Viterbo: presentazione del restauro dell’opera di Neri di Bicci
“Madonna in trono con Bambino”
Viterbo-Organizzata da Fondazione Carivit, giovedì 31 ottobre prossimo a Viterbo , alle ore 10.00 presso la Sala delle Assemblee di Palazzo Brugiotti (via Cavour, 67) a Viterbo, si terrà la presentazione del restauro, effettuato sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale, dell’opera dell’artista fiorentino Neri di BicciMadonna in trono con Bambino. Si tratta di un dipinto a tempera su tavola, databile fra il 1458 e il 1459, conservato attualmente nella Chiesa di San Sisto a Viterbo.
Viterbo: presentazione del restauro dell’opera di Neri di Bicci “Madonna in trono con Bambino”
All’incontro saranno presenti, oltre al restauratore che ha effettuato i lavori, prof. Giorgio Capriotti, per l‘Ufficio, la soprintendente, arch.Margherita Eichberg, e la funzionaria storica dell’arte della Sabap, dott.ssa Luisa Caporossi.
In apertura previsti i saluti istituzionali del presidente di Fondazione Carivit, dott. Luigi Pasqualetti e di S.E. Mons. Orazio Francesco Piazza, Vescovo della Diocesi di Viterbo.
Dell’attività e dell’operato di Neri di Bicci, sappiamo da un suo taccuino personale di bottega che tenne e che aggiornò assiduamente nel tempo. La sua produzione, ad esempio, dal 1453 al 1475, è riportata dettagliatamente in questo suo diario di bottega (meglio noto con il nome di Ricordanze), in cui annotò scrupolosamente i propri lavori.
Conosciuto per le sue pale d’altare, si occupò anche di molti restauri, ma risalta in particolare la qualità della policromia adottata per le immagini a rilievo.
Viterbo è la Città dei Papi. Nel XIII secolo la città fu sede pontificia e ospitò i Pontefici nel Palazzo Papale.
Città d’arte e di cultura a ridosso dei monti Cimini, tra il lago di Vico e quello di Bolsena, Viterbo offre numerose esperienze e opportunità di visita: dalle chiese medioevali ai palazzi rinascimentali, dalle aree archeologiche alle terme, dalla buona cucina alle tradizioni culturali.
Imperdibili il Palazzo dei Priori, il Palazzo dei Governatori e il Palazzo del Podestà. Simbolo autentico dell’antica città di Viterbo è il quartiere San Pellegrino, tra i quartieri medievali più grandi d’Europa. Qui tutto è rimasto immutato: la pavimentazione stradale, i palazzi e le case con le volte a botte, gli archi, le logge e i famosi “profferli”, le scale esterne che univano la corte al piano terra. Lungo la via San Pellegrino, in corrispondenza della via Francigena. le case sono poggiate sul tufo dal tipico color grigio. Si susseguono inoltre gli edifici trecenteschi come il Palazzo degli Alessandri, edificio a tre piani e dal “profferlo” interno con parapetto decorato “a stelle”. C’è poi la chiesa di San Pellegrino, tra le più antiche della città. Nel cuore del centro storico si erge la Cattedrale romanica di San Lorenzo, o Duomo di Viterbo. Dalla metà del Duecento la Cattedrale assunse maggiore rilievo con la presenza dei Papi che risiedevano nel celebre Palazzo Papale edificato nelle vicinanze. La chiesa fu trasformata nel 1192 in un edificio romanico sul luogo di un’antica Pieve. Il campanile invece fu costruito verso la fine del 1300 e presenta le tipiche caratteristiche del gotico toscano. Meraviglioso il pavimento cosmatesco della navata centrale e molto importanti le tele esposte all’interno. Viterbo è la Città dei Papi. Nel XIII secolo la città fu sede pontificia e ospitò i Pontefici nel Palazzo Papale.
Città d’arte e di cultura a ridosso dei monti Cimini, tra il lago di Vico e quello di Bolsena, Viterbo offre numerose esperienze e opportunità di visita: dalle chiese medioevali ai palazzi rinascimentali, dalle aree archeologiche alle terme, dalla buona cucina alle tradizioni culturali.
PAOLO D’ANGELO-Le nevrosi di Manzoni -Quando la storia uccise la poesia-
-Società editrice il Mulino-
Descrizione del libro di Paolo D’Angelo-È Manzoni il grande nevrotico della letteratura italiana dell’Ottocento: crisi di panico, svenimenti e agorafobia lo tormentarono per tutta la vita. Di questi mali, don Lisander incolpava l’immaginazione troppo viva, che gli faceva vedere pericoli inesistenti se si fosse avventurato negli spazi aperti. Manzoni, però, temeva i frutti dell’immaginazione anche in un altro campo, quello in cui viene ritenuta indispensabile: persino nella creazione artistica, nella scrittura del romanzo occorreva secondo lui tenersi lontano dai capricci dell’invenzione e affidarsi piuttosto all’appoggio sicuro del dato storico. Questo libro racconta come, a poco a poco, la storia abbia sottratto nell’autore dei Promessi Sposi ogni spazio all’arte, fino a condannarlo al silenzio.
Paolo D’Angelo insegna Estetica presso l’Università di Roma Tre. Per il Mulino ha pubblicato: «L’estetica del Romanticismo» (20033, tradotto in spagnolo e portoghese); «Estetismo» (2003); «Estetica e paesaggio» (2009). È inoltre autore di «Estetica» (Laterza, 2011); «Forme letterarie della filosofia» (Carocci, 2012); «Filosofia del paesaggio» (Quodlibet, 2010).
INDICE
Premessa
Il diverso suono di due silenzi
Psicopatologia della vita manzoniana
III. «Dell’inventato, che è quanto dire del falso»
Attilio Motta-Storia di un motto d’amore e d’amicizia-
«Usque dum vivam et ultra»
Marsilio Editori -Venezia
Descrizione del libro di Attilio Motta, Storia di un mottod’amore e d’amizizia-Concepito come un’inchiesta, il saggio insegue le tracce del fortunato motto latino «Hyeme et aestate, prope et procul, usque dum vivam et ultra» («D’inverno e d’estate, vicino e lontano, finché vivrò e oltre»), prendendo le mosse dalla sua comparsa nelle prime pagine di Una questione privata di Fenoglio e dal suo più noto antecedente, il Daniele Cortis di Fogazzaro, per risalire, attraverso le epigrafi di due monumenti perduti, alle sue origini nel classicismo settecentesco, e indagarne la preistoria nell’iconografia rinascimentale dell’amicizia e la sua gestazione nell’imago amoris sive amicitiae della didascalica medievale. Terminato il percorso à rebours, il saggio ripercorre quindi le tappe della fortuna moderna del motto soffermandosi sulla sua straordinaria diffusione tra Ottocento e Novecento, con le sue sorprendenti riprese, da Pirandello ad Ada Negri, da Jolanda a Buonaiuti, da Brecht a Elsa Morante, e avanzando un’ipotesi nuova (e cinematografica) per la fonte della sua conoscenza da parte di Fenoglio. Un viaggio appassionante nella letteratura di autori e periodi lontani tra loro, che attraversa anche altre e diverse discipline, dalla storia dell’arte all’architettura dei giardini, dall’iconografia all’emblematica, dalla filologia alla storia del cinema.
L’Autore-Attilio Motta(Lecce 1971) è professore associato di letteratura italiana all’Università di Padova. Si è occupato di poesia popolare del Trecento (edizione critica dei Cantari della Reina d’Oriente di Antonio Pucci, con William Robins, 2007), di romanzo italiano del Settecento e di Ippolito Nievo, di cui ha pubblicato per l’Edizione nazionale Marsilio gli Scritti politici e d’attualità (2015). Al Novecento ha dedicato la sua prima monografia, sul ripiegamento memorialistico degli intellettuali contemporanei (L’intellettuale autobiografico, 2003), e numerosi saggi, su narratori quali Cesare Pavese e Italo Calvino e sui rapporti tra letteratura e cinema (su Eastwood, Truffaut, Amelio, Sorrentino, il romanzo cinematografico, le “transcodifiche” da libro a film), curando recentemente, con Denis Brotto, il volume Interferenze. Registi/scrittori e scrittori/registi nella cultura italiana (Padova University Press 2019).
Margherita Guidacci–Nata a Firenze, il 25 aprile 1921. A dieci anni perde il padre, esperienza che segna la sua giovinezza. Dopo la maturità si iscrive alla Facoltà di Lettere, dove nel 1943 si laurea con Giuseppe De Robertis con una tesi su Ungaretti. I suoi interessi si rivolgono quindi alla letteratura inglese e anglo-americana, soprattutto a Emily Dickinson e T. S. Eliot. Studia al British Institute di Firenze e cominica a collaborare con riviste letterarie. Nel 1946 pubblica la prima raccolta di poesie La sabbia e l’angelo. Insegna latino e greco e, dal 1950, letteratura inglese nei licei scientifici e istituti tecnici. Dal 1952 inizia la sua attività di pubblicista sulla terza pagina del «Mattino dell’Italia Centrale». Nel 1954 esce un altro volume di versi Morte del ricco. Nel 1948 vince il premio Le Grazie per cinque poesie inedite. Nel 1949 si sposa con Luca Pinna. Nel 1958 vanno a vivere a Roma, dove Margherita inizia la collaborazione col giornale «Il Popolo». Fino al 1972 insegna al liceo scientifico Cavour di Roma e poi ottiene una cattedra di letteratura anglo-americana presso l’Università di Macerata. Continua a scrivere e pubblicare libri di poesia. Muore il 19 giugno 1992 a Roma.
Margherita GUIDACCI
Primo autunno di Elisa
Che dirti, amore mio, che dirti?
Che l’uva è vendemmiata
ed ogni succo disfatto in dolcezza?
Che ragnatele di nebbia
hanno striato la terra? Nel bosco
tutte le bacche sono ormai cadute,
rimane il legno bruno e lucido
e l’anno corre alla sua foce
lungo le vene dell’ultima foglia.
Che dirti, amore mio, che dirti?
Le parole hanno un senso
soltanto se le nutre la memoria.
Ma tu non hai ricordo di stagioni,
tanto meno ricordo di ricordi:
sei nuova e fresca, intatta dal declino
che rattrista lo sguardo di tua madre
mentre fissi serena
questo tuo primo autunno.
Lascia che sia il vento
Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d’ ogni immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.
All’ipotetico lettore
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
Margherita GUIDACCI
All’ipotetico lettore
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è inferiore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
(1992)
Da La sabbia e l’angelo (1946)
XVI
Se tu mai sentissi la notte nei tuoi polsi tremare,
E trafiggerti con gli aghi del sangue,
E i minuti del cuore sconvolgerti in improvvise frane,
Allora nemmeno comprenderai
che sia , di terra farsi poi nardo e neve,
Ed entrare in un tempo incorruttibile.
XXVII
Ama l’albero in sé raccolto, ama la chiusa fatica
Del frutto che il tempo nutre e che nel tempo ricade.
Ma più ama l’albero nel vento, quando assomiglia alla fiamma futura.
Margherita Guidacci
Da Una breve misura (1988)
Anche sul fango Lieto risveglio
il sole resta sole d’ali e canti: ogni uccello
e non s’infanga conosce la sua alba
Quando è accaduto il peggio
Quando è accaduto il peggio
si forma un grande silenzio
come un lago immobile
su una città sommersa.
Son più reali le nuvole
delle case che prima abitavamo.
Ci affacciamo curiosi
e indifferenti come posteri.
sulla rovina che più non è tale
per noi, se soverchiandosi ha travolto
la nostra conoscenza,
Che sollievo sentire
che nulla ormai ci riguarda!
Margherita Guidacci
Da Nerosuite (1970)
Clinica neurologica
Qui giunto molte cose o pellegrino
puoi domandarti ma una sola importa:
E’ l’ultima casa dei vivi
o la prima dei morti?
Stella cadente (1992)
Alcuni desideri si adempiranno
altri saranno respinti. Ma io
sarò passata splendendo
per un attimo. Anche se nessuno
mi avesse guardata
risulterebbe ugualmente giustificato –
per quel lucente attimo – il mio esistere.
*
Tutti i vostri strumenti hanno nomi bizzarri
e difficili, ma io vedo chiaro
e so che in fondo sono solamente
metri e gessetti con cui misurate
e segnate – segnate e misurate
senza stancarvi.
Sfilate spilli di tra le labbra, come un sarto:
me li appuntate sull’anima
e dite: “Qui faremo un bell’orlo.
Dopo starai tanto meglio.”
Io non voglio che mi tagliate un pezzo d’anima !
Se ne ho troppa per entrare nel vostro mondo,
ebbene, non voglio entrarci.
Sono una poetessa:
una farfalla, un essere
delicato, con le ali.
Se le strappate, mi torcerò sulla terra,
ma non per questo potrò diventare
una lieta e disciplinata formica”
Poiché non mi veniva nessuna parola
(la parola era “addio”, ma non riuscivo a dirla)
ti ho dato il mio silenzio
ed ho ascoltato il tuo,
e non è stato un vuoto, ma condivisa pienezza
e ancora gioia, mentre accettavamo,
come la terra, un nostro tempo di neve,
bianco grembo d’attesa delle future estati.
Margherita GUIDACCI
Margherita Guidacci
È come una mancanza
di respiro ed un senso di morire,
quando mi stringe improvviso
il desiderio di te tanto lontano
e nulla può calmarlo, altro pensiero
non può occuparmi, tranne il Paradiso
che sarebbe per me lo starti accanto.
Ma poiché ciò m’è negato, più cara,
molto più cara d’una fredda pace
mi è la stretta indicibile
quasi marchio di fuoco che proclami
ancora e sempre quanto sono tua.
A nessun costo vorrei separarmi da questo mio dolore.
*
Scrivo parole ogni giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So che potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni istante, ogni giorno
l’urlo e il tuono. Vivo intorno.
Potrei fermarmi e attendere.
In silenzio.
Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d’ ogni immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.
*
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
Margherita Guidacci
se il muro fosse di pietra e non d’aria,
se attraverso il muro non si toccassero gli alberi,
se le alte sbarre d’ombra che ti rigano l’anima
fossero l’ombra di vere sbarre a cui potersi aggrappare,
se ricordassi lo scatto d’una porta che si chiude
alle tue spalle e il tintinnìo delle chiavi
alla cintura del carceriere che si allontana:
quale sollievo ne avresti nell’orrore!
perché ciò che si chiude può tornare ad aprirsi,
la rocca più imponente può essere distrutta.
ma dove sei non è porta, e nessuna porta s’aprirà.
e non è muro: nessun muro sarà abbattuto.
le sbarre d’ombra sono le vere sbarre,
non saranno divelte. tu confini con l’aria,
tocchi gli alberi, cogli i fiori, sei libera,
e sei tu stessa la tua prigione che cammina.
Anniversario. Margherita Guidacci, poetessa dolcemente audace ed eversiva
Alberto Fraccacreta domenica 25 aprile 2021-fonte Avvenira giornale della CEI
Margherita GUIDACCI
La sua esperienza testimonia con forza il bisogno della vita. Ed è questa serietà specchiata che rende così audace, così dolcemente eversiva e attuale la lezione della poetessa nata il 25 aprile 1921
Margherita Guidacci è stata una delle poetesse più interessanti della sua generazione – e potremmo dire del nostro Novecento – ma soltanto negli ultimi anni l’attenzione critica verso la sua opera ha reso parziale giustizia a lei, che oggi compie il suo centesimo genetliaco. Nata il 25 aprile 1921 a Firenze, Margherita ha trascorso un’infanzia dickinsoniana: avide letture, molta introspezione, poche amicizie, una primissima adolescenza punteggiata di lutti con la prematura scomparsa del padre Antonio. Si avvicina alla poesia grazie al cugino (poeta in proprio) Nicola Lisi che, diciottenne, le mette in mano gli Ossi di seppia. Montale – assieme a Leopardi, Eliot, Rilke – segna il suo background letterario, orientandolo verso una linea espressiva di afflato metafisico, distesa e ragionata, dotata di “classicismo paradossale”, distante ugualmente dalle intuizioni orfiche e dal preziosismo della parola pura. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, si laurea nel ’43 con un’ardita tesi su Ungaretti discussa con Giuseppe De Robertis.
Dopo qualche tempo, abbandona gli studi di letteratura italiana e incomincia a dedicarsi al versante angloamericanistico, avviando un imponente lavoro di traduzione spalmato su quattro decenni ( John Donne, William Blake, Elizabeth Bishop e altri). Ciò avviene per una ragione d’intenti che riguarda intrinsecamente la poetica: il suo fiuto la conduce sin dagli esordi a una callida iunctura, a un «accostamento drammatico di significati», lasciando in secondo piano le risonanze verbali, l’«accostamento magico di suoni». La Guidacci concepiva la poesia come istintività rabdomantica – e pare che lei avesse il “dono” –, la scossa elettrica dell’ispirazione ne doveva setacciare l’“acqua” (parola spesso ricorrente nei suoi versi), il flusso assoluto e cristallino del mistero essenziale.
Esordisce nel ’46 con La sabbia e l’Angelo ( Vallecchi 1946), una silloge egregia che nel titolo ha qualcosa di betocchiano e, al contempo, con un originale antiermetismo di fondo ci riporta alle terse atmosfere bibliche, alle modulazioni spiritualistico-cristiane della Firenze anni Quaranta («Il mondo è così diviso: in principio è la brezza; / e poi vi sono le cose che con voce o con gesto alla brezza rispondono; / e poi vi è anche la pietra crudele, che tronca il volo alla brezza»). D’altra parte, in un’intervista ha dichiarato di essersi «nutrita dell’Antico Testamento e in particolare i Salmi, l’Ecclesiaste, Giobbe ed i profeti, Geremia, Daniele ed Ezechiele». Per il severo timbro delle Scritture, unito a una sincera preoccupazione religiosa, si può accostare (senza sovrapporre) la Guidacci alla quasi coetanea e altrettanto notevole Cristina Campo. Al ’49 risale il suo matrimonio con il sociologo di origine sarda Luca Pinna da cui ebbe tre figli. Diviene insegnante di inglese nelle scuole secondarie, continuando parallelamente la sua attività di traduttrice e cementando la collaborazione con alcuni quotidiani.
I successivi testi poetici – Morte del riccio ( Vallecchi 1954), Giorno dei santi (Scheiwiller 1957), Paglia e polvere (Rebellato 1961) – approfondiscono la natura dicotomica che informa un po’ tutte le sue liriche: il nesso tempo-eterno, la lotta tra amore e morte, il ritorno al primigenio e alla nuda solidità degli elementi, persino il senso del dolore e della malattia (precipuamente in Neurosuite, Neri Pozza 1970), sempre filtrati da una dizione prosastica, comunicativa. Visivamente parlando, infatti, la poesia della Guidacci appare assai moderna e priva d’incrostazioni: i versi lunghissimi, whitmaniani – che non disdegnano talora un impulso civile – si sposano con una visione dell’esistenza prossima a conchiudersi nella più genuina preghiera («Dio mi ha chiamato ad arricchire il mondo / decretandone il semplice strumento: / basta un opaco granello di sabbia / e intorno il mio dolore iridescente!»). Nel ’76 è chiamata a insegnare Letteratura angloamericana all’Università di Macerata e passa poi nell’81 alla Lumsa di Roma.
Dal ’79, intanto, in collaborazione con Aleksandra Kurczab e Brenno Bucciarelli traduce tre opere letterarie di Giovanni Paolo II: Pietra di luce, Il sapore del pane e Giobbe ed altri inediti. Negli anni Ottanta si registrano ben otto sillogi, percorse da un misticismo che abbandona gli inquieti pudori delle prime raccolte per farsi sempre più universale: spiccano L’altare di Isenheim (Rusconi 1980), La Via Crucis dell’umanità (Città di Vita 1984), Il buio e lo splendore (Garzanti 1989) fino al postumo – Margherita morirà a Roma il 19 giugno 1992 – Anelli del tempo (Città di Vita 1993). A cura di Maura Del Serra è uscita lo scorso dicembre un’edizione aggiornata dell’intero corpus lirico, Le poesie (Le Lettere). Sara Lombardi, in un volume monografico dedicato all’autrice fiorentina, ha scritto che «in conformità con la sua formazione cattolica, la poesia per la Guidacci non sarà mai gioco letterario, ma esperienza estremamente seria». Niente di più vero. È questo bisogno di vita che la sua esperienza testimonia con forza. Ed è questa serietà specchiata che rende così audace, così dolcemente eversiva e attuale la lezione di Margherita Guidacci.
-Traduttore M Canfield- Editore Libri Scheiwiller-
Mario Vargas Liosa
Descrizione -Gli eventi che nel 1952 portarono Sartre e Camus a un’insanabile rottura sono centrali per comprendere l’origine di un mito culturale: l’engagement, “l’impegno”. Da una parte il franco-algerino partigiano della resistenza, coscienza morale di una generazione; dall’altra il critico della società, l’agitatore rivoluzionario. “Tra Sartre e Camus”, un osservatore d’eccezione, un giovane scrittore di stanza a Parigi che, dalle pagine dei giornali, articolo dopo articolo, delinea l’autoritratto di un latinoamericano che, cresciuto seguendo la radicalità di Sartre, ha finito per abbracciare il riformismo di Camus. Ed è la letteratura a prefigurare la politica. Nel 1964 Sartre invita a rinunciare alla letteratura in nome dell’azione sociale: in un continente che manca di quadri tecnici come l’Africa, sostiene, è più importante fare il professore in un villaggio che lo scrittore a Parigi. Llosa dissente: se un romanziere di colore rinuncia a scrivere i libri che si porta dentro per insegnare l’alfabeto agli scolari della Guinea, cosa leggeranno questi quando l’unico che avrebbe potuto scrivere dei libri nella loro lingua ha rinunciato a farlo? Traduzioni di Sartre? Una raccolta di saggi che suona come un inno alla libertà e alla bellezza.
Dettagli
Autore:Mario Vargas Llosa-Traduttore:Canfield-Editore:Libri Scheiwiller-Collana:Prosa e poesia-Anno edizione:2010
In commercio dal:20 maggio 2010Pagine:148 p., Brossura-EAN:9788876446238
Mario Vargas Liosa
Briografia di Mario Vergas Liosa- premio Nobel per la letteratura nel 2010
Mario Vergas Liosa-Scrittore, critico e giornalista peruviano. Figura centrale della rinascita della narrativa ispanoamericana, fine polemista, è vissuto a lungo in Europa. Attivo nelle battaglie civili e politiche, si è candidato alle elezioni presidenziali del Perù nel 1990 (resoconto di quell’esperienza è Il pesce nell’acqua, El pez en el agua, 1993). Collaboratore di diversi giornali europei, conferenziere in molte università del mondo, nel 1994 ha assunto la cittadinanza spagnola; ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti tra cui i premi Principe di Asturias, Cervantes, Grinzane-Cavour alla carriera e la presidenza del Pen Club International. Autore molto prolifico, ha pubblicato articoli, saggi (su García Marquez e Flaubert), pièces teatrali e narrativa di vario genere. La città e i cani (1963) è il dissacrante romanzo d’esordio: bruciato in piazza in Perù, ottiene larghi consensi in Europa. Gli fanno seguito La casa verde (1966) e il romanzo politico Conversazione nella cattedrale (1969). Pantaleón e le visitatrici (1973) inaugura un registro di sottile, a volte comico, ironico, cui appartiene anche La zia Julia e lo scribacchino (1977). Ha sperimentato il genere giallo dal risvolto sociale (Chi ha ucciso Palomino Molero?, 1986).
Tra le ultime opere: La festa del caprone (2000), Il paradiso è altrove (2003), Avventure della ragazza cattiva (2006), struggente storia d’amore e di fuga, Il sogno del celta (Einaudi 2011) la biografia romanzata di Roger Casement, La civiltà dello spettacolo (Einaudi, 2013), Crocevia (Einaudi, 2016), Il richiamo della tribù (Einaudi, 2019) e Tempi duri (Einaudi, 2020).Ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2010.
“La straniera”, “L’ebrea”, “Il rospo”, “Nel lager”, “Solo la notte ti ascolto”.
Hilde traduzione di Giuliano Pistoso
Gertrud Kolmar (1894-1943)
da Gertrud Kolmar, Il canto del gallo nero, prefazione di Marina Zancan, traduzione di Giuliano Pistoso, Essedue Edizioni-
Lettera alla sorella
Berlino 1.2.42
Mia cara Hilde,
Se non avessi le esperienze che invece ho vissuto, sicuramente sarei d’accordo con te sulla delusione che «sta in agguato», sull’illusione e la realtà; e per molte donne, forse per la maggior parte, parlo di donne sensibili e forti d’animo, vale quello che tu dici. Invece per me… Mi credi se ti scrivo qui: «Non sono mai stata delusa» e «la realtà è sempre impensabilmente più bella di tutte le illusioni?». Mi credi? Per me è stato così.
Non voglio dire con questo che non mi sono mai sentita infelice, che non ho mai provato dolore. Anzi sono stata molto, molto infelice, ho sopportato anche dolori molto forti e profondi che però ho anche amati come una futura madre può amare i tormenti con i quali viene benedetta dal proprio figlio. Ma tutto questo io l’avevo intuito già prima, l’avevo previsto e sopportato in anticipo, conoscevo il prezzo altissimo che avrei dovuto pagare, quindi delusioni per me non ce ne sono state. Le parole «eterno», «costante» e «fedele» (almeno applicate al mio partner) le avevo cancellate dal mio vocabolario sin dall’inizio. Questo probabilmente era dovuto anche al fatto che io non sono mai stata l’unica, ma sempre «l’altra»… Tu riterrai che fossi troppo modesta, invece non lo ero. Avevo una infiammabilità bassa e prendevo fuoco molto difficilmente – un fuoco che poi si spegneva presto, però, se bruciava (quanto raramente), la brace era forte e durevole. Il mio sentimento diventava allora una specie di re Mida capace di trasformare in oro tutto quello che toccava con le sue mani; si levava grande come un sole e indorava ogni stagno, ogni pozzanghera. E infine non aveva più tanta importanza quello che faceva, come si comporta- va la persona cui era dovuto il suo sorgere, il suo calore, il suo irradiare. Il sole splende sopra i giusti e gli ingiusti…
Con tanti cari saluti anche da papà
Trude
Gertrud Kolmar (1894-1943)
La poetessa
Mi tieni completamente nelle tue mani.
Come quello di un minuscolo uccello, batte il mio cuore nel tuo pugno. Tu che leggi, sta attento
perché vedi, stai sfogliando una creatura. Ma se per tè è fatta solo di cartone,
fogli stampati e colla, allora resta muta, non ti colpisce col suo grande sguardo che dai neri segni guarda cercando;
allora è solo una cosa con il destino di una cosa.
Pure s’era cinta di veli come una sposa, s’era adornata perché tu la potessi amare ed, esitante, prega che, per una volta,
tu cacci via la pigra indifferenza
e trema e sussurra a se stessa:
«Non succederà.» Ti fa un cenno e un sorriso. Chi dovrebbe sperare se non una donna?
Il suo intero mondo è quel solo: «tu…»
Con fiori neri e sopracciglia dipinte,
con catene d’argento, con sete, stellata d’azzurro. Da bambina sapeva cose più belle,
ma le parole più belle le ha dimenticate.
L’uomo è molto più saggio di noi. Nei suoi discorsi parla della morte,
della primavera, delle industrie, del tempo. Io dico: «tu…», solo e sempre: «tu ed io.»
Questo libro è un vestito di ragazza,
può essere bello e rosso o poveramente sbiadito e sempre soltanto da dita amate
si lascerà gualcire, qualche volta macchiare.
Perciò sono qui a mostrare quello che mi è accaduto;
quello che un forte candeggio ha sbiadito senza poter del tutto cancellare.
Perciò ti chiamo. Il mio richiamo è leggero, sottile.
Tu senti quello che dice, ma comprendi quello che sente?
Gertrud Kolmar (1894-1943)
L’ebrea
Io sono straniera.
Perché gli uomini con me non s’azzardino, voglio essere circondata da torri
che portano aguzzi berretti di pietra grigia in alto verso le nuvole.
Voi non potete trovare la chiave di bronzo della tetra scala. Essa gira su di sé verso l’alto come la piatta, squamosa testa sollevata
una vipera nella luce.
Ah, questo muro si sgretola come roccia bagnata per millenni dalle tempeste;
gli uccelli dai rudi colli rugosi
si rintanano nelle profonde caverne.
Sotto la volta di sabbia friabile groviglio di rettili con i petti maculati… Vorrei armare una spedizione esplorativa nella mia originaria, antichissima terra.
Posso la sepolta Ur dei Caldei forse da qualche parte scoprire, l’idolo Dagone, la tenda degli ebrei, la tromba di Gerico.
La tromba che abbattè le arroganti mura, brunisce sepolta, piegata, distrutta,
ma un tempo ho respirato il soffio che produsse il suo suono.
Nelle cassapanche coperte di polvere giacciono senza vita le nobili vesti, morente splendore dall’ala della colomba, l’ottusità di Behemot.
Io le indosso stupita. Sono ben piccola,
lontana dai tempi della loro ricchezza e del loro potere,
ma intorno a me si aprono scintillanti spazi come a difesa ed io in essi mi espando.
Ora mi sento strana e non mi riconosco perché ero già prima di Roma, di Cartagine, perché subito ardono per me gli altari
di Debora e della sua schiera.
Dal vaso d’oro nascosto
corre attraverso il mio sangue un doloroso splendore e un canto vuole chiamarmi con nomi
che siano di nuovo fatti per me.
I cieli gridano colorati segnali. Impenetrabile è il vostro volto:
quelli che, timidi, con la volpe del deserto mi circondano, non lo vedono.
Soffiano gigantesche, devastanti colonne d’aria, verdi come giada, rosse come coralli,
sopra le torri. Dio permette che crollino e tuttavia i millenni ancora stanno.
Auschwitz
La straniera
A mia sorella Hilde
.
La città è per me un vino colorato in un levigato calice di pietra
che sta e brilla davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.
Esso riflette il suo cerchio più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi, ci colpiscono tutte le cose a noi quotidiane e usuali.
Davanti a me la rigida parete delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro della piccola bottega
si chiude riservato: «Io non t’ho chiamata.»
II selciato ascolta e cerca a tentoni il mio passo pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno si unisce con la colla, là si parla una lingua che non è mia.
La luna palpita rossastra come un assassinio sopra il corpo lontano, sopra la parola smarrita, quando, la notte, contro il mio petto s’infrange il respiro d’un mondo straniero.
Auschwitz
Noi ebrei 15.9.1933
Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio, voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa, la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.
E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato, e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità, la mano che si tende a toccare Dio in cielo.
Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei, e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono, gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.
E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante, sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare, e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma, e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.
L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli, l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele; Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!
Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero. Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre, tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!
Gertrud Kolmar (1894-1943)
.
Il rospo
12 ottobre 1933
Il crepuscolo azzurro scende denso d’umidità con il mantello dal largo orlo rosa dorato.
Un pioppo nero si staglia nella morbida luce,
e dolci betulle tremano contro la pallida schiuma.
Come una testa di morto, una mela rotola sorda nel solco, s’accartoccia leggera e perisce la bruna foglia autunnale. Con piccole luci spettrali la città, lontano, s’abbuia.
La bianca nebbia dei prati avvolge i ranocchi.
Io sono il rospo
e amo gli astri della notte. La sera, alto, il Rosso
si gonfia purpureo nello stagno d’improvviso incendiato. Sotto le assi marce della botte per l’acqua piovana
mi rintano accovacciato e grasso;
il tramonto del sole
spia, sofferente, il mio sguardo lunare.
Io sono il rospo
e amo il sussurro della notte. Un delicato flauto
nell’oscillante canneto, nel càrice s’è svegliato, un tenero violino
vibra e scintilla sul ciglio del campo. Tacito ascolto,
mi trascino sulle zampe palmate
sotto una panca fradicia
membro dopo membro fuori dal pantano come un sommerso pensiero
si trae fuori dal groviglio e dal fango. Oltre i cespugli, fra i ciotoli
modesta, buia creatura, saltello;
il rugiadoso gocciolare del fogliame, l’edera verde-nera mi sciacquano via.
Respiro, nuoto
dentro un profondo, tranquillo splendore, umile voce
sotto l’alato piumaggio della notte.
Vieni dunque e uccidi!
Per tè posso essere solo un disgustoso animale:
io sono il rospo
e porto il gioiello.
Nel lager
Quelli che s’aggirano qui sono corpi soltanto, non hanno più anima,
soltanto nomi nel registro dello scrivano, carcerati: uomini, ragazzi, donne,
e i loro occhi fissano vuoti
con lo sguardo sbriciolato, distrutto per ore in una fossa buia,
soffocati, calpestati, picchiati alla cieca.
Il loro gemito tormentoso, il loro pazzo terrore, una bestia, sulle mani e sui piedi, carponi…
Hanno ancora le orecchie
e neppure odon più il loro grido. La prigione distrugge, schiaccia:
nessun coraggio, nessun coraggio più per ribellarsi! Stride leggera la sveglia spaccata.
Si affaticano come dementi, grigi, devastati, separati dall’umanità variopinta,
irrigiditi, timbrati e marcati,
come bestiame da macello che aspetta il beccaio e non conosce che il fetido truogolo e il recinto.
Solo paura, solo orrore nei volti
quando, di notte, uno sparo afferra la vittima… e nessuno ha veduto l’uomo
che silenzioso in mezzo a loro
trascina la croce nuda verso il supplizio.
Lettera alla sorella
Hilde, sorella carissima il 15 12 1942
Un mio conoscente, il dottor H. era uno studioso di Spinoza e un giorno mi ha parlato della sua teoria sulla libertà della volontà umana all’interno della non-libertà. Penso di capire tutto questo attraverso le mie esperienze personali. Non è dipeso da me accettare o rifiutare il lavoro in fabbrica, mi è stato imposto, però ero libera di accettarlo o di rifiutarlo intcriormente; posso eseguirlo con ritrosia o con buona volontà. Dal momento che io l’ho accettato nel mio cuore non me ne sono più sentita soffocata. Ho deciso di considerare questo lavoro un insegnamento e di imparare il più possibile. In questo modo, dentro alla non-libertà, ho scelto la libertà. E così vorrei anche sopportare il mio destino, sia esso alto come una torre o nero e soffocante come una nuvola…
Berlino 23.10.41 ore 4 del mattino
Lettera alla sorella
Cara Hilde,
Di recente mi ha offerto aiuto un breve, piccolo episodio. Durante la pausa per la colazione (un quarto d’ora circa), mi trovavo nella stanza degli armadi e sedevo tutta sola su una panca vicino a una giovane zingara che non faceva nulla, non parlava, guardava completamente immobile fuori, verso il cortile deserto della fabbrica… Io l’ho osservata: non aveva quella faccia angolosa degli zingari con gli occhi inquieti e scintillanti, anzi i suoi tratti erano morbidi, quasi slavi; era di carnagione abbastanza chiara… E non aveva soltanto l’aria cupa, vinta degli animali, dei vecchi cavalli da tiro. Questo inevitabilmente c’era, ma c’era anche qualcosa di più: una chiusura impenetrabile, un silenzio, una distanza non più raggiungibile da una parola o da uno sguardo del mondo esterno… E ho capito che proprio questo avevo sempre voluto possedere senza riu- scirvi e che se adesso l’avessi niente e nessuno dall’esterno mi potrebbe più toccare. Però mi trovo già su questa strada e ne sono contenta… I reumatismi di papà sono migliorati, anche se non molto… Lui naturalmente sta ancora dormendo.
Un caro saluto!
Trude
Lettera alla sorella
Berlino 1.2.42
Mia cara Hilde,
Se non avessi le esperienze che invece ho vissuto, sicuramente sarei d’accordo con te sulla delusione che «sta in agguato», sull’illusione e la realtà; e per molte donne, forse per la maggior parte, parlo di donne sensibili e forti d’animo, vale quello che tu dici. Invece per me… Mi credi se ti scrivo qui: «Non sono mai stata delusa» e «la realtà è sempre impensabilmente più bella di tutte le illusioni?». Mi credi? Per me è stato così.
Non voglio dire con questo che non mi sono mai sentita infelice, che non ho mai provato dolore. Anzi sono stata molto, molto infelice, ho sopportato anche dolori molto forti e profondi che però ho anche amati come una futura madre può amare i tormenti con i quali viene benedetta dal proprio figlio. Ma tutto questo io l’avevo intuito già prima, l’avevo previsto e sopportato in anticipo, conoscevo il prezzo altissimo che avrei dovuto pagare, quindi delusioni per me non ce ne sono state. Le parole «eterno», «costante» e «fedele» (almeno applicate al mio partner) le avevo cancellate dal mio vocabolario sin dall’inizio. Questo probabilmente era dovuto anche al fatto che io non sono mai stata l’unica, ma sempre «l’altra»… Tu riterrai che fossi troppo modesta, invece non lo ero. Avevo una infiammabilità bassa e prendevo fuoco molto difficilmente – un fuoco che poi si spegneva presto, però, se bruciava (quanto raramente), la brace era forte e durevole. Il mio sentimento diventava allora una specie di re Mida capace di trasformare in oro tutto quello che toccava con le sue mani; si levava grande come un sole e indorava ogni stagno, ogni pozzanghera. E infine non aveva più tanta importanza quello che faceva, come si comporta- va la persona cui era dovuto il suo sorgere, il suo calore, il suo irradiare. Il sole splende sopra i giusti e gli ingiusti…
Con tanti cari saluti anche da papà
Trude
da Gertrud Kolmar, Il canto del gallo nero, prefazione di Marina Zancan, traduzione di Giuliano Pistoso, Essedue Edizioni
Gertrud Kolmar (1894-1943)
Biografia di Gertrud Kolmar-10 dicembre 1894 Gertrud Kàthe Chodziesner nasce a Berlino-Mitte/ nella PoststraBe 14/ figlia maggiore dell’ avvocato Ludwig Chodziesner (1861) e di Elise Chodziesner nata Schoenflies (1827). I genitori del padre – trasferitesi da Woldenberg (oggi Dobiegniev) a Berlino -sono merciai/ e questa attività permise ai loro tré figli di studiare giurisprudenza. La madre di Gertrud Kolmar è la figlia di un fabbricante di tabacco emigrato a Berlino da Landsberg sulla Warta (oggi Gorzòv).
1897 Nasce la sorella Margot.
1899 La famiglia si trasferisce in una casa con giardino nel sobborgo residenziale del Westend, nella Ahornallee 37.
1900 Nasce il fratello Georg.
1905 Nasce la sorella Hilde.
1901-1911 Gertrud frequenta le elementari nel Westend e la scuola media femminile di Weyrowitz a Berlino- Charlottenburg.
settembre 1912 Frequenta la scuola femminile di agraria ed economia domestica Arvedshof a Elbisbach vicino Lipsia. Il di- ploma da a Gertrud il diritto di frequentare un semina- rio per insegnanti.
1915 Lavora in una scuola materna.
maggio 1916 Consegue il diploma per l’insegnamento della lingua francese.
ottobre 1916 Consegue il diploma per l’insegnamento della lingua inglese. Acquisisce nozioni di ceco, fiammingo, spa- gnolo e russo.
1916 circa Interrompe una gravidanza e tenta il suicidio.
gennaio 1917 Trascorre un periodo in un luogo di cura con la madre a Kónigstein sul Taunus.
Natale 1917 Per iniziativa del padre la casa editrice Egon Fleischel
& C. pubblica il volume Gedichte (Poesie). Lo pseu- donimo “Kolmar” è il nome tedesco della località Chodziez, da cui deriva il cognome Chodziesner.
novembre 1918 Lavora come interprete per il Ministero degli Esteri e si occupa della censura della corrispondenza del campo di prigionia Doberitz presso Spandau.
1916-1918 E’ probabilmente in questo periodo che comincia a lavorare al ciclo di poesie Napoleon und Marie (Napoleone e Maria).
1919-1926 Lavora come istitutrice e insegnante di lingue presso numerose famiglie di Berlino e assiste i bambini sor- domuti.
1919-inizio anni ‘20 Nascono i primi cicli di poesie.
1920-1921 Durante l’inflazione, per ragioni di carattere economico, la famiglia è costretta a lasciare la villa nel Westend e a trasferirsi a Kurfùrstendamm 43.
1923 La famiglia va ad abitare a Finkenkrug in una casa con un grande giardino, nella Manteuffelstrasse, oggi Feuerbachstrasse. Il padre si dedica alla coltivazione delle rose e alla cura degli animali.
dicembre 1926 metà 1927 Gertrud viene assunta come istitutrice presso una famiglia di Amburgo-Harvestehude.
tarda estate 1927 Frequenta un corso estivo all’Università di Digione e si diploma con la votazione migliore del corso. In- traprende quindi un viaggio di studio in varie città della Francia, fra le quali Parigi. Con questo viaggio termina la crisi creativa di Gertrud Kolmar, iniziata intorno al 1923.
inverno 1927/29 Das preuRische Wappenbuch (II libro degli stemmi prussiani).
1928 Lavora, probabilmente per l’ultima volta, come istitutrice a Peine. D’ora in avanti Gertrud Kolmar pub- blicherà le sue poesie su riviste e antologie. Viene so- stenuta da suo cugino Walter Benjamin, da Elisabeth Langgàsser, Ina Seidel e Victor Otto Stomps.
fine 1928 Ritorna alla casa paterna. Assiste la madre, gravemente ammalata e si occupa della gestione familiare. Partecipa a un corso di notariato e lavora come segretaria per suo padre.
1928/29 E’ probabilmente questo il periodo in cui nasce il ciclo di poesie Bild der Rose (Immagine della rosa).
25 marzo 1930 Muore la madre.
1930 Attraverso le sue pubblicazioni sull’ “Insel Almanach 18 agosto 1930 auf das Jahr 1920” Gertrud Kolmar conosce lo scrittore Karl josef Keller, con cui ha un rapporto d’amicizia fino al 1939.
1 febbraio 1931 Die jùdische Mutter (La madre ebrea).
1927-1932 Mein Kind (Mio figlio), Weibliches Bildnis (Ritratto di donna) e Tiertràume (Sogni di animali).
25 ottobre 1933 Das Wort der Stummen (La parola dei muti) autunno 1933 Das Bildnis Robespierres (Ritratto di Robespierre).
1934 Viene pubblicato il volume di poesie PreuRische Wappen (Stemmi prussiani) per le edizioni Die Ra- benpresse (Berlino) di Victor Otto Stomps. Ma la casa editrice è costretta a sospendere l’attività e gran parte della tiratura va perduta.
14 marzo 1935 Cécile Renault. Dramma in quattro atti.
dal 1936 Lo “Judischer Kulturbund” organizza serate in cui ven- gono recitate le sue poesie. La Kolmar conosce Nelly Sachs e jacob Picard/ che si adopera per la pubblica- zione delle sue poesie.
20 dicembre 1937 Welter” (Mondi).
15 giugno 1938 Nacht (Notte). Leggenda drammatica in quattro atti.
1938/39 Emigrano il fratello e la sorella.
tarda estate 1938 Esce il volume di poesie Die Frau und die Tiere (La donna e gli animali) per lo Judischer Buchverlag Erwin Lòwe (Berlino). Il libro non può più essere pubblicato con lo pseudonimo. Dopo il pogrom del 9 novembre e la successiva interdizione alle case editrici ebraiche il libro viene mandato al macero. dal 9 novembre 1938 Il padre viene tenuto in prigione per quattro giorni.
23 novembre 1938 La famiglia Chodziesner è obbligata a vendere la casa di Finkenkrug entro 24 ore.
21 gennaio 1939 La famiglia è obbligata a trasferirsi nella Speyerer Stra- de a Berlino-Schóneberg.
13 febbraio 1940 Susanna.
dall’aprile 1940 Gertrud Kolmar prende lezioni di ebraico ed è presto in grado di scrivere poesie in questa lingua.
fine 1941 E’ prevista la sua deportazione, ma il capo della fabbrica dove lavora la “reclama” qualificandola come indispensabile.
luglio 1941 E’ avviata al lavoro forzato nella fabbrica di imballaggi Epeco a Berlino-Lichtenberg.
1 aprile 1942 Scrive un racconto andato perduto. settembre 1942 Il padre viene deportato a Theresienstadt. Dalla fine del 1942 svolge lavoro forzato in una fabbrica di imballaggi a Berlino-Charlottenburg.
13 febbraio 1943 Il padre muore a Theresienstadt.
27 febbraio 1943 Durante la cosiddetta “Azione nelle fabbriche” viene arrestata assieme agli altri lavoratori forzati ebrei di Berlino e condotta in un campo di smistamento.
2 marzo 1943 Con il “32° Trasporto all’Est” Gertrud Kolmar viene deportata ad Auschwitz.
Descrizione-del libro Ernesto Rossi-L’Europa di domani-La crisi finanziaria ed economica che si è abbattuta sul continente europeo e sui singoli Paesi ha fatto traballare l’Unione europea, mettendone a dura prova la solidità, e allo stesso tempo ha mostrato la fragilità delle sue istituzioni. Nella spirale recessiva le politiche di austerità, promosse dai consessi dei capi di Stato, hanno acuito la crisi sociale. La frantumazione del welfare ha disgregato la coesione tra le nazioni, permettendo il riesplodere di antiche, e forse mai sopite, rivalità.
La riedizione delle analisi elaborate da Ernesto Rossi nel 1944 trova fondamento nella grande attualità delle tematiche e delle soluzioni proposte dall’autore, che crede fortemente nel progetto federalista come garanzia di un maggiore esercizio della democrazia.
Questo pamphlet – documento del tempo – non ha la pretesa di offrire soluzioni definitive a problematiche politiche ed economiche aperte ma si propone di suggerire spunti di riflessione su tematiche che interessano il lettore in quanto cittadino europeo.
Biografia di Ernesto Rossi
Ernesto Rossi
Ernesto Rossi (Caserta 1897-Roma 1967) -Residente a Bergamo, professore, antifascista. Interventista e volontario nella prima guerra mondiale, ne esce mutilato e invalido. Studioso di storia ed economia, è seguace di Salvemini e di Einaudi, tra i fondatori di ‘Italia libera’, aderente all’’Unione democratica’ di Giovanni Amendola.Redattore del Non Mollare, del Caffè, della Rivoluzione liberale. Professore a Bergamo, tiene i contatti con l’antifascismo all’estero. Tra i massimi esponenti di Giustizia e Libertà insieme a Riccardo Bauer, “dotato di spirito indomabile” è arrestato il 30.10.1930 per attentato all’ordine costituzionale dello Stato e dimostrazioni a carattere insurrezionale e condannato dal Tribunale Speciale il 30.5.1931 a 20 anni di reclusione. “ ammise di aver esplicato intensa opera antifascista…nelle varie riunioni segrete fra affiliati egli, Rossi, aveva preso viva parte alle discussioni sull’organizzazione e sul movimento della “Giustizia e Libertà” nonché sulla scissura tra la concentrazione (blocco unitario delle varie tendenze antifasciste del fuoriuscitismo) e la stessa Giustizia e Libertà…”.
Recluso a Roma. Nel 1934 gli è inflitta dal Consiglio di disciplina del carcere 3 mesi di cella di segregazione per frasi offensive verso il duce. Liberato il 29.10.1939, data della liberazione. A fine pena, il 29.10.1939, è confinato a Ventotene per 5 anni, dove è tra i redattori del noto ‘Manifesto di Ventotene’ nel 1941. Il 9 luglio 1943, Rossi fu arrestato con Vincenzo Calace e Riccardo Bauer e nuovamente tradotto a «Regina Coeli». Il 25 luglio 1943 lo salva da un nuovo processo davanti al Tribunale Speciale. Liberato il 30.7.1943. Nell’agosto 1943 partecipa alla fondazione del Movimento federalista europeo. Dirigente del Partito d’azione.
L’8 settembre capeggiò una manifestazione popolare a Bergamo, il che lo segnalò all’attenzione dei neofascisti e dei tedeschi. Ricercato e in pessime condizioni di salute, per le privazioni sofferte nei lunghi anni di carcere e confino, fu costretto a cercare rifugio in Svizzera.
Rientra a Milano nel 1945. Consultore nazionale, sottosegretario del governo Parri, è assertore di una moderna società democratica, svolge un’intensa attività pubblicista e di scrittore.
Nel 1955 fondatore del Partito radicale. Autore di numerose opere tra cui La riforma agraria, Critica del capitalismo, Settimo non rubare, I padroni del vapore, Il manganello e l’aspersorio, Viaggio nel feudo Bonomi ed altri. Muore a Roma il 9.2.1967.
Stefano Savella articolo per PugliaLibre
Ernesto Rossi
Già subito dopo le elezioni europee del maggio scorso le questioni riguardanti le politiche comunitarie hanno rapidamente abbandonato i rulli dei programmi di comunicazione. Quando il nuovo presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, presenterà tutti i nomi della sua squadra, è assai probabile che si tornerà a parlare di governance europea soltanto per le eventuali raccomandazioni dell’Unione nei confronti del nostro paese. Ci troviamo dunque di fronte a un’assenza assai evidente di una “narrazione” europea che approfondisca aspetti politici ed economici ma allargandosi anche a quelli sociali, a tutti quei fenomeni che sotto traccia, giorno dopo giorno, contribuiscono alla costruzione di un’Europa più solida. Per chi voglia ricercare frammenti di questa narrazione, è perciò necessario rifarsi ai grandi classici dell’europeismo, agli scritti di quegli intellettuali che, già nella prima metà del Novecento, si erano posti il problema di un’organismo sovranazionale che rendesse l’Europa un continente di pace.
L’Europa di domani. Un progetto per gli Stati Uniti d’Europa, di Ernesto Rossi, è uno di questi documenti nei quali è possibile riscoprire ciò le origini della formazione del pensiero europeista ma anche l’idea di un’Europa federale che resta ancora ai margini del dibattito pubblico, malgrado la sua urgenza. Ripubblicato dalla Stilo Editrice (pp. 104, euro 10), questo libello scritto dall’intellettuale casertano nel 1944 è preceduto da una introduzione di Mauro Rubino, laureato in Lettere all’Università di Bari, che dopo studi specialistici sul romanzo postmoderno si occupa ora di saggistica politica. Qui Rubino affronta analiticamente i diversi aspetti che Rossi, in un contesto storico quale quello dei mesi conclusivi del secondo conflitto mondiale, indicava come necessari per addivenire alla costruzione di un’Europa autenticamente federale; lo fa, inoltre, alla luce della fortuna che le intuizioni di Rossi hanno avuto nei decenni successivi e al loro recepimento sia in ambito comunitario sia all’interno di alcuni Stati nazionali, come la Germania e il Regno Unito, particolarmente decisivi per la tenuta delle istituzioni europee.
Tanto il lettore già attento alle dinamiche della politica europea, quanto quello che intende comprendere meglio il percorso storico che ha preceduto l’attuale fisionomia degli organismi di governo e di rappresentanza di Bruxelles e Strasburgo, troveranno molte affermazioni di Ernesto Rossi straordinariamente profetiche. «I rappresentanti dei medesimi partiti votano insieme nelle assemblee legislative, indipendentemente dalla loro cittadinanza nazionale: il socialista di un altro Stato membro della federazione contro il conservatore suo connazionale, ed il conservatore è appoggiato dai conservatori degli altri Stati contro il socialista suo connazionale»: parole scritte nel 1944 e nient’affatto scontate, ma ormai da alcuni decenni pratica comune nel corso dei lavori del Parlamento europeo. Ma è evidente che c’è ancora molta strada da fare, contrariamente agli auspici di Rossi, su un’Europa federale, i cui rappresentanti rispondano, appunto, a un governo sovranazionale e non a quelli dei propri paesi di appartenenza. Eppure, anche in questo caso le parole di Rossi avrebbero potuto tracciare un percorso assai più coerente, anche in relazione alle questioni economiche che oggi l’Unione, proprio per mancanza di poteri effettivi, fa fatica ad affrontare. Scriveva infatti Rossi in questo libro che «L’unificazione economica dà vigore all’unificazione politica. […] creando fin dalle origini dello Stato federale europeo un complesso di tali interessi gli si permetterebbe di affondare subito le radici nel territorio più saldo, in modo da renderlo poi capace di resistere all’infuriare delle tempeste».
Ernesto Rossi
STORIA- La lezione di Ernesto Rossi- Alberto Cavaglion, scrittore Fonte Pagine Ebraiche- 22/01/2019 – 16 שבט 5779
Non ho potuto purtroppo prendere parte, come avrei desiderato, all’importante convegno “L’emigrazione intellettuale dall’Italia fascista. Studenti e studiosi ebrei dell’Università di Firenze in fuga all’estero” che si è svolto a Firenze. Era mia intenzione proporre agli studiosi un’ipotesi di ricerca su un aspetto della storiografia sul 1938 che mi sembra poco esplorato. Provo a spiegarmi qui, ma prima desidero scusarmi con i miei abituali lettori: la tiro in lungo più del solito, il tema è importante e non semplice. Mi ero in passato rivolto a mettere in fila alcune pagine di Franco Venturi, Emilio Lussu, Giuseppe Di Vittorio, Ernestina Bittanti-Battisti, qualche cosa su di loro ho scritto, ma non mi era mai capitato di cercare una spiegazione complessiva, di vedere se esiste un filo che tenga unita la sdegnata reazione di quei pochi (ma poi non così pochi come comunemente si crede) alla campagna razziale. Parto, senza avere una risposta esaustiva, da una constatazione di fatto, ancorché del tutto ovvia, quasi elementare. L’ipotesi che mi piacerebbe verificare è la seguente: mi chiedo e chiedo a chi in questi anni s’è occupato di 1938 che cosa voglia dire, e da dove derivi, il fatto che la reazione al razzismo antiebraico delle «pecore matte» muove sempre da una motivazione economicistico-pratica. Mi chiedo se questo tipo di reazione sia da ricondursi a una specifica formazione economica di alcune delle «pecore matte». Andando più nel profondo immagino – e per questo vi pongo come ipotesi di lavoro – che il denominatore comune in senso lato vada cercato in una matrice empirista, «cattaneano-salveminiana », che accomuna, pur nella disomogeneità delle posizioni, l’antirazzismo di Venturi, Lussu, Di Vittorio, della stessa Ernestina Bittanti Battista e, appunto, la posizione della più matta delle mie adorate pecore, Ernesto Rossi: «Il pensiero di tanti altri che avranno troncata la loro carriera e non sapranno a che santo votarsi mi ha fatto andar via ogni volontà di ridere», scriveva Rossi alla moglie il 9 settembre di ottant’anni fa. Se, come dicevo, il sarcasmo era stato – fino ad allora – la cifra stilistica preferita da Ernesto Rossi per deridere il Duce, l’antisemitismo e la cacciata degli ebrei dai pubblici uffici e in specie dal mondo delle università, segna un mutamento nella forma prima che nella sostanza. Non sono stati molti gli intellettuali antifascisti che hanno percepito in modo altrettanto lucido la gravità del problema, ma non sono stati nemmeno così pochi a rivendicare, alla maniera delle Interdizioni cattaneane, la priorità dell’economia sulle ideologie. Nei diari, nei carteggi che conosciamo – anche di leader e antifascisti importanti–si osserva, intorno al 1938, un imbarazzante silenzio di cui poco fino ad oggi s’è parlato. Anche dopo l’8 settembre l’antifascismo politico sottovaluterà la questione ebraica, come ci ha spiegato Enzo Forcella in memorabili pagine del suo diario dedicate al 16 ottobre 1943. Anche di questo diffuso fenomeno di sottovalutazione non capisco perché non si discuta mai, a fronte del molto che s’è scritto e si continua a scrivere del mondo cattolico o della (presunta) cultura fascista. Sono lettere, quelle di Rossi, che vanno intrecciandosi con le coeve lettere ai famigliari di altri antifascisti, per esempio di Vittorio Foa o dello stesso Massim Mila, che sul 1938 in vero non scrive molto nelle sue lettere dalla prigione. Allarmano Ernesto Rossi i destini di amici, colleghi: «A Firenze sono stati espulsi anche il Finzi e il Limentani, che conoscevo ». Al razzismo Ernesto Rossi dedicherà riflessioni importanti anche dopo la guerra ne Il manganello e l’aspersorio, uno dei primi libri che affronterà dopo la Liberazione il 1938. Il caso che più s’avvicina alla riflessione di Rossi e merita una diretta comparazione è quello di Luigi Einaudi. Fra i saggi di Einaudi che si possono rileggere oggi in rete, uno spicca fra gli altri. S’intitola I contadini alla conquista della terra italiana nel 1920-1930 e venne stampato sulla «Rivista di storia economica» nel dicembre 1939. Il tema è la rivoluzione agraria, ma il futuro Presidente della Repubblica non perde di vista l’attualità soffermandosi sul ruolo positivo che gli ebrei hanno avuto nella costruzione della Nuova Italia. In una decina di pagine, ricche di aneddoti autobiografici, Einaudi racconta “il gran tramestio di terre”, che in momenti successivi mutò il volto del paesaggio in Piemonte. Interessante è quello che Einaudi scrive sia del primo “tramestio” (successivo alla Rivoluzione francese), sia del secondo, avvenuto in conseguenza della vendita dei beni ecclesiastici con le leggi Siccardi, negli anni Sessanta dell’Ottocento. Nonostante la facilità di accesso ai beni messi all’asta, gli acquirenti si trovarono di fronte ad un dilemma di coscienza: prima di procedere nell’acquisto dovevano pur sempre superare qualche remora. Se avessero comprato sarebbero incorsi nella scomunica: ogni deliberatorio, non munito del beneplacito della Santa Sede, sarebbe stato considerato nullo. Gli ebrei appena emancipati dal ghetto potevano invece comprare: si trattava quasi sempre di beni facili da dividere e altrettanto facili da rivendere. Il fenomeno, apprendiamo dalle pagine einaudiane, ebbe dimensioni notevoli nella provincia di Alessandria (43%), Cuneo (20-21%) e Torino (16%); minore rilevanza a Vercelli e Asti. A Luigi Einaudi pare importante sottolineare, nel 1939, che senza la mediazione degli ebrei i contadini del Piemonte non avrebbero potuto salvare l’anima e garantire un futuro decoroso ai propri figli. Naturalmente gli acquisti riattizzarono l’ostilità della stampa cattolica. Decisamente pragmatica e al tempo stesso anticonformista e politica, come quella espressa da Rossi nelle lettere dal carcere, è la prospettiva di Luigi Einaudi: «Socialmente, l’opera dei mercanti ebrei fu più benefica di quella dei loro predecessori cristiani, perché, con differenze lievi – né la stabilità del metro monetario avrebbe consentito voli ardimentosi – e con agevolezze nei pagamenti a miti saggi di interesse, agevolarono, assai più dei cristiani, il passaggio della terra ai contadini». In modo semplice, quasi scolastico, Luigi Einaudi s’oppone alla rozza propaganda del tempo, descrivendo, potremmo dire, gli effetti benefici della sola rivoluzione agraria dell’età moderna attuatasi senza spargimento di sangue. L’emigrazione ebraico-italiana derivante dalle leggi di Mussolini anche da parte di Ernesto Rossi è spiegata con le leggi dell’economia e cioè con il calcolo della perdita secca per le Università italiane: «È un bel numero di cattedre che rimangono vacanti: una manna per tutti i candidati, che si affolleranno ora ai concorsi portando come titoli i loro profondi studi sulla razza, sull’ordinamento corporativo, sull’autarchia ecc.». Una corrispondente «circolazione delle élites», scrive, si avrà per gli agenti di cambio, per i medici negli ospedali, per i dirigenti delle aziende e per tutti gli altri posti lasciati dagli ebrei. Ernesto Rossi proseguiva così la sua lucida e pratica analisi dei danni economici, che sorprende per gli evidenti calchi dall’empirismo cattaneano: «Si raggiungono press’a poco, con la cacciata degli specialisti, gli stessi risultati che con la distruzione delle macchine: quasi nessuno riesce a vedere i danni generali, indiretti, diffusi, mentre gli interessati all’eliminazione della concorrenza si rallegrano del vantaggio immediato che posson ritrarre nel periodo di transizione. Speriamo che nei paesi democratici ci sian dirigenti capaci di comprendere quale straordinario fattore di progresso può esser per loro la sistemazione di tanti elementi di prim’ordine, malgrado le inevitabili lamentele di tutti coloro che, in un primo tempo, si sentiranno danneggiati». L’economia, sì. Certo, ma anche, come sempre in Ernesto Rossi, un profondo senso della storia. Infatti, quella medesima lettera alla mamma, scritta dal carcere il 22 ottobre, si chiude con una notazione che non ha eguali e che brilla per la sua lucidità di interpretazione storiografica, con il più classici dei paragoni con il passato: «Secondo quanto ci narrano gli storici, la politica di fanatismo e d’intolleranza dei re francesi e spagnoli contribuì nel secolo XVII alla prosperità dell’Olanda e dell’Inghilterra, che accolsero i profughi ebrei ed ugonotti, più di qualsiasi scoperta o invenzione». Alberto Cavaglion, scrittore-Pagine Ebraiche, gennaio 2019
Ernesto Rossi
STILO EDITRICE SOC. COOP. R.L.
v.le A. Salandra 36 – 70124 Bari
tel. 080/9905095
Louis Jean Lagrenee – Penelope che legge una lettera da Odysseu
Omero – Odissea libro XVIII
-Nuova Rivista Letteraria-
Persino Omero celebrava la bellezza eburnea di Penelope, complice la dea Atena la fece più bianca nella carnagione al ritorno di Ulisse.
《Poi la rese più alta e maestosa a vedersi,
più bella l’aveva fatta la dea, più bianca dell’avorio intagliato;
fatto questo la divina tra le Dee se ne andò via.
Nella stanza giunsero le ancelle dalle bianche braccia, facendo rumore: allora il dolce sonno la lasciò; lei si accarezzò le guance con le mani…》
Odissea libro XVIII
Persino Omero celebrava la bellezza eburnea di Penelope, complice la dea Atena la fece più bianca nella carnagione al ritorno di Ulisse.
Questo mito del candore epidermico era il segno di una pelle virginea, nemmeno profanata dal sole, e nella storia ebbe fasi alterne finendo per ribaltare il senso di un candore che sapeva di chiuso e malato come nel caso de “La signora delle camelie” .
Più che una storia di cosmesi è una storia di costume.
Per tutta l’antichità e sino all’ottocento per la classe aristocratica il segno esteriore di ricchezza era la pelle bianca.
Una pelle abbronzata era sintomo di povertà, poiché solo chi svolgeva lavori umili e manuali era in qualche modo costretto a vivere sotto il sole, con l’ovvio risultato di aver una pelle scura. Mentre coloro che erano ricchi potevano permettersi di non lavorare, o di svolgere impegni direttivi comodamente seduti tra le stanze dei palazzi, evitando dunque il contatto con il sole.
Abbiamo testimonianza che già ai tempi dei Romani, le patrizie, ovvero le donne appartenenti alla classe più abbiente, avevano l’abitudine di proteggersi dai raggi del sole per mezzi di ombrellini. Le varie raffigurazioni femminili di epoca medioevale che ci sono pervenute sempre immortalano donne, per lo più di fattezze angeliche, con pelli bianchissime. Ancora nel 1500 Guido Reni dipinge una lotta di classe tra degli amorini abbronzati, che appunto rappresentavano i plebei, e degli amorini pallidi, indicanti la classe abbiente. E così in tutta la storia dell’arte sino alle donne paffute dell’800 per terminare con le donne atletiche di inizio ‘900. Tutte sempre con un unico segno distintivo, la pelle bianca. E va detto che, come accadeva fino a pochi anni fa per la tintarella perfetta, talvolta anche nell’antichità l’avere la pelle bianca si trasformava in una ossessione al punto da giungere ad utilizzare prodotti chimici – spesso nocivi – pur di sbiancare ulteriormente la cute.
Lo spartiacque fu l’anno 1903 quando Niels Ryben Finsen ottenne il premio Nobel per aver scoperto che la fototerapia, ovvero la terapia basata sull’uso della luce, era in grado di curare le malattie infettive, alcune delle quali tra l’altro, come lupus e rachitismo, erano prodotte dalla mancanza di vitamina D che non veniva assorbita dal corpo delle persone proprio per la mancanza di esposizione al sole.
L’avvento della fototerapia abbinato alla rivoluzione industriale, che come già detto portò le classi meno abbienti a spostarsi a lavorare dai campi alle fabbriche perdendo così la loro caratteristica di lavorare sotto il sole e di conseguenza il colorito scuro della pelle, creò le basi per lo sviluppo della cultura dell’abbronzatura. I medici infatti iniziarono a ricettare ai loro pazienti periodi di esposizione al sole per curare o per prevenire malattie.
Tuttavia la tintarella divenne una moda grazie alla stilista francese Coco Chanel che negli anni 20 del diciannovesimo secolo, tornando da un periodo di ferie in Costa Smeralda, per il colorito della sua pelle abbronzata fece tendenza tra le sue clienti, le quali vollero emularla. Ulteriore elemento impulsivo fu l’avvento della televisione a colori nei successivi anni 30 che iniziò a mostrare donne bellissime e rigorosamente abbronzate. Infine fu con la fine della seconda guerra mondiale quando i militari americani tornarono dalla Europa nel paese natio, abbronzati, che la tintarella venne identificata con la lotta per la democrazia, poiché colore caratteristico di coloro che lottarono per essa.
Da allora fu un continuo percorso in ascesa, fino all’eccesso. L’essere abbronzato era lo status che distingueva i ricchi che potevano permettersi ferie in località balneari o di montagna, rilassandosi al sole, a differenza degli operai che lavoravano nel chiuso delle fabbriche rimanendo bianchi.
L’era moderna ha quindi fatto un passo indietro, togliendo dalla carnagione chiara l’etichetta di povertà e giungendo infine probabilmente alla giusta via di mezzo: l’assenza di sole ammala il corpo così come l’eccesso, da qui lo sviluppo di una nuova cultura volta ad educare in merito al corretto modo di prendere il sole rispetto alle caratteristiche genetiche del proprio corpo.
Foto: Louis Jean Lagrenee – Penelope che legge una lettera da Odysseus.
Mimma Forlani-Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina
Editore CartaCanta
Mimma Forlani
Descrizione Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina il nuovo libro di Mimma Forlani ricostruisce la mappa del comune sentire, pensare, parlare di un paese rurale seguendo il giro delle stagioni negli anni 1958/59. Un momento importante per la civiltà contadina che, rimasta quasi immutata dai tempi di Virgilio, inizia a morire negli anni Sessanta quando i contadini abbandonano i campi per la fabbrica. Per raccontare luoghi e persone ormai scomparsi, l’autrice inventa una lingua che rievoca le sonorità della sua infanzia. Nel suo trattato narrativo di antropologia l’autrice ritorna al dialetto, ritrovato lungo il suo percorso di scrittura, all’italiano popolare-lombardo, senza escludere il latino dei riti della Chiesa pre-conciliare e la lingua colta degli studi successivi. L’autrice fa cosi rivivere la koiné di un piccolo borgo agricolo nel quale il dato realistico non esclude il gioco dell’invenzione e lo slancio lirico sottolineato da frammenti poetici. Si narra un duplice commiato: quello dell’autrice dal mondo contadino e quello di un popolo dalla propria vita. “Il paese delle aie” è un gesto d’affetto e di memoria. La vita faticosa e povera dei contadini sembra essere stata più appagante della nostra.
Estratto del libro di Mimma Forlani- Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina
A quei tempi
Bariano era un paese di aie.
C’era la corte di Jàcom-fólega1 con cavalloni di granoturco stesi
sulla graticola dell’essiccatoio
dove i bimbi sgusciavano come ratti
sui grani caldi.
C’erano le campate dei mezzadri
Àngel de’ Amastini, Pí de’ Ghéta,2 Santo Forlà, Pepi Resmí, Àngel de’ Lansí, Luciano Milani e Peder de’ Perèch
con le pannocchie appese sotto le travi.
Jàcom-fólega, nato a Bariano il giorno di San Pietro del 1877, era stato chiamato così perché, andando a caccia con il suo schioppettino, qualche volta riusciva a portare a casa una o due folaghe. Sposato con Margherita dei Finazzi, ebbe undici figli, due morti subito e nove sopravvissuti. Il più piccolo di statura e il più furbo, Jacumí-fulighí, nato nel 1917, sposò il 14 settembre del 1946 Maria dei Mossi, figlia a sua volta di Jàcom e di Angela de’ Ferrari, dalla quale ebbe una sola figlia, Jacumína-fulighina detta semplicemente la Fulighina.
Per Pí de’ Gheta si azzarda l’ipotesi che Ghéta sia una storpiatura di Ghita, mar- gherita; quindi figlio di Margherita. Ghéta, tuttavia, è parola che ha assonanza con ghéda, grembo, che compare nell’espressione tègn i mà ‘n ghéda, per lo più riferita alle donne che, quando stavano sedute, tenevano le mani incrociate sul grembo. Quella era la posizione abituale anche di Pí, Giuseppe, padre tirannico, che, da seduto, sorvegliava e comandava a suon di cinghia i propri figli.
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Là fuori nei campi, vicino al cimitero, c’era la nuova aia de Jacumí-fulighí, settimo dei nove figli vivi di Jàcom-fólega. Poi c’erano le aie dei diavoli.
Di notte, con le zampe caprine, buttavano all’aria la pula
riempivano i sacchi con il grano maturo e scappavano scalciando
Adío Pèp3 La buona farina è finita in crusca.
M’avvio?
La prima parola pronunciata dalla bambina sbucata fuori dalle marcite marzoline fu un grido di gioia strozzato in gola, un’altale- na di gridi gettati al cielo, un fuggi fuggi di zoccoletti sull’aia.
Fu anche altro.
Sicuramente altro: rumori, suoni, guizzi di un’infanzia dispersa da oltre cinquant’anni, che all’alba di una domenica risuona dalle vecchie foto in bianco e nero. In una, di gruppo, presa sul neva- io del monte Menna nell’alta Valle Brembana c’è una bimba con le trecce che spuntano dal fazzoletto legato in testa. Nove o dieci anni? Di certo è lei, la Fulighina, figlia di Jacumí-fulighí, figlio di Jàcom-fólega. Quel soprannome, che nell’infanzia i compagni di scuola le gettavano in faccia come un insulto per l’assonanza irri- dente con Folètina, le appariva ora buffo, persino comico in quel richiamo alla folaga un po’ fola e un po’ folletto.
Incominciò così a raccogliere i ricordi che nascevano sonori nella memoria come l’acqua dai fontanili della pianura, indovinò le singole voci, lasciò emergere gli assolo, i duetti, il coro d’ac- compagnamento e li lasciò suonare sulla pagina insieme alle voci
Espressione idiomatica del paese per dire al povero Pèpo, che una mattina ave- va trovato il pollaio vuoto, di mettersi il cuore in pace; delle galline non avrebbe più visto neppure una piuma.
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degli animali domestici e delle piante campestri in un’antica lin- gua, d’improvviso ritrovata. Quella mattina, e molte altre nei mesi successivi, dalla sua casa situata nell’antica città delle alte mura, prese a ruzzolare nei campi, a sgranare sul palmo della mano de- stra i chicchi di frumento ormai maturi, li ripulì con dita amorose dalla pula, li rigirò in piena luce, li mise in bocca, e li spezzò come il padre faceva alla vigilia del raccolto. Se il chicco che sfrigolava fuori dalla spina era duro, allora Jacumí-fulighí convocava i fal- ciatori: “Domà m’ regój!”. Domani raccogliamo, diceva a Nando de’ Corvis e a Àngel de’ Lansí. L’ordine veniva dato verso sera; e loro convenivano con il capo: il tempo era arrivato. Sfilavano le ranze dalla corda appesa alla ruvida parete del portico, incomin- ciavano a battere con il martello sulla lama posata su un sòch4 di legno, messo alla giusta distanza dai treppiedi su cui si erano se- duti. Dopo l’ultima sfregata con la cut5 alle lame lucide e sibilanti, infilavano sul manico una mezzaluna di alluminio, strumento ca- pace di tenere unite le spighe tagliate, trasformando l’umile ranza in nobile falce messoria e il misero falciatore in mietitore divino. “Domani, se Dio vuole, si raccoglie”. Già il padrone della treb- biatrice, certo Vittorio detto Mezzo-culo, era stata avvisato. Lui sarebbe stato nel campo alle sei, gli altri dovevano essere a fò6 un po’ prima. Alla vigilia tutti gli umani della corte, prima di andare a dormire, scrutavano il cielo, restavano a lungo lì, sui due piedi, a osservare gli alberi che reggevano il filo dell’orizzonte. Se il sole tramontando aveva lasciato una striscia rossa tra le cime delle pla- tine e delle pioppe,7 gli animi si rinfrancavano perché anche i sassi sapevano che rosso di sera, bel tempo si spera.
Intanto la bambina dalle treccine color terra saltava alla cor- da sull’aia o scalpitava sui sentieri dei campi insieme ai cugini, qualche mese più vecchi di lei, Jàcom de’ Lansí, Jàcom de’ Corvis e Gioàn de’ Mossi che, appena finita la quinta elementare, erano
Ceppo.
5. La cote, pietra nerastra ricca di quarzo, utilizzata per molare le lame. 6. Dal latino ad foras: fuori, al lavoro nei campi.
7. In dialetto il nome degli alberi è per lo più femminile.
Mimma Forlani < Il paese delle aie
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pronti per essere avviati al lavoro. Forse uno avrebbe voluto con- tinuare gli studi, ma soldi non ce n’erano, l’altro avrebbe fatto un corso professionale; quanto a Gioàn, già i suoi libri li aveva buttati nella mangiatoia e la mucca se li era divorati fino all’ultima pagina, con suo grande sollievo.
Quella mattina scandita dal suono delle campane, la figlia di Jacumí-fulighí rivede i s-cècc, gli schietti, sedersi uno accanto all’al- tro sulle rive rosse di papaveri, alzarsi poi di scatto per inseguire le libellule della Morla, la grande roggia che serviva a decquare8 i campi.
“Mio Dio, dove sono finiti?”
Eccoli tra i filari dei moroni9 carichi di ciciotte scure, nascosti dai soffioni che raccolgono a man bassa. Poi, seduti sulla riva er- bosa del canale, soffiano dentro le bolle i pappi volatili fino a farsi scoppiare le guance. Sentili ora starnutire come puledri pizzicati da qualche incauta mosca infilatasi su per le narici.
“Adesso dove sono?”
Stanno arrampicandosi sul fienile, mettono l’uno dopo l’altro i piedi nudi sui pioli di legno e si tuffano nel fieno maggengo. Ma certo, prima del taglio del frumento a quei tempi c’era quello del maggengo che anticipava l’estate: gioiosa stagione dei raccolti. Perché tutti sapevano allora che si semina nel pianto e si raccoglie nella gioia.
“Chissà se il tempo del raccolto è arrivato…” si chiede da dietro la scrivania la figlia di Jacumí-fulighí.
“Domani m’avvio. M’avvio sulla pagina bianca”.
A passi diversi
Se solo una volta, dico una volta,
i tuoi occhi di galaverna si fossero sciolti in fiocchi di neve, i sentieri dei campi
Irrigare. 9. Gelsi.
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li avrei percorsi a passi di danza.
Ho invece vagato a passi diversi sui sentieri di ghiaccio di un lago dal gelo sigillato,
e da altro, in verità.
Come folaga dispersa
mi sono infangata tra i giunchi della riva e attendo di volare
nel vento della vita.
Mimma Forlani < Il paese delle aie
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Cenni Biografici di Mimma Forlani
Mimma Forlani, giornalista pubblicista, ha pubblicato libri e saggi quali: Ruth Domino Tassoni, 1996; Sandro Angelini e Città Alta, 1999; Elena Milesi, Città Alta e altri luoghi della sua poesia, 2004; I luoghi di Gianandrea Gavazzeni-tra musica e parola, 2006-2021; Gli Scotti, la baronessa Ninì racconta gli antenati Francesco e Gianmaria, gli amici di casa Gaetano Donizetti e mons. Roncalli, 2009; Filippo Siebaneck, Cittadino esemplare di Bergamo, 2006; Di-sperare in terra di Palestina, 2009-2013; Variazioni sull’acqua(quattro conversazioni poetico-musicali), 2010; Enrico Gonzales, avvocato, socialista, galantuomo (con Francesco Giambelluca), 2012; Storie amene sotto il berceau, I e II,2016-2017; Sulle tracce di Gianmaria Scotti, nobile patriota del Risorgimento. Inchiesta storica sulla gioventù del Quarantotto: luoghi e ideali, 2020. è protagonista di numerose iniziative culturali a Bergamo e provincia.
Città del Vaticano, Chiesa di Santa Maria della Pietà-
Honora Foà. Blood&Breath –
Città del Vaticano-La prima mondiale di “Blood&Breath”di Honora Foà,nella Chiesa di Santa Maria della Pietà in Camposanto dei Teutonici, Vaticano, ospiterà, sabato 19 ottobre 2024 alle ore 20:00 (prova generale per gli operatori del settore il 18 ottobre alla stessa ora), la prima mondiale , la terza produzione multimediale immersiva di Frequency Opera, ideata dalla celebre artista multimediale Honora Foà, una straordinaria esperienza multisensoriale destinata a far riflettere sul legame tra solitudine, trasformazione interiore e rispetto per la Natura.
Birth of Color, prima del ciclo di sette opere prodotte da Frequency Opera
Un evento eccezionale, che esplora attraverso musica, immagini e narrazione la leggenda di Maria Maddalena e Giuseppe d’Arimatea, nel periodo di solitudine che vissero ritirandosi nelle grotte del sud della Francia dopo la morte del loro Maestro.
Blood&Breath è parte del ciclo di sette opere intitolato RecombinantDNA, una serie unica di performance che combina l’arte e la scienza, il mito e la tecnologia, per esplorare differenti spettri di frequenze attraverso queste due lenti. Foà, con la sua vasta esperienza nell’arte multimediale, è riconosciuta per la sua capacità di unire linguaggi diversi in esperienze che toccano il profondo della sensibilità umana. In Blood&Breath, la solitudine diventa una condizione attraverso la quale Maria Maddalena sperimenta una profonda trasformazione interiore. Ed è proprio la riflessione e la gratitudine per la natura il tema centrale nonché uno dei messaggi fondamentali di quest’opera.
Le musiche dell’opera sono state composte da Lucas Richman, musicista dalla sensibilità emotiva e intellettuale nel trattare temi legati alla condizione umana. In questa cantata, in particolare, ha voluto esplorare, attraverso un linguaggio musicale profondamente evocativo, tematiche come la vita, la morte e la spiritualità. La sua scrittura musicale, delicata e al contempo fortemente drammatica, vuole mettere in risalto la capacità dell’arte di connettersi ai momenti più intensi della nostra esistenza, combinando i testi poetici con l’essenza di argomenti quali il sacrificio, la speranza, la fragilità della vita e il riscatto degli esseri umani.
Ad accompagnare questa potente narrazione, sonora e visiva, sarà un organico orchestrale di otto elementi da lui stesso diretto: il Maestro Lucas Richman guiderà infatti i “Solisti dell’Orchestra di Roma”, coordinati da Antonio Pellegrino, in un viaggio multisensoriale sui generis.
Ad intercalare i momenti orchestrali saranno le voci di due solisti lirici, il mezzo-soprano Joelle Morris che, con il suo colore vocale ambrato e vellutato, offrirà un contrappunto pregnante alla tessitura emotiva dell’opera, e il baritono Isaac Bray, noto per il suo timbro caldo e potente capace di infondere nei ruoli drammatici una presenza autorevole e intensa.
Le esibizioni musicali si alterneranno a letture vocali di testi poetici che vedranno protagonisti gli attori Stefania Rocca e Amedeo Fago, la cui rispettiva versatilità interpretativa e intensa presenza scenica promette di coinvolgere il pubblico in una riflessione profonda e spirituale.
Le scenografie, infine, prevedono l’uso di numerose opere realizzate dalla rinomata pittrice americana Margot McLean. La sua arte è infatti caratterizzata da un uso intenso e simbolico delle forme naturali, in particolare degli animali, che spesso fungono da specchio per esplorare emozioni umane complesse. Il suo lavoro per Blood&Breath si inserisce perfettamente in un contesto che intreccia leggenda, scienza e natura, offrendo una visione intima e onirica del rapporto tra uomo e ambiente.
Note biografiche | Honora Foà
Honora Foà è un’artista multimediale.
Attualmente sta sviluppando un ciclo di 7 opere di frequenza intitolato RECOMBINANTDNA, che esplora diversi spettri di frequenza attraverso due lenti: la scienza e il mito.
Pioniere dell’arte multidisciplinare, la compagnia di teatro-danza di Foà, con sede a New York, ha incorporato movimento/danza, voce, musica, cibo, installazioni artistiche e proiezioni multimediali. La compagnia ha ricevuto una sovvenzione dal National Endowment for the Arts.
Ha creato e collaborato a due importanti cicli di performance, WATER MURDERS, con il drammaturgo Bradford Riley, e il suo R E C O M B I N A N T D N A, che è il fulcro della sua attenzione costante. Una collaborazione con l’artista Amy Landesberg ha prodotto una mostra completa alla Sandler-Hudson Gallery di Atlanta.
Dopo dieci anni con la compagnia di New York, è nato il figlio della signora Foà, che ha ispirato un interesse per l’educazione e la percezione dello sviluppo dei bambini. Segue un master in danza presso l’Università del North Carolina e un dottorato di ricerca in educazione.
Foà è diventato direttore creativo di Visioneering International nel 1989. In questa veste, ha ricoperto il ruolo di capo progettista e produttore di due padiglioni dell’Esposizione Universale per le Nazioni Unite (Genova, Italia; Taijon, Corea), di lavori per il Planetario Hayden, di installazioni per il Fernbank Science Museum e di installazioni di video arte all’interno dell’Augusta Children’s Hospital e del Children’s Healthcare of Atlanta’s Emory Hospital.
Nel 2003, Foà ha iniziato a lavorare a Mythic Journeys, un festival di performance e una conferenza tenutasi nel 2004 e nel 2006. Riunendo più di 150 presentatori, relatori, artisti e performer, Mythic Journeys ha utilizzato le grandi storie archetipiche, le tradizioni sacre e i racconti popolari come terreno da cui la nuova arte in consonanza con la conversazione interdisciplinare può creare un contesto per gli eventi contemporanei. Psicologi, scienziati, poeti, studiosi, politici, uomini d’affari, artisti e musicisti hanno messo a disposizione la loro esperienza e creatività per affrontare le esperienze e i problemi del nostro tempo.
Nel 2005, Mythic Journeys è stato oggetto di un documentario di due ore trasmesso dalla National Public Radio. Mythic Imagination ha anche prodotto due conferenze Human Forum per The Alliance for a New Humanity. Nella primavera del 2010 è stato realizzato un lungometraggio su Mythic Journeys.
Nel 2013, il film Banaz, A Love Story, per il quale la signora Foà è stata sceneggiatrice e sviluppatrice della storia, ha vinto un Peabody e un Emmy come miglior documentario internazionale. Continua a fornire consulenze per vari film.
Il progetto Creativity in Captivity , nato dalla collaborazione con Francesco Lotoro e Dahlan Foah, è una serie di performance che Foà scrive e dirige in cui i musicisti suonano musica scritta nei campi di concentramento, internamento e prigionia della Seconda Guerra Mondiale.
Nel 2014, la sua opera multimediale, The Birth of Color: A Marriage of Darkness and Light con Lucio Ivaldi e David Brendan Hopes, è stata registrata a Budapest. Nel 2016 è stata rappresentata come selezione ufficiale del Budapest Arts Festival. Field of Desire, la seconda opera, è ora un’esperienza cinematografica immersiva. Le prossime 5 Frequency Opera del ciclo sono in fase di sviluppo. Blood&Breath, la sesta della serie, sarà rappresentata in Italia nel 2023.
Honora Foà: storia, concetto, regista, produttrice | Dahlan Foah: produttore esecutivo | Lucas Richman: compositore, direttore d’orchestra, direttore musicale | Stefania Rocca: Voce di Maddalena | Amedeo Fago: Voce di Giuseppe | Margot McLean: artista visiva | Joelle Morris: mezzosoprano solista | Isaac Bray: baritono solista
“I Solisti dell’Orchestra di Roma” coordinati da Antonio Pellegrino
Martino Nicoletti: traduttore | Valentina Vidali: designer video concept | Salvatore Passaro e Mahnaz Esmaeili (mopstudio): direzione tecnica e projection mapping | Lia Morandini: costumista | Luckyhorn: produzione reti e scenografie | Hernando Claros: proiezioni e illuminazione | Nicola Vidali: produttore | Jonathan Warren: video designer | Matt Roberts: tecnologia di proiezione | Lucio Ivaldi: Direttore Sviluppo Musicale e Ricerca sulle Frequenze
L’evento gode del sostegno dell’associazione onlus Mythic Imagination Company.
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