8 settembre 1943.Da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”
Laterza Editori
da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”-“Eravamo numeri. Non più uomini. Il mio era 7943. Ero uno dei tanti. Mi avevano preso sulle montagne ai confini con l’Austria, mentre tentavo di arrivare a casa, dopo l’8 settembre del ’43. Ci portarono a piedi fino a Innsbruck e poi, dopo quattro o cinque giorni, ci caricarono sui treni e ci portarono in un territorio molto lontano, che a noi era sconosciuto, oltre la Polonia, vicino alla Lituania, nella Masuria, in un lager dove poco tempo prima erano morti migliaia di uomini; gli storici parlano di cinquanta-sessantamila russi. Erano prigionieri, morti di fame
e di tifo. Noi andammo ad occupare le baracche che avevano lasciato libere, nello Stammlager 1-B.
Dopo quattro o cinque giorni, ci proposero di arruolarci nella repubblica di Salo, ossia di aderire all’Italia di Mussolini. Eravamo un gruppo di amici che avevano fatto la guerra in Albania e in Russia. Eravamo rimasti in pochi. Ci siamo messi davanti allo schieramento, e quando hanno detto “Alpini, fate un passo avanti, tornate a combattere!”, abbiamo fatto un passo indietro. Gli altri ci hanno seguito.
E fummo coperti d’insulti, di improperi. Avevamo visto cos’eravamo noi in guerra, in Francia prima, poi in Albania e in Russia. Avevamo capito di essere dalla parte del torto. Dopo qello che avevamo visto, non potevamo più essere alleati con i tedeschi. Perciò da allora fummo dei traditori. Fummo della gente che non voleva più combattere. E ci trattarono come tali. Nell’ordine dei lager venivamo subito dopo gli ebrei e gli slavi; noi che non eravamo nemmeno riconosciuti dalla Croce rossa internazionale. Ci chiamavano internati militari, ma eravamo prigionieri dentro i reticolati, con le mitragliatrici piazzate nelle torrette che ci seguivano ogni volta che ci spostavamo. Abbiamo resistito. Tanti di noi non sono tornati. Più di quarantamila nostri compagni sono morti in quei lager, durante la prigionia. Io ritornai nella primavera del 1945, a piedi, dall’Austria, dove ero fuggito dal mio ultimo campo di concentramento.
Arrivai a casa che pesavo poco più di cinquanta chili, pieno di fame e di febbre. E feci molta fatica a riprendere la vita normale. Non riuscivo nemmeno a sedermi a tavola con i miei, o a dormire nel mio letto. Ci vollero molti mesi per riavere la mia vita.
Avevamo dietro le spalle la Storia, che ci aveva aperto gli occhi su quello che eravamo noi e su quel che erano coloro i quali ci venivano indicati come nostri nemici. Quello che ci avevano insegnato nella nostra giovinezza era tutto sbagliato. Non bisognava credere, obbedire, combattere. E l’obbedienza non doveva essere cieca, pronta e assoluta. Avevamo imparato a dire no sui campi della guerra. E molto più difficile dire no che si.
Ripeto spesso ai ragazzi che incontro: imparate a dire no alle lusinghe che avete intorno. Imparate a dire no a chi vuol farvi credere che la vita sia facile. Imparate a dire no a chiunque vuole proporvi cose che sono contro la vostra coscienza. E’ molto più difficile dire no che si.”
da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”, Laterza, 2021.
“Santi e culti dell’anno Mille. Storia e leggende tra cultura dotta e religiosità popolare”
Ugo Mursia Editore
«Quella dei santi era una contestazione silenziosa, ma che non sfuggiva però a chi aveva tutt’altra condotta di vita e ai potenti. Cercavano di ucciderli o di rapirli.»
Di fronte alla crisi della Chiesa feudale, con il papato in balia delle nobili famiglie romane e un clero sempre più secolarizzato, intorno al Mille si ebbe una forte reazione spirituale, con figure ascetiche che si affermarono come santi, introducendo diversi e radicali modi di vivere il rapporto col sacro. Attraverso una nuova lettura di questi personaggi e dei loro rapporti, Paolo Golinelli ricostruisce, con un linguaggio vivace e accattivante, un mondo aperto al soprannaturale e al meraviglioso, dove ogni piccolo avvenimento induceva a pensare al miracolo, soprattutto per chi aveva bisogno di protezione. Il discorso si allarga quindi alla religione popolare, in narrazioni che, seppur spiegate razionalmente, possono ancora affascinare i lettori di oggi.
Paolo Golinelli, docente di Storia Medievale nell’Università degli Studi di Verona, si occupa principalmente del rapporto tra religione e società nel Medioevo, percorso attraverso le fonti agiografiche e alcuni tra i personaggi più emblematici del tempo. Tra i suoi ultimi libri, L’ancella di san Pietro. Matilde di Canossa e la Chiesa (2015), e pubblicati con Mursia: Celestino V. Il papa contadino (2007), Matilde e i Canossa (2007), Il Medioevo degli increduli (2009), Medioevo Romantico (2011), Terremoti in Val Padana (2012), Un millennio fa (2015), Breve storia di Matilde di Canossa (2015).
“Santi e culti dell’anno Mille. Storia e leggende tra cultura dotta e religiosità popolare” (Ugo Mursia Editore)
Rino Della Negra: Emigrante-Calciatore e Partigiano
Articolo di Fabio Casalini
Rino Della Negra nacque nel 1923 a Vimy, nel dipartimento di Pas-de-Calais, da genitori italiani: il padre, muratore, era originario di Udine.
Nel 1926 la famiglia si stabilì ad Argenteuil nel quartiere Mazagran, ribattezzato Mazzagrande a causa della numerosa presenza di italiani.
Rino, giovane e pieno di speranze, iniziò la sua carriera calcistica come attaccante nella squadra della cittadina alla periferia di Parigi, ovvero l’Argenteuillais FC.
Riuscì a ritagliarsi molto spazio ed a collezionare diversi successi, come la Coupe de la Seine del 1938 e la Coupe du Matin-FSGT del 1941.
Nel frattempo svolse l’attività di apprendista muratore, prima, e di operaio del settore metallurgico in seguito. Nel 1938 fu naturalizzato francese.
Nel 1942 fu notato dai dirigenti dell’importante squadra del Red Star Football Club, società fondata a Parigi che giocava nello stadio di proprietà situato nella periferia Nord della capitale francese, esattamente a Saint-Ouen-sur-Seine.
Come la storia ci ricorda, la Francia nel 1940 fu invasa dai nazisti. Questo evento colpì anche il giovane Rino tanto che nel 1942, a 19 anni, rifiutò la chiamata al Servizio di Lavoro obbligatorio (Service du travail obligatoire – STO) in Germania, decidendo di unirsi ai Francs-tireurs et partisans (FTP). Il Servizio di Lavoro obbligatorio era un periodo con il quale i francesi dovevano “partecipare” allo sforzo bellico tedesco fornendo lavoro gratuito.
Rino Della Negra si unì al distaccamento italiano dei Francs-tireurs et partisans / Main-d’oeuvre immigrée (FTP-MOI), con il nome di Jean-Claude Chatel (secondo altre fonti Dallat).
Prima di essere catturato partecipò a una quindicina di azioni, tutte nel 1943: tra le operazioni possiamo ricordare sabotaggi, distribuzione di materiale e armi ed attacchi ai convogli nazisti o fascisti.
Nel giugno del 1943 prese parte all’attacco alla sede parigina del Partito fascista italiano, in rue Sédillot.
Sempre nel giugno del 1943 partecipò all’esecuzione del generale Von Apt.
Nel frattempo Rino non abbandonò la famiglia e nemmeno la propria squadra di calcio.
Della Negra giocò solo otto partite nelle file del Red Star FC. Le giocò tutte quando si trovava già in clandestinità. Incurante del pericolo, giocò tutte, anzi le sole, le otto partite con il proprio nome e non con lo pseudonimo di Jean-Claude Chatel o Dallat.
Purtroppo il 12 novembre un’operazione contro i tedeschi non si concluse come le altre. Rino rimase ferito nell’attacco ai nazisti e fu trasportato all’ospedale della Pitié-Salpêtrière. All’interno delle stanze del nosocomio parigino fu arrestato, interrogato dalla polizia ed infine dalla Gestapo.
Rino Della Negra verrà giustiziato insieme ad altri 21 partigiani ad Ovest di Parigi, il 21 febbraio del 1944. Erano 23 in totale; l’ultima, Olga Bancic, verrà decapitata in Germania cinque mesi dopo.
Fu sepolto nel cimitero del Centro di Argenteuil.
Grazie all’estremo sacrificio Rino diventerà una figura emblematica del club Red Star tanto che la sua memoria è regolarmente onorata dai tifosi che hanno voluto installare una lapide commemorativa all’ingresso dello stadio.
Ma perché le i tifosi francesi vogliono bene a questo emigrato italiano?
Rino Della Negra incarna, ancora oggi, i valori in cui si riconoscono i tifosi del club e delle periferie parigine: l’antirazzismo, l’antifascismo e la difesa degli immigrati.
Dimitri Manessis et Jean Vigreux, Rino Della Negra, footballeur et partisan : vie, mort et mémoire d’un jeune footballeur du « groupe Manouchian », Libertalia, 2022
Descrizione del libro di Stefania Limiti, Sandra Bonsanti–La vittoria della destra in Italia ci mette di fronte alla concreta possibilità che venga stravolta la Costituzione del 1948. Da tempo si parla soprattutto di introdurre l’elezione diretta del capo dello Stato o del presidente del Consiglio. Il mondo democratico e progressista si trova di fronte a una grande battaglia politica per contrastare una riscrittura della Carta che ne mette in discussione i suoi princìpi fondanti.
È vero che esistono Paesi democratici che eleggono direttamente il capo dello Stato ma è anche vero che in altri l’elezione popolare del presidente coincide con tratti fortemente autocratici, dall’Ungheria alla Russia e alla Turchia.
Le autrici hanno dunque voluto contestualizzare la questione nella nostra storia repubblicana, ricostruendo il significato del presidenzialismo – formula tecnico-giuridica tesa a rafforzare i poteri del governo, indebolendo quelli del Parlamento – alla luce delle esperienze politiche che lo hanno sostenuto, a oggi senza successo: quelle golpiste e missine, la piccola pattuglia dei gollisti democristiani, la P2, la Grande Riforma craxiana e le nervose esternazioni di Francesco Cossiga, fino ai giorni più recenti con la pretesa delle grandi banche d’affari di “azzoppare” le costituzioni antifasciste.
Contestualizzare il presidenzialismo nella storia italiana consente dunque di vedere chiaro dietro alle intenzioni di chi vorrebbe mettere il potere nelle mani di un capo eletto a furor di popolo.
Sandra Bonsanti -Nata a Pisa nel 1937, sposata, ha tre figlie. Si è laureata in etruscologia a Firenze e ha vissuto per molti anni a New York. Ha cominciato la sua attività professionale nel 1969 al “Mondo” con Arrigo Benedetti.
Associazione Libertà e Giustizia Via Cordusio 4, 20123 Milano
Ora e sempre Resistenza! Intervista a Sandra Bonsanti
Sandra Bonsanti
Giornalista, scrittrice e politica italiana: FUL ha incontrato Sandra Bonsanti per una chiacchierata sul valore dell’antifascismo e della memoria storica.
Sandra Bonsantinasce a Pisa il 1° giugno 1937. Figlia di Alessandro Bonsanti, scrittore e sindaco repubblicano di Firenze, è una bambina quando alleati e partigiani liberano la città dai nazisti. Avvia l’attività da giornalista nel 1969 a Il Mondo, settimanale politico, culturale ed economico. Lavora poi per La Stampa, Epoca e Panorama. Nel 1981 entra nella redazione del quotidiano La Repubblica guidato da Eugenio Scalfari, di cui diviene una delle firme di punta. Bonsanti è una delle più autorevoli interpreti del whatchdog journalism italiano, il giornalismo “cane da guardia” della democrazia che interroga politici e personaggi pubblici, indaga sul potere e pretende chiarezza e trasparenza dalle istituzioni per esercitare un’informazione piena e consapevole verso i cittadini.
Nel 1994 Bonsanti diventa membro della Camera dei deputati: alle urne per la XII legislatura vince il seggio nel collegio uninominale di Firenze 2 con la coalizione dei Progressisti. In Parlamento sarà membro della commissione parlamentare antimafia. Nel 1996 rinuncia a ricandidarsi alle elezioni per assumere la guida del quotidiano Il Tirreno. Su incarico dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione Nazionale Stampa Italiana redige con Angelo Agostini la “Carta dei doveri del giornalista”. Dal 2002 al 2015 è presidente di Libertà e Giustizia, un’associazione italiana di cultura politica attiva. Nel 2017, riceve dal sindaco Nardella Il Fiorino d’Oro della città di Firenze, l’onorificenza assegnata alle personalità che con il loro operato hanno dato lustro alla città o si sono distinti a livello internazionale.
È autrice di libri che indagano sui misteri del potere in Italia come Il grande gioco del potere (Chiarelettere, 2013) e Colpevoli (Chiarelettere, 2021) scritto a quattro mani con Stefania Limiti. Ha sempre difeso, onorato e sensibilizzato sull’importanza della memoria storica, dell’antifascismo e della Resistenza, da cui discende la nostra Costituzione. Sandra ci ha aperto le porte di casa a Firenze per una chiacchierata sul valore della Resistenza e dell’antifascismo. Seduti fra tantissimi libri e appunti sparsi, in compagnia di una foto con Sandro Pertini e una vecchia cartolina di New York inviata da Oriana Fallaci, le ho chiesto che significato assume al giorno d’oggi la Festa della Liberazione, festeggiata il 25 aprile con il governo più a destra dell’Italia repubblicana. «Possiamo dire senza timore di essere accusati di esagerare che l’impegno di tutti i cittadini che si riconoscono nella Costituzione deve essere ancora più fermo e deciso di quanto lo sia stato nel passato. Si tratta di sostenere e difendere il grande lavoro e i grandi sacrifici che sono alle spalle del 25 aprile 1945. Dunque, per noi un impegno senza incertezze» osserva Bonsanti.
I vincitori delle ultime elezioni sono la cosiddetta “Generazione Colle Oppio”, dal nome della storica sede del Movimento Sociale Italiano dove molti esponenti di Fratelli d’Italia hanno mosso i primi passi in politica. Alcuni membri della maggioranza e del Governo Meloni sono accusati di aver riportato le lancette indietro di trent’anni, prima della svolta di Fiuggi di Gianfranco Fini. Forse la destra italiana fatica ad affrancarsi definitivamente dal fascismo perchè non è antifascista? «La destra italiana, diversamente da quello che è accaduto in altri Paesi, come in Germania, insiste a trovare pretesti per non dare un addio definitivo a quello che è stato il coinvolgimento di tanti cittadini italiani con il fascismo. Il perché va cercato in motivazioni di origine familiare, oppure semplicemente storiche. Ogni caso è a sé e non c’è una spiegazione unica» spiega Bonsanti.
Sfortunatamente, allo stesso tempo, restano sempre meno partigiani: spetta alle istituzioni tenere alto il valore della memoria storica. Nata come reazione al regime fascista e dalle sue ceneri, la repubblica è l’affermazione dei valori dell’antifascismo. «Le istituzioni possono sicuramente aiutare a celebrare il valore di ogni singolo partigiano e dei partigiani riuniti nelle loro associazioni. È importante mostrare che le istituzioni stanno decisamente dalla parte di chi ha combattuto contro il fascismo.»
In tempo di guerra che sconvolge l’Europa, non posso esimermi da chiedere a Sandra se trova delle analogie fra la Resistenza italiana di allora e quella ucraina di oggi: «Ogni popolo deve essere riconosciuto libero di scegliersi amici e nemici. Un’analogia importante può essere riscontrata nel fatto che si tratta, sia in Ucraina che nell’Italia della guerra, di invasioni del proprio territorio e nel fatto che ci sono uomini e donne pronti a combattere e a morire per la libertà» risponde.
Anche l’informazione gioca un ruolo importante nel promuovere la memoria. Circa vent’anni fa è iniziata un’opera mistificatoria della Resistenza. Chiedo alla nostra ospite, dall’alto della sua lunga esperienza di giornalista, come si fa una corretta informazione su questa stagione cruciale della nostra storia. «Tutti noi possiamo fare qualcosa di più per promuovere la memoria come cittadini ed è ancora di più quello che può fare l’informazione: approfondire singoli episodi, raccontare e descrivere i personaggi che ne sono stati protagonisti, raccontare esattamente i principi in cui credevano coloro che si sono immolati.»
C’è dunque un momento della Seconda Guerra Mondiale che necessita di un approfondimento? «Mi piacerebbe che fossero approfonditi i motivi per cui in Toscana ci furono tante stragi e perché l’esercito dei liberatori americani e italiani antifascisti ci mise tanto tempo ad arrivare fino alla Toscana. Inoltre, a mio avviso tutti gli sbarchi sono stati memorabili, caratterizzati da atti di coraggio e da atti di eroismo», puntualizza Bonsanti.
A proposito di fascismo e antifascismo, faccio un’ultima domanda a Sandra e le chiedo cosa vorrebbe dire alle ragazze e ai ragazzi di oggi: «Penso che sbaglierebbero i giovani se pensassero che ai giorni d’oggi quello che è successo non capiterà mai più. Bisogna continuare a studiare e a trasferire la loro memoria fresca dall’avere ascoltato tanti protagonisti di allora alle generazioni che verranno» conclude lei.
Roma Capitale- Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia-
Roma Capitale- Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia-
Roma- Le origini del Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia risalgono al 727 d.C., quando il re dei Sassoni Ina istituì la “Schola Saxonum” per dare ospitalità ai pellegrini diretti alla Tomba dell’Apostolo Pietro. Fu eretto sull’area anticamente occupata dagli “Horti” di Agrippina Maior (14 a.C. – 33 d.C.), costruzioni imperiali, ampi e sontuosi giardini che dal Gianicolo si estendevano lungo la riva destra del Tevere. In alcuni ambienti sottostanti l’antico Ospedale sono ancora visibili resti di pareti di opusreticulatum, pavimenti a mosaico, sculture e affreschi.
Considerato uno dei più antichi ospedali d’Europa, il Santo Spirito in Sassia sorse a sostegno dei poveri, dei malati e degli infanti abbandonati, come testimonia ancor oggi la Ruota degli Esposti posta all’esterno dell’edificio.
Restaurato e ampliato nel corso dei secoli, il Complesso è composto dalle Corsie Sistine, dai Chiostri dei Frati, delle Monache e delle Zitelle (o “chiostro del Pozzo”) e infine dal Palazzo del Commendatore (che ne è un ampliamento cinquecentesco), a opera dell’architetto Giovanni Lippi.
Il Palazzo, costruito attorno a un elegante cortile quadrangolare, è ornato da una fontana del XVII secolo e da un orologio ottocentesco a sei ore e ospita l’antica Spezieria, in cui furono condotte numerose ricerche farmaceutiche e dove vennero triturate le erbe medicamentose, di cui oggi sono testimoni le collezioni di antichi vasi e mortai.
Oggetto di un attento restauro terminato nel luglio 2022, le Corsie Sistine furono realizzate su incarico di papa Sisto IV della Rovere nella seconda metà del Quindicesimo secolo. La struttura, costituita dalla Corsia Lancisi e dalla Corsia Baglivi, è lunga 120 metri e larga 13. Le Corsie furono utilizzate dapprima come luogo di degenza e, dal ‘600, come lazzaretto. Un ciclo di affreschi di scuola umbro-laziale, che si sviluppa una superficie di oltre 1200 mq e la cui estensione è seconda solo a quella della Cappella Sistina, ne orna il perimetro superiore. Le Corsie sono collegate da un tiburio ottagonale sotto il quale potete ammirare l’unica opera romana di Andrea Palladio, un raffinato ciborio sormontato da due putti attribuiti ad Andrea Bregno, autore anche dei due maestosi portali d’ingresso.
Nei secoli successivi, il Complesso ospedaliero si sviluppò ulteriormente, con l’edificazione della Sala ospedaliera Alessandrina, oggi adibita a sede del Museo di Storia dell’Arte Sanitaria.
Al suo interno, sono conservate diverse importanti collezioni: quasi 400 pezzi tra ceramiche e vetri farmaceutici, arazzi, sculture e rilievi; circa 300 tra opere pittoriche, disegni e stampe, numerosi affreschi, grottesche e altre decorazioni pittoriche parietali; 20.000 volumi a stampa di cui circa 60 incunaboli, 2.000 cinquecentine e 374 preziosi manoscritti di epoche diverse, 2 codici pergamenacei degli scritti di Avicenna e il più conosciuto Liber Fraternitatis Sancti Spiritus; due globi di Vincenzo Coronelli (un globo terrestre ed uno celeste del 1600); duesfere armillari in ottone e una diottra utilizzata nel rilevamento topografico per determinare e tracciare le visuali, testimonianze uniche della cultura scientifica romana in età moderna.
Informazioni
Indirizzo
Borgo Santo Spirito, 1-2
Orari
Per le modalità di accesso e gli orari della visita rivolegersi ai contatti soprandicati
Fonte-Roma Turismo-Dipartimento Grandi Eventi, Sport, Turismo e Moda.
Via di San Basilio, 51
00187 Roma
Roma Capitale- Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia-
La struttura costituisce il più rilevante complesso di edifici quattrocenteschi romani ed occupa l’isolato adiacente al Vaticano tra via di Borgo Santo Spirito, via dei Penitenzieri, via di Porta Santo Spirito e il Lungotevere Vaticano. Fa parte del quattordicesimo rione di Roma, Borgo, divenuto un quartiere della città tra il 1585 e il 1590 e zona cimiteriale in età romana. L’ampia zona comprende anche Castel Sant’Angelo, l’antico Mausoleo di Adriano, divenuto archivio dei Tesori Vaticani, museo e storico rifugio dei Papi raggiungibile attraverso il camminamento coperto del Passetto. Fino al 1929 anche il vicinissimo Stato della Città del Vaticano apparteneva a Borgo ma, con la stipula dei Patti Lateranensi, il governo di Mussolini lo donò alla Chiesa di Roma di Papa Pio XI.
Borgo deve il suo nome al termine sassone Burg, cioè villaggio fuori dalla città di Roma. Era così anticamente chiamato dai pellegrini a maggioranza Sassoni del Wessex, a sud della Gran Bretagna, che qui arrivavano per venerare la tomba dell’apostolo Pietro. Il seguace di Cristo morì da martire sul colle Vaticano nel 64 o 67 d.C. a seguito delle persecuzioni dei cristiani da parte degli imperatori Claudio e Nerone e divenne il primo Papa della Chiesa Cattolica. L’imperatore Costantino edificò una basilica sulla tomba di San Pietro dopo aver emanato l’editto di Milano nel 313 d.C. con cui sanciva la libertà del culto cristiano e di tutte le altre religioni nell’Impero Romano.
La sede del Complesso sorge sulle rovine della villa di Agrippina Major, nobildonna romana e madre di Caligola. Ancora oggi sono visibili i numerosi resti dell’antica dimora nel sottosuolo delle antiche corsie ospedaliere. Il primo nucleo di Santo Spirito venne fatto erigere dal Papa Simmaco nel V secolo e consisteva in un Hospitium, un luogo di ospitalità con facoltà di dimora, per i pellegrini stranieri. Nel 726, il re del Wessex, Ine, anch’esso pellegrino a Roma per pregare sulla tomba di S.Pietro, fece costruire sopra questo antico luogo di accoglienza, una Schola Saxorum, cioè una corporazione per la comunità dei suoi conterranei inglesi che vivevano accanto alla sacra tomba di S. Pietro. La Schola era formata da un complesso di edifici comprendenti uno xenodochio (dal gr. Xenodochêion: xénos ‘straniero’ e déchesthai ‘accogliere’) o ospizio gratuito per forestieri, pellegrini e malati, oltre ad una chiesa titolata a S. Maria con un cimitero.
Nei secoli successivi la struttura venne abbandonata per limitazione dei flussi di pellegrini e conseguente calo delle donazioni e fu danneggiata da diversi incendi.
Nel 1198, Papa Innocenzo III, ristrutturò il complesso e lo cedette all’ fondato dal frate provenzale e cavaliere templare Guido da Montpellier. L’Ordine lo trasformò in un importante nosocomio con gli interventi dell’architetto Marchionne d’Arezzo e prese il nome di Arcispedale di Santo Spirito in Sassia o Saxia a ricordo della comunità sassone che dimorava in loco. Il più antico regolamento ospedaliero che si conosca, il Liber Regulae ne fissava le regole. Operò per tantissimi anni sia come ospedaletto per l’assistenza agli infermi e la cura delle malattie infettive come la malaria, sia come baliatico per la nutrizione dei trovatelli poveri e malati
con le balie, ma anche come brefotrofio per l’accoglienza degli esposti o proietti, cioè i neonati illegittimi e abbandonati. Papa Innocenzo III volle far qui costruire la rota proiecti (dal lat. proiectare ‘esporre’) o ruota degli esposti su esempio della prima istituita a Marsiglia in Francia nel 1188 che permetteva all’Ordine Religioso di accogliere i numerosi neonati indesiderati che
venivano lasciati, anonimamente, sulla parete esterna dell’ospizio, in un cilindro girevole dotato di una fessura coperta da una grata. È probabile che questa fosse la ruota più antica d’Italia e l’uso è stato abolito per legge solo nel 1923. I bambini venivano qui accolti dalle suore dell’ordine di S. Tecla e marchiati sul piede sinistro col simbolo dell’Ordine di S. Spirito, la croce lorenese a doppia traversa, e registrati in latino come filius m. ignotae ‘figlio di madre ignota’ da cui deriva l’espressione romanesca “fijo de na mignotta”.
Considerato l’ospedale Apostolico e il più antico di Roma godette sempre di sostegno, privilegi, esenzioni e indulgenze tanto che, nel periodo di massima prosperità, poté ospitare fino a 300 infermi e 1000 malati.
Nel XIV s. la struttura conobbe un breve declino sia per il trasferimento del papato ad Avignone (1309-1377) che per la peste del 1348 e il terremoto del
1349 e quasi cadde in rovina totale per mancanza di donazioni e supporti economici dal Vaticano. Verso la fine del 1400, la benefica Istituzione ebbe una rinascita architettonica, artistica e patrimoniale grazie a Papa Sisto IV della Rovere (1471-84) dell’ordine Francescano dei frati minori conventuali, artefice della costruzione della Cappella Sistina. Con lui il Complesso divenne tanto ricco da rivelarsi l’Istituzione con maggiori proprietà terriere in tutta Europa.
Dopo l’incendio del 1471, Sisto IV fece ristrutturare il complesso tra il 1474 e il 1477 dall’arch. fiorentino Baccio Pontelli (famoso per il progetto della Cappella Sistina e lì ritratto dal Perugino nell’affresco La consegna delle chiavi a S. Pietro) dandogli la forma attuale.
Ovunque si nota ancora il blasone del Papa col casato dei Della Rovere, a memoria del suo intervento, insieme al sigillo dell’Ordine Ospedaliero che gestiva la struttura, la croce lorenese a doppia traversa sovrastata dalla colomba dello Spirito Santo.
Nei secoli XVII e XVIII seguirono altre due ristrutturazioni e l’ultima si annovera al 1926 in cui venne ricostruita la facciata quattrocentesca con le bifore marmoree.
Dal 2000 il complesso monumentale è sede di un importante centro congressi mentre l’ospedale di S. Spirito in Sassia continua la sua secolare tradizione di assistenza ai malati nella nuova struttura in via Lungotevere in Sassia 1, adiacente all’antico nosocomio. Disegnato dagli architetti Gaspare e Luigi Lenzi negli anni 1920-33, oggi fa parte dell’ ASL E di Roma. Offre le prestazioni di pronto soccorso, ricovero ospedaliero con 200 letti e varie attività specialistiche ambulatoriali.
LA CORSIA SISTINA
È la parte più antica del Pio istituto ed oggi adibita a polo congressuale ma adibita ancora ad ospedale sino ai recenti anni 80. E’ lunga 120 m, larga 12 m e alta 13 m, suddivisa in un maestoso tiburio e due sezioni dette Braccio di Sopra e Braccio di Sotto ribattezzate sala
Lancisi e sala Baglivi nella seconda metà dell’800 in onore di due famosi medici ed anatomisti qui operanti e vissuti tra il XVII e XVIII secolo. Nella corsia venivano allora alloggiate le file dei letti a baldacchino dei degenti allietati dal suono di un organo in fondo alla sala. Quando il numero dei ricoverati aumentava per le epidemie venivano aggiunti letti al centro delle corsie chiamati carriole e da qui deriva il detto dialettale romano “li mortacci tua e de tu nonno in cariola”, con cui si enfatizza l’ingiuria anche con la morte dell’avo in cariola, cioè in soprannumero.
Le pareti appaiono finemente decorate con un ciclo di quasi cinquanta affreschi del XV secolo che rievocano la storia dell’antico ospedale, le benemerenze del fondatore Papa Innocenzo III e episodi della vita di Papa Sisto IV della Rovere, artefice del rinascimento dell’Ospedale.
Il tiburio a forma di torre ottagonale era l’originale ingresso dell’ospedale la cui cupola venne decorata con nicchie contenenti statue degli apostoli e con due ordini di finestre bifore e trifore con l’onnipresente stemma del Papa Sisto IV della Rovere. Il soffitto è costituito da eleganti pannelli lignei dipinti. Al centro conserva l’unica opera romana dell’architetto veneto Andrea Palladio, un altare in marmo con un dipinto seicentesco di Carlo Maratta. Gli ingressi laterali sono arricchiti da due portali di marmo quattrocenteschi, opere dell’architetto e scultore lombardo Andrea Bregno. Quello sotto il portico della facciata orientale è di modeste dimensioni mentre l’altro è ben conosciuto col nome di Portale del Paradiso, alto 10 m, largo 5 m e recentemente restaurato.
Nella lunetta conchigliata superiore è decorato l’emblema di Sisto IV tra due putti alati e nelle colonne laterali compaiono numerosi simboli associati alla religione cristiana, alla medicina e alle arti curative.
IL MUSEO STORICO DI ARTE SANITARIA
È ospitato nella Sala Alessandrina e venne inaugurato nel 1933 grazie al prezioso contributo di un generale e 2 professori di medicina: il Generale Mariano Borgatti, il Prof.
Giovanni Carbonelli e il Prof. Pietro Capparoni che raccolsero in questa sede del precedente Museo Anatomico, l’immenso materiale storico medico prima depositato in Castel Sant’Angelo. È un mausoleo della medicina con la biblioteca ed un archivio storico e nacque con lo scopo di promuovere e disciplinare gli studi storici dell’Arte Sanitaria in Italia. È alloggiato in nove stanze e conserva preziosi cimeli tra cui mortai, modelli anatomici, cere, antichi strumenti di ostetricia, la macina della China per macinare la corteccia dell’albero di China e produrre il chinino per curare la malaria. Inoltre conserva ferri chirurgici, microscopi, apparecchi per l’anestesia, la prima lettiga della Croce Rossa per il trasporto dei malati e moltissima documentazione su malattie e preparazioni farmaceutiche del passato. È altresì presente la ricostruzione di una farmacia del passato e di un laboratorio alchemico.
L’ANTICA SPEZIERIA
Si trova adiacente alla sala Lancisi e qui i frati un tempo preparavano i farmaci. Numerose ricerche farmaceutiche vennero qui condotte come quella sull’impiego della polvere della corteccia di China per la cura della malaria, allora molto diffusa e senza rimedio. Conserva inoltre una rara collezione di preziosi vasi per le spezie.
LA BIBLIOTECA LANCISIANA
Fu fondata nel 1711 dal medico Giovanni Maria Lancisi, docente di anatomia e medico personale del Papa e venne dotata di una rendita. Nacque all’interno dell’ospedale per favorire la formazione e l’aggiornamento dei medici e chirurghi e con l’intento di promuovere il confronto tra medici e lo svolgimento di sperimentazioni. È considerata la più importante biblioteca medica d’Italia e conserva 20.000 volumi e 375 manoscritti. Tra questi vi sono antichi libri di grammatica, retorica, politica, filosofia, teologia, matematica, storia naturale, chimica, farmacia, anatomia, chirurgia, medicina legale e alcuni strumenti scientifici originari come i globi del monaco cartografo Vincenzo Coronelli, due sfere armillari e una diottra.
IL PALAZZO DEL COMMENDATORE
Vi abitava l’amministratore capo del Complesso. Il palazzo venne edificato durante il papato di Pio V tra il 1566 e il 1572 ad opera degli architetti Nanni
di Baccio Bigio e Ottaviano Nonni detto Mascarino e per volere del Commendatore Bernardino Cirillo e per questo chiamato anche Palazzo di Cirillo. È arricchito con un sontuoso cortile decorato con arcate e colonne di marmo e un orologio barocco diviso in sei ore alla romana, tipica misurazione del tempo durante il periodo medievale. In questo modo la giornata veniva scandita dal ripetersi quattro volte del ciclo di sei ore l’una. Ha la forma di copricapo cardinalizio ed è incorniciato da un serpente che si morde la coda simbolo di eternità. Come lancetta ha un ramarro in bronzo e a lato l’antico emblema dell’ospedale con la croce a doppia traversa e la colomba dello Spirito Santo.
LA CHIESA DI SANTO SPIRITO IN SAXIA
Originalmente la chiesa del dodicesimo secolo era dedicata a Maria Vergine di cui rimane ancora il campanile romanico di Baccio Pontelli. Fu ricostruita varie volte e, dopo il Sacco di Roma nel 1527, Papa Leone IV chiamò l’architetto fiorentino Antonio da Sangallo il Giovane per la ristrutturazione eseguita tra il 1538 e 1545.
Il completamento della facciata tardo rinascimentale su due ordini e della grandiosa scalinata vennero terminati nel 1590 da Ottaviano Mascherino su commissione del Papa verso la fine del Papa Sisto V.
Al suo interno si conserva ancora un’icona mariana donata da re Ina, una serie di opere d’arte tardo-manieriste, numerosi pregiati affreschi e stucchi e un soffitto ligneo policromo ad opera di Antonio da Sangallo con gli stemmi di Papa Paolo III.
La Chiesa è oggi il Centro di Spiritualità della Divina Misericordia ufficialmente istituito dal Cardinale Camillo Ruini con decreto del 1994. Conserva le reliquie del Santo Papa Giovanni Paolo II in un ostensorio in argento a copia di quello rappresentato da Raffaello nell’affresco La disputa del Sacramento nella stanza della Segnatura al Vaticano.
Resistenza va scomparendo- Articolo di Alba Sasso-
Partigiano
Resistenza va scomparendo- articolo di Alba Sasso .Lentamente, la Resistenza antifascista va scomparendo. Un’azione di demolizione metodica, inesorabile, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli mai immaginati prima, sta recidendo le radici che legano la nostra storia all’oggi e al domani, un progetto portato avanti nel tempo, che oggi mette sotto gli occhi di tutti i suoi risultati .La proposta della Gelmini tendente ad eliminare anche il nome della Resistenza- resta solo un più generico “percorso verso l’Italia repubblicana”- dai libri di testo è più che una provocazione, o una boutade. È il perfezionamento di un progetto di egemonia culturale portato avanti da un berlusconismo che, ben lungi dall’essere quella macchietta che troppo spesso abbiamo dipinto, si è rivelato una vera costruzione ideologica, portatrice di valori diversi ed alternativi rispetto a quelli in cui è cresciuta la Repubblica nel dopoguerra. La pochezza di personaggi come l’attuale ministro non deve trarci in inganno. La cancellazione della Resistenza è stata portata avanti nei fatti, prima ancora che nei libri di testo. L’assenza sistematica del premier da tutte le cerimonie non solo del 25 aprile, ma da qualunque cosa sapesse di Resistenza, è stata una goccia che ha scavato un solco, che rischia di diventare una voragine, distruggendo la memoria storica di un paese, la sua identità. Troppo spesso il berlusconismo è stato scambiato per folklore. Ne abbiamo sottovalutato le conseguenze.Oggi la Gelmini può permettersi gesti di questo tipo senza che vi sia ancora una reazione forte e generalizzata di protesta. Non si tratta di difendere le cerimonie rituali e spesso stanche, che pure sono un mezzo per la conservazione della memoria. Si tratta di lanciare una grande campagna culturale nel paese, riprendendo il tema della Resistenza come identità di una nazione. Oggi paghiamo le concessioni ideologiche, prima ancora che culturali, ad un indistinto buonismo che accomunava i morti di tutte le parti, i “ragazzi di Salò” ai partigiani. Un equivoco storico alimentato anche a sinistra, pensiamo ai recenti film di smaccato revisionismo, senza giustificazioni che non fossero un basso politicismo, che in nome di tattiche di corto respiro sacrificava principi ed ideali. Rilanciare i valori della Resistenza vuol dire oggi riprendere una lunga marcia nel cuore delle giovani generazioni, in primo luogo per far conoscere loro quelle radici.È questo il primo dato drammatico: i ragazzi, oggi, nella loro grande maggioranza, rischiano di vivere sempre più in un presente vuoto di storia e di futuro.E la diffusione dei disvalori berlusconiani ha seminato il diserbante delle ideologie, sollecitato il rifugio negli egoismi rassicuranti delle identità minime, il locale e le appartenenze di gruppo.La battaglia cui dobbiamo impegnarci non è solo quella dei libri di testo, da cui la Resistenza non può e non deve essere espulsa, come in una sorta di “damnatio memoriae”. È una battaglia culturale che non si può esaurire nel breve periodo. C’è bisogno di far vivere i valori di quella stagione, in un paese che non cessa di mandare segnali in questo senso.La voglia di pulizia e di cambiamento, la sete di moralità e di giustizia, sempre liquidate con la sprezzante definizione di giustizialismo, sono la testimonianza che quei valori esistono ancora, quelle radici non sono state recise. Dovremo innaffiarle e curarle con l’amore per la storia, per la cultura, per il bello. Con il rilancio della Resistenza come epopea di un popolo alla ricerca di libertà e giustizia, riproponendo perfino i modelli di vita di quella generazione, i padri della patria con la loro sobrietà del vivere la politica, con lo spirito di servizio che caratterizzava il loro impegno, con l’inflessibilità sui grandi principi. La grandezza della Resistenza non può essere messa in discussione dalla pochezza di questi figuri. Ma a noi tocca l’impegno di impedire che ci provino comunque.
Articolo di Alba Sasso
PartigianoPartigiano25 aprile 1945 MILANOl’UnitàIL NUOVO CORRIEREIl Partigiano 1945Ribelle Cichero-N1 del1945l’Unità
Tradotto da: Agnese Grieco e Vittorio Lingiardi- Neri Pozza Editore
Descrizione del libro di Joseph Campbell-Le pagine che seguono costituiscono il puntuale resoconto di una lunga conversazione tra Bill Moyers, una delle grandi firme del giornalismo americano, e Joseph Campbell. Parte della conversazione ebbe luogo allo Skywalker Ranch di George Lucas, il celebre regista e produttore che ha pubblicamente riconosciuto l’enorme influenza degli studi mitologici di Campbell sul suo cinema. «Perché abbiamo bisogno della mitologia?»: questa domanda ricorre in varie forme nel testo e ne rappresenta, in un certo senso, il filo conduttore. Campbell non si sottrae al compito di offrire al lettore una risposta chiara ed esauriente. I miti, per lui, non sono soltanto i «resti» del mondo antico che coprono le pareti del nostro sistema interiore di credenze, come i cocci del vasellame rotto in un sito archeologico. I miti, e i rituali che li evocano, riaffiorano puntualmente in molte delle cose della vita di oggi, dalla religione alla guerra, dall’amore alla morte, poiché riposano sulla «continua necessità della psiche umana di trovare un centro fatto di principi profondi». La mitologia, perciò, non è una mera disciplina di studio dei popoli e delle civiltà antiche, ma «il canto dell’universo», «la musica delle sfere», musica al cui ritmo danziamo anche quando non possiamo dare un nome al motivo, e di cui udiamo i ritornelli «ogni volta che ascoltiamo con distaccato divertimento il farneticante rituale di qual che stregone guaritore del Congo o leggiamo con colto rapimento le traduzioni degli idilli di Lao Tzu, o rom piamo qua e là il guscio duro di un’argomentazione di Tommaso d’Aquino, o cogliamo al volo il significato illuminante di una bizzarra fiaba eschimese». Senza cesure e tuttavia senza contrasti, il grande studioso parla liberamente di tradizioni e racconti egizi e greci, ebraici e indiani, islamici e pellerossa, di narrazioni bibliche e chansons de geste, delle tribù dell’Oceania e di Martin Luther King, della cattedrale di Chartres, di John Wayne, Re Artù e Star Wars, accomunandoli nella sua straordinaria affabulazione di impareggiabile cantore del potere del mito.
Joseph Campbell
AUTORE
Breve biografia di Joseph Campbell (New York, 1904-1987) studiò letteratura alla Columbia University, sanscrito e filosofia a Parigi e Monaco. Per trentotto anni fu titolare della cattedra di Mitologia comparata al Sarah Lawrence College circondato dalla fama di maestro e di uomo ricchissimo di umanità. Tra le sue opere principali, L’eroe dei mille volti, Le maschere di Dio. Alla sua morte, Campbell stava lavorando al secondo volume del suo monumentale atlante storico della mitologia mondiale.
RECENSIONI
«Ciò che il grande, sapiente Joseph Campbell ci ha rivelato è che l’umanità comune a ciascuno di noi è, secondo una delle sue più belle e profonde espressioni, la meraviglia e la magia trasformatrice della storia. Leggere Campbell significa aprirsi davvero alla luce e ribadire che la nostra creatività è la sola, autentica voce del nostro destino». Gregory David Roberts, autore di Shantaram
«Joseph Campbell è uno di quei rari, seri intellettuali americani che ha abbracciato la cultura popolare». Newsweek
«Eccezionale e ancora incredibilmente attuale». San Francisco Chronicle
Descrizione del libro di Lorenzo Tibaldo-Nato in una famiglia di minatori di tradizioni repubblicane e antifascista convinto, Jacopo Lombardini (Gragnana, 1892-Mauthausen, 1945) ha dedicato la sua vita alla causa della libertà, rappresentando la parte migliore della storia dell’Italia, quella democratica e repubblicana che si esprime nella Costituzione. Alimentate dalla fede evangelica, cui Lombardini si converte nel 1924, le sue idee –– che trovano la loro radice in Mazzini, Garibaldi e nell’epopea risorgimentale – si riaffermano in seguito nella lotta partigiana contro il nazifascismo. Una coerenza di scelte di vita che lo porta alla morte nel campo di sterminio di Mauthausen, dove viene gasato il 24 aprile 1945, alla vigilia della Liberazione.
Il libro in pillole
La cultura come madre della responsabilità e del senso del dovere
L’anelito verso la libertà e la giustizia
Il rapporto tra coscienza religiosa e libertà politica
Biografia dell’autore
Lorenzo Tibaldo
studioso di storia dell’Ottocento e Novecento, in particolare delle organizzazioni del movimento dei lavoratori e della Resistenza. Per Claudiana ha pubblicato Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), (Torino, 2005); Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (Torino, 2008).Lorenzo Tibaldo ci propone questo suo secondo libro su un martire evangelico della Resistenza1 in un momento particolar- mente difficile della vita nazionale: da una parte il Paese attra- versa una fase di crisi economica, politica, morale (e spirituale), dall’altra parte molti italiani sono ben disposti a celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia anche se qualcuno contesta il Risorgi- mento, e soprattutto quel secondo Risorgimento che è stata la Resistenza.
Prefazione di Giorgio Bouchard
Orbene, la bella e tragica vicenda di Jacopo Lombardini ci presenta un prezioso filo conduttore tra i due Risorgimenti; e questo filo è la fede evangelica: una fede scoperta a trent’anni e poi collaudata in mezzo alle più orride vicende del «secolo della menzogna», il Novecento.
1 Il primo è stato Lorenzo Tibaldo, Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), Torino, Claudiana, 2005. È invece dedicato a due «martiri laici» il volume L. Tibaldo, Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacro e Bartolomeo Vanzetti, Torino, Claudiana, 2008.
Ma andiamo con ordine: Lombardini, per così dire, «nasce mazziniano»: figlio di poverissimi cavatori delle Apuane, non milita nelle file degli anarchici così numerosi (e perseguitati) a Carrara e dintorni, ma appunto nelle file dei repubblicani. Il motivo di questa scelta sta in un fatto molto semplice: suo padre è stato garibaldino, e costituisce per lui una sorta di “cordone ombelicale” con la stagione del Risorgimento: fin da ragazzo, Jacopo si trova così perfettamente a suo agio con le idee di Giu- seppe Mazzini, con la sua passione democratica e con il suo af- flato morale, anzi, spirituale: giustamente, Tibaldo, sulla scorta di studi recenti, mette in rilievo il versante religioso del messag- gio mazziniano2: un messaggio che spinge alla lotta politica ma non preclude nessuno sviluppo interiore e spirituale.
Così, Jacopo sarà un militante politico per tutta la vita, ma non sarà mai vittima di quelle tentazioni immanentistiche che hanno compromesso e indebolito la causa per cui lottavano tan- ti generosi rivoluzionari del Novecento.
Con la consueta discrezione, Tibaldo ci suggerisce una pista di riflessione che ci permette di capire la personalità poliedri- ca di Lombardini: povero maestro licenziato (e bastonato), ri- dotto a vivere di lezioni private, Jacopo è in realtà soprattutto uno scrittore, alla pari di quel Ceccardo Roccatagliata Ceccardi che gli fu tanto amico: torniamo così a rileggere con emozione quei romanzi che avevamo scoperto settant’anni fa nelle aule del Collegio valdese, ma soprattutto leggiamo per la prima vol- ta i suoi brevi articoli pubblicati su “La Luce” e su “L’Eco delle Valli Valdesi” a cui si affiancano le indimenticabili predicazioni dell’epoca partigiana.
In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pen- sati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia. La fede è arrivata nella vita di Jacopo, molto pro-
2 Vedi in part. M. Viroli, Come se Dio ci fosse. Religione e libertà nella storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009. A parte il titolo francamente infelice (ma quan- do smetteremo di mimare quel grande intellettuale liberal-protestante che fu Ugo Grozio?), si tratta di un saggio pieno di idee che ci stimolano e ci costrin- gono a una risposta.
testanticamente, attraverso la predicazione: un sermone del pastore valdese Seiffredo Colucci casualmente (casualmente?) ascoltato nella chiesa metodista di Carrara3. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni: «predicatore lo- cale», evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscrimi- nata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali.
La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impe- gnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi. Tibaldo riporta due testi in cui Lombardini esprime il suo amore stu- pefatto per quelle Valli4. Idealizza un po’ quei tenaci montana- ri, ma nella sostanza non sbaglia: di lì effettivamente è passata molta storia della testimonianza evangelica in Italia e ha lasciato tracce indelebili. Quando scrive quelle righe commosse, Jacopo non sa che toccherà proprio a lui scrivere una nuova pagina di quella storia, e la scriverà con i suoi sermoni, con la sua cultura, e infine con il dono della sua vita: un dono sereno e generoso, com’era lui.
Un grosso merito di questo libro è che Tibaldo fa spesso parlare i testimoni oculari: valorosi partigiani che a diciott’an- ni proprio da Jacopo furono spinti alla militanza; compagni di sventura a Mauthausen; semplici conoscenti.
In qualche caso si tratta di documenti scritti dai protagonisti, ma in altri casi si tratta di apposite interviste: a dire il vero, esse sono i testi che leggiamo con maggiore emozione.
3 Seiffredo Colucci ha dialogato con Lombardini nei momenti cruciali della sua vita: la conversione e la Resistenza. Le testimonianze scritte del pastore Co- lucci sono di grande valore per una piena comprensione dell’animus di Jacopo.
4 Questo amore traspare anche in alcuni romanzi di Lombardini: soprat- tutto ne La croce ugonotta (Torre Pellice, 1943). Ma chi è stato suo allievo non dimenticherà mai il “tono” con cui Jacopo accompagnava gli studenti a visitare i «luoghi storici valdesi»: Pradeltorno, Chanforan, la Ghieisa d’la tana, la Gia- navella, Sibaud.
Il libro di Tibaldo ha però anche un altro versante: inqua- dra la vicenda di Lombardini nel contesto del valdismo «anni Trenta», esponendo ampiamente le tesi del Viallet5. Apparten- go al gruppo di responsabili che ha approvato la pubblicazione di questo libro, e non me ne pento. A distanza di 25 anni mi permetto tuttavia qualche nota marginale, che aggiungo alle ri- serve critiche espresse da Tibaldo: è vero, i valdesi (e gli altri evangelici) non sono stati proprio coraggiosi come gli amici di Daniele nella fornace ardente6, ma vivevano in un momento in cui autorevoli osservatori dichiaravano che quella fornace non era poi tanto calda, oppure la trovavano addirittura interessan- te: tali erano per esempio Bernard Shaw, secondo il quale «l’one- sta dittatura fascista è meglio dell’ipocrita democrazia inglese», ed Emmanuel Mounier che tornava entusiasta da un congresso di giovani fascisti tenuto a Roma. A questi sublimi ingegni mi permetto di contrapporre Enrico Tron, pastore di San Germano Chisone e membro della Tavola valdese: Pietro Arca “appunta- to” dei carabinieri, aveva l’incarico di chiacchierare spesso con il pastore per farlo “cantare”. Tron aveva infatti fama di antifasci- sta filoinglese e aveva tenuto ostinatamente chiusa la sua chie- sa il giorno della proclamazione dell’impero fascista (9 maggio 1936). In paese c’era però un’altra chiesa, che aveva accolto il corteo dei labari fascisti… sfavillante di luci. Ma il pastore non “cantò” e invece l’appuntato Arca sposò un’evangelica e divenne poi, con la sua famiglia, membro fedele della chiesa valdese di Ivrea. La storia, come la vita, è infatti piena di imprevisti che non è il caso di trascurare.
Condivido invece una tesi che Viallet riprende da Mastro- giovanni ed è l’aperto antifascismo del giovane teologo Vittorio Subilia: il suo coraggio è stato confermato da recenti pubblica-
5 J.P. VialleT, La chiesa valdese di fronte allo Stato fascista, Torino, Claudiana, 1985.
6 Daniele 3,1-30.
zioni7 e rimane un monito per noi che viviamo in tempi quasi egualmente difficili.
Quest’anno corre il centesimo anniversario della nascita di Subilia: quando ricorderemo la sua (fondamentale) attività di pastore e di teologo, cercheremo di ricordarci anche del suo co- raggio civile.
Ringraziamenti
Si ringraziano Giorgio Bouchard, Sergio Coalova, Donatella Gay Rochat e Giulio Giordano per i suggerimenti dati alla stesura del libro.
Per la documentazione iconografica il nostro ringraziamento va a Sergio Benecchio, Marcella Gay, Anna Pennisi della Biblioteca comu- nale di Carrara, e Letizia Tomassone, pastora della Chiesa evangelica di Carrara.
INDICE
Prefazione di Giorgio Bouchard 7
La pietra della miseria 17
Con Garibaldi e Mazzini 33
L’immensità della fede 51
Una fede concreta 61
Le Valli della libertà 83
La fragilità dell’anima 99
Uno sperone roccioso 115
La collina della morte 137
La memoria dei giusti 155
Bibliografia essenziale 175
Indice dei nomi 179
SCHEDA. Jacopo Lombardini (1892-1945)
Di Agenzia NEV
Lorenzo Tibaldo il viandante della liberta-
Jacopo Lombardini nasce il 13 dicembre 1892 a Gragnana, frazione di Carrara, e viene ucciso nel campo di concentramento di Mauthausen il 25 aprile 1945, in una camera a gas, insieme ad altri giovani deportati, partigiani ed ebrei.
Figlio di Francesco Lombardini e Assunta Mussetti, Jacopo cresce in una famiglia poverissima di cavatori di marmo. Finite le elementari, Lombardini vuole continuare gli studi, che poi è costretto a interrompere, riuscendo tuttavia a ottenere la licenza magistrale. Studia inoltre per alcuni anni alla Facoltà di teologia di Roma, che abbandona nel 1924.
Dotato di una memoria prodigiosa, Lombardini è il maestro per antonomasia. La sua passione di educatore lo accompagnerà sempre, insieme alla sua straordinaria preparazione letteraria e storica. Il suo primo volume in rime esce quando Lombardini ha 16 anni, è quindi letterato, poeta, predicatore, scrittore. Scrive Giorgio Bouchard nella prefazione alla biografia “Il viandante della libertà“, curata da Lorenzo Tibaldo per Claudiana: “In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pensati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia”.
La fede, anzi la “conversione” come da lui stesso definita, è arrivata nella vita di Lombardini con un sermone ascoltato nella chiesa metodista di Carrara. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni. Il sermone è del pastore valdese Seiffredo Colucci, che quel giorno sostituisce il pastore titolare.
Del metodismo, prosegue Bouchard, il Lombardini “predicatore locale, evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscriminata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali. La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impegnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi”.
La sua figura “rimane nel nostro cuore – come in quello di centinaia di partigiani, lavoratori, di studenti – come la parabola di una dialettica coniugazione tra fede evangelica e responsabilità politica, tra pietà e razionalità, tra fragilità dell’uomo e forza delle idee, tra sconfitta personale ed efficacia storica, in una parola: una vita vissuta unicamente per grazia, la vita di un discepolo di Gesù Cristo” scrive, sempre Bouchard, nella prefazione al volume “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Claudiana). In questo libro, ormai fuori catalogo, sono raccolte anche le trascrizioni di parti dei “Quaderni” di Lombardini. Tre “diari”, uno probabilmente affidato al defunto professore Samuele Tron, pubblicato dopo la guerra. Il secondo, rimasto sepolto sotto terra per molti mesi, poi restaurato dalla Biblioteca nazionale di Torino. Il terzo trovato addosso a Lombardini il giorno della cattura, usato dai suoi aguzzini per gli interrogatori e poi ritrovato a Pinerolo dai partigiani della divisione Val Chisone dopo la Liberazione. I Quaderni presentano e raccontano la Banda partigiana, gli aforismi, le storie, gli attacchi, le spedizioni, i bombardamenti, i compagni e le compagne di lotta.
9 aprile 1928, Bocca di Magra. Jacopo Lombardini fra i soci dell’Associazione Cristiana dei Giovani (ACDG), il corrispettivo italiano della Young Men’s Christian Association (YMCA). Immagine tratta dal libro “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Ed. Claudiana).
Nel 1915 Lombardini si iscrive al Partito repubblicano. Mazziniano convinto (in casa si affianca la croce al ritratto di Mazzini), scoppiata la Prima guerra mondiale, Lombardini inizialmente si dichiara interventista. Pronto ad affrontare anche la morte, viene riformato più volte e poi arruolato in fanteria. A giugno 1918, in virtù delle sue doti intellettuali, viene nominato propagandista e trattenuto al comando, praticamente senza mai entrare in trincea. A seguito della morte improvvisa del padre, rientra a Carrara poco prima della fine della guerra. Gli anni ’20 sono per Lombardini gli anni della conversione, ma anche quelli in cui il fascismo lo estromette dall’insegnamento per via delle sue opinioni politiche. Nel 1940 si trasferisce a Torino, diventa membro della Chiesa valdese e viene assunto come maestro nel Convitto valdese. Nel 1943 aderisce al Partito d’Azione e si unisce poi alla lotta partigiana. Partigiano disarmato, con il nome in codice di “Professore”, la sua lotta di Resistenza si esprime come commissario politico, continuando sia la predicazione evangelica sia la contro-informazione antifascista. Viene catturato nel rastrellamento del 24 marzo 1944 in Val Germanasca, dalle SS tedesche e da fascisti italiani. Lombardini è brutalmente torturato insieme a Giancarlo Levi, Emanuele Artom, Silvio Rivoir, Mariano Palmery e altri. Da Bobbio Pellice viene trasferito al carcere di Torino, poi a Fossoli, a Bolzano e il 5 agosto viene deportato al Campo di concentramento di Mauthausen, dove sopravvive per diversi mesi. Viene ucciso il 25 aprile 1945, proprio nel giorno della Liberazione.
Nel dopoguerra viene conferita la Medaglia d’argento alla memoria di Jacopo Lombardini, “Uomo di cultura e patriota di sicura fede fu, subito dopo l’armistizio, animatore infaticabile della lotta di liberazione in Val Pellice e in Val Germanasca, conosciuto ed amato dai giovani che andava ammaestrando nella fede alla Libertà ed alla Patria. Caduto in mani tedesche nel corso di un duro rastrellamento e crudelmente seviziato, manteneva contegno elevato ed esemplare affrontando sempre con cristiana serenità il duro calvario dei campi di concentramento. Barbaramente suppliziato chiudeva l’esistenza nel servizio dei più nobili ideali.”
Il 21 aprile 2023, su iniziativa di una classe del Liceo valdese di Torre Pellice e in collaborazione con altre realtà e istituzioni, viene scoperta una pietra d’inciampo in sua memoria.
A Lombardini sono state intitolate, fra l’altro, una scuola e il Centro Jacopo Lombardini di Cinisello Balsamo, prima “comune“, poi centro promotore di attività educative, culturali e di integrazione.
Mario Luzi-Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi-
A cura di: Baioni Paola, Savio Davide-Edizioni di Storia e Letteratura – Roma
Mario Luzi-Un viaggio terrestre e celeste
A cent’anni dalla nascita di Mario Luzi, il volume curato da Paola Baioni e Davide Savio ricorda la figura del grande poeta raccogliendo una serie di interventi che ne indagano l’eredità, tuttora viva e operante sulla letteratura italiana. È soprattutto l’ultima stagione dell’opera luziana, quella “paradisiaca”, a porsi come centro dell’attenzione: sotto l’insegna di Frasi nella luce nascente, Luzi ha sviluppato un coerente percorso di ricerca, che mirava ad approssimare i «fondamenti invisibili» dell’esistenza, secondo i modi dell’interrogazione e della lode a Dio. Pur consapevole della finitudine del linguaggio, Luzi ha intessuto un discorso frammentario ma aperto alle manifestazioni dell’essere, tale da trasformare la poesia in epifania, l’enigma in kerigma. Oltre a ospitare i contributi dei maggiori studiosi di Luzi, il volume è impreziosito da sette scritti dispersi, taluni inediti, reperiti da Stefano Verdino, e dalla riproduzione di alcune carte del taccuino che ospita i lacerti embrionali di un’opera epocale, Nel magma, esaminati da Daniele Piccini. È presente inoltre una sezione di Testimonianze, dove i poeti stessi raccontano Luzi: Milo De Angelis, Franco Loi, Guido Oldani, Silvio Ramat, Davide Rondoni e Cesare Viviani recano un tributo di amicizia e di riconoscenza all’uomo e al maestro, faro insostituibile nelle acque agitate del Novecento.
Edizioni di Storia e Letteratura
via delle Fornaci, 38
00165 Roma
tel. 06.39.67.03.07
Edizioni di Storia e Letteratura
Fondate da don Giuseppe De Luca, le Edizioni di Storia e Letteratura diedero alle stampe il loro primo volume nel 1943. In un periodo tragico della storia italiana, durante il quale era però anche giunta a maturazione l’esigenza di un profondo rinnovamento culturale, De Luca intendeva tener «alta l’indagine storica e letteraria, e risollevare erudizione e filologia», convinto che solo l’attenta ricognizione di tutte le testimonianze e il rigoroso accertamento dei fatti avrebbero potuto promuovere una corretta valutazione del patrimonio sia di ambito civile sia di ambito religioso. Da qui il carattere distintivo delle Edizioni, con un catalogo imperniato sulle scienze umanistiche dove da sempre convive con la voce e la scrittura dei ‘maestri’ la ricerca dei giovani studiosi, a cominciare da Lo scrittoio del Petrarca di Giuseppe Billanovich.
Rilevate negli anni Novanta del secolo scorso da Federico Codignola, le Edizioni di Storia e Letteratura hanno tenuta fissa la prua sulla rotta di un’editoria che si sostanzia di ricerche di valore e rigorosa attenzione al libro, portando la barca con i dolia – il simbolo della casa editrice – a navigare sicura nelle acque per certi versi ignote del nuovo millennio. Il catalogo mantenuto sempre vivo, ben oltre i termini usuali nello scenario editoriale odierno, spazia dalla filologia classica e umanistica alla storia medievale, moderna e contemporanea, dalle scienze documentarie alla filosofia, dalla storia delle religioni alle letterature europee; si distingue per l’attenzione alla memorialistica, per le nutrite collane di carteggi – da Croce e Palazzeschi a Prezzolini, Sturzo e Ungaretti – e per le edizioni nazionali di pregio – Svevo, Tozzi, Verri, Vico, Marino.
La tradizione esemplificata nei nomi degli autori presenti nella collana maggiore – Billanovich, Campana, De Sanctis, Dionisotti, Kristeller, Momigliano tra gli altri – e dalle collane di ampio respiro create da De Luca – Letture di Pensiero e d’Arte, Sussidi eruditi, Temi e testi – si rinnova nei progetti degli ultimi anni avviati con la collaborazione di prestigiose istituzioni culturali, ma anche come contributo indipendente ad un’auspicabilmente viva editoria di cultura. Così, a completare un percorso, sono nate la collana di filologia e letteratura greca Pleiadi e la riproposizione della celebre serie dei Papiri Greci e Latini; a colmare una lacuna è sorta Biblioteca del XVIII secolo. Alle tradizionali collane in anastatica della casa editrice si sono affiancate le Edizioni Gobettiane che ripropongono al lettore contemporaneo l’intero ‘catalogo’ dell’intellettuale-editore torinese. Per un pubblico più ampio, invece, Civitas raccoglie testi brevi e pregnanti corredati da nuove introduzioni. Bites inaugura un nuovo percorso che ambisce a portare rigore filologico ed edizioni critiche nel campo dell’open access e dell’editoria digitale.
Infine, in anni recentissimi argomenti ha aperto la casa editrice alla ‘varia’ con una collana orientata in primis alla storia del pensiero e alla memorialistica, mentre Ricerca filosofica si propone come il contenitore che mancava per la filosofia contemporanea.
Nasce nel 2023, in concomitanza con l’ottantesimo anniversario delle Edizioni di Storia e Letteratura (1943-2023), Il tempo ritrovato. Destinata ad un pubblico ampio e non specialista, per la prima volta dalla fondazione, la collana apre le porte ad opere di narrativa mai pubblicate in Italia. Accoglie anche saggistica e recuperi dal catalogo storico, in una nuova veste grafica. Non si configura come una serie tematica, ma come un cantiere aperto che restituisce al lettore un nuovo tempo, autentico e non misurabile: il tempo della coscienza e della riflessione. Le Edizioni di Storia e Letteratura continuano così la loro navigazione spinte dallo stesso spirito di libertà, alieno ad ogni preclusione ideologica e culturale.
Nazionale e internazionale nei Quaderni del carcere
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe giungere all’internazionalismo solo passando attraversando la tappa intermedia del nazionalismo; in presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe, in effetti, anacronistico, antistorico e persino contrario alla cultura nazionale.
Articolo di Renato Caputo -Come fa notare Antonio Gramsci, gli Stati subalterni non sono in grado di portare avanti una politica autonoma sul piano internazionale e finiscono, così, per divenire pedine delle grandi potenze [1]. Più in generale, ogni analisi della politica di un paese non potrà, dunque, prescindere dai rapporti delle forze internazionali, ovvero dalla posizione occupata in un sistema egemonico che rende più o meno effettuale l’indipendenza e la sovranità nazionale. Sebbene la struttura sociale di un paese determini la sua posizione nel contesto internazionale, quest’ultima reagirà a sua volta “sulla vita economica immediata di una nazione” (13, 2: 1562). Perciò, come osserva Gramsci, la “differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai diversi rapporti internazionali” (19, 24: 2033).
Nei paesi internazionalmente subordinati la classe dominante tenderà a sfruttare tale situazione dando a credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale. Dunque, come osserva Gramsci, al contrario di quanto l’ideologia dominante vuol dare a intendere, non è il partito internazionalista a subordinare le esigenze nazionali alla politica sovranazionale, ma piuttosto “il partito più nazionalistico, che, in realtà, più che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche” (ivi, 1562-563).
Del resto, uno sviluppo determinato da direttive internazionali, che non muova dalla soluzione dei bisogni nazionali, costituisce un ostacolo allo sviluppo del paese poiché è funzionale “a creare l’equilibrio di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale” (3, 118: 386), ma di un mercato internazionale subordinato agli interessi delle potenze dominanti. La condizione di subalternità di uno Stato non fa che accentuarne la condizione “di arretratezza e di stagnazione” (13, 13: 1574). Persino un grande fenomeno culturale sviluppato sul terreno nazionale, come per esempio il Rinascimento, finisce per essere in tale caso fonte di progresso all’estero dove “è vivo [nelle coscienze] dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità”, piuttosto che in patria “dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca” (3, 144: 401).
La debolezza sul piano internazionale può divenire uno strumento di egemonia della classe dominante che la utilizza per frenare ogni intervento attivo sul piano politico delle forze nazional-popolari (cfr. 19, 24: 2034) [2]. L’ideologia dei ceti dominanti nei paesi subalterni tenderà a giustificare come “«originalità nazionale»” tale condizione di sovranità limitata e di arretratezza “semifeudale” (13, 13: 1575), facendo credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale.
Al contrario le forze progressiste, secondo Gramsci, dovranno favorire l’assunzione delle più avanzate forme di governo sviluppate a livello internazionale [3], quale unica strada, come via maestra per condurre un paese subalterno a una effettiva indipendenza nazionale. Del resto, a parere di Gramsci, il consolidarsi del processo rivoluzionario in un paese può contribuire a creare condizioni internazionali favorevoli che possono contribuire all’espansione della Rivoluzione in paesi in cui le forze progressive sono “scarse e insufficienti di per sé (tuttavia ad altissimo potenziale perché rappresentano l’avvenire del loro paese)” (14, 68: 1730).
D’altra parte la stessa possibilità di un profondo mutamento delle condizioni storico-politiche nazionali è strettamente dipendente dall’“equilibrio delle forze internazionali” (6, 78: 746). A seconda delle fasi storiche esse possono essere di freno o di decisivo supporto alle forze progressive nazionali. È, dunque, indispensabile disporre d’una “forza permanentemente organizzata” in grado di “inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli” (13, 17: 1589). Per esempio, mentre l’arretratezza italiana era in parte dovuta all’essere divenuta terra di conflitto di potenze internazionali, la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche hanno un ruolo decisivo per il nascere della nazione, consentendo il sorgere dell’“interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e ai piccoli intellettuali” (ibidem). In altri termini, il Risorgimento italiano sarebbe impensabile senza “i fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese” che, logorando le forze regressive, “potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti” (19, 3: 1972). È la trasformazione del contesto internazionale che è al fondamento e permette di comprendere il “processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione” (19, 2: 1963). Tuttavia, se nella realizzazione di un evento storico come il Risorgimento “tra l’elemento nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che ha contato di più” (3, 38: 316) il nuovo Stato sarà privo di autonomia politica sul piano internazionale. La mancata partecipazione popolare al Risorgimento rende “meschina” la vita politica italiana sino al novecento e indebolisce “la posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché minato all’interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse” (19, 28: 2054).
Così mentre nelle nazioni in cui vi è stato uno sviluppo organico delle energie nazionali, si proiettano all’esterno in “funzione di irradiazione internazionale e cosmopolita”, ossia in funzione dell’espansione dell’egemonia e del proprio dominio imperialistico, i paesi privi di un tale sviluppo si proiettano all’esterno attraverso un’emigrazione “che non refluisce sulla base nazionale per potenziarla” (12, 1, 1524-525), ma concorre a render impossibile il costituirsi d’una coscienza nazionale e di una salda base nazionale.
Il ruolo subordinato a livello internazionale produrrà l’emigrazione della forza lavoro manuale e degli intellettuali verso le nazioni dominanti, il che rappresenta secondo Gramsci “una critica reale” (2, 137: 272) alla debolezza nazionale della classe alla classe dominante, incapace di adempiere alla propria funzione di direzione nazionale. Ciò ha fatto sì che tanto gli intellettuali, “rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva”, siano andati ad arricchire nazioni straniere col loro contributo, sia che la forza-lavoro nazionale sia andata “ad aumentare il plusvalore dei capitalismi stranieri”, in modo che “questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna” (3, 117: 385).
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe passare all’internazionalismo solo attraversando la tappa intermedia del nazionalismo. In presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe infatti “anacronistico e antistorico” (9, 127, 1190) e persino contrario alla cultura nazionale [4]. Tanto che Gramsci considera il nazionalismo, in un paese come l’Italia, un’“escrescenza anacronistica” nella sua storia, “di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante” (ibidem). Al contrario la missione di civiltà del popolo italiano “è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata” (ibidem).
Note:
[1] Come avviene spesso, Gramsci si serve di esempi tratti dalla storia nazionale e dal principale pensatore politico italiano: “bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non più politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori” Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 658. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Interessante quanto osserva Gramsci sull’importanza del piano internazionale nel risorgimento italiano: “i rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria” (19, 24: 2034).
[3] Come osserva Gramsci: “una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni” (13, 17: 1585).
[4] Come osserva Gramsci a tal proposito: “che il moto nazionale dovesse reagire contro le tradizioni e dare luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non è una reazione organico-popolare. Del resto, anche nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolita, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già esistenti o in processo di sviluppo. Perché un fatto si è prodotto nel passato non significa che si produca nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione italiana nel presente e per l’avvenire non esistono e non appare che siano in processo di formazione. L’espansione moderna è di origine capitalistico-finanziaria. L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato” (9, 127: 1190-191).
Fonte -Ass. La Città Futura-Articolo di Renato Caputo
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