« C’est le livre que j’aurais voulu écrire. » Giorgio Bocca (ancien partisan,reporter, cofondateur de La Repubblica)
Résumé-Nuto REVELLI- La Guerre des pauvres- Paru chez Einaudi en 1962 et régulièrement réédité depuis, La Guerre des pauvres fait revivre, à partir du journal tenu par l’auteur, un chapitre héroïque méconnu de l’histoire de l’Italie, depuis la campagne de Russie (il s’engage en juillet 42) jusqu’à la Libération (Cuneo est libérée fin avril 45). Officier du corps expéditionnaire italien sur le front de l’Est dans la division Tridentina, Revelli raconte l’immense défaite et la retraite tragique qui, à la suite de la contre-offensive russe sur le Don, jettent à travers la steppe gelée des dizaines de milliers d’hommes, dont peu survivront. Après, écrit-il, sa vie ne sera plus la même. Quittant l’armée, il prend les armes dans le maquis des Alpes et mène au jour le jour, comme chef partisan puis en tant que commandant de l’une des brigades antifascistes Giustizia e libertà, un autre combat – contre les détachements mussoliniens de la République de Salò et contre les troupes hitlériennes. Au fil des jours et des pages de ce livre-vérité s’affirment la cohérence d’un destin individuel, la dignité des humbles pris dans la folie absurde de l’histoire, la force du témoignage sur « la guerre vue d’en bas ». Portées par une prose sèche et abrupte, une écriture blanche de mémorialiste qui s’invente en marchant et en luttant, loin de la rhétorique du combat ou du sentiment.
Entre Le Sergent dans la neige de Mario Rigoni Stern (1953) et La Guerre sur les collines de Beppe Fenoglio (1968), une autre voix s’élève, qui confère à ces antimémoires de guerre la dimension d’une épopée.
Traduction et annotation d’Angela Guidi et Lucie Marignac
Préface d’Éric Vial
Postface d’Emmanuel Laugier
Inédit en français
De Nuto Revelli ont été traduits : Le Monde des vaincus, Maspéro, 1980 ; Le Disparu de Marburg, Rivages, 2006 ; Les Deux Guerres. Guerre fasciste et guerre de libération, ICIP, 2020.
Photographie de couverture : Jean Gaumy, 2008
L’auteur
Né et mort à Cuneo, dans le Piémont, profondément attaché à ces montagnes qu’il arpenta en chasseur alpin, puis comme partisan après l’armistice du 8 septembre 1943, Nuto REVELLI (1919-2004) est l’une des grandes figures de la Résistance italienne. Son œuvre d’écrivain (il publie dix livres entre 1946 et 2003) s’enracine tout entière dans son expérience de la guerre et dans sa connaissance intime des paysans pauvres du Piémont.
Le préfacier
Éric VIAL, professeur d’Histoire contemporaine à l’université de Cergy-Pontoise, est spécialiste de l’histoire de l’Italie auXXe siècle, en particulier de l’émigration italienne en France. Il a notamment publiéLa Cagoule a encore frappé – L’assassinat des frères Rosselli2010), De Gaulle. Portrait-mosaïque(2017) et dirigéJean Moulin, l’âme de la Résistance(2012). Rue d’Ulm, il a traduit et présenté des textes de Piero Gobetti,Libéralisme et révolution antifasciste(2010), puis l’ouvrage de Sabino Cassese,L’Italie, le fascisme et l’État(2014).
Le postfacier
Essayiste, critique littéraire et poète, Emmanuel LAUGIER est né en 1969 au Maroc. Son premier livre, L’œil bande, paraît en 1996 (rééd. 2016). Suivent une quinzaine de recueils dans lesquels il explore la synthèse entre espaces mémoriels et expérience du présent. Il s’emploie à restituer une disparité de perceptions et d’informations dans l’oscillation d’une écriture en rupture constante de rythme. Aux éditions Nous, il a publié en 2020 Chant tacite.
Sommaire
Préface De Modène à Paraloup, par Éric VIAL
Note de l’auteur
Préambule
La retraite sur le front russe. 16 janvier-10 mars 1943
Le retour en Italie. 17 mars-26 juillet 1943
La guerre de partisan. 8 septembre 1943-27 août 1944
En France avec la brigade Carlo Rosselli. 28 août 1944-23 avril 1945
Italie. La libération de Cuneo. 24-29 avril 1945
Notes
Postface Le présent crénelé de l’action, par Emmanuel LAUGIER
Giuseppe LANZA-All’albergo del sole- Solaria Editore-Firenze -1932
Articolo scritto da Sergio SOLMI per la Rivista PEGASO diretta da Ugo OJETTI
Giuseppe Lanza(Valguarnera Caropepe, 1º gennaio 1900 – Milano, 11 settembre 1988) è stato uno scrittore, drammaturgo e critico teatrale italiano, vincitore del Premio Bagutta nel 1956 per Rosso sul lago.
Sergio SOLMI – Nacque a Rieti il 16 dicembre 1899 da Edmondo e da Clelia Lolli, modenesi.Seguì gli spostamenti del padre, professore di storia e filosofia nei licei, a Mantova (dove vide la luce la sorella Olga), a Livorno e a Torino: lì concluse il ciclo degli studi elementari iniziato nel 1905-06 a Livorno, e frequentò le scuole medie. Il 29 luglio 1912, Edmondo Solmi morì di tifo a Santa Liberata, presso Spilamberto (Modena), durante le vacanze estive.
Si interrompeva prematuramente in quel punto, a soli trentasette anni, una più che promettente parabola intellettuale: libero docente di storia della filosofia e incaricato dell’insegnamento a Torino dal 1908 al 1910, Edmondo Solmi era stato chiamato nel 1910 a Pavia come professore straordinario, e i suoi eccellenti studi su Leonardo da Vinci avevano suscitato l’ammirazione di Sigmund Freud.
Giuseppe Lanza (Valguarnera Caropepe, 1º gennaio 1900 – Milano, 11 settembre 1988) è stato uno scrittore, drammaturgo e critico teatrale italiano, vincitore del Premio Bagutta nel 1956 per Rosso sul lago.
Sergio SOLMI – Nacque a Rieti il 16 dicembre 1899 da Edmondo e da Clelia Lolli, modenesi.Seguì gli spostamenti del padre, professore di storia e filosofia nei licei, a Mantova (dove vide la luce la sorella Olga), a Livorno e a Torino: lì concluse il ciclo degli studi elementari iniziato nel 1905-06 a Livorno, e frequentò le scuole medie. Il 29 luglio 1912, Edmondo Solmi morì di tifo a Santa Liberata, presso Spilamberto (Modena), durante le vacanze estive.
Si interrompeva prematuramente in quel punto, a soli trentasette anni, una più che promettente parabola intellettuale: libero docente di storia della filosofia e incaricato dell’insegnamento a Torino dal 1908 al 1910, Edmondo Solmi era stato chiamato nel 1910 a Pavia come professore straordinario, e i suoi eccellenti studi su Leonardo da Vinci avevano suscitato l’ammirazione di Sigmund Freud.
Iscritto alla sezione ‘moderna’ del liceo d’Azeglio, Sergio Solmi affidò alla rivistina giovanile Cronache latine, tra il 15 gennaio e l’aprile-maggio 1917, i suoi primi scritti, sintomaticamente divaricati (come sarà l’intero corso della sua esperienza) tra la critica letteraria (brevi saggi su Guido Gozzano e Arthur Rimbaud) e la scrittura d’invenzione in versi e in prosa. Nel medesimo anno fu chiamato alle armi con la classe 1899: nella Scuola di applicazione di fanteria di Parma incontrò Eugenio Montale, Francesco Meriano, Marcello Manni, Renato Tassinari, Ercole Leone Crovella, Cesare Cerati (Parma 1917 si intitolerà il bellissimo mémoire pubblicato in La Fiera letteraria il 12 luglio 1953); combatté sul Monfenera e sul Montello, fu ferito da una scheggia di granata e ricoverato nell’ospedale militare di Castelfranco Veneto, partecipò all’avanzata finale conclusa il 4 novembre 1918 (all’esperienza bellica dedicherà, in La Fiera letteraria dell’11 novembre 1928, i ricordi autobiografici dal titolo Giorni di guerra).
Tornato alla vita civile, s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, fondò con Giacomo Debenedetti, Mario Gromo e Emanuele F. Sacerdote la rivista letteraria Primo tempo (15 maggio 1922-dicembre 1923), divenne amico di Piero Gobetti, alla cui lezione rimarrà fedele negli anni, conseguì la laurea in giurisprudenza con una tesi di diritto romano, iniziò l’esercizio della professione legale a Milano nel 1923 e sposò, il 20 novembre 1924, Dora Martinet, figlia di un avvocato socialista, incontrata a Pré St. Didier nell’estate del 1921, dalla quale ebbe i figli Renato e Raffaella. Il 14 gennaio 1926 fu assunto nell’ufficio legale della Banca commerciale italiana, inaugurando un lunghissimo rapporto di lavoro inscindibile dalla profonda amicizia stabilita con il protagonista assoluto della storia di quell’istituto di credito, Raffaele Mattioli.
Collaboratore delle principali riviste letterarie italiane (Il Quindicinale, Il Baretti, L’Italiano, Il Convegno, Le Opere e i Giorni, La Fiera letteraria, Solaria, L’Italia letteraria, Pègaso, Leonardo, La Cultura, Fronte, L’Illustrazione italiana, Circoli, Scuola e cultura, Pan, Emporium, Letteratura, Prospettive, Corrente, Primato) e di alcuni quotidiani (l’Unità, dove conobbe Antonio Gramsci, Giornale di Genova, L’Ambrosiano), Solmi si rivelò subito un interprete eccezionalmente acuto e consentaneo della contemporanea letteratura italiana e francese (sua è la prima originale messa a fuoco dei fondamentali caratteri tematici e formali della poesia di Montale), muovendosi nel solco nel magistero crociano ma senza rinunciare a stabilire una elettiva sintonia con alcuni tra i più eminenti hommes de lettres francesi (Charles Du Bos, Paul Valéry, Alain), particolarmente attenti ai risvolti empirici, ‘tecnici’ dell’opera d’arte.
Il pensiero di Alain (1930) è la prima sistemazione teorica del ‘metodo’ di Solmi per l’interposta persona del filosofo Émile-Auguste Chartier; Fine di stagione (1933) il suo libro di esordio en poète su una linea non lontana dal modello montaliano, ma altrettanto aperta all’ascolto di altre voci del Novecento italiano (di Vincenzo Cardarelli principalmente, mentre Emilio Cecchi fu uno tra i capitali modelli del suo esercizio di prosatore).
Di singolare rilievo è il ruolo assolto da Solmi all’interno della redazione del periodico La Cultura, fondato da Cesare De Lollis: ne diventò condirettore nel 1933, in una fase destinata ad accentuarne l’incompatibilità con la politica culturale del fascismo, che porrà fine alle pubblicazioni della rivista nel maggio del 1935 (in Strumenti critici del settembre 2009 è apparso, per la cura di Guido Lucchini, un inedito Promemoria su “La Cultura”, steso da Solmi su invito di Maurizio Mattioli).
Mentre i saggi sulla letteratura italiana del Novecento sarebbero stati accolti in volume molto più tardi, per sollecitazione di Giacomo Debenedetti (Scrittori negli anni è del 1963), le pagine francesi di Solmi trovarono un primo ordinamento nel 1942 in La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese, proprio in coincidenza con la fase liminare della sua clandestina militanza politica nelle file del Partito d’azione. Per la sua partecipazione alla Resistenza a Milano venne arrestato il 2 gennaio 1945: riuscì a fuggire dal carcere ma fu nuovamente catturato il 6 aprile. Di quelle straordinarie vicissitudini è traccia nella sezione Dal quaderno di Mario Rossetti delle sue Poesie (Milano 1950).
Condirettore, insieme con Roberto Nonveiller, di Lettere ed Arti nel 1946, direttore di La Rassegna d’Italia dal 1949, nel secondo dopoguerra Solmi orientò il proprio assiduo, discretissimo lavoro di poeta, prosatore, traduttore, critico della letteratura e delle arti figurative all’insegna di una radicale libertà metodologica, sostenuta da una inquieta, mercuriale curiosità per tutte le forme espressive, fulmineamente teorizzata, il 28 novembre 1967, in uno degli aforismi del suo Quadernetto giallo: «Mantenere sempre il compasso alla sua massima apertura, anche a costo di slogarsi le gambe della mente» (Opere, I, Poesie, meditazioni e ricordi, 2, 1984, p. 168). Non a caso il magistrale lettore di Montaigne e Leopardi, di Rimbaud e di Montale era stato, fin dal 1959, anno di pubblicazione della memorabile antologia Le meraviglie del possibile, allestita con Carlo Fruttero, uno degli scopritori italiani della science fiction; nella medesima orbita si sarebbe inscritto il complice interesse, condiviso con Franco Fortini e Italo Calvino, per Raymond Queneau, del quale avrebbe tradotto Piccola cosmogonia portatile. Il 24 luglio 1968 divenne socio corrispondente della classe di scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia nazionale dei Lincei.
Nell’ultima fase della sua esistenza, scandita dalla pubblicazione delle Meditazioni sullo scorpione (1972), delle Poesie complete (1974) e di una serie di mirabili raccolte di saggi su Leopardi (1969 e 1975), sul fantastico (1971 e 1978) e ancora sulla letteratura francese (1976), Solmi non venne meno all’abito di strenuo rigore e di leggendaria riservatezza che ne aveva costituito l’inconfondibile stigma, e la sua impareggiabile, generosa socievolezza ne convertì naturalmente il profilo di grande borghese in un punto di riferimento della vita culturale e civile a Milano, tanto più importante quanto meno incline all’esibizione di sé.
Morì a Milano il 7 ottobre 1981, a meno di un mese dalla scomparsa di Eugenio Montale.
Opere. In vita Solmi ha dato alle stampe i suoi libri in questa sequenza: Il pensiero di Alain (Milano 1930; Milano 1945; Pisa 1976); Fine di stagione (Lanciano-Milano 1933); La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese (Firenze 1942; Milano-Napoli 1952); Poesie (Milano 1950); Levania e altre poesie, con una nota di V. Sereni (Milano 1956); Scrittori negli anni. Saggi e note sulla letteratura italiana del ’900 (Milano 1963, premio Viareggio per la saggistica); Versioni poetiche da contemporanei (Milano 1963); Dal balcone (Milano 1968); Scritti leopardiani (Milano 1969; poi, con il titolo Studi e nuovi studi leopardiani, Milano-Napoli 1975); Quaderno di traduzioni, I-II (Torino 1969-1977); Della favola, del viaggio e di altre cose. Saggi sul fantastico (Milano-Napoli 1971; poi, con il titolo Saggi sul fantastico. Dall’antichità alle prospettive sul futuro, Torino 1978); Meditazioni sullo scorpione e altre prose (Milano 1972, 1979 e 2016, premio Bagutta 1973); Poesie complete (Milano 1974); Saggio su Rimbaud (Torino 1974); La luna di Laforgue e altri scritti di letteratura francese (Milano 1976, premio Viareggio per la saggistica); Poesie (1924-1972), a cura di L. Caretti (Milano 1978); Quadernetto di letture e ricordi, premessa di L. Caretti (Milano 1979).
Tra il 1983 e il 2011 la casa editrice Adelphi (Milano) ha pubblicato, per la cura di G. Pacchiano, l’intero corpus delle Opere: I, Poesie, meditazioni e ricordi, 1, Poesie e versioni poetiche (1983); 2, Meditazioni e ricordi (1984); II, Studi leopardiani. Note su autori classici italiani e stranieri (1987); III, La letteratura italiana contemporanea, 1, Scrittori negli anni (1992); 2, Scrittori, critici e pensatori del Novecento (1998); IV, Saggi di letteratura francese, 1, Il pensiero di Alain. La salute di Montaigne ed altri scritti (2005); 2, Saggio su Rimbaud. La luna di Laforgue ed altri scritti (2009); V, Letteratura e società. Saggi sul fantastico. La responsabilità della cultura. Scritti di argomento storico e politico (2000); VI, Scritti sull’arte. Discorso sulla pittura contemporanea. Saggi e note su artisti italiani e stranieri e altre pagine sparse, con una nota di A. Negri (2011).
Il lavoro di Solmi traduttore di poesia è attestato da Versioni poetiche da contemporanei e dal Quaderno di traduzioni, I-II; di Solmi è, inoltre, la versione italiana (seguita da Piccola guida alla Piccola cosmogonia di Italo Calvino) di Piccola cosmogonia portatile di Raymond Queneau (Torino 1982).
Si deve a Solmi la cura dei due tomi delle Opere di Giacomo Leopardi per la collezione La letteratura italiana. Storia e testi della Ricciardi (Milano-Napoli 1956 e, in collaborazione con la figlia Raffaella, 1966) e delle antologie Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza (con C. Fruttero, Torino 1959) e Il giardino del tempo e altri racconti. Il terzo libro della fantascienza (Torino 1983).
Non esiste una raccolta neppure parziale delle lettere di Sergio Solmi, che i rari specimina sparsamente resi noti rendono vivamente desiderabile. Sono state edite, a cura di M. Baldini, introduzione di A. Dolfi, le Lettere a Sergio Solmi di Carlo Betocchi (Roma 2006).
Fonti e Bibl.: La Biblioteca e l’Archivio di Sergio Solmi sono presso la Fondazione Natalino Sapegno onlus a Morgex (Aosta). Una notevole testimonianza biografica e autobiografica ha redatto il figlio primogenito, Renato: Nota biografica e testimonianza personale, in Letteratura e società, cit., pp. 663-685 (poi, con il titolo Sergio Solmi. Una testimonianza personale, in Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Macerata 2007, pp. 775-792). Su Solmi e la Banca commerciale italiana è utile il saggio di G. Leori – G. Montanari, Le carte di Sergio Solmi, capo dell’Ufficio consulenza legale della Banca commerciale italiana (1942-1953), in Italia contemporanea, 2014, n. 274, pp. 159-174.
Una ricca serie di informazioni bibliografiche, alle quali si rinvia, offrono le monografie di F. D’Alessandro, Lo stile europeo di S. S. Tra critica e poesia, Milano 2005, di A. Giampietro, S. S. critico militante. Un itinerario nella letteratura italiana del Novecento, Bari 2012, e di G. Montanari – F. Pino, S. S. tra letteratura e banca, Milano 2016. A pp. 227-314 del suo libro Francesca D’Alessandro ha reso noto un prezioso quaderno, dal titolo Libri letti, che di Solmi registra le letture comprese tra il 1919 e il 1936 (ne esistono altri due, rispettivamente relativi agli anni 1936-60 e 1960-81).
Tra gli scritti e le testimonianze di carattere generale si vedano: Omaggio a S. S., a cura di L. Erba, in Stagione, 1956, n. 10, (interventi di L. Erba, V. Sereni, G. Caproni, L. Anceschi, M. Luzi, G. Bárberi Squarotti, M. Colesanti, M. Camilucci, E. Bartolini, U. Eco, N. Risi, G. Gramigna); E. Montale, S. S. Settant’anni. Uomo e poeta, in Corriere della Sera, 16 dicembre 1969 (poi, con il titolo S. S. uomo e poeta, in Id., Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, pp. 342-344; con il titolo originario in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, II, Milano 1996, pp. 2932-2934); I. Calvino, S. lunare ma non troppo, in la Repubblica, 10 ottobre 1981 (poi, con il titolo In memoria di S. S., in Id., Saggi 1945-1955, a cura di M. Barenghi, Milano 1995, pp. 1253-1256); S. Ramat, S., S., in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, III, Torino 1986, pp. 209-211. Sul poeta e prosatore d’invenzione: V. Sereni, postfazione a Levania e altre poesie, cit., pp. 25-43 (poi in Id., Letture preliminari, Padova 1974, pp. 49-63); P.P. Pasolini, Levania e altre poesie, in Il Punto della settimana, 5 gennaio 1957 (poi, con il titolo S.: evasione e impegno, in Id., Passione e ideologia (1948-1958), Milano 1960, pp. 450-452, e in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti – S. De Laude, con un saggio di C. Segre, cronologia di N. Naldini, I, Milano 1999, pp. 1192-1195); A. Zanzotto, S. S. e “Levania”, in aut aut, 1957, n. 40, pp. 374-384, e Id., Le lune sognate nei versi di S., in Corriere della Sera del lunedì, 13 gennaio 1975 (poi, la seconda con il nuovo titolo Le “Poesie complete” di S. S., in Id., Fantasie di avvicinamento, Milano 1991, pp. 59-73 e 74-77); L. Caretti, Itinerario di S., in Strumenti critici, III (1969), 10, pp. 381-403 (poi in Id., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino 1976, pp. 427-452, e Introduzione a S. S., Poesie, cit., pp. IX-XXXI); P.V. Mengaldo, Caratteri stilistici della poesia di Solmi, in Giornale storico della letteratura italiana, CXIX (2002), pp. 497-510 (poi in Id., La tradizione del Novecento. Quinta serie, Roma 2017, pp. 237-248); sul critico: E. Montale, recensione a Il pensiero di Alain, in Pègaso, II (1930), 11, pp. 633-636 (poi in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, I, Milano 1996, pp. 423-429); G. Debenedetti, gli anonimi paratesti allegati a Scrittori negli anni, cit. (seconda di copertina: Il libro; terza di copertina: L’Autore); P.V. Mengaldo, S. S., in Profili di critici del Novecento, Torino 1998, pp. 38-43; sul traduttore: P.V. Mengaldo, Aspetti delle versioni poetiche di S., in Studi novecenteschi, IX (1982), pp. 45-96 (poi in Id., La tradizione del Novecento. Nuova serie, Firenze 1987, pp. 307-356, e Seconda serie, Torino 2003, pp. 271-314).
-Maria Luisa Fehr-Romanzo APRILE- Mondadori editore Milano 1934-
-Articolo di Guido Piovene per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Guido Piovene-Scrittore e giornalista italiano (Vicenza 1907 – Londra 1974). Formatosi all’incrocio di un cattolicesimo sensuale con un illuminismo attinto ai moralisti francesi del Sei-Settecento, aperto alle influenze del freudismo e dell’esistenzialismo, P. indagò le passioni e i vizi umani. Tra i romanzi più noti: Le furie (1963), in cui ha tentato di applicare la tecnica del nouveau roman, dando particolare rilievo alla memoria di un mondo in decadenza di fronte al quale lo scrittore subisce rimorsi e inibizioni, non senza però lasciare nel lettore un sapore di ambiguità; e Le stelle fredde (1970, premio Strega), in cui ritorna con gli stessi simboli la materia autobiografica.
Vita e opere
Nel 1935 entrò a far parte del Corriere della sera per poi passare a La Stampa, della quale fu collaboratore fino alla fondazione, con I. Montanelli e altri, del quotidiano milanese Il Giornale (1974). La sua opera, che varia dalla corrispondenza e dai servizi di giornalismo d’alto livello alle pagine di viaggio e di riflessione, al racconto, al romanzo, è quella di un saggista formatosi all’incrocio di un cattolicesimo morbido e sensuale, di tradizione vicentino-fogazzariana, con un illuminismo attinto soprattutto ai moralisti e romanzieri francesi del Sei-Settecento; ma aperto alle suggestioni del freudismo e dell’esistenzialismo. Un saggista inteso all’esplorazione lenta, minuta delle passioni, dei vizi umani, colti nel loro sinuoso trasformarsi o dissimularsi in virtù (a cominciare dall’egoismo così spesso atteggiato a pietà); un osservatore e descrittore di «caratteri», il quale, come narratore, rivela, sotto il lucido intellettualismo della sua indagine e delle sue invenzioni, l’ansia di una ricerca soggettiva, di un personale riscatto. Ne è testimonianza, nei suoi racconti (La vedova allegra, 1931; Inverno di un uomo felice, post., 1977; Spettacolo di mezzanotte, post., 1984) e nei romanzi (Lettere di una novizia, 1941; La gazzetta nera, 1943; Pietà contro pietà, 1946; I falsi redentori, 1949; Le furie, 1963; Le stelle fredde, 1970; Verità e menzogna, post., 1975; Romanzo americano, post., 1979), quel procedere della narrazione, entro una cornice apparentemente oggettiva, per monologhi – in forma epistolare, di diario, di confessione, ecc. – dei protagonisti, che permette allo scrittore di eludere, come in un gioco o finzione scenica, quanto di troppo autobiografico urge al fondo della sua arte. Accanto alla produzione saggistica (Lo scrittore tra la tirannide e la libertà, 1952; Idoli e ragione, post., 1975), poi raccolta in Saggi (2 voll., post., 1986-90), e ai notevoli libri di reportage, di viaggio e di costume (De America, 1953; Viaggio in Italia, 1957; Madame la France, 1966; L’Europa semilibera, 1973; ecc.) è da ricordare il discusso La coda di paglia (1962), in cui P. rievocò i propri rapporti col fascismo. Al genere fiabesco appartiene Il Nonno Tigre (1972).
Poesie di Akiko Yosano -Poetessa e scrittrice giapponese-
Akiko Yosano-(1878-1942)- Poetessa e scrittrice giapponese. Profonda conoscitrice della letteratura classica giapponese, manifestò interesse per le nuove correnti letterarie ispirate a modelli occidentali, rinnovando uno dei più tradizionali generi poetici grazie a una grande forza immaginativa, tesa all’esaltazione della passione amorosa.
poesie di Akiko Yosano
SE QUI ADESSO
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
—————————————————–
Sebbene così fragile
e così breve l’amore,
ha sangue troppo giovane
questa ragazza, per bruciare
poesie di primavera.
*
Ho sentito, non so perché
che tu mi aspettavi
e sono uscita – Nella notte
improvvisa spuntò la luna
sui campi in fiore.
*
Appoggio il mio corpo al cancello
e mi perdo in pensieri
infiniti
guardo il vento autunnale
passare sui fiori rossi.
*
Capelli neri arruffati in mille trecce. Arruffati i miei capelli e arruffati i miei arruffati ricordi delle nostre lunghe notti d’amanti
*
Via Lattea:
a letto, con lui,
apro la tenda
e guardo come, all’alba,
si separano due stelle.
*
La mia giovinezza è presso a finire simile a una pianura docile che, subita, spiombi nel mare
*
Amore o sangue?
tutta la primavera
è in questa peonia che mi ossessiona,
scende la notte, sono sola,
sola senza una poesia.
*
Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione,
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.
*
Mi piace questo alto cantare di vento. L’alba quando cammino sotto l’albero di hi dal vecchio tronco…
Nel 1904, Akiko Yosano scrisse e pubblicò quella che è probabilmente la sua più celebre poesia, Kimi shinitamou koto nakare (“Ti prego, fratello, non morire”). Suo fratello minore, Chuzaburo, era stato mobilitato per la guerra russo-giapponese (che si concluse con la famosa disfatta russa di Port Arthur, o Lüshun); nella poesia, Akiko espresse tutte le sue preoccupazioni. Musicata poco tempo dopo, la poesia è diventata una delle più classiche canzoni contro la guerra in lingua giapponese, dato che così è sentita da tutti nonostante sia molto “lieve” e non contenga espressioni antimilitariste. In particolare, la poesia fu pubblicata su Myōjō proprio quando il numero delle vittime della battaglia di Port Arthur fu reso noto pubblicamente, ed il carattere antibellico della composizione risultò chiaro. Va da sé che piovvero le accuse di disfattismo sulla poetessa. Non sono purtroppo riuscito a determinare chi sia stato l’autore della musica, ed è possibile anche che esistano più versioni musicate della poesia (che in Giappone è davvero famosissima: è arrivata, manco a dirlo, anche alle sigle dei cartoni animati). Il testo giapponese, le note originali e tradotte e la traduzione inglese le ho trovate invece su questa pagina, e così le riproduco. [RV]
君死にたまふことなかれ
La versione inglese. English Translation
Port Arthur, 1904/05.
Le note alla traduzione contenute nella pagina di provenienza sono state fedelmente riprodotte. L’autore della traduzione non è indicato.
PRITHEE DO NOT DIE
Lamenting my younger brother in combat as one
of the troops besieged at Lüshun(Port Arthur)
Yosano Akiko
Oh, younger brother mine, for thee I weep,
Prithee do not die,
For you were born the very last,
And our parents loved you all the more,
Yet they made thee grasp a blade in hand,
Taught thee kill a man you shall,
Kill a man, and die you too,
groomed you thus to age twenty-four.
Master now of the proud old house,
The merchant-house of Sakai1, our town,
You must now carry on our name,
So I prithee, do not die,
Though Lüshun’s2 fortress should perish,
Should it be saved, what of that?
Thou ought know, it nowhere commands
On the familial codes3 of our merchant house.
I prithee do not die,
The Heavenly-Prince does not himself
Lead by his own august presence his troop to battle.
For to command that men shed blood of men,
And die following the beastly path4,
And tell us death be the glory of men,
If his Highness’ heart be compassionate,
How could he truly think it so?
Oh young brother mine in battle,
I prithee you mustn’t die.
Our mother who has lagged behind father
In the passing of the autumn years of life,
It sores me to watch her lament,
Deprived of son to guard the home,
And though she hears our Highness hale and safe,
Our mother’s gray hair grows.
Stooping in the shade of the noren5 she weeps,
The frail young wife of yours,
Or have you forgotten? Or do you think of her?
Think on her maidenly feeling,
Together ere ten months, then parted,
And there’s none another the likes of you,
Oh once again I ask,
Prithee do not die.
— pub. in Myōjō Sept. 1904.
Translation’s Notes / Note alla traduzione
Notes:
1 Sakai is a merchant town with a rich history, which prospered by foreign trade in the age of Warring-States, and its merchants were proud and independent-minded. The famous tea ceremony master Sen-no-Rikyū (1522-1591) who committed harakiri was a Sakai merchant.
2 Lüshun (Port Arthur), pronounced “Ryojun” in Japanese, was a naval port for Russia’s Eastern Fleet.
3 An “old family” often has something called kakun or lessons — do’s and don’ts that are passed down generation to generation. The poetess is saying that since they are merchant family, dying to defend a castle is certainly not one of those lessons.
4 “Beastly path” is a reference to a course of conduct without morality or discipline; In Buddhism, if your conduct in this life is poor, you are said to be relegated to chikushōdō “way of beasts” in the next life.
5Noren is the shop curtain, the drape of cloth hanging at the shop entrance. There is also such a curtain between the storefront and the back area.
Breve biografia di Akiko Yosano-(1878-1942)-Nata come Sho Ho il 7 dicembre 1878 nel villaggio di Sakai, presso Osaka, Akiko Yosano è stata una delle più famose e controverse poetesse giapponesi del primo’900. E’ considerata una delle prime pacifiste e femministe attive nel Giappone dell’epoca Meiji: il suo anno cruciale può essere considerato il 1901. In quell’anno, all’età di 23 anni, sposò Tekkan Yosano, il responsabile editoriale della rivista Myōjō (“Stella lucente”), sulla quale aveva cominciato a pubblicare le proprie poesie. Tekkan era regolarmente sposato e divorziò dalla prima moglie per sposare Akiko, ma in pieno accordo con essa continuò a frequentarla ( oggi si definirebbe famiglia allargata). Nello stesso anno, Akiko Yosano pubblicò Midaregami (“Capelli arruffati”), una raccolta di 400 poesie ritenuta il faro del libero pensiero nel Giappone dell’epoca; come è lecito attendersi, la critica ufficiale stroncò la raccolta e la definì scandalosa. Ciò nonostante, Midaregami riscosse un successo clamoroso, e la fama di Akiko Yosano eclissò quella del marito, anch’egli comunque valente poeta. Akiko morì d’infarto il 29 maggio 1942, in piena guerra; la notizia della sua morte passò inosservata, dopo che per tutta la vita si era spesa contro il crescente militarismo giapponese ed aveva combattuto per la condizione delle donne in una società del tutto oppressiva nei loro confronti. Le sue opere non erano state messe al bando, ma comunque ignorate; solo negli ultimi due decenni è stata riscoperta, tornando a godere del successo di un tempo.
Carlo Levi- “Cristo si è fermato a Eboli”-Articolo di Luana Favaretto-
Carlo Levi- “Cristo si è fermato a Eboli” e “Le parole sono pietre”-Articolo di Luana Favaretto-Il primo titolo è un capolavoro della letteratura italiana che tutti conoscono, almeno per notorietà, ed è quello che è capitato anche a me, conoscerlo per “sentito dire”, tanto che l’ho lasciato lungamente languire sugli scaffali di casa. La trama bene o male l’avevo intuita, trattarsi di un romanzo autobiografico dove Carlo Levi, scrittore e pittore antifascista, racconta il periodo di confino, dovuto alle sue idee politiche per l’appunto, in un poverissimo paesino della Basilicata, dove per miseria, malattia, arretratezza, si è rimasti indietro nel progresso, per la maggior parte degli abitanti, quasi ai livelli dei tempi della schiavitù. Cristo si è fermato ad Eboli perché ad Aliano (Gagliano come viene citato nel libro nella versione dialettale) la civiltà non è mai arrivata. Sia che si tratti di mezzadri, sfruttati all’estremo, o di piccolissimi proprietari terrieri, la terra non rende, soprattutto se le disposizioni che vengono dalla lontanissima, in tutti i sensi, Roma, impongono di piantare grano dove al massino si potrebbero coltivare degli olivi. La religione non aiuta, anzi i suoi rappresentanti sono spesso mal visti in quanto esigono a loro volta offerte e derrate alimentari. La sanità è inesistente, i medici del paese non svolgono con responsabilità il loro lavoro, i poveri che non possono pagare non vengono curati, e le farmacie vendono a caro prezzo prodotti alterati e pressoché inutili. La gente ignorante si imbroglia meglio. Carlo Levi si trova ad affrontare situazioni, in cui viene coinvolto suo malgrado, inumani e tali da provocare una grande indignazione. Ma le persone sono abituate al giogo della povertà, c’è una rassegnazione di fondo terribile, anche se qualche volta “il popolo alza la testa”, non sempre con i risultati sperati.
Tutto il romanzo è scritto in modo impeccabile, con uno stile e contenuti di altri tempi certamente, ma sempre molto scorrevole e soprattutto si legge tra le righe lo sguardo del pittore. Sia che ci faccia vedere, attraverso la scrittura, un paesaggio, o gli occhi delle persone che incontra per strada, o la bellezza di un volto, il suo è un guardare e un sentire in modo intensissimo. Ovviamente il pregio maggiore del romanzo è dato dalla denuncia sociale della degradazione di un popolo.
Letto questo cosa ci si può aspettare da “Le parole sono pietre” cronache dei viaggi di Carlo Levi in Sicilia, questa volta, durante La Riforma Agraria, se non altrettanta fascinazione e nello stesso tempo indignazione? Sarà che leggendo le tappe raccontate da Levi nella splendida terra di Sicilia ho ripercorso l’itinerario di una mia lontana vacanza alla scoperta di quest’isola meravigliosa ma non ho potuto non rimanere incantata. Nello stesso tempo non si può non arrabbiarsi per i soprusi che come sempre colpiscono i più deboli. Ci si rende anche conto che poco o nulla cambia nel tempo, una politica lontana che spesso è solo propaganda e autoincensamento cala sulle teste dei contadini iniziative e aiuti non concordati con chi ne necessita. Basti pensare alla mucca “Bellavita” affidata dallo Stato ad un agricoltore, bellissima, bianca, imponete in mezzo alla stalla con una coroncina di fiori in testa. Lui racconta a Carlo Levi che è l’unica a fare bella vita in famiglia! Loro avevano chiesto mucche da latte, gli hanno dato questa, da lavoro, che non può essere venduta né macellata, ma che non può essere utilizzata per il lavoro dei campi in quanto essendo questi lontani 4 ore di cammino la mucca ci arriverebbe esausta. Così la devono pure mantenere.
Roma lontana, lontanissima.
Lettura consigliata, sicuramente, per i ritardatari che come me che avessero rimandato l’immersione in questo capolavoro.
Biografia di Carlo Levi-Nacque a Torino il 29 nov. 1902 da Ercole e da Annetta Treves.
I genitori appartenevano entrambi alla media borghesia ebraica: il padre era rappresentante di una ditta inglese di tessuti; la madre era sorella del leader socialista riformista Claudio Treves.
Nel 1904 la famiglia si stabilì nella villa costruita al n. 11 di via Bezzecca, destinata a diventare il cuore degli affetti infantili e adolescenziali del L.; le frequentazioni maschili (A. Lucca, F.M. Bongioanni, N. Sapegno) e femminili (le sorelle Nella, Ada e, particolarmente, Maria Marchesini), gli studi al liceo Alfieri e l’iscrizione alla facoltà di medicina dell’Università di Torino scandiscono le tappe di un percorso di formazione illuminato dall’incontro, avvenuto nel novembre 1918, con P. Gobetti: “Scrivere di Piero Gobetti, significa, per noi della nostra generazione, fare della autobiografia”, si legge nell’incipit del saggio su Piero Gobetti e la “Rivoluzione liberale” (in Quaderni di Giustizia e libertà, giugno 1933, n. 7).
Il 27 ag. 1922 il L. aveva affidato a La Rivoluzione liberale un articolo su Antonio Salandra, inaugurando una non lunga né sistematica serie di interventi che al modello gobettiano rendono esplicito omaggio sul terreno della scrittura non meno che su quello delle categorie concettuali.
La laurea in medicina, conseguita dal L. nel 1924, e la collaborazione presso la clinica medica dell’Università parrebbero alludere alla possibilità di un impegno professionale in realtà destinato a un radicale refoulement. Il servizio militare, prestato a Torino, a Firenze e successivamente, tra la fine del 1924 e il 1926, al Moncenisio, valse a distogliere solo temporaneamente il L. dai due poli fondamentali del suo lavoro: la pittura, la politica.
La lezione di F. Casorati, le prime esperienze parigine (propiziate, anche, dalla storia sentimentale con Vitia Gurevič), il dialogo con E. Persico e con L. Venturi, da una parte, l’amicizia con C. e N. Rosselli, l’elaborazione del lutto per la morte di P. Gobetti, il fraterno compagnonnage con A. Garosci, la ricerca di nuovi spazi all’interno dello schieramento antifascista, dall’altra, non sono senza rapporto con il respiro sovranazionale, consapevolmente europeo che nella seconda metà degli anni Venti sostenne gli orientamenti del L. nel campo delle arti figurative e le ragioni profonde della sua opposizione al fascismo.
A onta dell’effimera durata dell’impresa (un numero unico, datato aprile 1929), il progetto de La Lotta politica, che il L. condivise con N. Rosselli e R. Bauer, sembra prefigurare la strategia politica teorizzata e perseguita dal movimento di Giustizia e libertà, che C. Rosselli avrebbe fondato qualche mese dopo a Parigi, e nelle cui posizioni il L. si riconobbe.
I ripetuti soggiorni parigini del L. (1931-33) gli consentirono di stabilire un collegamento non episodico tra gli avversari del regime clandestinamente operanti a Torino (specialmente il gruppo che compilava e diffondeva Voci d’officina) e la galassia dei fuorusciti italiani in Francia, partecipando alla fase preparatoria del programma di Giustizia e libertà, redigendo, insieme con L. Ginzburg, Il concetto di autonomia nel programma di “Giustizia e libertà” (Quaderni di Giustizia e libertà, settembre 1932, n. 4) e finendo con l’assumere, a Torino, una sorta di leadership di fatto nella cospirazione antifascista.
Arrestato il 13 marzo 1934 ad Alassio, il 9 maggio fu rilasciato e ammonito. A un anno di distanza, il 15 maggio 1935, fu nuovamente arrestato; condannato a tre anni di confino, il 3 agosto arrivò a Grassano, dove il 20 lo raggiunse Paola Levi, moglie di A. Olivetti e fino a quel punto sua segreta compagna di vita; il 30 agosto il prefetto di Matera propose al ministro degli Interni il trasferimento del L. ad Aliano, che ebbe luogo il 18 settembre. Vi rimase otto mesi: i provvedimenti di clemenza adottati dal governo fascista per celebrare la conquista dell’Impero lo rimisero in libertà il 20 maggio 1936 e, il 26 successivo, il L. ripartì per Torino.
L’assassinio dei fratelli Rosselli (9 giugno) e la nascita di Anna, figlia del L. e di Paola Levi, segnarono indelebilmente l’anno 1937. Le leggi razziali del 1938 indussero il L. a riprendere la via della Francia, che non poté lasciare neppure in occasione della morte del padre, avvenuta ad Alassio il 24 sett. 1939. “La Baule, settembre-dicembre 1939” è la sintomatica indicazione di tempo e di luogo che sigilla gli otto “capitoli” di Paura della libertà (Roma 1946; ora in Scritti politici, a cura di D. Bidussa, Torino 2001, pp. 132-204; a pp. 216-219 la prefazione).
Il saggio, insieme politico e psicoantropologico, a specchio della instante minaccia della finis Europae, prossima a sprofondare nel rogo della guerra, offre un originale ripensamento di sollecitazioni e motivi derivati da La ribellione delle masse di J. Ortega y Gasset e da La crisi della civiltà di J. Huizinga. A vent’anni dalla sua pubblicazione, I. Calvino parlò di Paura della libertà come del “libro da cui deve cominciare ogni discorso su Carlo Levi scrittore”, “un tipo di libro raro nella nostra letteratura, inteso a proporre le grandi linee d’una concezione del mondo, d’una reinterpretazione della storia”.
Rinunciando a partire per gli Stati Uniti, come avrebbe desiderato Paola Levi, che dalla fine dell’estate del 1940 si era intanto trasferita, con la figlia Anna, a San Domenico di Fiesole, nella primavera del 1941 il L. fece ritorno in Italia: dai primi di giugno, e per quattro anni ancora, fu soprattutto Firenze il teatro di una quotidianità ora paradossalmente serena ora minacciata e ansiosa, trascorsa dapprima nello studio di piazza Donatello, poi (varcato il discrimine dell’8 sett. 1943) nelle abitazioni di amici affettuosamente solidali e, più stabilmente, nell’appartamento-pensione di Anna Maria Ichino: la fine dei “giochi di vita, d’amore e di guerra” (Benaim Sarfatti) che coinvolsero il L. e Anna Maria nei mesi che precedettero la liberazione di Firenze (10-11 ag. 1944) avrebbe impresso un sigillo funesto all’esistenza della donna.
La militanza nelle file del Partito d’azione (Pd’A) e la partecipazione alla lotta clandestina dopo l’arresto e la detenzione, alle Nuove di Torino e alle Murate di Firenze, dal 26 giugno al 26 luglio 1943 non avevano impedito al L. di attendere alla stesura della sua opera capitale nella quale liberamente rielabora, interiorizzandola, l’esperienza del confino.
Cristo si è fermato a Eboli rivela una singolarissima capacità di ibridazione dei codici che governano i generi letterari ai quali è più o meno strettamente apparentabile (romanzo, saggio, prosa d’arte, mémoire, “cosa vista”, corrispondenza di viaggio); edito a Roma da Einaudi nel settembre 1945, ottenne da subito un eccezionale successo di pubblico e di critica (dal Cristo F. Rosi trasse un film, abbastanza infedele, distribuito nel febbraio 1979) anche in forza dell’equivoco ermeneutico, diventato presto vulgata, che precipitosamente ne accreditò l’appartenenza all’area del neorealismo (le tangenze, semmai, sono con le parallele investigazioni del “mondo magico” del Sud d’Italia condotte da E. De Martino).
Cristo si è fermato a Eboli è letteralmente, per il L., il libro della vita: “In quell’arso cuore della Lucania”, ha scritto Montale, “Levi ha incontrato l’inferno di una umanità irredimibile, insospettata che vive fuori del tempo o almeno tutta al di fuori del nostro tempo”; un libro che, se si deve prestar fede alle indicazioni dell’autore, fu scritto tra il dicembre 1943 e il luglio 1944, ma che costituisce il punto di approdo di un più complicato processo di metabolizzazione e formalizzazione di un repertorio ideologico, mitografico, iconologico che il L. ha amministrato nel corso degli anni ricorrendo, di volta in volta, agli strumenti “tecnici” più vari: disegni, poesie, racconti orali, scritti politici. Non a caso la discussione intorno ai tempi di composizione di Cristo si è fermato a Eboli, che è stata, in anni recenti, al centro della riflessione critica sul L., e ha opposto i sostenitori della tesi di una redazione del testo chiusa nell’arco cronologico 1943-44 (M.A. e M.C. Grignani, Vitelli) a quanti (Wells, De Donato, Falaschi) hanno sottolineato la presenza nel manoscritto di tre date, comprese tra il 1940 e il 1941, apparentemente incompatibili con l’attestazione del L., si è progressivamente spostata dall’ambito della biografia, della filologia, della variantistica a quello dell’intertestualità e dei rapporti tra letteratura e arti figurative.
Condirettore della fiorentina La Nazione del popolo, in quota al Pd’A, dall’agosto 1944, direttore dell’edizione romana del quotidiano del partito, L’Italia libera, dal settembre 1945, il L. abbandonò il Pd’A al congresso di Roma (4-8 febbr. 1946). Spostato definitivamente nella capitale il proprio baricentro, accettò di candidarsi all’Assemblea costituente, nella circoscrizione di Potenza-Matera, nelle liste di Alleanza repubblicana; nel corso di una campagna elettorale puramente testimoniale, il cui esito negativo era scontato, il L. incontrò per la prima volta R. Scotellaro, poeta e militante socialista: la loro amicizia fu interrotta, il 15 dic. 1953, dalla prematura morte di Scotellaro.
Il L. aveva iniziato una relazione con la figlia di U. Saba, Linuccia: malgrado i risvolti conflittuali ora latenti ora flagranti del loro ménage, a Linuccia Saba rimase legato fino alla morte. Nell’aprile 1947 partì, con F. Parri, per gli Stati Uniti; tra l’ottobre 1947 e il febbraio 1949, collaborò regolarmente al quotidiano L’Italia socialista, diretto da A. Garosci, con una serie di disegni satirici.
Il successivo volume del L., L’orologio (Torino 1950), non fu soltanto la postuma certificazione di una lacerazione politica immedicabile indotta dalla crisi del governo Parri che l’immagine del presidente del Consiglio “crisantemo sopra un letamaio” memorabilmente riassume.
Con più acutezza di altri, F. Fortini ha osservato che “ogni capitolo” de L’orologio “è una scatola che ne contiene cento altre, ogni motivo frondeggia a creare l’impressione dominante, che è di fecondità, di larghezza e generazione costante, a getto continuo” (per cui non senza ragione, otto anni dopo, nella prefazione al Tristram Shandy einaudiano, il L. poté rivendicare le ascendenze sterniane del “romanzo”); ma, di là dalla non infondata registrazione della polifonia de L’orologio, Fortini pare aver toccato il cuore del libro e dell’intera esperienza inventiva del L., segnalandone “l’attrazione verso il tellurico, l’angoscioso, il tragico del popolare e del primitivo o sacro, il fascino etnografico […] o psicanalitico alla Jung”.
Le prefazioni – al Viaggio in Italia. Lettere familiari di Ch. de Brosses ([Firenze] 1957), al citato Tristram Shandy di L. Sterne (Torino 1958), a Roma Napoli e Firenze di Stendhal (Milano-Firenze 1960) – e i libri “di viaggio” che il L. dette alle stampe dopo aver pubblicato L’orologio sono certo meno perturbanti.
Il sapiente e talora callido mestiere acquisito attraverso l’assidua collaborazione a La Stampa o a L’Illustrazione italiana è messo a frutto dal L., di preferenza, entro lo spazio, in qualche misura predeterminato, del reportage: l’eleganza della scrittura e del tratto, non necessariamente accompagnata da un pungente rovello conoscitivo, trova di regola un simmetrico “equivalente” ideologico in un’ottica ante litteram politicamente corretta.
Questi libri si intitolano Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia (Torino 1955), Il futuro ha un cuore antico. Viaggio nell’Unione Sovietica (ibid. 1956), La doppia notte dei tigli (ibid. 1959), Un volto che ci somiglia. Ritratto dell’Italia (ibid. 1960, con 120 fotografie di J. Reismann), Tutto il miele è finito (ibid. 1964).
Scontate le differenze dei casi, e degli oggetti (la Sicilia, l’URSS, la Germania, l’Italia, la Sardegna; di altri viaggi importanti, in India nel 1956, in Cina nel 1959, si astenne dal raccogliere in volume le corrispondenze), l’impatto bruciante con la storia, percepibile in Le parole sono pietre, è riassorbito e esorcizzato dal L. in una sorta di perpetua circolarità-ciclicità, di eterno ritorno dell’identico che dissolve il Vecchio e il Nuovo, l’Arcaico e il Contemporaneo.
Ma non fu all’insegna di una proverbialmente olimpica solarità che l’estrema fase della vicenda del L. si svolse e terminò. I fatti di Genova del luglio 1960 videro il L., alla vigilia dei sessant’anni, impegnato in prima fila nella battaglia antifascista. Eletto senatore nel 1963 nel collegio di Civitavecchia come indipendente nelle liste del Partito comunista italiano (PCI), aderì al gruppo misto; riconfermato nel 1968 nel collegio di Velletri nelle liste del PCI – Partito socialista di unità proletaria (PSIUP), entrò nel gruppo parlamentare della Sinistra indipendente.
Nei nove anni del suo duplice mandato parlamentare intervenne su argomenti di politica interna (il centrosinistra – che lealmente contrastò -, i problemi del Sud, l’emigrazione, la programmazione economica, la contestazione studentesca) ed estera (la guerra del Vietnam, la “primavera di Praga”) o su questioni più squisitamente “culturali” (le celebrazioni del settimo centenario della nascita di Dante, la tutela dei beni artistici e paesaggistici, la morte di G. Morandi).
Candidato nel 1972 nel collegio di Caltagirone, non venne rieletto. Al punto più alto della sua “esposizione” pubblica tenne dietro, quasi senza soluzione di continuità, la fase più accusata del ripiegamento su sé. Il distacco della retina, a fine dicembre 1972, e la temporanea perdita della vista indussero il L. a servirsi di “una sorta di scrittoio” da lui stesso ideato: e Quaderno a cancelli (Torino 1979) si sarebbe intitolato il suo libro postumo per dir così involontario – aperto da una testimonianza di Linuccia Saba e chiuso da una nota di A. Marcovecchio -, del quale Calvino ha sottolineato l’inedito “senso di sconforto, di vulnerabilità, di corrosione” che sembra aver colpito il L., fino ad atterrarlo.
Nel lungo articolo (Con l’occhio della lumaca) che a Quaderno a cancelli dedicò nel Corriere della sera del 24 giugno 1979, Calvino insiste con forza sull’opposizione stabilita dal L. tra Diabetici ed Allergici (replica flagrante dell’antica antinomia tra Luigini e Contadini fissata in Cristo si è fermato a Eboli e ne L’orologio), ma curiosamente sorvola sulla struttura franta, slogata, disarticolata del Quaderno. Il rilievo dei temi escussi (a cominciare dal repêchage dei territori dell’infanzia) è obiettivamente inseparabile da un assetto formale così inconsueto per l’autore.
Il L. morì a Roma il 4 genn. 1975 e fu sepolto ad Aliano.
Se si pensa al numero relativamente esiguo di libri pubblicati dal L. tra il 1945 e il 1964, appare impressionante la fluviale sequenza delle opere postume che si collocano ai limiti, o totalmente fuori, della giurisdizione del L. (il caso estremo è rappresentato dalle semiclandestine “raccolte” di versi pubblicate nel triennio 1990-93, allestite con inaudita disinvoltura, mentre si inscrive in un orizzonte del tutto diverso la magmatica inventio di Quaderno a cancelli, il cui attuale assetto è verosimilmente passibile di un difficile lavoro di restauro): Coraggio dei miti. Scritti contemporanei 1922-1974, a cura di G. De Donato, Bari 1975; Contadini e Luigini. Testi e disegni, a cura di L. Sacco, Roma-Matera 1975 (poi, con il titolo L’altro mondo e il Mezzogiorno, Reggio Calabria 1980); Quaderno a cancelli, cit.; Poesie inedite (1934-1946), prefazioni di G. Spadolini e R. Levi Montalcini, Roma 1990; Noi esistiamo. Poesie inedite, prefaz. di F. De Lorenzo, ibid. 1991; Bosco di Eva (Poesie inedite 1931-1972), introd. di P. Perilli, postfaz. di G. Spadolini, ibid. 1993; L’invenzione della verità, a cura di V. Barani – M.C. Grignani, introd. di M.A. Grignani, San Salvatore Monferrato 1995; Il bambino del 7 luglio. Dal neofascismo ai fatti di Reggio Emilia (1952-61), a cura di S. Gerbi, introd. di G. De Luna, Cava de’ Tirreni 1997; G. Biondillo, C. L. e E. Vittorini. Scritti di architettura, Torino 1997 (antologia di scritti del L. a pp. 7-58); Discorsi del sen. Carlo Levi, a cura di G. Volpe, presentazione di N. Mancino, Avellino 1997; L’invenzione della verità. Testi e intertesti per Cristo si è fermato a Eboli, introd. di M.A. Grignani, testi a cura di V. Barani – M.C. Grignani, Alessandria 1998; Scritti politici, cit.; Discorsi parlamentari, a cura di E. Campochiaro – F. Marcelli, introd. di M. Isnenghi, Bologna 2003.
A far data dall’ottobre 2000 hanno visto la luce a Roma, per iniziativa della Fondazione C. Levi, otto volumi (è annunciato il nono: Il dovere dei tempi. Prose politico-civili) compresi nel progetto – obbediente a criteri eminentemente tematici – delle Opere in prosa di Carlo Levi: Le mille patrie. Uomini, fatti, paesi d’Italia, a cura di G. De Donato, presentazione di G. De Donato – L. Montevecchi, introduzione di L.M. Lombardi Satriani (2000); Lo specchio. Scritti di critica d’arte, a cura di P. Vivarelli (2001); Prima e dopo le parole. Scritti e discorsi sulla letteratura, a cura di G. De Donato – R. Galvagno (2001); Le tracce della memoria, a cura di M. Pagliara, prefaz. di M. Guglielminetti (2002); Roma fuggitiva. Una città e i suoi dintorni, introd. di G. Ferroni, a cura di G. De Donato (2002); Il pianeta senza confini. Prose di viaggio, a cura di V. Zaccaro, presentazione di G. Russo – P. Santangelo (2003); Un dolente amore per la vita. Conversazioni radiofoniche e interviste, a cura di L.M. Lombardi Satriani – L. Bindi (2003); Le ragioni dei topi. Storie di animali, a cura di G. De Donato, introd. di F. Cassano, postfaz. di G. Sacerdoti (2004).
Non esiste un inventario completo e attendibile degli scritti “dispersi” del Levi. Per un catalogo degli articoli e degli interventi politici si può tener conto (con cautela) di G. Sirovich, Bibliografia, in L’azione politica di C. L., prefaz. di C. Vallauri, testimonianze di L. Anderlini, F. Ferrarotti, A. Garosci, P. Vittorelli, Roma 1988, pp. 117-123, e di D. Ward, Antifascisms. Cultural politics in Italy, 1943-46. Benedetto Croce and the liberals, C. L. and the “actionists”, Madison, NJ, 1996, pp. 192 ss. Una inadeguata selezione delle molte interviste al L. nel citato Un dolente amore per la vita.
Fonti e Bibl.: Sono in possesso di carte del L.: la famiglia Levi (Torino-Venezia); la signora R. Acetoso (Roma); l’Archivio centrale dello Stato (il fondo Carlo Levi); lo Harry Ransom Humanities Research Center della University of Texas (Austin); l’Università di Pavia (il fondo Manoscritti); la famiglia Colacicchi (Firenze); il dott. A. Ricci (Alassio). Qualche generica notizia, intorno al presente stato dell’Archivio Levi da lei detenuto, la signora Acetoso ha fornito ad A. Debenedetti (C. L.: i segreti nascosti in una Bibbia, in Corriere della sera, 17 giugno 2004). Sul complesso dei documenti depositati dalla Fondazione C. Levi presso l’Archivio centrale dello Stato, v. M. Martelli, L’archivio C. L., in Il “tempo”e la “durata”in “Cristo si è fermato a Eboli”, a cura di G. De Donato, Roma 1999, pp. 251-257, e L. Montevecchi, Laboratorio di scrittura e percorsi della memoria: l’archivio di C. L., in C. L. e il Mezzogiorno. Atti della Giornata nazionale di studi, Torremaggiore… 2001, a cura di G. De Donato – S. D’Amaro, Foggia 2003, pp. 49-57. Un rapido cenno all’acquisizione del manoscritto di Cristo si è fermato a Eboli (donato dal L. ad A.M. Ichino) da parte della University of Texas in M.X. Wells, Italian post-1600 manuscripts and family archives in North American libraries, Ravenna 1992, p. 104 (riproduzioni fotografiche a pp. 136 ss.). Le carte pavesi sono descritte da L. Bernini – D. Ferraro, Prime notizie sul “Fondo Carlo Levi”, in Autografo, III (1986), 8, pp. 77-85. Un’ampia scelta di lettere, documenti, manoscritti e disegni lasciati dal L., al momento del congedo da Firenze, all’amico pittore G. Colacicchi è stata esposta a Firenze, all’Accademia delle arti del disegno, dal 4 luglio al 29 ag. 2003, nella mostra C. L.: gli anni fiorentini 1941-1945 (catal.), a cura di B. Brunello – P. Vivarelli, Roma 2003 (F. Benfante ha selezionato i materiali di archivio; di quelle carte e delle lettere familiari che gli eredi Colacicchi hanno restituito al nipote del L., Giovanni Levi, lo stesso Benfante si è avvalso per il saggio “Risiede sempre a Firenze”. Quattro anni della vita di C. L. (1941-1945), ibid., pp. 11-103). L’ultimo dei sette “blocchi” in questione, originariamente di proprietà della signora Acetoso, è stato aggiudicato nel corso dell’asta del 17 giugno 2004 (Roma, Christie’s; cfr. il catal. Libri, autografi, carte geografiche. Ricordi familiari dei duchi di Windsor, Roma 2004, scheda n. 82, pp. 20-23, e l’articolo di G. Tesio, C. L. ritorna tra i carrubi di Alassio, in TTL, suppl. de La Stampa, 6 nov. 2004).
La fitta trama dei rapporti epistolari del L. è ricostruibile sulla base delle seguenti “voci”: U. Saba, L’adolescenza del “Canzoniere” e undici lettere, Torino 1975, p. 93; Id., Amicizia. Storia di un vecchio poeta e di un giovane canarino (Quasi un racconto) 1951, a cura di C. Levi, Milano 1976, pp. 29 ss., 82 s., (157 s.), 174, 176 s.; La fraterna amicizia dei gobettiani C. L. e N. Sapegno e L’unità e l’impegno di una generazione, a cura di L. Sacco, in Basilicata, XXVIII (1986), 1, pp. 13-20; 2, pp. 17-24; C. L. e la Lucania. Dipinti del confino 1935-1936 (catal., Matera), Roma 1990, pp. 100-104; Lettere di C. L. da Grassano, a cura di M.M. L.[amberti] e Una lettera di C. L. da Aliano e lettere a L. di familiari ed amici, a cura di P. V.[ivarelli]; Lettere e disegni 1922-1936, allegato a Linea d’ombra, dicembre 1990, n. 55; È questo il “carcer tetro”? Lettere dal carcere 1934-1935, a cura di D. Ferraro, Genova 1991; C. Levi – L. Saba, Carissimo Puck. Lettere d’amore e di vita (1945-1969), a cura di S. D’Amaro, Roma 1994; Lettere ai famigliari, in L’invenzione della verità. Testi e intertesti…, cit., pp. 103-131; N. Micoli Pasino, Linuccia, nel volume collettaneo U. Saba. Sei donne per un poeta, Empoli 2003, pp. 73-134. Sulla corrispondenza edita e inedita tra il L. e U. Saba si veda S. Ghiazza, C. L. e U. Saba. Storia di un’amicizia, Bari 2002. Due fotografie di Saba, una con la moglie Lina e l’altra con la figlia Linuccia, postillate da Saba e indirizzate al L., sono riprodotte fuori testo in U. Saba, Quante rose a nascondere un abisso. Carteggio con la moglie (1905-1956). Album fotografico, a cura di R. Acetoso, Lecce 2004 (a p. 51 un “ritratto” di Lina scritto dal L.).
La più articolata ricostruzione della vita del L. (tuttavia emendabile e integrabile in più di un luogo) si deve a G. De Donato – S. D’Amaro, Un torinese del Sud, C. L.: una biografia, Milano 2001; prima e dopo la pubblicazione di questo volume le indagini biografiche sul L. hanno soprattutto privilegiato l’arco temporale compreso tra il 1918 e il 1950 (tra la “formazione” gobettiana e L’orologio): sugli anni di apprendistato si può far riferimento, oltre che a Quaderno a cancelli, alle pagine retrospettive del fratello R. Levi, Ricordi politici di un ingegnere, Milano 1981, e della cugina G. Segre Giorgi, Piccolo memoriale antifascista, Torino 1994. Sui rapporti tra il L. e Gobetti si vedano almeno N. Bobbio, C. L. e Gobetti, in C. L.: un’esperienza culturale e politica nella Torino degli anni Trenta (catal.), a cura di E. Mongiano – I. Massabò Ricci, Torino s.d. [ma 1985], pp. 47-56; A. Radiconcini, Gobetti e L., in P. Gobetti e gli intellettuali del Sud. Atti del Seminario, Roma… 1993, a cura di P. Polito, Napoli 1995, pp. 363-382; A. d’Orsi, C. L. e l’aura gobettiana, in Il”tempo”e la”durata”, cit., pp. 31-64. Con i nomi di Enzo Bonello e Carlo Artom, P. Gobetti e il L. compaiono nel romanzo “torinese” di M. Cancogni La gioventù, Milano 1981. Per i soggiorni parigini del L. e la rete delle sue relazioni con il mondo dell’antifascismo italiano in Francia: Gli anni di Parigi. C. L. e i fuorusciti 1926-1933 (catal.), a cura di M.C. Maiocchi, Torino 2003. Altri tre importanti cataloghi consentono di mettere nitidamente a fuoco la vicenda del carcere e del confino: C. L.: disegni dal carcere 1934. Materiali per una storia, Roma 1983; C. L.: un’esperienza culturale e politica…, cit.; nonché C. L.: documenti del confino 1935/36 (mostra) e C. L. e la Basilicata. Il confino, le campagne, la sanità. Seminario di studio… 1984, in C. L. al confino da Grassano ad Aliano, Matera 1986, rispett. alle pp. 7-24 e 25-62 (è la ristampa, in forma di quaderno, del fascicolo speciale C. L. al confino 1935-36, in Basilicata, XXVIII [1986], 3). Sul cruciale quadriennio 1941-45 è fondamentale il citato C. L. Gli anni fiorentini 1941-1945, ma anche E. Benaim Sarfatti, Firenze 1943-44. Giochi di vita, d’amore e di guerra in piazza Pitti 14, in Belfagor, LV (2000), 6, pp. 689-714. Sul L. e La Nazione del popolo si veda l’antologia “La Nazione del popolo”, I-II, a cura e con introd. di P.L. Ballini, Firenze 1998, ad indicem.
Sulla redazione di Cristo si è fermato a Eboli: G. Falaschi, Cristo si è fermato a Eboli, in Letteratura italiana (Einaudi), Le opere, IV, Il Novecento, 2, La ricerca letteraria, Torino 1996, pp. 469-490; M.A. Grignani – M.C. Grignani, Il lungo silenzio del manoscritto, e M.X. Wells, C. L. e la Lucania: la parola e l’immagine, in L’invenzione della verità. Testi e intertesti…, cit., pp. 137-165 e 167-179; G. De Donato, Il manoscritto del “Cristo si è fermato a Eboli” e le sue varianti, in Il”tempo” e la “durata”…, cit., pp. 169-209. I termini della querelle sono lucidamente riassunti in modo non neutrale da F. Vitelli, Filologia per ilCristodi L., in Id., Il granchio e l’aragosta. Studi ai confini della letteratura, Lecce 2003, pp. 121-156. Sulla partecipazione del L. alla campagna elettorale della primavera 1946 appaiono inevitabilmente divaricate le rievocazioni di M. Rossi-Doria (C. L., in Gli uomini e la storia. Ricordi di contemporanei, a cura di P. Bevilacqua, Roma-Bari 1990, pp. 163-174) e di L. Sacco (L’orologio della Repubblica. C. L. e il caso Italia, Lecce 1996, pp. 107-119), da un lato, di G. Amendola (I duecento voti del candidato C. L., in L’Unità, 4 marzo 1979), dall’altro.
Una Bibliografia, aggiornata ma lacunosa, degli scritti critici sul L., curata da F. Terra Abrami, è in Il “tempo” e la “durata”…, cit., pp. 311-319. A essa si rimanda, avvertendo che nei poco più di vent’anni che precedono l’uscita del numero monografico su C. L., a cura di A. Marcovecchio, in Galleria, XVII (1967), 3-6, spiccano le recensioni a Cristo si è fermato a Eboli di E. Montale (Un pittore in esilio, in Il Mondo, 2 febbr. 1946) e di C. Muscetta (C. L. in Lucania, in La Fiera letteraria, 14 nov. 1946), ma anche la nota di F. Fortini su L’orologio (“La morte sta anniscosta in ne l’orloggi”, in Comunità, IV [1950], 8, pp. 64 s.). Nel fascicolo citato di Galleria si vedano, tra gli altri, V. Foa, C. L. “uomo politico”, pp. 203-213, e I. Calvino, La compresenza dei tempi, pp. 237-240.
Entro la sterminata bibliografia sul L. successiva al 1967 si vedano ancora almeno le monografie di G. Falaschi, C. L., Firenze 1971 (2ª ed. accr., ibid. 1978); G. De Donato, Saggio su C. L., Bari 1974; G.B. Bronzini, Il viaggio antropologico di C. L.: da eroe stendhaliano a guerriero birmano, Bari 1996; N. Carducci, Storia intellettuale di C. L., Lecce 1999; G. Russo, Lettera a C. L., Roma 2001; D. Ward, C. L. Gli Italiani e la paura della libertà, con un saggio di G. De Luna, Milano 2002.
Tra gli innumerevoli atti di convegni di studio sul L., oltre a quelli citati, meritano di essere segnalati: C. L. nella storia e nella cultura italiana, Roma… 1984, a cura di G. De Donato, Manduria-Bari-Roma 1993; L'”Orologio” di C. L. e la crisi della Repubblica, Roma… 1993, a cura di G. De Donato, Manduria-Roma 1997; C. Levi. Le parole sono pietre. Atti… 1995, a cura di G. Ioli, San Salvatore Monferrato 1997; Il germoglio sotto la scorza. C. L. vent’anni dopo, Matera… 1995, a cura di F. Vitelli, Cava de’ Tirreni 1998; C. L. e la letteratura di viaggio nel Novecento. Tra memoria, saggio e narrativa, San Marco in Lamis… 2002, a cura di S. D’Amaro – S. Ritrovato, Foggia 2003; Verso i Sud del mondo. C. L. a cento anni dalla nascita, Palermo… 2002, a cura di G. De Donato, Roma 2003. Non sono stati ancora pubblicati gli atti del convegno Nell’universo di C. L., Matera… 2002.
La formazione artistica del L. si svolse in ambito familiare, essendo il padre Ercole pittore e disegnatore dilettante. Fu però l’incontro con F. Casorati – avvenuto nel 1923 per il tramite di P. Gobetti – a orientare il giovane, laureando in medicina, a un maggiore impegno nella pittura. Arcadia (Roma, Fondazione C. Levi), esposto nel 1924 alla XIV Biennale di Venezia, documenta la suggestione dell’arte del maestro, della cui scuola di via Galliari il L. non fu mai allievo in senso stretto.
Un adolescente biondo è ripreso secondo un punto di vista fortemente rialzato mentre giace disteso su un pavimento a riquadri, un flauto alla mano. Intorno è una natura morta di richiamo classico: melograni, un libro, una collana di perle. I contorni sono ben delineati, l’atmosfera è sospesa, metafisica; l’avanzare in primo piano del soggetto e lo spazio alle sue spalle definiscono un equilibrio solido dell’immagine; mentre la luce effusa, nordica, rivela una pittura analitica, di osservazione. Il dipinto dà prova di una precoce maturità dell’artista, il quale, in pochi anni focalizzò gli aspetti tematici e di stile che informarono poi la sua intera produzione.
Il L. espose anche alla Biennale successiva, dove presentò Il fratello e la sorella (ibid.), doppio ritratto realizzato a cera su tavola, tecnica di derivazione casoratiana.
Il 1926 è un anno cruciale: dapprima la morte di Gobetti, quindi la pubblicazione del Gusto dei primitivi di L. Venturi, eventi che confermarono nel L. la necessità di un’apertura europea e di un confronto con le correnti artistiche straniere, specie francesi, per superare la crescente marginalità dell’arte italiana. Quello stesso anno il L. presentò alcune vedute torinesi alla mostra in tema, organizzata dalla Società di belle arti A. Fontanesi, presso la quale operava F. Casorati; vi esposero anche Jessie Boswell, G. Chessa, N. Galante, F. Menzio e E. Paulucci, il futuro gruppo dei Sei, la cui affinità di gusto cominciava a emergere.
In quest’epoca si intensificarono i soggiorni parigini del L., che si interessava al lessico postimpressionista di G. Seurat, ma guardava anche a J. Pascin e a H. Matisse, senza tralasciare peraltro di approfondire lo studio dei grandi impressionisti. I risultati di questi contatti sono da ricercare in un netto alleggerimento della linea a favore del colore quale si registra nelle opere del 1927 e compiutamente in quelle del 1928, come Place du Tertre, o Pittrice (Ragazza con l’ombrellino) dipinti che figurarono alla prima mostra del gruppo dei Sei, tenutasi nel gennaio 1929 alla galleria torinese Guglielmi (proprietà Fondazione C. Levi: cfr. I Sei pittori di Torino, ill. 11, 13).
Attivo sostenitore del gruppo fu E. Persico, giovane intellettuale crociano giunto da Napoli a Torino nel 1927, propugnatore dell'”unità e […] continuità ideale tra le arti” (Bandini, ibid., p. 17) e amico sincero del L.: fu lui, oltre a Venturi, a indirizzare gli artisti a un respiro internazionale come campo – sulla scia di Gobetti – di libertà intellettuale contro il nazionalismo di regime. Riscontrandovi la possibilità di un’azione culturale coerente con le proprie convinzioni politiche antifasciste, il L. fece sua, senza mai rinnegarla in seguito, l’idea della pittura come luogo di autonomia critica e di valori etici, i quali si concretavano nel racconto della realtà liricamente trasfigurata.
Insieme con il gruppo dei Sei (da cui presto si staccarono Galante e Jessie Boswell) il L. espose per due anni, ottenendo importanti riconoscimenti dalla critica e un peso culturale crescente all’interno della cerchia, che riconobbe in lui la statura dell’intellettuale di vaglia. In questa fase la pittura del L. evolveva rapidamente, in armonia con una sempre maggiore militanza politica che imponeva frequenti trasferte parigine. Le opere databili al volgere del decennio appaiono dapprima fortemente debitrici delle istanze di astrazione, di fluidità materica e di intensità cromatica di A. Modigliani, come nel Ritratto di Alessandro Passerin d’Entrèves (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), presentato nel 1930 a Venezia, che raffigurava l’amico seduto in poltrona, reso secondo la gamma azzurrognola e le linee angolate tipiche del pittore livornese. Ben presto però, la conoscenza diretta della pittura espressionista di C. Soutine e di O. Kokoschka influenzarono in maniera duratura il L., rivelandogli, nella pennellata densa e sinuosa, un dato pregnante di espressione artistica, che si avvaleva del gesto per creare la forma plastica sulla tela. L’eroe cinese, ritratto criptico di A. Garosci (datato 1932: Roma, Fondazione C. Levi, in C. L.: gli anni di Parigi, 2003, ill. 31) è forse, sotto questo aspetto, l’opera più rappresentativa: un vortice di pennellate pastose costruisce la figura, proiettata all’indietro, ma con le mani in primo piano, come ad attirare l’osservatore all’interno della rappresentazione, dinamica e vibrante.
A questa data i temi cari al L. sono ormai chiari: il ritratto, la natura morta, il paesaggio, il nudo. Specialmente nel ritratto raggiunse momenti di grande felicità, dipingendone alcuni tra i più interessanti del Novecento figurativo italiano: l’artista opera come un interlocutore, un narratore partecipe e curioso del carattere originale e irripetibile di ogni individuo, e in questo dialogo commosso il pittore lascia fluire nozioni di sé. Tale attenzione, vigile eppure distesa, serena, contraddistingue anche – accanto alla vasta galleria di ritratti di famiglia e di personalità del mondo dell’arte e della cultura – il consistente corpus di autoritratti, dipinti lungo tutta la vita.
Dopo i successi professionali dei primi anni Trenta, il L. raggiunse una compiuta maturità artistica durante gli anni del confino ad Aliano. L’arido paesaggio lucano e il mondo rurale del Mezzogiorno, offrirono al L. l’occasione per quell’arte naturalista e di forte impegno civile e sociale, ma già ricca di umana partecipazione, che egli andava immaginando. Nel Figlio della parroccola (1936: Roma, Fondazione C. Levi), giustamente celebre anche per essere stato scelto dall’autore per la copertina di Cristo si è fermato a Eboli, un bambino è colto di profilo in basso a destra – i tratti decisi, la pelle olivastra – mentre il centro del dipinto è dedicato a una natura morta di frutta che emerge da un fondo in tono grigio, colore delle crete di quelle plaghe. Uomini, luoghi e prodotti della terra costituivano un’unità che la civiltà moderna stava spezzando: il mondo contadino era portatore di una complessa cultura che non doveva andare perduta. Le opere dal confino furono esposte nel 1936 dapprima alla galleria Il Milione di Milano e quindi a Genova, alla galleria Genova di S. Cairola, con grande consenso di critica e pubblico.
Rientrato in Italia dopo l’esilio parigino, negli anni di Firenze il L. si dedicò prevalentemente al ritratto, di cui fa fede l’Autoritratto con berretto (1945: Roma, Galleria nazionale d’arte moderna). È del 1942 il testo critico Paura della pittura, apparso dopo la guerra in appendice alla monografia dedicatagli nel 1948 da C.L. Ragghianti, dove il L. condanna la pittura astratta contemporanea in quanto si distacca dall’uomo e dalla realtà del mondo, che invece deve restare l’oggetto della creazione artistica, pena la perdita di unità spirituale e il senso di paura, di sgomento che pervade il pensiero moderno.
Negli anni del dopoguerra, anche in virtù dello straordinario successo di Cristo si è fermato a Eboli, la produzione leviana ottenne numerosi riconoscimenti mentre si susseguivano le esposizioni in tutta Italia. Nel 1954 la XXVII Biennale gli dedicò una personale, in cui figuravano molti dipinti di tema meridionalista, secondo la poetica del realismo cara ai pittori vicini al partito comunista. La critica rilevò comunque (R. Longhi in testa) uno scadimento delle qualità pittoriche e un allontanamento dai dibattiti artistici di portata europea.
Gli anni Sessanta evidenziano – anche in ragione della ormai preponderante attività di scrittore, giornalista e parlamentare – una stanchezza d’ispirazione e di resa formale; il L. intanto, andava dipingendo con rinnovato interesse i paesaggi di Alassio, ambientati nel giardino della villa di famiglia. Si tratta di grandi tele in cui gli alberi, i carrubi, sono protagonisti che vengono rappresentati singolarmente, con forti pennellate corsive, come fossero persone che raccontano una propria storia.
Il L. affiancò sempre la produzione pittorica a quella grafica: celebri i disegni realizzati durante la prima detenzione, nel carcere romano di Regina Coeli, e rinvenuti in anni recenti: nature morte connotate da quiete atemporale. I temi dei disegni leviani accompagnarono quelli della pittura (gli amanti, le maternità, il mondo rurale); ma se nei dipinti il valore dominante è quello cromatico, nella grafica si percepisce una ricerca di circolarità, quasi di armonia cosmica, ottenuta con un segno grasso, esteso.
Una menzione a parte merita la produzione di monotipi; cioè opere a stampa a tiratura unica a partire da una lastra di vetro inchiostrato, tecnica poco utilizzata dagli artisti italiani. Il L. la apprese da L. Spazzapan alla fine degli anni Venti e in seguito continuò a praticarla; particolarmente riuscita la serie degli Amanti, che risale agli anni Cinquanta (I monotipi: C.L., 1977).
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Carlo Levi (conserva un vasto corpo di stampati, recensioni, cataloghi relativi all’attività artistica del L.); Galleria nazionale d’arte moderna, Carlo Levi (particolarmente documentata la produzione giovanile); C.L. Ragghianti, C. L., Firenze 1948; A. Trombadori, Gente del Mezzogiorno di C. L., in Realismo, 1953, nn. 13-15, pp. n.n.; A. Bovero, Archivi dei Sei pittori di Torino, Roma 1965, pp. 31-37; I Sei di Torino, 1929-1932 (catal.), a cura di V. Viale, Torino 1965, pp. 133-170; C.L. Ragghianti, Incontro con C. L., in Critica d’arte, XXII (1976), 148-149, pp. 11-43; C. L. si ferma a Firenze. Cento disegni (catal.), a cura di G. Gromo, Firenze 1977; C. L.: opere grafiche, a cura di F. Fiorani – P.P. Tarasco, Matera 1977; I monotipi: C.L. (catal., Ferrara), a cura di G. Gromo, Cento 1977; C. L.: disegni dal carcere 1934. Materiali per una storia (catal.), Roma 1983; C. L.: opere dal 1923 al 1973 (catal., Umbertide), a cura di E. Boccia et al., Perugia 1988 (con bibl.); C. L. e Lucania 61 (catal., Benevento), a cura di G. Appella, Roma 1989; C. L. e la Lucania. Dipinti dal confino 1935-1936, a cura di P. Vivarelli, Roma 1990; I Sei pittori di Torino (catal., Torino), a cura di M. Bandini, Milano 1993, pp. 4, 11-13, 42-48, 62-65, 72 s., 79; C. L.: galleria di ritratti (catal.), a cura della Fondazione C. Levi, Roma 2000; G. De Donato – S. D’Amaro, Un torinese del Sud: C. L., Milano 2001; C. L.: paesaggi, 1926-1974 (catal.), a cura della Fondazione C. Levi, Roma 2002; C. L.: gli anni fiorentini 1941-1945 (catal., Firenze), a cura di P. Vivarelli, Roma 2003; Gli anni di Parigi. C. L. e i fuorusciti, 1926-1933 (catal., Torino), a cura di M.C. Maiocchi – M.M. Lamberti, Savigliano 2003.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
Poesie di Nina Cassian tra le più importanti autrici romene del Novecento-
Nina Cassian-Renée Annie Cassian-Mătăsaru nacque a Galați, Romania il 27 novembre 1924 e morì a New York il 15 aprile 2014. Fu poetessa, scrittrice e traduttrice.
Studiò Belle Arti e Filologia presso l’Università di Bucarest. Il suo interesse per la poesia si sviluppò presto, e il suo esordio letterario risale agli anni ’40. Le sue prime opere furono influenzate dal surrealismo e da tematiche sociali. Tuttavia, con il passare del tempo, il suo stile si evolse e divenne sempre più personale, esplorando temi come l’amore, l’identità e la condizione umana.
Nel corso della sua carriera, Nina Cassian pubblicò numerose raccolte di poesie, acquisendo una reputazione distintiva all’interno della scena letteraria romena. Tra le sue opere di poesia citiamo Dialogul vântului cu marea (“Dialogo del vento col mare”, 1957), Destine paralele (“Destini paralleli”, 1967) e Numărătoarea inversă (“Conto alla rovescia”, 1983).
Nina Cassian fu anche un’abile traduttrice, portando opere di poeti stranieri come William Shakespeare, Samuel Beckett e T.S. Eliot in lingua romena. Questo contributo alla letteratura mondiale consolidò la sua posizione nel panorama culturale.
Tuttavia, la sua attività artistica la portò ad essere perseguitata dal regime comunista romeno. Nel 1985, dopo aver criticato apertamente il regime, si trasferì negli Stati Uniti, dove visse in esilio. Negli USA, continuò la sua produzione poetica, pubblicando nuove raccolte, tra cui Take my word for it del 1998, e proseguendo l’attività di pittrice.
Dopo essersi affermata in patria come poetessa e scrittrice, oltre che musicista e illustratrice di libri, nel 1985 è stata costretta a chiedere asilo politico in USA, dove ha vissuto il resto dei suoi giorni, poichè era stata presa di mira dalla Securitate, la polizia segreta del dittatore Ceauşescu, per aver trascritto alcune sue strofe compromettenti nel diario di un amico dissidente.
La stessa Cassian, che in una sua lirica scriverà, “pur se verrò sepolta in una terra aliena, risorgerò un giorno nella lingua romena”, ricorda così il periodo in cui maturò all’improvviso la dolorosa decisione di riparare oltreoceano:
“Sono partita nel settembre 1985. Avevo ricevuto un invito per insegnare Poesia alla New York University. Cinque mesi in tutto. Avevo solo un cappotto, pantaloni, maglioni e qualcosa di più elegante per Natale e Capodanno, che avrei trascorso a New York. Non avevo nemmeno una maglietta o un vestito estivo con me. A novembre ricevo una telefonata da Chicago, dalla figlia di George ‘Babu’ Ursu, che mi dice che suo padre è morto. Come sappiamo oggi, è stato ucciso in prigione, percosse. Ricevo poi un’altra chiamata, questa volta da una parente di Iordan Chimet, che mi consiglia di non tornare indietro.”
—————————————————————-
SERENO
(Nina Cassian, pseudonimo di Renée Annie Cassian-Mătăsaru)
Sarà un tempo sereno, un tempo da inni.
Con un sol gesto l’aria fenderò,
pronuncerò solo parole immacolate.
Dirò “cielo”, “fonte”, dirò “sole”
e “lacrima” e “musica”, “immunità”.
Sarà il tempo in cui il mio ricordo
non sarà sfiorato da eco di massacri
ma da aliti soavi di poesia
ché a volte anche il sangue alita.
Di tutto quel che un tempo era promiscuo
conservo solo il sacro e mossa al perdono
loderò i contrasti perdonanti.
Dirò “cielo” e “sole” ma anche “musica”
e sarà “sole”, “musica” e “cielo”
intorno a me e intorno al mondo.
Le vocali assumeranno, naturali, la loro gloriosa aureola.
E verrà il tempo sonoro, scintillante,
un tempo solenne e puro, un tempo da inni
e verrà un giorno il tempo! Oh se verrà!
C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007 (Adelphi, 2013), trad. it. A. N. Bernacchia, O. Fatica
POESIA
Da questa matita si diparte una strada di grafite
e sulla strada passeggia una lettera, come un cane,
ed ecco una parola come una città abitata
dove forse arriverò domani.
SE TU POTESSI VIVERE
Se tu potessi vivere
le ore del tè, del caffè,
il tintinnio indolente delle tazze,
se potessi concepire le soavi ore ramate
nel pomeriggio di una vecchia famiglia di un secolo vecchio
che si è crogiolato in una memoria romantica,
se potessi non spaventarti quando
nella tazza colma di tè vedi il tuo volto
dalla fiamma dell’inferno intensamente illuminato.
C’è modo e modo di sparire
Ho creduto
di essere facilmente riconoscibile
dal mio leggiadro anulare
(ora tutto ingobbito)
e dal cane piumato
che mi accompagna.
Ho creduto di poter essere
una nappina appesa al Suo abat-jour,
Donna Decrepitudine.
La sabbia rosicchia la mia sagoma.
Scompaio,
divengo con lei una cosa sola.
C’è modo e modo di sparire (Adelphi, 2013), cura e traduzione di O. Fatica, A. Bernacchia
Volevo restare a settembre
sulla spiaggia pallida e deserta,
volevo caricarmi di cenere
delle mie volubili gru
e che il vento grave dormisse
come acqua nelle reti fra le chiome;
volevo una notte accendermi
una sigaretta più bianca della luna
e intorno a me – nessuno, solo il mare
con la sua forza grave e latente;
volevo restare a settembre,
presente al trascorrere del tempo,
una mano fra gli alberi e l’altra
nella sabbia canuta – e scivolare
nell’autunno insieme all’estate…
Ma a me sono stati prescritti,
è chiaro, più penosi abbandoni.
Mi è toccato strapparmi a paesaggi
a cuore impreparato
e mi è toccato lasciare l’amore
quando ancora amare vorrei…
C’è modo e modo di sparire (Adelphi Edizioni, 2013) trad. it. A. N. Bernacchia
Preghiera
Se esisti per davvero – fatti avanti,
sii nuvola, caprone, aviatore,
porta con te occhi, bocca, voce,
– chiedimi qualcosa, lascia che mi sacrifichi,
prendimi tra le braccia, proteggimi,
nutrimi con la settima parte di un pesce,
fammi un fischio, dissodami le dita,
ricolmami di aromi, di stupore,
– resuscitami.
La tentazione
Più vivo di così non sarai mai, te lo prometto.
Per la prima volta vedrai i pori schiudersi
come musi di pesce e potrai ascoltare
il mormorio del sangue nelle gallerie
e sentire la luce scivolarti sulle cornee
come lo strascico di un abito; per la prima volta
avvertirai la gravità pungerti
come una spina nel calcagno
e per l’imperativo delle ali avrai male alle scapole.
Ti prometto di renderti talmente vivo che
la polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili,
che le sopracciglie diventeranno due ferite fresche
e ti parrà che i tuoi ricordi inizino
con la creazione del mondo.
Ginnastica mattutina
Mi sveglio e dico: sono perduta.
È il mio primo pensiero all’alba.
Comincio bene la giornata
con questo pensiero assassino.
Signore, abbi pietà di me
– è il secondo, e poi
scendo dal letto
e vivo come se
nulla mi fosse accaduto.
Ermetica
Se ci fosse un luogo dove conficcare un altro grido
quale potrebbe essere, la roccia o il mare
o l’occhio dell’uccello della notte, fisso e tondo, duro come la pietra,
giallo come la luna?
Ah, tutto è impenetrabile.
E il grido viene fuori dalla bocca
pendulo come la lingua dell’impiccato.
Articolo di Daniele Piccinini- Nina Cassian, una nuova genesi per il mondo –Fonte-Famiglia Cristiana-
13/06/2014 Viaggio nell’universo poetico della romena, in “esilio” negli Stati Uniti, una enciclopedia del ‘900 che tenta di immaginare la realtà a partire dall’esistente, fino alla preghiera finale: «Resuscitami».
L’esilio è per la poesia come una nutrice austera. In esso i fuochi della lingua materna brillano più chiari, il mondo diventa un unico grandioso mistero. Anche Nina Cassian, romena, si è abbeverata a questa fonte oscura, ricavandone una densa lezione. La sua poesia era già ampiamente formata quando il tema del non-ritorno, della fuoriuscita è venuto a visitarla.
Nel 1985 era in viaggio negli Stati Uniti: allora nella sua Romania le rivelazioni di un dissidente arrestato e torturato la mettono in pericolo e la rendono un possibile bersaglio del regime. Così decise di non tornare indietro. Da allora è vissuta negli Stati Uniti, fino alla recente scomparsa (aprile 2014), esprimendosi dunque in romeno e in inglese («Solo un sibilo bilingue» dice della sua lingua) oltre che nelle parole inventate dello spargano.
C’è modo e modo di sparire, suona il titolo della scelta di testi presentati al lettore italiano (C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 304, euro 25,00). Nata nel 1924, la Cassian ha attraversato il secolo (che come Caproni vedeva ferito: «Ma non guarisco dalla ferita del secolo, dalla ferita del mondo»), anzi la sua poesia sembra per molti aspetti una specie di enciclopedia del Novecento, non solo letterario, ma anche artistico, a partire almeno dal surrealismo. Colori, pensiero, forme sembrano attinti a un unico misterioso bulicame caotico e zampillante (non per nulla la poetessa parla di un’«apocalisse ilare»): si tratta insomma, novecentescamente, di rifare il mondo, di immaginarlo a partire dall’esistente, rovesciando e inclinando le categorie, mescolando sogno e veglia, visione e vista.
Come nota Ottavio Fatica, curatore del volume e traduttore dei testi scritti in inglese (quelli in romeno sono tradotti da Anita Natascia Bernacchia), c’è prima di tutto un vasto bestiario nei versi della Cassian: dal cucciolo di squalo alla tigre con gli occhi gialli, dallo scoiattolo al mite asino. Quasi mai naturalistici in senso stretto, questi animali sono l’alfabeto di un universo da rifare. Infatti si tratta, come dice la poetessa, di «giocare alla Genesi», «perché qui come altrove tutto si rimescola».
Anche la musica entra nella nuova creazione, nel caotico convergere delle specie e delle arti (la Cassian si è anche dedicata a comporre musica e a dipingere): più che verso un’ampia sonata (si veda la lunga poesia su Bach), la Cassian ha tuttavia il respiro del testo medio e breve e soprattutto di quello epigrammatico, fino a sconfinare nell’aforisma. Lì sa dare il meglio del suo guizzo inventivo e arioso, con un tocco che ha forse qualche punto di contatto con la grande polacca Szymborska (sua quasi coetanea), nell’ironia, nella leggerezza, anche se intrise qui di onirico e magari di macabro.
Come non molti poeti moderni (viene in mente da noi il versante giocoso di Sanguineti) la Cassian gioca a farsi l’autoritratto, ne sorride (specie parlando del proprio naso), si diverte nell’autocaricatura, che è di nuovo, però, una ricetta di poesia all’insegna della commistione, dell’impurità, dell’invenzione fantastica e dell’antiretorica: «Mi è toccato questo volto strano, triangolare, / questo pan di zucchero o questa / polena degna di navi corsare / e capelli lunghi, lunari, sulla cresta. // Mi è toccato portare in giro un aggressivo contorno / errabondo da mane a sera che spesso / squarcia la retina di chi mi sta dintorno / quando proietto alla parete il mio incongruo essere». Così recitano le prime due quartine di Autoritratto, mentre la terza, la penultima, aggiunge: «A chi appartengo? Mi rinnegano antenati e genitori. / Temporaneamente alleate mi rinnegano le razze, / i bianchi, i gialli, i rossi e i neri. / Neppure la specie mi riconosce tutta d’un pezzo».
Invenzione e scherzo non tolgono serietà alla parola poetica, anzi ne sono il contraltare e la conferma, essa che è tutta protesa a «rendere felicità e dolore gradini della conoscenza».
La poesia, che imprigiona il mondo per ansia di conoscerlo e ricrearlo, ha un suo aldilà, può tentare – ancora alla Caproni – una preghiera paradossale ma non troppo («Se esisti per davvero – fatti avanti»), si tende da giovinezza a decrepitudine fino a un’ombra, un’idea di resurrezione. Da parola a parola, da soffio a sibilo, la poetessa arriva a pensare di risorgere nella lingua materna; a chiedere nella sua non convenzionale preghiera «- resuscitami»
Traduzione di Anita Natascia Bernacchia, Ottavio Fatica
A cura di Ottavio Fatica
SINOSSI
Ultima figura emblematica di una ormai classica tradizione modernista, erede e testimone di quel fecondo ambiente romeno di cui facevano parte Brâncusi e Tzara, Ionesco, Eliade e Cioran, e come loro inevitabilmente esule, Nina Cassian ha percorso un tragitto artistico e umano singolare come la sua persona. Nel 1985, già titolare di una lunga carriera di successo (con qualche strappo al morso del regime), durante un soggiorno negli Stati Uniti finisce nel mirino della polizia, che ha scoperto certi suoi testi a dir poco caustici contro la politica e i politicanti del Paese: decide allora di non tornare in patria e chiede asilo politico. Qui, sostenuta e tradotta da vari poeti americani, rinasce a nuova vita. E la scelta, la riproposta, la traduzione, a volte la vera e propria ricreazione delle poesie romene precedenti l’esilio, nonché la stesura di nuovi componimenti – in romeno prima, e dopo qualche anno anche in inglese –, alimenteranno un corpus che non ha riscontri, né rivali, nell’odierno panorama poetico internazionale. Si avvertono, nella voce della Cassian, echi ravvicinati di tutta la più nobile stagione del Novecento: da Mandel’štam a Cvetaeva, da Apollinaire a Brecht a Celan, e si potrebbe risalire fino a Emily Dickinson, «sublime sorella», o anche più indietro, all’amoroso furor saffico. Il timbro è unico: diretto, spudorato, strenuamente lirico, a tratti disarmante, a tratti sornione, arguto e brutale al tempo stesso – e nudo, sempre, e sempre seducente. Si passa dalle punte epigrammatiche avvelenate ai voli pindarici sulle ali d’organo di un Bach – non per niente la Cassian compone musica: e dipinge, disegna, illustra libri anche per l’infanzia, spesso scritti da lei –, e ogni volta queste poesie, come ha scritto Vittorio Sermonti, ci riguardano da vicino, «sconvenientemente».
Tra il 1926 e il 1935 vive e studia a Brașov, successivamente si trasferità a Bucarest dove terminerà gli studi liceali. Nella capitale inizia a frequentare corsi di recitazione con l’attrice Beate Fredanov, la scuola di pittura diretta dall’artista M.H. Maxy e studiare il pianoforte con il musicista Constantin Silvestri.
Nel 1943 sposa lo scrittore Vladimir Colin da cui divorzierà nel 1948, per sposarsi con il critico letterario Al. I. Stefanescu.
Nel 1944 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, ma non completerà mai gli studi universitari. Nel 1945 pubblica la sua prima poesia sul giornale România liberă, seguita a due anni di distanza dal volume La scară 1/1, opera stilisticamente vicina all’espressività delle avanguardie artistiche e per questo definita decadente dalla critica ufficiale comunista.
Negli anni successivi aderirà allo stile imposto dal regime scrivendo versi encomiastici verso il regime comunista e i suoi leader. A questo periodo risalgono le raccolte Sufletul nostru (1949), An viu – nouă sute și șaptesprezece (1949), Tinerețe (1953), Florile patriei (1954) e Versuri alese (1955). Solo nel 1957 con i volumi Vârstele anului e Dialogul vântului cu marea
La poetessa riapproderà a una poesia svincolata dalla celebrazione ideologica del regime comunista. Negli anni successivi si dedicherà a un’intensa attività poetica e alla produzione di libri per bambini. Nel 1969 riceve il Premio dell’Unione degli Scrittori di Romania.
Nel 1985 è invitata negli Stati Uniti a tenere un corso di “Creative Writting” all’Università di New York e decide di non rientrare più in Romania. Ha vissuto a New York fino alla morte, avvenuta il 15 aprile 2014, all’età di 89 anni, a seguito di un attacco cardiaco[1].
Opere
La scara 1/1 (“Scala 1/1”), 1947
Sufletul nostru (“La nostra anima”), 1949
An viu, nouă sute şi şaptesprezece (“Anno vivo, novecento e diciassette”), 1949
Horea nu mai este singur (“Horea non è più solo”), 1952
Tinereţe (“Gioventù”), 1953
Versuri alese (“Versi scelti”),1955
Vârstele anului (“Le età dell’anno”), 1957
Dialogul vântului cu marea (“Dialogo del vento col mare”), 1957
Spectacol în aer liber – o monografie a dragostei (“Spettacolo all’aperto – una monografia dell’amore”), 1961
Numărătoarea inversă (“Conto alla rovescia”), 1983
Blue Apple, trad. in inglese di Eva Feiler, New York, 1981;
Lady of Miracles, versi, trad. di Laura Schiff, Bucarest, 1982;
Numărătoarea inversă, versi, Bucarest, 1983;
Jocuri de vacanță, versi e prosa, Bucaresti, 1983;
El sangre, trad. in spagnolo di Mihaela Rădulescu, Bucarest, 1983;
Lady of Miracles, trad. di Laura Schiff, Berkley, 1988;
Call Yourself Alive?, versi, trad. in inglese di Brenda Walker e Andreea Deletant, Londra, 1988 (II, 1989);
Life Sentence. Selected Poems, New York & London, 1990 (Trad.: Richard Wilbur, Stanley Kunitz, Carolyn Kiser, Nina Cassian, Andreea Deletant, Petre Solomon, Cristian Andrei etc);
Cheerleader for a Funeral, Trad. da Brenda Walker con l’autrice, London & Boston, 1992;
Cearta cu haosul, versi e prosa (1945-1991), Bucarest, 1993;
Iannis Ritsos, A patra dimensiune, Bucarest, 1964;
D. Rendis, Poezii, Bucarest, 1966;
B. Brecht, Versuri, Bucarest, 1966;
Christian Morgenstern, Cântece de spânzurătoare, Bucarest, 1970;
Paul Celan, Versuri, in collaborazione con Petre Solomon, Bucarest, 1973;
H. Kahlau, Fluxul lucrurilor, Bucarest, 1974;
Moliere, Femeile savante, Bucarest, 1974;
E. Guillevie, Poemi, Bucarest, 1977;
I. Manger, Balada evreului care a ajuns de la cenușiu la albastru, trad. in collaborazione con I. Bercovici, Bucarest, 1983.
Traduzioni in lingua italiana
C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007, Milano, Adelphi, 2013. A cura di Ottavio Fatica. Traduzioni dal romeno di Anita Natascia Bernacchia; traduzioni dall’inglese di Ottavio Fatica.
Iarna (inverno), Caltanissetta-Roma, S. Sciascia, 1960, versione a cura di Antonino Uccello.
Poesie scelte, in L’immaginazione, n. 246/2009 (Manni Editori), traduzione di Anita Natascia Bernacchia.
Il sangue; La tentazione; Cedere il posto agli anziani e agli ammalati; Mi tagliano in due; Il mio dialogo con la dittatura, in Il vizio di leggere di Vittorio Sermonti, Rizzoli, 2009, ISBN 88-17-03298-0 traduzione a cura di Anita Natascia Bernacchia.
ROMA. Musei Capitolini – Sala degli Arazzi, fino al 27 aprile 2025 Agrippa Iulius Caesar, l’erede ripudiato-
Roma-Nella Sala degli Arazzi dei Musei Capitolini di Roma viene presentato al pubblico per la prima volta il ritratto di Agrippa Postumo della Fondazione Sorgente Group che dialoga idealmente con altri due ritratti di Agrippa: uno proveniente dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze ed un altro dalle Collezioni Capitoline. Aperta al pubblico fino al 27 aprile 2025, la mostra riunisce per la prima volta insieme questi tre capolavori marmorei che raccontano la storia dello sfortunato erede di Augusto, Agrippa Postumo, ultimo figlio di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia, unica figlia di Augusto. L’esposizione, a cura di Laura Buccino, Eugenio La Rocca e Valentina Nicolucci, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con l’organizzazione di Fondazione Sorgente Group e il sostegno del Gruppo Sorgente e Condotte 1880. Servizi museali Zètema Progetto Cultura. Le tre sculture esposte, tra cui la testa di recente acquisizione della Fondazione Sorgente Group, rappresentano le repliche migliori conservate di un tipo di ritratto che la critica attribuisce ad Agrippa Postumo. I ritratti sono databili tra l’adozione del 4 e la condanna del 7 d.C., nel periodo in cui Agrippa Postumo ricevette onorificenze e dediche statuarie a Roma ed in tutti i territori soggetti all’impero.
I ritratti di Agrippa Postumo ci riportano alle vicende della storia dell’Impero romano, quando, dopo il 4 d.C. e numerosi lutti per la morte precoce dei successori designati alla successione di Augusto, prima Marcello (figlio della sorella di Augusto Ottavia) e poi Lucio e Gaio Cesari (anch’essi figli di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia), l’imperatore fu costretto a rivedere la sua linea di successione adottando Tiberio Claudio Nerone, figlio di primo letto della moglie Livia, e Agrippa Postumo, l’ultimo dei cinque figli di Marco Vipsanio Agrippa, il più grande collaboratore di Augusto e di Giulia, sua figlia. Il nome “Agrippa” fu scelto dallo stesso Augusto, in quanto era nato poco tempo dopo la morte del padre, da cui il cognomen Postumus. Al momento dell’adozione, il giovane cambiò il suo nome in Agrippa Iulius Caesar, poiché era entrato a far parte della famiglia di Augusto, la Iulia, ed era così divenuto uno degli eredi designati (Caesar) alla successione. Nonostante Agrippa Postumo fosse l’unico nipote rimastogli, Augusto lo ripudiò ben presto, pare per ragioni caratteriali, allontanandolo da Roma e facendolo esiliare prima a Sorrento e poi a Pianosa, come riferiscono le fonti antiche, ma forse anche per le lotte di potere che animavano la corte negli ultimi anni di vita dell’anziano princeps. I tratti fisionomici delle tre sculture in mostra sono inconfondibili – la fronte accigliata, gli occhi stretti e allungati profondamente infossati, gli orbitali enfiati, la piccola bocca serrata, segnata da rigonfiamenti ai lati, le due fossette incavate, tra il naso e il labbro superiore e tra il labbro inferiore e il mento sporgente – e contribuiscono a conferire al volto giovanile un’espressione seria e concentrata, resa ancora più incisiva dalla torsione della testa. La principale caratteristica del ritratto è lo sguardo “torvo”, particolarmente evidente nella replica ai Capitolini, ma presente anche nelle altre. Il tipo ufficiale del ritratto di Agrippa Postumo della Fondazione Sorgente Group fu realizzato verosimilmente in occasione della sua adozione da parte di Augusto nel 4 d.C., quando Agrippa Postumo aveva 16 anni, e utilizzato per le onorificenze dedicategli in quanto erede designato, con il nome di Agrippa Iulius Caesar, almeno fino al suo allontanamento dalla famiglia e all’esilio nel 7 d.C. “Ci riempie di orgoglio l’aver promosso la Mostra monografica dedicata alla presentazione, per la prima volta al pubblico, del volto del giovane principe giulio-claudio, identificato dal prof. Eugenio La Rocca con Agrippa Postumo” – ha dichiarato Valter Mainetti, Presidente della Fondazione Sorgente Group –. “L’esposizione dei tre ritratti, riuniti per la prima volta, è un’importante occasione di conoscenza e di studio, e soprattutto un’opportunità che vede coinvolta la nostra Fondazione, quale istituzione privata, e la prestigiosa sede dei Musei Capitolini, guidati dal Sovrintendente Capitolino, Claudio Parisi Presicce, il cui rapporto di stima e di collaborazione ha consentito la realizzazione di molti progetti culturali”. “Una parte importante della collezione archeologica della nostra Fondazione – ha dichiarato Paola Mainetti, Vicepresidente della Fondazione Sorgente Group – riguarda proprio la ritrattistica dei protagonisti della gens giulio-claudia, in modo particolare degli eredi designati da Augusto alla sua successione imperiale. La Fondazione Sorgente Group ha proseguito in questi anni la sua attività con l’obiettivo di implementare la collezione dei ritratti imperiali, promuovendoli e valorizzandoli attraverso esposizioni e studi scientifici, così come è avvenuto anche per i volti di Lucio Cesare e Gaio Cesare, fratelli dello stesso Agrippa Postumo in mostra; poi Germanico, figlio di Druso e Antonia Minore, il cui ritratto è presente in collezione”.
Info:Musei Capitolini – Sala degli Arazzi, fino al 27 aprile 2025
E’ il 1902 a Salonicco, quando viene al mondo Nazim Hikmet, in una famiglia aristocratica e privilegiata. Sua madre, un’appassionata pittrice, è una grande amante della poesia francese, specialmente di Baudelaire e Lamartine. Suo padre è un diplomatico, ma anche lui di tanto in tanto butta giù qualche verso e qualche testo in prosa. L’interesse magnetico per la parola, scorre nel DNA della famiglia: persino il nonno di Hikmet ne subisce il fascino e di professione è filologo.
È inverno-
E improvvisamente,
la neve,
caduta all’insaputa nella notte.
Il mattino comincia con i corvi
in fuga tra i rami tutti bianchi.
È inverno,
inverno a perdita d’occhio.
Così la stagione muta
d’un tratto
e sotto la terra, laboriosa
e fiera, la vita prosegue.
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
sei la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d’estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro.
Alla vita
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.
Amo in te
Amo in te
l’avventura della nave che va verso il polo
amo in te
l’audacia dei giocatori delle grandi scoperte
amo in te le cose lontane
amo in te l’impossibile
entro nei tuoi occhi come in un bosco
pieno di sole
e sudato affamato infuriato
ho la passione del cacciatore
per mordere nella tua carne.
amo in te l’impossibile
ma non la disperazione.
Anima mia
Anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
e come s’affonda nell’acqua
immergiti nel sonno
nuda e vestita di bianco
il più bello dei sogni
ti accoglierà
anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
abbandonati come nell’arco delle mie braccia
nel tuo sonno non dimenticarmi
chiudi gli occhi pian piano
i tuoi occhi marroni
dove brucia una fiamma verde
anima mia.
Angina pectoris
Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,
l’altra metà sta in Cina
nella lunga marcia verso il Fiume Giallo.
E poi ogni mattina, dottore,
ogni mattina all’alba
il mio cuore lo fucilano in Grecia.
E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno
quando gli ultimi passi si allontanano
dall’infermeria
il mio cuore se ne va, dottore,
se ne va in una vecchia casa di legno, a Istanbul.
E poi sono dieci anni, dottore,
che non ho niente in mano da offrire al mio popolo
niente altro che una mela
una mela rossa, il mio cuore.
È per tutto questo, dottore,
e non per l’arteriosclérosi, per la nicotina, per la prigione,
che ho quest’angina pectoris…
Guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana.
I tuoi occhi
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che tu venga all’ospedale o in prigione
nei tuoi occhi porti sempre il sole.
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
questa fine di maggio, dalle parti d’Antalya,
sono così, le spighe, di primo mattino;
i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
quante volte hanno pianto davanti a me
son rimasti tutti nudi, i tuoi occhi,
nudi e immensi come gli occhi di un bimbo
ma non un giorno han perso il loro sole;
i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
che s’illanguidiscano un poco, i tuoi occhi
gioiosi, immensamente intelligenti, perfetti:
allora saprò far echeggiare il mondo
del mio amore.
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
così sono d’autunno i castagneti di Bursa
le foglie dopo la pioggia
e in ogni stagione e ad ogni ora, Istanbul.
I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi
verrà un giorno, mia rosa, verrà un giorno
che gli uomini si guarderanno l’un l’altro
fraternamente
con i tuoi occhi, amor mio,
si guarderanno con i tuoi occhi.
Ho sognato della mia bella
Ho sognato della mia bella
m’è apparsa sopra i rami
passava sopra la luna
tra una nuvola e l’altra
andava e io la seguivi
mi fermavo e lei si fermava
la guardavo e lei mi guardava
e tutto è finito qui
L’uomo
Le piante, da quelle di seta fino alle più arruffate
gli animali, da quelli a pelo fino a quelli a scaglie
le case, dalle tende di crine fino al cemento armato
le macchine, dagli aeroplani al rasoio elettrico
e poi gli oceani e poi l’acqua nel bicchiere
le stelle
il sonno delle montagne
dappertutto mescolato a tutto l’uomo
ossia il sudore della fronte
la luce nei libri
la verità e la menzogna
l’amico e il nemico
la nostalgia la gioia il dolore
sono passato attraverso la folla
insieme alla folla che passa.
.
Ti sei stancata di portare il mio peso
Ti sei stancata di portare il mio peso
delle mie mani
dei miei occhi, della mia ombra
le mie parole erano incendi
le mie parole eran pozzi profondi
verrà un giorno un giorno improvvisamente
sentirai dentro di te
le orme dei miei passi
che si allontanano
e quel peso sarà il più grave.
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d’estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro-
Nazim Hikmet: la poetica libera da ogni reclusione.
E’ il 1902 a Salonicco, quando viene al mondo Nazim Hikmet, in una famiglia aristocratica e privilegiata. Sua madre, un’appassionata pittrice, è una grande amante della poesia francese, specialmente di Baudelaire e Lamartine. Suo padre è un diplomatico, ma anche lui di tanto in tanto butta giù qualche verso e qualche testo in prosa. L’interesse magnetico per la parola, scorre nel DNA della famiglia: persino il nonno di Hikmet ne subisce il fascino e di professione è filologo.
Una vita turbolenta
La vita di Nazim Hikmet è tutt’altro che serena e lineare. Da adolescente frequenta l’Accademia di Marina a Istanbul, che ben presto lascia, trovando la sua strada altrove. La vera svolta arriva quando decide di intraprendere gli studi di sociologia in Russia. All’università di Mosca ha modo di studiare e fare propri i principi di Karl Marx. Inizia a frequentare quelli che saranno i grandi nomi della storia, tra i quali Lenin e Majakovskij e si consacra definitivamente al partito comunista.
Insieme alle sue scelte politiche, arriva anche la definizione di uno dei suoi maggiori nemici per tutta la vita: il governo turco. Le condanne non tardano ad arrivare e caratterizzano lunghi anni della vita di Hikmet, condannandolo a terribili torture e lunghi anni di reclusione in condizioni indegne.
Nazim Hikmet e gli anni di reclusione
La prima volta nel 1928 viene arrestato per affissione irregolare di manifesti politici. Dopo dieci anni, torna ancora una volta in carcere con l’accusa di propaganda comunista e complotto contro il governo. Nei dodici anni di reclusione, la vita di Hikmet si alterna tra momenti di febbrile produzione poetica e pesanti tentativi di protesta.
Il più importante è un lungo sciopero della fame, dopo il quale sviluppa i problemi cardiaci che lo porteranno alla morte. Nonostante la reclusione, Nazim Hikmet scrive dei versi memorabili, come il suo capolavoro Poesie d’amore, che inizia in carcere e porta avanti pressoché fino alla sua morte, che coincide con la data di pubblicazione dell’opera stessa.
La poetica di Nazim Hikmet
L’amore per la patria e la malinconia per il passato si permeano di un estremo attaccamento alla vita. La presenza costante della speranza, rende la sua opera un inno alla libertà, al rispetto della dignità umana e al suo immenso valore. Attraverso un lessico non troppo ricercato, l’autore delinea dei sentimenti con una delicatezza sbalorditiva, se si pensa alla durezza degli eventi che lo toccano.
Con uno stile eterogeneo, caratterizzato da una visione quasi mistica e al ritmo incalzante della scrittura di avanguardia francese, Nazim Hikmet può essere considerato il più grande poeta turco del secolo scorso.
Gli ultimi anni
Nel 1950 esce dal carcere, grazie all’intervento di una commissione internazionale d’eccellenza formata tra gli altri da Picasso, Tzara e Neruda. Ma dopo i dodici anni di reclusione, il governo continua a opprimere Hikmet, organizzandogli due attentati e costringendolo a un lungo esilio itinerante.
Nazim Hikmet si spegne nel 1963, dopo aver visto i suoi scritti tradotti in molte lingue, tranne la sua. Solo nel 2002, in occasione del centenario della sua nascita, il governo turco gli restituirà la tanto agognata cittadinanza.
Roberto Guidotti-Dostoevskij, l’uomo del sottosuolo e quelle lucide memorie-
Dostoevskij scrisse 160 anni fa una delle opere più significative della sua produzione letteraria. Si tratta di Memorie dal sottosuolo libro fuori dai canoni tipici del romanzo ottocentesco, ma che anticipa in maniera chiara il ciclo dei grandi capolavori che si concluderà con I Fratelli Karamazov.
Le memorie è un romanzo centrale nel pensiero dello scrittore russo, anche se è sempre sbagliato considerare l’opera di Dostoevskij un sistema organico di idee e filosofia. Anzi Dostoevskij non era un filosofo né uno psicologo, sebbene le sue intuizioni siano notevoli e anticipano di molto il pensiero introspettivo e psicologico che sarà ripreso abbondantemente nella letteratura novecentesca.
Con Le memorie Dostoevskij scende a fondo nell’animo umano rilevando l’abiezione, il male, la cattiveria, l’invidia e altre propensioni negative dell’essere umano. Il protagonista è un uomo che si definisce nell’incipit del romanzo “malato, malvagio, odioso”. Un individuo di quarant’anni che si vede già vecchio e oramai estraneo, isolato e rigettato dalla società. Società che lui disprezza e nella quale non desidera rientrare in nessun modo. Verso la società l’uomo del sottosuolo mostra un senso di superiorità e nello stesso tempo la paura che da questa venga considerato un reietto. Cosa per la quale a volte prova anche un certo compiacimento.
Nella prima parte del romanzo definita Il sottosuolo il narratore si presenta ai lettori, pienamente consapevole che chi legge non può che schifarlo come lui teme o come si augura che avvenga. Nella seconda parte A proposito della neve fradicia il protagonista va infilarsi in un ritrovo di ex suoi compagni di scuola dove viene snobbato, deriso e umiliato, cosa peraltro frequente nei personaggi dello scrittore russo. L’episodio finale vede l’uomo del sottosuolo recarsi in un casa di tolleranza dove a sua volta per vendicarsi della mortificazione ricevuta, beffeggia e umilia la giovane prostituta Lisa, convincendola ad abbandonare la sua degradata professione. La invita a casa sua cosa che avviene qualche giorno dopo. Alla sua venuta l’uomo ha reazioni di rabbia, tenerezza, pianto, odio; un’indecisione nevrotica che si evince anche nel dialogo e nell’atteggiamento nei riguardi della giovane. Prima la caccia e poi va fuori per cercarla pentito del suo trattamento. Non la troverà e il racconto si chiude con un messaggio ai lettori che possono continuare, eventualmente, a considerarlo un essere spregevole anche se c’è un tentativo di giustificarsi che nello stesso tempo non è una giustificazione e non lascia speranza. Il libro si chiude con questo assunto: tutti gli uomini che nascono si vergognano persino di essere uomini perché nasciamo “uomini già morti”.
Annullando le convenzioni borghesi, che vogliono l’uomo deviato o condizionato dalla società, come Anna Karenina che si toglie la vita perché rifiutata dal suo mondo, il protagonista del nostro romanzo si mostra nudo nell’intimità dei suoi sentimenti che questa volta da “sotto” emergono in superficie come sono realmente, a prescindere dagli altri e da quello che pottebbero pensare. Dostoevskij anticipa in maniera lucida e sorprendente quello che Freud avrebbe scoperto decenni dopo con la teoria dell’inconscio. Il sottosuolo è la sede del male afferma Dostoevskij, un vecchio mostro inconoscibile che verrà inquadrato dagli studiosi in strutture psicologiche rigorosamente articolate. Ma non solo, Dostoevskij fa dire al suo alter ego che “due più due non fa quattro”. L’uomo del sottosuolo non si aspetta un’umanità migliore nonostante il positivismo, la rivoluzione industriale, il progresso scientifico. Non ha nessuna fiducia in un nuovo umanesimo. E la neve non è sempre bianca e pulita ma spesso sporca e fradicia anche metaforicamente, moralmente e spiritualmente. Il motivo è quell’io o per meglio dire quell’ego, che può rivelarsi o essere nel profondo della sua essenza malvagio, anche se l’umanità si trasforma e sembra progredire socialmente. Un’anticipazione, una visione futura o una profezia – e nel caso di Dostoevskij il termine può essere pertinente – che presuppone l’impossibilità dell’uomo di evolversi come “uomo nuovo” e buono soltanto perché la società con le sue componenti più all’avanguardia preme per quella direzione, come immaginava l’intellighenzia progressista russa di quegli anni. Il manifesto di tale ideologia era semplificata dal libro Che fare? di Nicolay Cernyswsekj che auspicava una società in cui la bontà, l’amicizia e l’altruismo e naturalmente l’uguaglianza, alla fine avrebbe prevalso un giorno tra gli uomini, partendo proprio dalla culla originaria, la Russia stessa. Lo stesso Lenin che utilizzava la locuzione Che fare? diede il via a quel tentativo che non portò realmente a una nuova era d’oro per l’umanità.
Anzi, la storia avrebbe proprio dimostrato che l’epopea dell’uomo è in fondo una catastrofe continua che prescinde l’organizzazione politica, religiosa o morale della società stessa. L’uomo rimane – se non sempre come affermava il protagonista del romanzo- spesso indisponete verso gli altri, mediocre e cattivo, giusto per usare alcuni epiteti che l’uomo del sottosuolo rivolge a se stesso.
Certo la conclusione o il messaggio estrinseco del protagonista non è una verità assoluta visto che sensibilità, amore, generosità, compassione, pietà sono caratteristiche anche presenti nell’animo o coscienza dell’uomo. Lo stesso Dostoevskij fu protagonista nel corso della sua vita di slanci di generosità o di bene verso il prossimo che rasentavano l’esaltazione e l’eccesso.
Quello che risalta e viene trascurato nell’analisi del suddetto romanzo è che Dostoevskij grande e attento lettore del Vangelo e ammiratore – a dir poco – della figura di Cristo, parafrasò quello che diceva Gesù stesso, ovvero che dal cuore vengono “propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze” e altro ancora ( Mt 15,19). E’questo il vero problema del male, evidenziato anche “dai grandi peccatori” che fanno capolino praticamente in tutti i romanzi e i racconti.
Nei grandi romanzi che seguiranno – escludendo la pubblicistica – Dostoevskij continuerà a rigettare le teorie, le ideologie o i propositi di cambiare il mondo in meglio da parte di uomini o di classi di uomini. In Delitto e castigo, I demoni, L’idiota e i Karamazov comparirà sottolineata, celata o traslata la figura di Cristo come vero e unico faro di luce e verità. Per lo scrittore russo sarà una specie di riferimento costante e un conforto all’interno di una vita vissuta tra soddisfazioni, successi ma spesso costellata da difficoltà, dilemmi, atroci dubbi, paure e tragedie.
After Images. L’eccidio della famiglia Einstein Mazzetti: risonanze visive-
Fotografie di Eva Krampen Kosloski-Sellerio Editore
Descrizione del libro della Sellerio Editore -Il 3 agosto 1944 nella tenuta Il Focardo di Rignano sull’Arno, circa 15 chilometri a sudest di Firenze, poche ore prima che l’avanguardia delle forze alleate raggiunga la villa, un commando tedesco giustizia Nina Mazzetti e le sue figlie Luce, 27 anni, e Anna Maria, 18. Nina è la moglie di Robert Einstein, ricco commerciante, ebreo apolide, che viveva in Italia da diversi anni. Era il cugino dello scienziato Albert. Robert, che durante la strage era in fuga nei campi, poco dopo il suo ritorno e la scoperta del massacro si suiciderà.
Presenti all’esecuzione sono Lorenza e Paola Mazzetti, cugine di Luce e Anna Maria, che da alcuni anni, di fatto adottate, vivono con la famiglia degli zii. Vengono risparmiate perché non ebree. All’epoca sono poco più che bambine.
Lorenza e Paola diventeranno, ognuna a suo modo, personaggi importanti della stagione culturale del dopoguerra. Lorenza trasferitasi a Londra sarà una delle protagoniste – se non la vera artefice – del Free Cinema inglese, una delle «onde nuove» più trascinanti della cultura europea che vede protagonisti registi del calibro di Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson. Tornata in Italia negli anni Sessanta sarà anche pittrice, giornalista, intellettuale influente. Dei mesi che precedettero quella terribile esperienza scriverà nel libro Il cielo cade, mentre dal mondo cinematografico della Londra del dopoguerra nascerà il Diario londinese (entrambi pubblicati da questa casa editrice).
La sorella Paola sarà scrittrice, illustratrice, artista.
Sua figlia, Eva Krampen Kosloski, fotografa, tornerà nei luoghi dell’infanzia e della tragedia con la madre e la zia e ne documenterà l’atmosfera, la bellezza, la nostalgia. E fotograferà le due sorelle pochi anni prima della loro scomparsa: nella tenuta di Monte Malbe in Umbria, nella villa del Focardo, a Roma…
Queste toccanti immagini, con altre storiche che documentano quell’infanzia dal tragico epilogo, insieme ai documenti che registrano la strage, sono oggetto di un’importante mostra che fino al 25 febbraio 2024 è visitabile in anteprima assoluta presso il Memoriale della Shoah di Milano, e che in seguito sarà portata a New York al Centro Primo Levi.
Edizione bilingue (italiano e inglese) Brossura, formato 17×24 cm Con 74 illustrazioni a colori
La casa editrice Sellerio
Quello che è diventata la casa editrice Sellerio era in un certo modo già presente nel carattere di chi l’ha ispirata come impresa culturale e fondata come impresa economica. Il centro guardato dalla periferia, per scoprire che la periferia è il centro.
La casa editrice Sellerio nasce nel 1969, con un piccolo investimento da parte di Elvira ed Enzo Sellerio celebre fotografo, sulla base di una idea nata parlando assieme a Leonardo Sciascia e Antonino Buttitta, l’antropologo. I quattro sono amici e sono protagonisti della vita culturale palermitana. Palermo negli anni Sessanta è una strana città. Da mille anni una delle capitali dell’Occidente, da mille anni alla periferia dell’Occidente. Crocevia e crogiuolo di tutti gli elementi fondamentali assorbiti dalla cultura occidentale. Ne è legata e distaccata insieme. In ogni sua stagione di fervore culturale (e gli anni Sessanta sono anni di fervore) produce un tipo di intellettuale, egocentrico e presuntuoso quando è un piccolo intellettuale; originale e creativo quando è un grande intellettuale. È un intellettuale segnato da un particolare movimento dialettico: dal suo cantuccio guarda il centro del mondo. Osserva quanto fragili e piene di eccezioni sono sempre diventate in Sicilia le mode e le verità altrove proclamate di volta in volta infallibili e assolute. Considera tutto questo dapprima con risentimento per esserne escluso, con sufficienza, con desiderio; poi scopre che il suo cantuccio è il mondo. Così, fin dall’inizio Sellerio è una casa editrice periferica e interessata alle periferie. Ma è questo essere una specie di provincia dell’anima che le consente di esprimere una generalità. Di non essere una nicchia, ma un soggetto. Perché il soggetto è inevitabilmente un punto di vista, cioè una provincia che si fa centro.
Il programma all’origine della casa editrice è il ritorno a una cultura che Sciascia definisce «amena», cioè una cultura in cui il cosiddetto impegno è implicito e non esplicito, quindi una cultura della leggerezza, che non rinuncia all’eleganza, una cultura delle idee, sì, ma in forma di cose belle.
La fine degli anni Sessanta segna l’apice del grande impegno ideologico e politico della cultura italiana. Ma come sempre, dall’apice, dalla sommità comincia la discesa. Alla fondazione della casa editrice vi è, volontario o involontario, l’intuito che sta per cominciare quello che allora si chiamerà riflusso. Tutti leggono soltanto di politica. Tutto è politico, in quegli anni, perfino la letteratura, perfino l’arte. Tutto è essenziale, ascetico, importante e ostentatamente povero. Se è colto, è sperimentale. La prima collana Sellerio si chiama invece La civiltà perfezionata. È fatta di carta pregiata, con le pagine intonse. E pubblica testi di «belle lettere»: ricercata letteratura, rarefatta, distante anni luce da ogni tempesta politica. Sono testi caratterizzati da due linee apparentemente parallele, in realtà convergenti: la letteratura siciliana, e la letteratura europea meno nota e più raffinata. Due linee che convergono perché si dipartono da un illuminismo di base: il credere che la cultura non ha bisogno di aggettivi, che è di per sé trasformatrice. I due primi titoli sono infatti Mimi siciliani del nobile letterato Lanza e Lettere sulla Sicilia di Eugène Viollet Le Duc, scrittore francese (nonché architetto) malinconico e di sensibilità autobiografica. Ogni volume è accompagnato da incisioni di grandi illustratori (Mino Maccari, Tono Zancanaro, Bruno Caruso) e da una introduzione che in casa editrice si prende l’abitudine (in parte per il gusto della modestia, in parte per la vanità della modestia) a chiamare Nota. Le Note sono testi che hanno come modello gli scritti occasionali di Sciascia stesso, che non prendono mai di petto il loro oggetto, ma vi alludono alla ricerca di connessioni e suggestioni apparentemente lontane ma che in realtà centrano più di ogni zelante documentazione. Così le Note sono introduzioni ma costituiscono, se si vuole, letture autonome. Lanza, per esempio, è introdotto da Calvino.
La prima svolta: la pubblicazione de L’affaire Moro di Leonardo Sciascia.
Dentro la casa editrice, nei primi anni serpeggia un dissenso. C’è chi vuole conservare una dimensione minima e riservata, un carattere strettamente amatoriale (sull’esempio del milanese Scheiwiller, o dell’editore nisseno Salvatore Sciascia). Altri invece vorrebbero misurarsi col mare aperto, con una presenza editoriale più marcata e pubblica, forse nazionale. Nel 1978, senza che nessuno lo abbia programmato volontariamente, arriva un libro di Sciascia come la spada di Alessandro Magno che taglia il nodo gordiano. L’affaire Moro è un classico libro Sellerio (forse il primo tipico). Pubblicato in una collana per pochi com’è La civiltà perfezionata, vende più di centomila copie. È un libro di denuncia, senza parrocchie, coraggioso, scritto nella prosa magnifica di Sciascia. Non teme di essere un libro di grande responsabilità ideale; ma è fatto per essere letto e goduto. Insomma è nato lo stile di una casa editrice e il suo spazio a livello nazionale.
La seconda svolta: la collanina blu della Memoria. Nasce la piccola editoria. Mentre circola lo slogan «piccolo è bello». Tra la casa editrice e l’immaginario dell’italian style si crea un involontario circolo virtuoso.
Fortunato, fortunoso e fortuito – avrebbe detto Sciascia – fu dunque il presentarsi di Sellerio sulla scena nazionale. Ma fu vissuto come una occasione da non mancare. E nell’autunno del 1979 nacque la collana che mancava. Il blu della Memoria. Prima di tutto la grafica. Fu una piccola rivoluzione, nel grigiore metallico delle copertine di quegli anni l’irrompere della macchia blu, della carta vergata, dell’immagine pittorica figurativa al centro della sovraccoperta, dentro una cornicetta colorata che richiamava il colore delle lettere del titolo. Un effetto cromatico accentuato da quella che era allora una originalità audace: i colori delle lettere e della cornice che cambiavano di numero in numero: una volta gialli, una volta celesti, una volta grigi, una volta rossi, quasi mai bianchi. Il libro tornava ad essere anche un oggetto elegante, anche per quel suo formato tendente al quadrato, studiato per essere su misura per la tasca di una giacchetta. Un’unica legge per i contenuti: la curiosità intelligente (intelligente, diceva Sciascia nel senso di intelligenza col lettore «come si dice intelligenza col nemico», cioè intesa rapida, sotterranea, forse complice) che il libro doveva comunicare al lettore, resa con stile letterario. Leggerezza. Una collana amena, appunto. Per quell’accavallarsi di casi fortunati che contornano le buone imprese, La memoria accompagnò – forse incoraggiò, addirittura, si può azzardare, inaugurò – una serie di novità in ciò che allora cominciava a chiamarsi «immagine». Nasceva allora lo stile della piccola editoria. Nasceva dentro l’idea dei prodotti italiani come esempio di cose belle fatte bene e con stile. La memoria, nella sua fortuna di lettori e di critica, sosteneva queste tendenze e ne era sostenuta.
La consacrazione nazionale: il caso Bufalino. Difficilmente un altro editore avrebbe scoperto Diceria dell’untore. Perché quella scoperta fu il frutto dello stile di lavoro di Sellerio.
Un uomo già anziano. Un tipico professore di Liceo siciliano. Coltissimo ma impenetrabilmente schivo. Poco appariscente, sembrava più un erudito che uno scrittore di talento. E poi la sua scrittura barocca, ricercata allo spasimo, figlia, apparentemente, dell’altra metà del secolo. Nel 1981 l’incontro con Bufalino fu casuale e solo il fatto che lo stile di lavoro di Elvira Sellerio (che allora cominciava a occuparsi a tempo pieno, da direttore editoriale, della sua impresa) è poco programmato e molto guidato dalla curiosità, poté produrre quella piccola inchiesta alla fine della quale nel cassetto di Bufalino fu scovato Diceria dell’untore. Una casa editrice più ordinata, un direttore editoriale più tradizionale, uno stile di lavoro più efficiente avrebbe mai trovato Diceria dell’untore? Comunque, quel romanzo che fu la consacrazione di Sellerio tra gli editori nazionali, vinse un meritatissimo Campiello nel 1981 e segnò un cambiamento anche nella cultura italiana. La narrativa italiana girò pagina. E cominciò la stagione dei nuovi scrittori italiani. Almeno per Sellerio.
Saggi legati soprattutto alla storia, alle scienze del linguaggio e a quella che una volta si chiamava varia umanità. Rigore scientifico ma anche il tentativo perenne di rinverdire il vecchio saggio di lettura – che non è la divulgazione o la volgarizzazione ma la capacità di mantenere lo stile, la curiosità e l’innocenza di fronte alle tematiche più teoriche ed erudite.
Nel frattempo nel 1976 erano nate due collane di saggistica. Biblioteca siciliana di storia e letteratura e Prisma. La Biblioteca è la prima collana di storia della Sellerio. Il titolo è vagamente crociano. C’è Croce infatti, forse senza che se ne abbia esplicita intenzione, sotto tutta la storia di Sellerio. Perché non possiamo non dirci crociani? Perché Croce era forse prima di tutto un grande letterato. La storia che cerca di fare Sellerio è storia con la S maiuscola, quella che Les Annales chiamavano storia evenemenziale, dei grandi avvenimenti. (Non che non sia presente anche una storia sociale e materiale, una microstoria: essa è raccolta nella collana Quaderni, fondata nel 1984). Storia di grandi avvenimenti, storia siciliana ma non solo. Ma soprattutto libri di storia fatti, o almeno questo è il tentativo perenne, per essere letti più che studiati (è in questa collana che compare il libro dello storico Francesco Renda Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, la più completa storia della Sicilia postunitaria). Prisma invece è la collana di saggistica più classica e più specialistica: essa è destinata agli studi dei linguaggi e delle letterature intesi nel senso più ampio. Nel corso degli anni a queste prime si aggiunsero altre collane: La diagonale e La nuova diagonale, Fine secolo, destinate rispettivamente a saggi di varia, a lettere diari biografie e memorie di viaggio, alla letteratura dei diritti civili (Fine secolo, fu inventata ed è diretta da Adriano Sofri). Ma la cifra che le unifica tutte quante è sempre quella. Non perdere mai l’innocenza e la curiosità. Non perdere mai di vista che la conoscenza è un orizzonte non un traguardo. Se non è incanto, la conoscenza è tecnicismo per i tecnici. Un esempio è la Sentenza, di Luciano Canfora, che indaga sul caso della esecuzione del filosofo del fascismo Gentile e del coinvolgimento del grecista Marchesi. Canfora è intellettualmente coinvolto, per le sue posizioni politiche di sinistra per il suo antifascismo e per essere grecista; ma questo coinvolgimento non prevale sulla obiettività e dà al libro, semmai, un di più di passione. Canfora dal 1990 dirige la collana La città antica, l’unica collezione di scritti classici con studi critici e testi a fronte diretti al vasto ambito dei lettori non specialisti.
Gli anni Ottanta di Tabucchi, di Consolo, di Adorno, di Maria Messina. Sellerio è in prima fila in quella stagione in cui con un nuovo orgoglio la narrativa italiana scopre (riscopre) un’altra generazione di scrittori.
Dopo Diceria dell’untore il nome della casa Sellerio si salda in qualche modo con la vena dei nuovi scrittori italiani. Sellerio, nel suo piccolo, contribuisce a riprendere l’esportazione della cultura italiana all’estero. Accanto a Bufalino, sono richiestissimi i diritti di traduzione di scrittori che la casa editrice va scoprendo. Antonio Tabucchi, Maria Messina, Luisa Adorno, sono i nomi più interessanti. Ed è indicativo che non di inediti si tratti. Ma di scrittori caduti nel dimenticatoio, che Sellerio scopre e rilancia. Segno che gli anni Ottanta sono proprio la stagione della piccola editoria che esercita una funzione di svecchiamento, contro la pigrizia e il letargo dei giganti dell’editoria. E di questa stagione, la stagione della nuova generazione di narratori italiani, assieme a un paio di altri, Sellerio è protagonista e traino.
Il risveglio dei giganti. I grandi gruppi editoriali riassorbono i piccoli, con i manager al posto dei vecchi leoni. Fine della piccola editoria. Sellerio resiste, assieme a pochi altri. E lancia un nuovo genere di giallo all’italiana. Un piccolo editore, Sellerio?
Nel 1990 esce da Sellerio un librettino. Racconta di un commissario di polizia che indaga su un torbido delitto, nel passaggio dalla repubblica di Salò alla repubblica italiana. Il commissario, De Luca si chiama, è un funzionario del regime fascista onesto e molto scettico, in un’epoca in cui le due qualità – onestà e scetticismo – non possono andare d’accordo. Sembra il primo giallo «revisionista», in quanto presenta il volto umano di un’epoca e un momento storicamente perversi. Ma il suo autore ha abbastanza cultura, talento e onestà intellettuale per far argine a quello che potrebbe essere uno scandaluccio e per farne un caso letterario. Con Carta bianca di Carlo Lucarelli si può dire che nasca un nuovo genere di giallo italiano. Seguirà un profluvio di letteratura poliziesca, para o similpoliziesca, italiana e straniera, di grandissimo interesse e successo. Quasi a conferma di una profezia di un grande scrittore svizzero importato in Italia da Sellerio. Nel 1985 la casa editrice aveva pubblicato il romanzo di uno strano giallista svizzero e irregolare Glauser (Il grafico della febbre, giunto a una decina di ristampe), che diceva: «il racconto poliziesco è il miglior mezzo per diffondere idee ragionevoli». E a questo motto profetico oggi – che sembra più nulla possa dirsi se non in forma di giallo – pare obbedire il giallo Sellerio. All’apice di questa avventura con il poliziesco c’è la scoperta di un vero e proprio genere nuovo. Il poliziesco di scuola siciliana, e due nomi senza commento: Andrea Camilleri e Santo Piazzese. Sono titoli di successo e di grande diffusione. Sull’onda di questi anni Novanta, Sellerio inaugura altre collane, più marginali e divaganti. Come Il castello che viaggia nei grandi libri della letteratura del mondo non globalizzato – dall’Irlanda all’America latina, all’Africa, agli Afroamericani. Come Il divano che butta qui e là sotto gli occhi del lettore le più diverse stranezze, da collezionisti di oggetti inesistenti o da eruditi di cose perdute o da manualistica di pratiche del tutto inutili. Un ventaglio di grande ricchezza intellettuale, di spirito ed eleganza, di suggestioni, che consente a Sellerio di sfuggire a quello che è il grande vento editoriale degli anni Novanta. Il risveglio dei giganti. Le nuove immani concentrazioni editoriali. Le cosiddette sinergie che tolgono i libri dalle mani degli editori, e ne fanno gadget. Sellerio è così ormai un caso più unico che raro di piccola editoria. Un artigiano robusto come una industria. Un gruppo di dilettanti più bravi del miglior professionista. Una follia con dentro il metodo più rigoroso. Ma stiamo parlando ancora di un piccolo editore?
Gli anni del Duemila per Sellerio sono stati gli anni di un’esperienza nuova: i cinque milioni di copie di libri di Camilleri, oggi diventati trenta milioni, prodotti a Palermo e venduti in Italia, più i diritti di traduzione venduti fino al Giappone. Ma non c’è solo questo.
C’è prima di tutto che questa esperienza capace di travolgere e di tramutare non ha travolto e tramutato. E non è solo l’esperienza dei grandi numeri. È ancora una volta, negli anni dei giganti multimediali e multinazionali della comunicazione, l’esperienza di lanciare ovunque nel mondo la cultura in lingua italiana da una provincia siciliana in cui si prende ancora il gelato al gelsomino e si investe ancora il tempo a perdere tempo felicemente. Forse bisogna ancora accorgersi che in questi primi anni del Duemila la Sicilia ha esportato ovunque due cose, due cose sole ma cariche di significato e di speranza: il vino siciliano e i libri blu di Sellerio. E non solo libri. Nell’autunno del Duemila la casa editrice ha cercato una via nel nuovo campo del multimediale. Sellerio ha prodotto, per la prima volta in Italia, un cartone animato interattivo dal Cane di terracotta. Un libro video e gioco interattivo insieme: un’invenzione, premiata con la menzione d’onore al «Bologna New Media Prize». Oltre Camilleri, poi, tornando ai libri, gli anni Duemila sono stati anni di scrittori dal mondo di cui si parla molto e se ne parlerà per molto. La canadese Margaret Doody: aveva pubblicato un libro e poi il suo editore americano si era dimenticato di lei. Ma Margaret aveva creato un nuovo detective nel filosofo Aristotele, un detective deduttivo e realistico, rimandando indietro nel tempo il genere del giallo speculativo. E con questa operazione ironica di proiettarlo nel passato ha tolto ogni anacronismo a un genere, appunto la detection speculativa, che sembrava oggi impossibile: un best seller, il primo libro, seguito da altri due in prima mondiale e venduti in più di centomila copie. Ancora un miracolo editoriale: un’anziana signora inglese, caso letterario europeo degli ultimi anni, Penelope Fitzgerald, che parla delle cose profonde e invisibili e forti della vita, con una grazia colorita di tinte tenui che è stata paragonata alle tele di Turner. Il divertimento triste e trascinante del russo Dovlatov, che parla della sua esperienza di russo a cavallo della caduta del muro, con un umorismo acuto e dissacrante che ha la forza – è stato detto – di Čechov. Bolaño, cileno e giramondo, un Borges dei tempi di Tarantino (è un critico francese a definirlo così nella commemorazione per la sua recente scomparsa), che trae dal passato di ieri delle dittature sudamericane, e dal presente della diaspora della sua generazione di sudamericani, cronache vere, ma che sembrano uscite dalla smorfia dada e surrealista. E le scoperte più recenti. Due giallisti di grande qualità e di grande successo. Gianrico Carofiglio (Testimone inconsapevole e Ad occhi chiusi) l’inventore del «legal thriller» italiano, con un personaggio così vero, l’avvocato Guerrieri, che solo un magistrato di lungo corso com’è lui poteva scolpire. E la spagnola Alicia Giménez-Bartlett: l’ispettrice Petra Delicado e il vice Garzón sono due piedipiatti così indimenticabili, nel loro umorismo dolceamaro, nella loro durezza dal cuore tenero, che il grande critico Cesare Cases parla dell’autrice come «geniale scrittrice mediterranea».
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.