantenermi fedele a questa ingiunzione, che all’inizio mi metteva addirittura in affanno. Sentivo quasi la colpa di non aver dipinto nei decenni precedenti. Poi mano a mano ho imparato a governare questa urgenza».
Un’unica chiamata
La pittura per frate Marcello non è una seconda vocazione, ma l’integrazione di un’unica chiamata: «è una parte della mia umanità, del progetto nel quale sono stato coinvolto». E non solo perché in fondo è quasi un altro aspetto della meditazione e della preghiera, ma perché «è ben incastonata con tutto il resto, non è giustapposta, ma si è come sciolta nella vita francescana».
Questo scoprire sotto lo stesso cielo le passioni della vita e la dimensione religiosa è un po’ al cuore dell’esperienza di Francesco: «La sua lezione – spiega padre Marcello – è scoprire che Dio ci tiene tanto che ciascuno possa realizzare ciò che di vero ha nel cuore. Guardiamolo bene: era uno che voleva essere “grande” e ci ha provato percorrendo strade diverse. Ha fatto tentativi incredibili attraverso la guerra, nel commercio, organizzando feste e partecipando a crociate. Il Padreterno deve averlo guardato e detto: “diamogli una mano a questo, che non ci azzecca per niente!”. E gli fa capire che questa fame e sete di realizzazione è una cosa alla quale Dio tiene tantissimo, lo conduce sul percorso giusto, che Francesco replica nel modo in cui accoglieva i frati».
La fraternità è per la valorizzazione dell’umano, «infatti attorno a Francesco è cresciuta una sorta di “industria tessile”: una trama fatta da primo, secondo e terzo ordine, quasi uno specchio del progetto di Dio di un’umanità che tesse relazioni con il Signore, con gli altri, con la creazione, con sé stessa.
Forse è questo che ha riportato l’esperienza francescana sotto lo sguardo di tanti, il suo essere qualcosa che aiuta tutti ad entrare nella vita e a rimanerci per sempre, ad ascoltare l’offerta di vita che Dio fa ad ognuno di noi».
Il suggerimento sembra quello di superare una artificiosa separatezza tra vita quotidiana ed esperienza religiosa. Forse è un sintomo di una società che non riesce più ad immaginare Dio come ce lo racconta Gesù, che non si fida più della possibilità di vivere secondo il Vangelo. E invece è proprio questo il cuore della Regola che andiamo a riscoprire mentre compie ottocento anni. Non si tratta di norme e prescrizioni, ma di un’indicazione di senso, qualcosa che può sciogliere l’indifferenza e guidare a riorganizzare spazi, progetti, sensazioni, emozioni, visioni politiche.
La vocazione come inciampo
E dire che Marcello nella vita religiosa c’è entrato quasi per inciampo: un corso vocazionale frequentato in vacanza ad Assisi con le sorelle, quasi per ingannare l’attesa di essere raggiunti dai genitori rimasti a Bergamo per i loro impegni di insegnanti. Cinque giorni a contatto con la Sacra Scrittura che hanno aperto nuovi orizzonti: «A vent’anni se uno non è proprio sgangherato e sciupato, custodisce delle domande fondamentali con le quali cerca di interloquire e interpellare anche il mondo che ha intorno», ricorda padre Marcello. «Quelle domande trovano un interlocutore incredibile nella voce di san Francesco. E allora ho voluto approfondire e nella fraternità ho trovato una chiave per stare al mondo. Erano anni opprimenti, in cui aleggiava il terrore della guerra nucleare, il dubbio che qualcuno alla fine avrebbe premuto il bottone e messo fine a tutto. E Francesco mi ha spiazzato con la “perfetta letizia”, mi ha folgorato con una visione diversa della vita. Così, nel giro di poco ho mollato tutto: ragazza, famiglia, studi. In fraternità sono potuto restare fedele alle mie domande. E quando si è onesti con sé stessi, s’incontrano interlocutori significativi e tra questi c’è il buon Dio».
La lezione della bottega
Marcello cambia percorso universitario e consegue la laurea in filosofia. Un altro aspetto della sua ricerca che per anni lo impegnerà come docente presso l’Istituto Teologico Abruzzese-Molisano e anche come insegnante di religione nelle scuole. E quando con il calo delle vocazioni c’è stato meno bisogno di professori, il suo impegno è diventato quello di parroco. «I frati devono lavorare di onesto lavoro e tutta l’attività ministeriale è un impegno serio», riconosce. «La differenza con gli anni dell’insegnamento è stata nel poter dirottare le ore di studio sui libri a quelle dedicate allo studio della pittura. Ho smesso di essere un autodidatta e sono andato bottega, da quella splendida maestra che è Gabriella Capodiferro. Mi ha accolto nel movimento del “Guardare creativo” e incidentalmente mi ha illuminato anche sul modo di dare forma al mio ministero sacerdotale. Negli allievi cerca di favorire percorsi personalizzati di ricerca pittorica, e ho capito che innanzitutto questo un pastore deve fare: accogliere gratuitamente, aiutare ciascuno a capire ciò che gli è appropriato, quale spazio gli appartiene e non gli può essere sottratto. Questa consapevolezza, in un mondo tanto competitivo, compie il miracolo di abbassare i conflitti e accrescere la collaborazione».
Strategie dell’incontro
Attraverso l’arte diviene più importante che mai il confronto, capire lo sguardo degli altri. «L’idea di fare mostre personali mi sembra una vanità, non mi piace che le cose girino attorno a me, mi fa sentire fuori posto. Mi piacciono invece le mostre collettive, il guardare creativo insieme è entusiasmante. È un modo per verificarsi. Però ho capito che non posso eludere il confronto personale, così durante la pandemia ho iniziato a diffondere i miei quadri su Whatsapp. La mia scelta pittorica parte fondamentalmente dal colore più che dal disegno e ho scoperto che questo crea nelle persone un effetto terapeutico. Mai mi sarei aspettato di sentirmelo dire». L’opportunità unica di palazzo San Rufo ha poi fatto maturare in padre Marcello una sorta di nuova strategia: quella di ricevere le persone in studio, accompagnarvi in una visita guidata alle tele che nel frattempo hanno trovato posto sulle pareti dell’edificio e discutere insieme delle opere in un contesto più fraterno di quanto non accada nelle mostre.
Il prossimo progetto è di avere qualche tela accolta negli spazi della Mensa Santa Chiara, al Seminario: «Sono spazi bellissimi, che restituiscono un grande senso di accoglienza alle persone. Ho pensato che forse qualche incontro prezioso attraverso la pittura potrei farlo anche lì: vediamo se è possibile».
–Articolo scritto da Silvio Benco per la Rivista PEGASO N°7 del 1931
Biografia di Biografia di Arturo ONOFRI – Nacque a Roma il 15 settembre 1885 da Vincenzo, romano, e da Beatrice (Bice) Shereider, di origine polacca. – Nacque a Roma il 15 settembre 1885 da Vincenzo, romano, e da Beatrice (Bice) Shereider, di origine polacca.
Biografia di Arturo ONOFRI – Nacque a Roma il 15 settembre 1885 da Vincenzo, romano, e da Beatrice (Bice) Shereider, di origine polacca.
–Fonte Enciclopedia TRECCANI-
Il padre, possidente, poté accedere nel 1897 nei ruoli direttivi della Cassa di risparmio. Tra i componenti la famiglia Arturo ricorderà, nell’Abbozzo di un’autobiografia, una zia Raffaella, monaca a S. Susanna (Vecchio, 1978, p. 143), e uno zio Paolo, morto nel 1902 (ibid., p. 144).
Di estrazione borghese, ebbe un’infanzia agiata fra la capitale, dove frequentò le scuole elementari in via Montecatini, e Castelgandolfo, dove si recava per trascorrere le vacanze estive. Formatosi presso il ginnasio statale Ennio Quirino Visconti di Roma (Banfi et al., 1930, p. 23), si iscrisse al liceo classico di Tivoli nel 1901. Le cartoline e le lettere di questo periodo, indirizzate ai genitori e rimaste inedite, testimoniano la nostalgia di casa e comprendono richieste di libri scolastici, abiti e altro materiale necessario alla sua permanenza fuori porta.
Cominciò a scrivere fin da giovane e pubblicò i primi versi sulla Vita letteraria nel 1904, prendendo a frequentare i ritrovi romani più noti dei letterati dell’epoca, fra cui l’Aragno e il Caffè Greco. Nel 1906 fu a Cittaducale (all’epoca provincia dell’Aquila), poi presso il convento di Palazzolo (nella provincia romana). Nel marzo 1907 uscì la sua prima silloge poetica, Liriche, inclusiva di 31 componimenti scritti fra il 1903 e il 1906, all’insegna della Vita letteraria, ma per i tipi della Tipografia della Biblioteca di cultura liberale di Firenze (riedita nella collana «Opera prima» per Garzanti nel 1948).
Una copia fu spedita alla regina madre Margherita di Savoia, che tramite il suo intendente fece sapere a Vincenzo Onofri di averne gradito la lettura (Roma, Biblioteca nazionale, Fondo Onofri, A. 116: lettera di Vincenzo Onofri ad Arturo del 4 giugno 1907).
Fra le amicizie di quel periodo si segnala quella con il poeta crepuscolare Fausto Maria Martini, ricordato da Vincenzo in una lettera al figlio del 10 maggio 1908 (ibid., A. 119). Martini fu tra i primi a salutare l’esordio poetico di Arturo con uno scritto su La Provincia del 13 giugno 1907.
Nel 1908 pubblicò a Roma i 38 testi della raccolta Poemi tragici, suddivisi in quattro sezioni: Primi poemi tragici, Interludî e poesie, Secondi poemi tragici e Sonetti (più un Commiato non annunciato sul frontespizio). La raccolta, che includeva liriche composte fra il 1906 e il 1907, uscì a spese dell’autore. Canti delle oasi (ibid.), che seguì nel 1909, apparve anch’essa a sue spese: suddivisa in Preludio, Poemi del sole, Momenti varii, Preghiere e Commiato autunnale, includeva 45 testi composti fra il 1907 e il 1908 e fu recensita da Martini ne Il Resto del Carlino del 10 aprile 1909. A partire dallo stesso anno diede inizio alla stesura di un diario filosofico-letterario che, suddiviso in tre parti, Selva (1909-10), Pandaemonium (1910-13), Pensieri e teorie (1925-28), si protrasse fino alla morte e permette di individuare le diverse fasi della sua formazione culturale.
Al febbraio 1910 risale il primo scambio epistolare con Antonio Baldini (Fondo Onofri, A. 764); nell’aprile-maggio dello stesso anno fu a Siena; poco dopo dette avvio a una collaborazione con Nuova Antologia, nella quale pubblicò diversi testi: Promèteo (1° giugno 1910); Fra nuvole e rupi, All’ospite lontana, Epitaffio a mezzo la montagna, Alba alla stazione, A un neonato, Frammento, Primavera, Esasperazione, Nella tregua, Elevazione (16 febbraio 1911); La morte di Rama (16 giugno 1911); Notturni: raccoglimento, L’Angelo, Armonie cittadine, Mattutino, Impeto, Luce (1° gennaio 1912); e, infine, Mischiarsi alle ventate, Luce che sei vita, Piccoli cieli, In figure di mondo, Un profumo in fiore, Capriccio aereo, Sagra del sonno (16 gennaio 1927).
Al 1911 risalgono letture da Walt Whitman, Émile Verhaeren, Dante, Rudyard Kipling, Gabriele D’Annunzio e dalla Bibbia (soprattutto il Vangelo di Giovanni): delle letture whitmaniane, compiute durante una gita sul litorale laziale, diede notizia a Giovanni Papini in una lettera (15 giugno 1911) che segna l’inizio d’una relazione epistolare protrattasi fino al dicembre 1928.
Occasionata da un articolo di Papini, Le speranze di un disperato, apparso nella Voce (n. 24, 15 giugno 1911), la corrispondenza scandì alcune tappe dell’attività letteraria di Onofri (come, ad es., in Lacerba, n. 13, 27 marzo 1915).
Sempre nel 1911, in estate, si concentrò la corrispondenza con il letterato e amico Umberto Fracchia, che gli inviò cartoline e lettere da Costantinopoli, Beirut, Aleppo, Malatia (Fondo Onofri, A. 711-14) e avrebbe continuato a spedirgliene, assieme a sue prose poetiche, almeno fino al 1925 da varie città d’Italia. In particolare, gli autori letti da Fracchia, che si evincono dalle sue lettere, permettono di ricostruire una geografia culturale ‘tardodecadente’ – fatta del Satyricon, di Whitman, Dostoevskij, Walter Pater – cui lo stesso Onofri del resto fu debitore, almeno nella prima fase della sua attività letteraria (ibid, A. 725).
Nel 1912 fondò la rivista Lirica, di cui uscirono 13 fascicoli tra gennaio 1912 e dicembre 1913. La redazione responsabile era composta, oltre allo stesso Onofri, da Rosario E. Brizzi, Armando De Santis, Fracchia e Teofilo Valenti. Il fascicolo unico del 1913 includeva scritti di Onofri, Adolfo De Bosis, Pier Maria Rosso di San Secondo, Aurelio Saffi, Giuseppe Antonio Borgese, Baldini, Vincenzo Cardarelli, Nino Savarese, Giorgio Vigolo, Benedetto Codecasa, Armando De Santis e Fracchia. Su Lirica apparvero firmate da Onofri: Figurazioni del Paradiso: Il sogno, Trionfo di vita (gennaio 1912); Poemi: l’albero delle stelle, Preghiera nella Cappella Sistina (febbraio 1912); Studi spirituali: un esame di coscienza, Maestro e discepolo, Ora di combattimento (marzo 1912); La libertà del verso (aprile 1912); Giorni appassionati: Malinconia, Io, Meriggio d’estate, Addormentarsi, I morti, Ramingo, Gioconda, Grido notturno (giugno 1912); Disamore (luglio-settembre 1912, un lungo racconto composto due anni prima); Nuovi studi spirituali: il germe, Il nostro pane, Realtà e poesia, In chiesa dapertutto, Morbo salubre, Dialogo, Un corpo, Lo spettro indimenticabile, Pietà, Scandalo, Incesso, Gioia del dolore, Vecchio raccoglimento, Il luogo del convegno (ottobre-dicembre 1912); Nuova lirica: letargo, Sera, Città, Mattinata, Un’agonia, Alba (numero unico del Natale 1913).
L’amicizia epistolare con Emilio Cecchi ebbe inizio nel maggio 1912 (sebbene si possa supporre che i due avessero avuto anche precedenti contatti) per concludersi il 20 ottobre 1921. Lo scambio di idee critico-letterarie, originate dalla differente valutazione del libro di Giulio Augusto Levi, Storia del pensiero di Giacomo Leopardi (1911), costituì uno degli argomenti delle prime lettere assieme alla richiesta di prestito, da parte di Cecchi, di alcune edizioni francesi possedute da Onofri. A sua volta Cecchi invitò l’amico a leggere i capitoli, che via via veniva scrivendo per la sua Storia della letteratura inglese nel secolo XIX.
La comune collaborazione a Lirica sancì inoltre l’amicizia fra Onofri e Cardarelli, testimoniata da uno scambio di lettere da cui emergono inizialmente, oltre alle difficoltà economiche di quest’ultimo (Fondo Onofri, A. 251: lettera a Onofri del 21 febbraio 1913), la sua insoddisfazione per quello che veniva componendo (ibid., A. 253: lettera a Onofri del 18 luglio 1913). Nelle missive del 1913 più volte Cardarelli chiese notizie della data di uscita dell’ultimo numero di Lirica, continuando a inviare suoi testi all’amico e mantenendo toni cordiali almeno fino al 1915.
Sempre nel 1913 Onofri aveva cominciato a pubblicare articoli per la Rassegna letteraria del quotidiano Il Popolo romano, dove apparvero Giovanni Pascoli postumo (21 aprile); Il nuovo romanzo di G. Ferrero (5 maggio); Mallarmé, poeta per poeti (19 maggio); D’Annunzio giornalista (2 giugno); Un poeta della natura (16 giugno); Walter Pater (30 giugno); Ricordi eroici (14 luglio); Paul Claudel (28 luglio); Versi liberi (12 agosto); I giardini di Adone (25 agosto); La disfatta (8 settembre); André Gide (22 settembre); Appunti su Flaubert (6 ottobre). Non vi segnalò, tuttavia, il Savonarola di Silvio D’Amico, che questi gli aveva fatto pervenire con preghiera di recensione (Fondo Onofri, A. 2109: lettera del 1° agosto 1913).
Nel maggio 1913 Onofri – che si trovava a Soriano nel Cimino – ricevette dal padre le bozze del secondo volume di Liriche: la raccolta, comprensiva di 69 testi (scritti fra il 1906 e il 1910) uscì a Napoli, per i tipi della Ricciardi, nel novembre successivo. Durante la lontananza da Roma – ove risiedeva già da qualche tempo al n. 61 di via di S. Chiara – fu il padre ad aiutarlo nella revisione delle bozze degli articoli che pubblicava in rivista.
Espletati gli obblighi militari nel 1915 come caporal maggiore nell’Ordine di Malta a Belluno, nel biennio 1915-16 collaborò con La Voce, aderendo se pur temporaneamente al frammentismo e tenendosi in corrispondenza con Giuseppe De Robertis, cui spediva suoi componimenti e dal quale riceveva le pubblicazioni della rivista.
In una delle prime lettere (Fondo Onofri, A. 428: 13 febbraio 1915), De Robertis lamentava le difficili condizioni economiche in cui versavano sia la rivista sia la Libreria della Voce e l’impossibilità di corrispondergli un’adeguata retribuzione. Fu ancora Onofri a introdurre Vigolo a De Robertis (ibid., A. 432: cartolina del 23 marzo 1915).
Nella Voce Onofri pubblicò Usignolo (n. 5, 15 febbraio 1915); Domenica (n. 6, 28 febbraio); Vocazione di morire (n. 7, 15 marzo); Silfo, Sboccio, Cattedrale, Ritratto alla ringhiera, Mattino (n. 9, 15 aprile); Romanzo (n. 10, 30 aprile); Tendenze (n. 12, 15 giugno); Oceanica (n. 13, 15 luglio); Orchestrine: Vendemmia, Acqua, Insonnia, Cortile, Piove, Partenza, Nord, Scampagnata, Pozza (n. 14, 15 agosto); Belvedere: Paesaggio, Luna, Lago, Serata, Fermata inutile, Nebbie, Dopo il bagno (n. 17, 15 novembre); Occhiate: Giuochi, A vista d’occhio, Concerto, Fra due stagioni, Lucertole, Settembre, Concordanze, Grandine, Verso la notte (n. 18, 15 dicembre); Arcipelago: Senz’alba, Cartone, Fine d’inverno, Gocciole, Musica, Notte, Giuochi (31 gennaio 1916); Gruppo: Capodanno, Dal letto, Ritratto, Inverno, Angoscia, Risveglio, Fra i monti, Dita, Astronomia, Indecenza (31 marzo). Fra il 31 gennaio e il 31 agosto 1916 pubblicò inoltre, sempre nella Voce, lo scritto pascoliano Saggio di lettura poetica, in più puntate. Il numero in cui apparve l’ultima ospitava anche un intervento antipascoliano di Cardarelli, che non mancava di lanciare una critica agli estimatori delle Myricae. Sentendosi colpito, Onofri inviò una lettera di protesta a De Robertis (riprodotta in un’epistola a Papini del 16 settembre 1916), cui fece seguire, dopo la breve risposta del direttore della Voce, un telegramma di diffida a pubblicare qualsiasi cosa recasse il suo nome. Nonostante il tentativo di Papini di placarne l’animosità (v. lettera del 22 settembre 1916), Onofri mantenne fermo (risposta in data 25 settembre) il suo atteggiamento di rottura nei confronti della Voce.
Nel progressivo deteriorarsi dei rapporti con la rivista fiorentina, aveva cominciato già da qualche tempo a stringere contatti con l’entourage che faceva capo alla rivista napoletana La Diana, in particolare con il fondatore Gherardo Marone e la direttrice Fiorina Centi.
Quest’ultima, una benestante insegnante di pedagogia, scrisse la prima lettera a Onofri il 31 gennaio 1916, dichiarandosi felice per l’interesse del poeta all’indirizzo della rivista e annunciando la pubblicazione di un suo scritto sul primo numero dell’anno (Fondo Onofri, A. 31).
Nella Diana apparvero: Sereno d’inverno (26 gennaio 1916), Un pino (25 marzo), Saluto di primavera (25 maggio), L’innocenza della natura (31 luglio), Zona di guerra, Sonno, Acquazzone (settembre-ottobre), Toletta, Campagna, Natività, Lago di Nemi (novembre-dicembre), Un bacio, Sera nel viale (marzo 1917). Sempre nel 1916 portò a termine una serie di traduzioni di poesie cinesi (cui aveva dato inizio nel 1914), basandosi su versioni contenute in antologie in lingua inglese (H.A. Giles, Chinese poetry in English verse, 1898) e francese (H. de Saint-Denys, Poésies de l’èpoque des Thang, 1862; J. Gautier, Le livre de Jade, 1867; A. Thalasso, Anthologie de l’amour asiatique, 1907).
Il 29 giugno 1916 sposò Bice Sinibaldi che, con il vezzeggiativo affettuoso di Bicetta, comincia a essere menzionata nelle lettere dei genitori già nel 1914. Da Bice, con cui visse fino alla morte nella sua nuova residenza romana di Lungotevere Castello 3, ebbe i figli Fabrizio e Giorgio.
Il primo, la cui nascita fu salutata in una cartolina di Vigolo del 28 agosto 1917 (Fondo Onofri, A.632), divenne nel secondo dopoguerra un esponente del Partito comunista italiano (PCI) e scrisse la sceneggiatura del film Sacco e Vanzetti (1971), diretto da Giuliano Montaldo.
Nell’imminenza del matrimonio, Onofri era stato costretto ad annullare un incontro, suggerito da Papini, con il matematico e sinologo Giovanni Vacca, dal quale auspicava un aiuto per tradurre alcune poesie cinesi. Ebbe inoltre inizio nell’ottobre 1916, per protrarsi fino al 1927, la corrispondenza fra Onofri e Giovanni Comisso. Quest’ultimo indirizzò le prime lettere da Manzano, dove si trovava al fronte, annunciando la ricezione di un numero della Diana (15 novembre 1916). In una delle sue ultime lettere (25 marzo 1927) Comisso riferì che Enzo Ferrieri, fondatore e direttore della rivista Il Convegno, poi divenuta circolo d’arte e di cultura, sarebbe stato lieto di ospitare Onofri in qualità di relatore a una conferenza, suggerendogli inoltre di inviare poesie da proporre alla rivista (16 aprile 1927).
A Napoli, nel maggio 1917, per le edizioni Libreria della Diana uscì Orchestrine. Inizialmente Onofri aveva pensato a una pubblicazione per i tipi della Voce; tuttavia, prima Papini (che, in lettera del 23 agosto 1916, gli ricordava le condizioni economiche incerte della casa editrice), poi la rottura definitiva con De Robertis, lo spinsero a scegliere un’alternativa. Una copia del volumetto, che comprendeva 95 testi in prosa (più una prefazione), datati fra il 1914 e il 1916, risulta spedita a Papini il 17 giugno 1917.
Intorno al 1918 scoprì l’opera del filosofo ed esoterista austriaco Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, da cui fu notevolmente influenzato per la successiva produzione poetica: l’adesione al pensiero steineriano è testimoniata, fra l’altro, da appunti autobiografici risalenti al 1920, Miracieli, storia dell’uomo nuovo (Fondo Onofri, GI.4f) e dalla prefazione al volume La scienza occulta nelle sue linee generali (Bari 1924).
Per far fronte ad alcune esigenze economiche svolse, a partire dal 1920 e fino alla morte, il lavoro di impiegato presso la Croce rossa della capitale. In questo periodo conobbe anche Julius Evola, probabilmente alle riunioni del gruppo teosofico ‘Roma’ che si tenevano in via Gregoriana 5.
Una ritrovata tranquillità economica gli permise di dedicarsi con maggiore assiduità alla scrittura e nel 1921 uscì Arioso (38 testi, fra liriche e prose, scritti fra il 1917 e il 1920 e accompagnati da disegni di Deiva De Angelis) per i tipi della Casa d’Arte Bragaglia in Roma. Oltre a Papini, com’era divenuta consuetudine, cui il libro fu subito inviato, fra i destinatari del nuovo volume spiccano i nomi di Aldo Palazzeschi e di Comisso che, da Venezia, promise di consegnarlo a D’Annunzio, trasferitosi da poco al Vittoriale.
Nel 1921-22 Onofri pensò di riunire in un unico volume Orchestrine e Arioso. Durante la seconda metà del 1922 pubblicò una serie di articoli in Le Cronache d’Italia, ove apparvero Dove? e A proposito del «Notturno» di D’Annunzio (20 giugno); «Le Poesie» di G.A. Borgese (20 luglio); Risveglio notturno (5 agosto); Il mistero di Tristano e Isolda (20 agosto-5 settembre); Cronache di poesia: Luciano Folgore, Enrico Thovez (20 settembre-20 ottobre); Saluto a una nuova Italia (novembre); Cronache di poesia: U. Betti, T. Valenti, G. Vigolo (dicembre).
In quegli anni andò diradando le amicizie epistolari e le frequentazioni di circoli letterari. Nel 1923 tentò di accreditarsi, senza successo, per poter pubblicare presso Mondadori: l’amico Fracchia (Fondo Onofri, A. 761: lettera del 18 aprile 1923), all’epoca direttore editoriale, motivò il suo rifiuto con il limitato interesse per la scrittura poetica in Italia. La nuova raccolta – Le trombe d’argento (Lanciano 1924) – prima parte del ciclo antroposofico, uscì dunque per Carabba.
Oggetto di uno scambio epistolare fra Onofri e i due antroposofi Alcibiade Mazzerelli (ottobre 1924) e Lina Schwarz (novembre 1925), ottenne una recensione di Evola sul quotidiano Il Sereno (3 luglio 1924).
Alla luce delle recenti convinzioni steineriane, pianificò la riscrittura di alcuni brani di Orchestrine (prosecuzione del tentativo di riordinamento del 1921-22), tuttavia non diede mai alle stampe una nuova versione della raccolta. Si dedicò, invece, ad alcuni saggi di carattere musicale, che confluirono in Riccardo Wagner: Tristano e Isotta. Guida attraverso il poema e la musica (Milano 1924). Nella rivista di esoterismo Ultra del 27 aprile 1925 pubblicò l’articolo La morte di Rodolfo Steiner. Nello stesso anno uscì, per i tipi della Laterza, il saggio Nuovo rinascimento come arte dell’Io (Bari 1925), cui fece seguito la composizione delle prose liriche del Quaderno di Positano (pubbl., a cura di M. Vigilante, Pistoia 1999). Del 1927 è la pubblicazione dei 150 componimenti inclusi in Terrestrità del sole, che dà il nome al ciclo omonimo, il cui fine – nelle idee dell’autore – era la costruzione concreta di un ‘uomo universale’. La raccolta, edita a Firenze da Vallecchi, fu recensita da Evola sulla rivista di studi religiosi Bilychnis dell’agosto-settembre 1928.
Ennesima testimonianza dei suoi nuovi interessi, sul numero del maggio 1927 di Ur (rivista di scienze esoteriche diretta da Evola) Onofri pubblicò (con lo pseudonimo di Oso) lo scritto Appunti sul Logos. Sui numeri di marzo-aprile 1928 apparvero invece le liriche del polittico Una volontà solare. Nel medesimo anno uscirono suoi componimenti anche nella Fiera letteraria: Sera, Marzo, Una dea, O raggio nascosto!, Con te senza te, L’annunciatore, Tu in me, Notturno (11 marzo); Nove sonetti: Compenso di suoni, La morte del seme, Un teschio, Aria che vive, Bianco, In piccolo e in grande, L’unico, Tu!, Quel raggio (26 agosto).
Il 23 maggio 1928 scrisse a Eugenio Montale che si era detto disposto a fare da intermediario presso la casa editrice Ribet di Torino per la pubblicazione di Vincere il drago! ; nelle sue due repliche da Firenze (25 e 28 maggio) Montale scrisse di avere inoltrato la lettera di Onofri all’avvocato Mario Gromo, responsabile editoriale della Ribet, e che questi aveva accettato la pubblicazione della raccolta. Da parte sua Onofri scrisse a Gromo il 4 giugno, spiegando di non essere in grado di procurare le 50 prenotazioni del volume che il responsabile editoriale gli aveva richiesto quale contropartita per una migliore percentuale sulle vendite. Lo scambio epistolare fra Onofri e Gromo si protrasse fino al 12 giugno, e sancì l’accordo fra i due, sulla base di un’alea fissata ai due quinti per l’editore e ai tre quinti per il poeta. Quest’ultimo fu inoltre in grado di trovare lettori che prenotassero il volume, fra cui il padre, che sottoscrisse l’acquisto di 20 copie.
Il 6 ottobre la Ribet finì di stampare Vincere il drago!, contenente 151 componimenti, ultima opera pubblicata da Onofri in vita.
Morì a Roma il 25 dicembre 1928.
Postumi uscirono i 33 testi poetici di Simili a melodie rapprese in mondo (Roma 1929); le 152 liriche di Zolla ritorna cosmo (Torino 1930); i 164 testi di Suoni del Gral (Roma 1932), nonché gli 83 componimenti inclusi in Aprirsi fiore (s.l. 1935), che chiude il ciclo lirico della «Terrestrità del Sole». L’intero Ciclo lirico della terrestrità del Sole è stato riedito per cura di M. Albertazzi (I-III, Trento 1998-99).
Quasi tutta votata alla scrittura poetica e critica, in quanto non assillata da esigenze di carattere economico (se non nel periodo di impiego presso la Croce rossa), la vita di Onofri si svolse priva di eventi particolari. Una prima fase letteraria (dalle Liriche d’esordio ai Canti delle oasi), in cui sono individuabili qualche eco pascoliana nonché influssi dannunziani e crepuscolari, è distinta dal punto di vista critico dalle collaborazioni a Nuova Antologia e Lirica. Detta fase, già contrassegnata da una certa consapevolezza stilistica (v. l’articolo La libertà del verso), si caratterizza anche per la scoperta delle religioni dell’antichità, conosciute attraverso il volume I grandi iniziati di Edouard Schuré, uscito in traduzione italiana per Laterza nel 1906. Da esso Onofri poté apprendere i miti «di Rama, di Krishna, di Mosè, d’Orfeo, le cui leggende sono studiate e riscoperte secondo canoni esoterici» (Salucci, 1972, p. 57). Una prima fase di transizione coincide con la pubblicazione delle Liriche del 1914, in cui il crepuscolarismo di ascendenza romana (in partic. Sergio Corazzini e Fausto Maria Martini) appare «in netta regressione» (F. Livi, per cui si veda: Donati, 1987, p. 66), e con gli articoli del biennio 1915-16 per la Voce (fra cui quelli su Pascoli, riuniti diversi anni dopo la morte, con prefaz. di E. Cecchi: Lucugnano 1953). Tale fase precede quella di avvicinamento al frammentismo, che culmina con le prose poetiche e i bozzetti di Orchestrine. I testi di Arioso, che seguono, preludono già al ciclo della «Terrestrità del Sole», il grande progetto poetico in cui si individua la novità della produzione onofriana, che risente dell’interesse per la mistica antroposofica di Steiner, conosciuta durante le discussioni in casa di Emmelina De Renzis (una delle traduttrici de La scienza occulta nelle sue linee generali). Elemento dominante, la solarità (simbolo della potenza di Dio), calata sulla terra, diviene emblema di quel rinascimento che è oggetto del saggio del 1925. In esso, attuando una sintesi di neoplatonismo e spiritualismo evoluzionista, è propugnata l’idea che l’arte sia alla stregua di una forma di conoscenza: essa è l’attività più alta dello spirito umano, rivelatrice della natura divina in ogni individuo. Solo attraverso tale forma di conoscenza è possibile una sintesi reale di fede e scienza, di mistica e pratica. Anticipato da Trombe d’argento, che racchiude il «messaggio vibrante» (Fittoni, 1973, p. 56) di questa nuova poesia onofriana, il ciclo mira a esprimere, sin dal titolo della raccolta che gli dà il nome, l’unità del cosmo. Le altre sillogi sviluppano il concetto attraverso il tema della zolla che, «redenta dal sangue di Cristo e dall’azione spirituale dell’uomo», ridiventa «un elemento della divina cosmicità» (Lanza, 1973, p. 156); nonché i temi della lotta contro il male identificato nel mero materialismo (cui alludono eloquentemente i titoli Vincere il drago! e Suoni del Gral), dell’armonia cosmica (Simili a melodie rapprese in mondo) e della palingenesi spirituale (Aprirsi fiore).
Fonti e Bibl.: Dono di Bice, Fabrizio e Giorgio Onofri alla Biblioteca nazionale di Roma (1973), l’archivio del Fondo Onofri riunisce tutto il materiale, manoscritto e a stampa, appartenuto al poeta e ai suoi eredi. L’archivio è suddiviso in sezioni distinte da lettere dell’alfabeto (A: Epistolario; B: Scritti di A. O. dal 1903 al 1925; C: Ciclo lirico della Terrestrità del sole; D: Pubblicazioni letterarie in poesia e prosa su riviste e giornali; E: Studi critici; F: Traduzioni; G: Scritti vari; H: Occulta; I: Documenti e materiali appartenenti ad A. O.; L: Disegni di Antonio Baldini e di Cipriano Efisio Oppo; M: Scritti critici su A. O.). A Bice (morta nel 1976) si deve la trascrizione di Selva, Pandaemonium e Pensieri e teorie, nonché l’attribuzione del titolo all’ultima delle tre parti.
Si vedano, inoltre: A. Banfi et al., A. O., Firenze 1930; A. Luzzatto, Rimbaud, O.,Valéry, Genova 1933; G. Federzoni et al., A. O., in Vesuvio, 1939, febbraio-marzo; S. Salucci, A. O., Firenze 1972; V. Jemolo – M. Morelli, L’Archivio di A. O. presso la Biblioteca nazionale di Roma, in Acc. e Biblioteche d’Italia, XLI (1973), 3, pp. 181-205; M. Fittoni, La visione del mondo di A. O., Messina-Firenze 1973; F. Lanza, A. O., Milano 1973; A. Dolfi, A. O., Firenze 1976; A. Vecchio, A. O. negli scritti critico-estetici inediti, Bergamo 1978 (Abbozzo di un’autobiografia: pp. 143-146); Per A. O.: la tentazione cosmica, a cura di C. Donati, Roma-Napoli 1987 (contiene scritti di: F. Lanza, S. Salucci, M. Del Serra, F. Livi, O. Macrì, A. Dolfi, G. Bàrberi Squarotti); A. Onofri, Corrispondenze con Comisso, Montale, Palazzeschi, Banfi, De Pisis, Evola, Péladan, De Gubernatis, Gromo, Mazzerelli, Schwarz, a cura di M. Albertazzi – M. Vigilante, Trento 1999; Carteggi Cecchi – O. – Papini (1912-1917), a cura di C. D’Alessio, Milano 2000; J. Evola – A. Onofri, Esoterismo e poesia. Lettere e documenti (1924-1930), a cura di M. Beraldo, Roma 2001; M. Vigilante, «Temi e non poemi» di A. O.: il complesso passaggio verso l’ultima fase poetica, in Critica letteraria, 2001, n. 3, pp. 525-533.
di Gabriele Scalessa – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 79 (2013)
Descrizione del libro di Massimo Cerullo e Franco Crespi-Emozioni e ragione–In che modo la modernità ha influito sull’esperienza soggettiva e sociale della realtà (credenze, valori, stili di vita)? Quali nuove pratiche, emozionali e razionali, sono venute oggi affermandosi a seguito della crisi globale e del fallimento di molte logiche capitalistiche? E che ruolo svolgono emozioni, sentimenti e passioni (paura, nostalgia, vergogna, indignazione, amore) nelle modalità dell’agire? Il presente volume di teoria sociale prova a rispondere a queste domande riflettendo sulle forme dell’agire umano, tenuto conto dell’intimo nesso che intercorre tra agire e conoscere, tra ragione ed emozioni. Perché le pratiche sociali, oltre a essere vissute ed esperite secondo la duplice prospettiva individuale e collettiva, risultano sempre variamente intrise di emozionalità e razionalità. In tal senso, l’obiettivo del presente lavoro è di riflettere sulle forme e sui modi in cui le pratiche sociali prendono vita e, anche attraverso un ripensamento critico delle teorie dei classici della sociologia e della filosofia, proporre nuove e più adeguate interpretazioni della realtà nella quale viviamo.
AUTORI-CURATORI
Massimo Cerulo è professore ordinario di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli “Federico II”. È chercheur associé al CERLIS (CNRS) dell’Université Sorbonne Paris Cité. Ha insegnato e svolto attività di ricerca nelle università di Torino, Salerno, Napoli, Cosenza, Lugano, UQAM-Montréal, EHESS-Parigi, Lille, Montpellier, Londra. È membro della Société Internationale d’Ethnographie, dell’Osservatorio per lo studio dei mutamenti sociali e delle innovazioni culturali (MUSIC-Torino), dell’Osservatorio per lo studio della vita quotidiana e dei processi culturali (OSSIDIANA-Cosenza). Per la casa editrice Orthotes è direttore scientifico della collana “Teoria sociale”. Ha introdotto in Italia parti della teoria sociale di alcuni classici della sociologia, quali Pierre Bourdieu (Sul concetto di campo in sociologia, Roma 2010), Gabriel Tarde (La logica sociale dei sentimenti, Roma 2011) e Arlie R. Hochschild (Lavoro emozionale e struttura sociale, Roma 2013). Tra le sue pubblicazioni più recenti: Emozioni e ragione nelle pratiche sociali (con F. Crespi, Orthotes 2013); La società delle emozioni (Orthotes 2014); Gli equilibristi. La vita quotidiana del dirigente scolastico (Soveria Mannelli 2015); Sociologia delle emozioni. Autori, teorie, concetti (Bologna 2018); Emotions et dynamiques sociales. Règles et expressions dans l’interaction sociale (Montpellier 2020); Giovani e social network (con E. Bissaca, C.M. Scarcelli, Roma 2021); Andare per Caffè storici (Bologna 2021, finalista Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica); Il pensiero sociologico (con F. Crespi, Bologna 2022)
Franco Crespi è professore emerito di Sociologia nell’Università degli Studi di Perugia.Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: Esistenza e simbolico (Milano 1978), Evento e struttura (Bologna 1993), Imparare ad esistere (Roma 1994), Teoria dell’agire sociale (Bologna 1999), Identità e riconoscimento (Roma-Bari 2003), Contro l’aldilà – per una nuova cultura laica (Bologna 2008).
Orthotes Editrice
Via Saverio Costantino Amato 16 84014 – Nocera Inferiore (SA)
a cura di Maria Serena Sapegno-Viella Libreria Editrice Roma
Sinossi -Con questo libro viene fatto il punto sugli studi più recenti intorno a Vittoria Colonna, figura chiave della cultura italiana nel Cinquecento, protagonista della vita letteraria, religiosa e politica in Italia. Oltre a essere stata la prima italiana ‒ unica tra tutti i poeti, uomini o donne ‒ alla cui poesia sia stato dedicato un intero volume a stampa, fu anche la prima a beneficiare di un’edizione con commento mentre era in vita. Tuttavia non fu solo un’attrice di primo piano della scena letteraria del tempo. Vittoria Colonna fu, infatti, anche parte attiva delle controversie religiose e politiche del secolo XVI. Appartenente a una delle famiglie più potenti di Roma, amica tra gli altri di Bembo, Michelangelo, Pole, Ochino, la poetessa fu personalmente implicata in molte delle vicende più significative del periodo. E se la sua figura ha goduto del privilegio ‒ pressoché unico tra le letterate italiane ‒ di non scomparire mai del tutto dal canone, le interpretazioni che ne sono state date sono mutate molto nel corso del tempo. Questo libro, attraverso una disamina dell’intera produzione di Vittoria Colonna e un’analisi dello scenario più ampio, religioso e culturale, al quale partecipava, aiuta a comprendere tali interpretazioni in modo innovativo e a capire così anche tutta un’epoca.
– Religione soggettiva e oggettiva nel giovane Hegel –
Articolo di Renato CAPUTO-Ass. La Città Futura
La critica condotta da Hegel in questi anni al freddo intelletto raziocinante e calcolatore non è assimilabile a quella più tarda della scuola romantica, in quanto non comporta affatto un giudizio radicalmente negativo sull’illuminismo, la Rivoluzione francese o la modernità nel suo complesso.
È in nome della religione soggettiva che il giovane Georg Wilhelm Friedrich Hegel sviluppa la polemica contro il “freddo intelletto”, i cui astratti e morti dogmi non sono traducibili nella concretezza dell’agire morale e, incapaci di penetrare nell’intimo della soggettività, pretendono di ricondurre la multiforme ricchezza della vita etica, la spontaneità dei sentimenti vissuti a soffocanti schemi dottrinari, fondati unicamente sulla rivelazione positiva. “Nel concetto di religione – scrive Hegel – è implicito che questa non è semplicemente una scienza intorno a Dio, ai suoi attributi (…) il che in ogni caso o potrebbe essere appreso semplicemente con la ragione o esserci noto per altra via (…) ma interessa il cuore ed ha influenza sui nostri sentimenti e sulla determinazione della volontà. Ciò (…) perché i nostri doveri e le leggi acquistano maggior forza dal fatto che ci sono rappresentati come leggi divine” [1]. In questi anni si ripresenta costantemente la critica alla casistica, cui Hegel contrappone appunto la religione soggettiva: “con la raccomandazione di vari e diversi doveri si perde di vista nel singolo l’intero, il tutto, si confonde il sentimento delle molte cose che si dovrebbero fare, non si permette alla coscienza di pervenire alla sua forza e non la si radica nello spirito dalla cui pienezza deve scaturire la virtù ed ogni conformità al dovere” [2]. Il giovane Hegel tende a contrapporre la morale kantiana e gli ideali della Rivoluzione francese al rigido moralismo tardo illuminista e al dogmatismo protestante. Quest’ultimo, pure avendo purificato la religione, rispetto al cattolicesimo, a fede soggettiva, la ha poi costretta in una casistica arida e intellettualistica: “la riforma scoprì il valore della religione soggettiva e mirò a migliorare gli uomini, volendo tradurre quest’arte in un sistema di parole (…) ma oggigiorno si è trovato che la religione non si lascia racchiudere in una dogmatica, mentre la comporta più una religione oggettiva” [3].
La critica condotta da Hegel in questi anni al freddo intelletto raziocinante e calcolatore non è assimilabile a quella più tarda della scuola romantica, in quanto non comporta affatto un giudizio radicalmente negativo sull’illuminismo, la Rivoluzione Francese o la modernità nel suo complesso. Si tratta, del resto, di una tematica presente, in qualche modo, negli scritti hegeliani sin dall’epoca di Stoccarda e derivata in prima luogo dalla filosofia di Jean-Jacques Rousseau.
La critica all’intelletto colpisce, piuttosto, un certo indirizzo dell’illuminismo che ne stravolge gli intenti, accolto tanto nella teologia dogmatica del seminario teologico di Tubinga in cui Hegel si era formato quanto dalla concezione della religione fondata sui postulati della Ragion pratica [4]. Da ciò deriverà la decisa polemica hegeliana nei confronti del dualismo, sul piano storico-positivo, tra felicità e azione conforme all’imperativo categorico, in base alla quale la filosofia critica aveva recuperato la necessità della fede nel sovrasensibile. Come gli scrive Schelling: “è un piacere vedere come essi sanno trarre a proprio vantaggio la prova morale. In un battibaleno spunta fuori il deus ex machina, l’Ente personale, individuale, che siede in cielo!” [5].
Del resto, lo stesso interesse del giovane Hegel per il sentimento, lo spirito del popolo e la religione popolare sono riconducibili alla volontà di contrastare il tentativo della teologia dogmatica di recuperare la rottura prodotta dalla filosofia kantiana con la metafisica scolastica e l’ortodossia, proprio sulla base del secondo postulato della Ragion pratica – poi sviluppato nella Critica del giudizio e nella Religione nei limiti della sola ragione [6]. Proprio a partire dall’insanabile contrapposizione tra imperativo categorico e costituzione sensibile dell’uomo, tra azione morale e sensibilità, Kant aveva postulato la necessità di un garante sovrasensibile dell’unità tra questi due momenti [7]. Per ora, Hegel si limita a confutare la necessità dello scarto tra azione morale e conseguimento della felicità, riprendendo la tesi che l’illuminismo attribuiva a Socrate: “se si assume il soddisfacimento dell’impulso alla felicità come fine supremo della vita, purché lo si sappia ben calcolare, sortiranno, secondo l’apparenza esterna, i medesimi effetti di quando è la legge della ragione a determinare la nostra volontà” [8].
Tuttavia Hegel, riaccostandosi alla filosofia critica, rifiuta le estreme conseguenze di una tesi che, nel tentativo di stabilire a priori il comportamento corrispondente a ogni caso empirico, aveva condotto il tardo illuminismo a sviluppare una precettistica morale che finiva per essere agevolmente recuperata dal moralismo radicalmente antistorico dominante al seminario di Tubinga [9].
Da ciò deriva, nella riflessione hegeliana, l’esigenza di distinguere nettamente all’interno della tradizione illuminista le tendenze degne di essere sviluppate da quelle da accantonare. “Qualcosa di diverso dall’illuminamento – osserva Hegel – inteso come ragionamento, è la saggezza. La saggezza non è scienza; è un’elevazione dell’anima che, con l’esperienza legata alla riflessione, si è innalzata oltre la dipendenza dalle opinioni e dalle impressioni della sensibilità” [10]. Si tratta di una critica presente non solo in Rousseau, ma nello stesso Kant che, già nella prima Critica, aveva decisamente opposto la saggezza socratica all’intellettualismo della metafisica scolastica. Allo stesso modo non si dà, per Hegel, una semplice opposizione tra illuminismo e saggezza. “Se l’illuminamento – a suo parere – deve effettuare ciò che pretendono i suoi grandi esaltatori, se deve meritare i loro elogi, è vera saggezza, altrimenti rimane comunemente saccenteria” [11]. Così la critica all’intelletto non si pone come negazione semplice, ma determinata: “compito dell’intelletto illuminato – secondo Hegel – è il vagliare la religione oggettiva. Ma, come la sua forza non ha alcuna vera importanza quando si devono produrre il miglioramento degli uomini, l’educazione a grandi e forti pensieri, a nobili sentimenti e ad una decisa autonomia, così anche il prodotto, la religione oggettiva, non ha gran peso a tali fini” [12]. Tanto più che l’intelletto illuminista ha svolto un ruolo fondamentale nella critica rivolta a ogni forma feticistica della religione positiva, a ogni intolleranza fondata unicamente su ragioni storiche, che prescinde completamente dai princìpi universali, cosmopolitici della religione naturale. “L’intelletto – scrive Hegel – è al servizio solo della religione oggettiva. Col chiarire i principi, con l’esporli nella loro purezza, esso ha prodotto splendidi frutti, il Nathan di Lessing, e merita gli elogi con cui sempre lo si esalta” [13].
Note:
[1] Hegel, G.W.F., Gesammelte Werke, In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, a cura della Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Meiner dal 1968, vol. I, p. 85, Id., Scritti giovanili I, tr. it. di E. Mirri, Guida, Napoli 1993, p. 171.
[2] Ivi, p. 78 e p. 164.
[3] Ivi, p. 76 e p. 160.
[4] A proposito di quest’ultima tendenza, scriverà polemicamente il giovane Schelling: “certo, voi ci dovete ringraziare assai per il rifiuto del vostro sistema. Ora non avete più bisogno di impegnarvi in dimostrazioni acute, difficili da comprendere: noi vi abbiamo aperto una via più breve. A ciò che non siete in grado di dimostrare voi imprimete il marchio della ragion pratica, con la certa sicurezza che la vostra moneta circolerà ovunque domini ancora la ragione umana” Schelling, F.W.J., Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, tr. it. di Semerari G., Laterza, Bari 1995, p. 15.
[5] Hegel, G.W.F., Briefe von und an Hegel a cura di Hoffmeister, 4 voll., Amburgo 1952 (2. ed. 1977-1981), p.14, tr. it. parziale di Manganaro P., Epistolario I(1785-1808), Guida, Napoli 1983, p. 107. Come è stato a ragione osservato: “si trattava di sciogliere l’equivoco logico del Dio morale, creato dai teologi tubinghesi col fraintendimento della Critica e col ricorso a una vuota rappresentazione antropomorfica” Semerari G., Introduzione a Schelling F.W.J., Lettere filosofiche…, op. cit., p. XIX.
[6] Ecco come argomentava a tal proposito Immanuel Kant: “senza dubbio questo lo riscontriamo soltanto nell’idea di un Oggetto, che riunisca in sé la condizione formale di tutti gli scopi, il modo secondo cui dobbiamo proporceli (il dovere) e, nello stesso tempo, tutto il condizionato, concordante con quegli scopi, che noi perseguiamo (la felicità commisurata all’osservanza del dovere): cioè l’idea di un sommo bene nel mondo, per la cui possibilità siamo costretti a supporre un Essere supremo morale, santissimo e onnipotente, solo capace di riunire i due elementi costitutivi” Kant, I., La religione entro i limiti della sola ragione [1793], tr. it. di Poggi A., riveduta da Olivetti M., Laterza, Bari 1995, p. 5. E ancora: “la morale conduce dunque necessariamente alla religione, per la quale si estende così all’idea di un legislatore morale onnipotente, al di sopra dell’umanità, nella cui volontà risiede quel fine ultimo (della creazione del mondo), che può e deve essere nello stesso tempo il fine ultimo dell’uomo” ivi, pp. 6-7.
[7] Lo stesso Johann Gottlieb Fichte, nella prima stesura del 1791 del Saggio in critica di ogni rivelazione aveva postulato, onde non rendere impossibile il sommo bene, “che la natura sensibile sia «sotto la giurisdizione di una qualche natura razionale, pur se non della nostra»; la comunanza di razionalità tra Dio e l’uomo morale permette di prospettarsi quel fine, il sommo bene, appunto” Cesa, C., Introduzione a Fichte [1994], Laterza, Roma-Bari 2001, p. 5.
[8] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, vol. I, p. 84; Scritti…, op. cit., p. 170.
[9] Hegel polemizza contro la trattatistica morale in quanto inefficace a un reale miglioramento dell’agire umano, ma funzionale unicamente a una maggiore avvedutezza, come diversa è la saccenteria rispetto alla saggezza: “quest’ultima consiste essenzialmente nella liberazione dal pregiudizio, che è intrecciato per lo più con la religione, e soprattutto col condurre gli uomini quanto più vicino è possibile a quei «principi universalmente validi» che sono «a fondamento della religione». Sono – è chiaro – i principi della morale” Mirri, E., Introduzione a Hegel, G.W.F., Scritti…, op. cit., p. 146.
[10] Hegel, G.W.F., Gesammelte…, vol. I, p. 96; Scritti…, op. cit., p. 182.
[11] Ivi, p. 98 e p. 183.
[12] Ivi, p. 99 e p. 184.
[13] Ivi, p. 94 e p. 179.
Fonte- Articolo di Renato CAPUTO-Ass. La Città Futura-| Via dei Lucani 11, Roma
Pier Luigi Guiducci, Quella Casa che vola. La storia delle sacre pietre di Loreto-
Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma
Descrizione del libro del Professor Pier Luigi Guiducci–Quella Casa che volaLa storia delle sacre pietre di Loreto.Per alcuni secoli si è dibattuto sulle pietre conservate nella “Camera di Maria” a Loreto. Diversi autori hanno espresso riserve sull’autenticità dei reperti. In pratica, quella stanza conservata all’interno del santuario della città mariana delle Marche rimane al massimo un sito devozionale, intorno al quale sono fiorite storie fantasiose. Ma questo orientamento ha trovato nel tempo una serie di controrepliche che sono state riassunte dallo storico Prof. Pier Luigi Guiducci nel libro: “Quella Casa che vola. La storia delle sacre pietre di Loreto“.
In particolare, lungo il migrare del tempo, chi ha difeso il valore della “Camera di Maria” a Loreto, ha ricordato la tradizione orale, quella scritta, le evidenze riscontrate (ad es. la Camera non ha fondamenta; testimonianze di autorità ecclesiali e scientifiche che hanno letto un fascicolo su Loreto contenuto nell’Archivio Segreto Vaticano), e le guarigioni non sempre spiegabili. Il colpo di scena, però, è avvenuto negli anni Sessanta (XX sec.) quando si è deciso di promuovere scavi archeologici e di esaminare i graffiti individuati nelle pietre. Un secondo fatto nuovo ha riguardato l’individuazione di un atto notarile inserito nel c.d. Chartularium Culisanense. In questo documento si trova un foglio che elenca i beni dotali consegnati da Thamar di Epiro al promesso sposo Filippo I d’Angiò. Al punto 3 c’è il riferimento alle sacre pietre che costituivano l’abitazione della Vergine Maria a Nazareth. Da questo momento in poi la ricerca degli studiosi ha affrontato le strade più diverse per comprendere come le sacre pietre siano alla fine arrivate nelle Marche (colle Prodo) e non a Taranto (sede di Filippo I d’Angiò) o a Napoli (centro di potere degli Angiò).
È certamente quest’ultimo punto il fatto che attrae il lettore. La vicenda coinvolge gli armatori che, dietro pagamento, garantivano trasporti via mare, la Famiglia Angelo (i cui membri erano chiamati gli Angeli), Niceforo I di Epiro, Carlo II d’Angiò, i Padri Domenicani (e soprattutto il vescovo fr. Salvo) e altre persone che si occuparono del trasporto navale lungo il Mar Adriatico cercando di evitare le insidie del tempo (liberi predatori, il controllo di Venezia, soggetti in cerca di reliquie).
Ma ad attirare i lettori è anche la lettura dei graffiti studiati osservando le pietre lauretane. Emerge così sia l’origine mediorientale, sia il collegamento con l’area della Sacra Grotta dell’Annunciazione che è a tutt’oggi venerata a Nazareth. In tale contesto, il prof. Guiducci ha saputo chiarire vari aspetti della “Questione lauretana” superando ogni polemica, e rimanendo rispettoso di un’ampia documentazione riportata nel suo libro. Si chiarisce così l’autenticità delle pietre, il collegamento Nazareth-Loreto, la figura del domenicano fra Salvo, l’interazione Domenicani-Angiò, la scelta finale ove ricomporre le “sacre pietre”.
Riteniamo questo libro un esempio di chiarezza scientifica. Senza giocare su stati emozionali, e senza indulgere su facili devozionalismi, l’A. si mostra rigoroso nella ricerca, attento agli studi realizzati (si pensi allo spazio riservato alle note a fine pagina e alle indicazioni bibliografiche), e scrupoloso osservatore delle evidenze.
Biografia del Professor Pier Luigi Guiducci-Storico della Chiesa e Giurista, l’autore vanta nel suo cursus docenze presso la Pontificia Università Salesiana, l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Roma e Milano), e il Centro Diocesano di Teologia per Laici (Istituto Ecclesia Mater, Pontificia Università Lateranense).
Autore di più di duecento libri, tra questi una storia della Chiesa in quattro volumi. Ha saputo divulgare la propria scienza anche attraverso migliaia di saggi, articoli, interventi, apporti in testi con più autori. È Consulente storico di Postulazioni, Organismi cattolici e civili in Italia e all’Estero. Per la sua attività scientifica ha ricevuto premi e riconoscimenti in diversi Paesi. I suoi studi sulla Camera di Maria a Loreto iniziano nel 1987. Pellegrino con l’OAMI, tenne una lectio magistralis nell’auditorium del santuario (1988) e pubblicò il primo saggio sulla questione lauretana nel 1989. La madre, Valentina, prestò servizio nei treni UNITALSI diretti a Loreto (anche con i bambini malati).
In questi ultimi anni si è registrata una copiosa e sorprendente serie di studi sulla Santa Casa di Loreto, i quali esprimono tre orientamenti interpretativi in merito al suo trasporto da Nazareth a Loreto negli anni 1291-1294: alcuni – pochi – ripropongono la tradizione devota del suo trasporto per ministero angelico con argomentazioni già espresse per lo più nel passato; pochi altri negano l’origine nazaretana della Santa Casa, in considerazione soprattutto della tardività delle fonti scritte che la attestano; altri, in maggior numero, ammettono l’autenticità della reliquia nazaretana, ma propongono un trasporto delle “sacre pietre” via mare, per iniziativa umana, con specifico riferimento alla famiglia Angelo dell’Epiro-Tessaglia, come aveva ipotizzato il sottoscritto nelle sue pubblicazioni sull’argomento, a partire dal 1984 fino alle recenti riedizioni. Su quest’ultima interpretazione dell’evento si colloca il presente libro del professore Pier Luigi Guiducci, il quale rivela un’encomiabile conoscenza del complesso argomento e della rispettiva bibliografia.
[P. Giuseppe Santarelli OFM cap.].
Info:
Gruppo Editoriale Albatros Il Filo, Roma 2024
Via dei Campi Flegrei, 14 – Roma www.gruppoalbatros.com – bookstore@gruppoalbatros.com – lettura@gruppoalbatros.com
Contesto storico. Tradizione. Documenti. Ricerche. Indagine archeologica. Analisi. Evidenze.
Prefazione di P. Giuseppe Santarelli OFM Cap.
Àlbatros, Roma, ottobre 2024, pagine 165, euro 13,90.
Descrizione del libro di Lu Xun -Celebrato libro come il massimo scrittore cinese del Novecento e fra i creatori della lingua scritta contemporanea, Lu Xun è il più rappresentativo fra gli uomini colti che si riconoscono nella rivoluzione popolare. La presente raccolta costituisce un condensato della sua estesa produzione saggistica (sedici volumi di saggi e discorsi) e comprende testi scritti fra il 1918 e il 1936, anno della sua morte. I testi si situano in un periodo di profonde trasformazioni: la modernizzazione della società, la nuova centralità politica delle masse contadine e l’avanzare della rivoluzione socialista. Legati al tempo e all’occasione quotidiana (il trasformarsi dell’istituzione familiare, una descrizione di Shangai, il teatro moderno, i costumi sessuali, l’avvento della fotografia…), fanno emergere le contraddizioni fra realtà privata e condizione storica, fra l’esigenza immediata di felicità e la lotta sanguinosa «per il futuro», fra tradizione e distruzione, tipicità cinese e dimensione universale. Non solo, dunque, questi scritti sono un viatico prezioso per comprendere l’evoluzione della Cina nel Novecento; nella loro acutezza, essi acquistano altresì un’ampiezza di significato che va oltre i confini di un paese e di un periodo determinato: è nella contraddittorietà della vita, nella miseria, nell’oscurità di un mondo che cambia, che si definisce il rapporto reale tra la modernità e la tradizione cinese, per cui questa può rimanere viva solo a misura che se ne distrugga il dominio, solo nel dare a sé e alle cose nuova forma.
Indice
«Salvae i bambini» di Edoarda Masi
Nota biografica
Nota biobibliografica
Nota sulla pronuncia
Tavola cronologica sulle dinastie cinesi
La mia opinione sulla castità – Come oggi essere padri – Che cosa accade dopo che Nora se ne è andata – Prima che arrivi il genio – Il crollo della pagoda di Leifeng – Fotografie – I nemici della poesia – Il proposito di sacrificarsi – Note scritte sotto la lampada – A proposito di «Di sua madre!» – Del guardar le cose a occhi aperti – Lo «studio dei classici» del quattordicesimo anno – Di come si debba rimandare il fair play – Rose senza fiori – Rose senza fiori II – In memoria della signorina Liu Hezhen – Rose senza fiori III – Cina muta – Breve saggio sulla faccia dei cinesi – La letteratura di un’epoca rivoluzionaria – Qualche chiacchiera sulla lettura – Risposta al signor Youheng – Come scrivere – Noterelle – Sulla classe intellettuale – Sulla torre – Divergenza di letteratura e politica – Letteratura e rivoluzione – Scambio di lettere – Opinioni sulla nuova letteratura di oggi – La non rivoluzionaria fretta di rivoluzione – Opinioni sulla Lega degli scrittori di sinistra – Lo stato attuale del mondo letterario nell’oscura Cina – Compiti e destino della «letteratura nazionalista» – Sul soggetto nella narrativa. Lettera – Evviva i «lavoratori intellettuali» – Ricordo per dimenticare – Dalla satira allo humour – Dal piede delle donne cinesi si induce che i cinesi mancano al giusto mezzo. E da ciò si induce che Confucio aveva una malattia – Come cominciai a scrivere racconti – Ode alla notte – Ragazze di Shanghai – Passeggiata in una sera d’autunno – Su due o tre cose cinesi – Su delle fotografie di bambino – Che strano! – Che strano! II – Chiacchiere di un profano sulla scrittura – Caratteri cinesi e latinizzazione – Confucio nella Cina moderna – Su Dostoevskij – A proposito del nostro movimento letterario oggi – Risposta a Xu Mouyong e sul fronte unito antigiapponese – «Anche questa è vita»… – Morte
Indice storico
Indice dei nomi non cinesi
L’autore Lu Xun
Lu Xun, pseudonimo di Zhou Shuren (Shaoxing, Zhejiang, 1881 – Shanghai, 1936) narratore e poeta, saggista e critico letterario, è considerato il padre della letteratura cinese contemporanea, il primo ad aver scritto un racconto (Il diario di un pazzo) in cinese moderno, attingendo largamente dalla lingua parlata. Tra le sue opere ricordiamo Alle armi (1923), Errare incerto (1926), Storie rivisitate (1935). Oltre alla Falsa libertà, Quodlibet ha pubblicato Erbe selvatiche (2003), una raccolta di brevi testi riconducibili al sanwen, uno dei numerosi sottogeneri della vastissima tradizione letteraria cinese, al confine tra la prosa e la lirica.
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