Ilan Pappè-La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati .
Ilan Pappè-La prigione più grande del mondo
di Ilan Pappé (Autore)-Michele Zurlo (Traduttore)
Descrizione del libro di Ilan Pappè-La prigione più grande del mondo-Dopo la sua acclamata indagine sulla pulizia etnica della Palestina avvenuta negli anni Quaranta, il famoso storico israeliano Ilan Pappe´ rivolge l’attenzione all’annessione e all’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, esponendoci la prima critica globale relativa ai Territori Occupati palestinesi. Frutto di anni di ricerche, il nuovo lavoro di Pappe´ rappresenta probabilmente l’analisi piu` completa mai scritta sulla genesi dei Territori Occupati e sulla vita quotidiana all’interno di quella che l’autore definisce, appunto, «la prigione piu` grande del mondo». Pappe´ analizza la questione da molteplici punti di vista: attraverso l’analisi di materiali d’archivio recentemente declassificati, ricostruisce sotto una luce nuova le motivazioni e le strategie dei generali e dei politici israeliani – e lo stesso processo decisionale – che hanno gettato le basi dell’occupazione della Palestina; rivolgendo poi lo sguardo alle infrastrutture legali e burocratiche e ai meccanismi di sicurezza messi in atto dagli occupanti, rivela il modo in cui Israele e` riuscito a imporre il suo controllo a oltre un milione di palestinesi; infine, attraverso i documenti delle ONG che lavorano sul campo e i resoconti di testimoni oculari, Pappe´ denuncia gli effetti brutalizzanti dell’occupazione, dall’abuso sistematico dei diritti umani e civili ai blocchi stradali, dagli arresti di massa alle perquisizioni domiciliari, dal trasferimento forzato degli abitanti autoctoni per far spazio ai coloni al famigerato muro che sta rapidamente trasformando anche la stessa Cisgiordania in una prigione a cielo aperto. Il libro di Pappe´ e` al contempo un ritratto incisivo e commovente della quotidianita` nei Territori Occupati e un accorato appello al mondo perche´ non chiuda gli occhi di fronte ai crimini contro l’umanita` a cui e` soggetta da piu` di settant’anni la popolazione indigena della Palestina.
Bruna Bertolo e Ornella Testori- L’ufficiale in bicicletta-
Editore NEOS- Torino
Il caso di Lucia Boetto Testori rievocato in un libro , L’ufficiale in bicicletta ,dalla figlia Ornella-Particolarmente coinvolgente è quando una figlia racconta la vita dei suoi genitori: in questo libro* è quella di una mamma straordinaria, Lucia Boetto Testori, che fu giovanissima protagonista della Resistenza antifascista nel Cuneese, non solo trasportando sulla sua bicicletta esplosivi, ma come “ufficiale-ispettore”, tenendo i collegamenti tra i partigiani e i dirigenti del Cln di Torino, e compiendo anche imprese rischiosissime con gli Alleati inglesi, paracadutati in aiuto degli “Autonomi” di Enrico Martini “Mauri”, per cui fu insignita di una medaglia di bronzo al Valor militare.
Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta-
Ornella Testori – che nella sua professione si è occupata di biologia e medicina, in particolare quella nucleare, conducendo studi sulla tiroide – rievoca con precisione e anche humour le spericolate azioni di Lucia ragazza, non solo come le ha ascoltate dalla sua viva voce, ma approfondendole con una precisa documentazione, mentre un affresco che inquadra più propriamente gli avvenimenti è presentato nella prima parte del libro, in un’attenta e ampia ricerca della storica Bruna Bertolo e le prefazioni di Luciano Boccalatte e di Nino Boeti.
Fu Frida Malan che mi fece conoscere Lucia, che io vedevo sempre con lei, Bianca Guidetti Serra e Gisella Giambone nelle manifestazioni partigiane, in particolare quando erano invitate a qualche dibattito dai movimenti delle donne, e loro quattro rappresentavano concretamente l’ampio schieramento politico e ideologico della Resistenza: Frida, i “GL” nell’ala socialista, Bianca, quella azionista poi vicina al Pci, Gisella quella garibaldina derivante dal padre Eusebio, ucciso al Martinetto, e Lucia quella liberale degli “Autonomi”. A quel filone di pensiero si riferivano sia Lucia sia il marito Renato Testori – annota la figlia Ornella – e moltissimi antifascisti cuneesi che poi divennero partigiani nelle file degli Autonomi e di “Giustizia e Libertà”: «crociani ed einaudiani, un poco gobettiani», e giustamente polemizza con quella vulgata riduttiva della narrazione «Antifascismo-e Resistenza-solo comunista». Una vulgata, appunto, perché le ricostruzioni storiche fanno giustizia di questa «appropriazione indebita» – come la chiama Ornella – presentando invece un variegato quadro “plurale”.
Con questo intento io intervistai Lucia, nel mio libro dedicato alla vita vissuta di “testimoni della Resistenza”, in particolare delle valli valdesi, che mi onoro di aver conosciuto personalmente, costituendo un grande lascito per tutti (“… Eppur bisogna andar…”, Claudiana, 2006). Serbo il ricordo di una signora elegante, che conservava una serena bellezza, non scalfita dalle dure vicende patite, ma rievocate con misurata passione (l’eccidio di Boves, gli ebrei in fuga dalla Francia chiusi nei vagoni piombati come antefatti dolorosi e choccanti della sua “presa di coscienza”, la disfatta della IV Armata che si rovesciava nel Cuneese), e che raccontava straordinarie vicende, la più straordinaria di tutte quella della “bandiera del Corpo dei Volontari della Libertà” (che infatti dà il titolo all’intervista) che lei portò arrotolata intorno al corpo a Torino, perché doveva sfilare al corteo della Liberazione il 6 maggio 1945. Lucia non poté partecipare al corteo, pare perché il marito Renato Testori non la svegliò in tempo: la bandiera sfilò portata dal partigiano siciliano Vincenzo Modica, “Petralia”, che aveva l’altro braccio al collo, ferito.
Da questa significativa vicenda di “non esserci”, dopo tanto operare e rischiare, inizia simbolicamente quell’occultamento del ruolo delle donne nella Resistenza dal dopoguerra in poi, e l’allontanamento dalla vita politica per farne solo mogli e madri: ci è voluto il ruolo delle storiche femministe degli anni ’70-’80 per riscoprirle. E l’intervista si chiudeva con un amaro ricordo: tanti anni dopo, in una manifestazione del 25 Aprile, Lucia desiderava toccare la bandiera che aveva portato a rischio della vita, ma, decorata di medaglia al valore, la bandiera era scortata con tutti gli onori, e Lucia non poté avvicinarsi. Questo epilogo segna simbolicamente il percorso di tante donne oscure, dimenticate, che invece hanno combattuto “senza armi” come Lucia, per costruire il nostro presente: Senza il lavoro delle donne – ho sentito riconoscere da tanti partigiani – la Resistenza non avrebbe potuto sopravvivere.
* Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta. Torino, Neos, 2023, pp. 127, euro 17,00.
Articolo di Piera Egidi Bouchard-
Fonte Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Paola Agosti,Benedetta Tobagi-Covando un mondo nuovo-
-Giulio Einaudi editore-
Il libro di Benedetta Tobagi e Paola Agosti-Questa splendida raccolta di fotografie degli anni Settanta è il frutto di una selezione a quattro mani di Paola Agosti, autrice degli scatti, testimone e interprete unica di un’epoca, e Benedetta Tobagi, che ora ridà loro voce, con grande immediatezza e piglio narrativo, raccontandoci quella che è stata definita la sola rivoluzione riuscita del Novecento, ovvero quella delle donne. All’alba del decennio l’Italia è un Paese plurale, dove convivono ragazze in minigonna e signore nerovestite con lo scialle in testa, battagliere avvocate e altrettanto battagliere operaie e contadine. Plurali sono anche le anime del movimento femminista, sia per i diversi rapporti che intrattengono con i vari partiti sia per quale ritengono la sfera giusta su cui concentrare gli sforzi. A Roma la via prediletta è quella dell’azione politica, a Milano prevale il tentativo di liberarsi attraverso i gruppi di autocoscienza. Nonostante le differenze, però, le grandi lotte del decennio vengono portate avanti a ranghi uniti, in primis quella per il diritto all’aborto. Oltre a illustrare e narrare tutto questo, Agosti e Tobagi trasmettono l’incredibile vitalità e creatività del movimento delle donne negli anni Settanta, che si manifestano negli slogan, come quello che dà il titolo al libro, nei pupazzi che portano ai cortei, nelle pratiche di self help e nei girotondi. La gioia di una stagione dirompente che ha conquistato alcuni dei diritti di cui godiamo oggi, una fonte di ispirazione tuttora valida.
Paola Agosti, Benedetta Tobagi-Covando un mondo nuovo
«Tenere insieme liberazione individuale e collettiva, l’impegno per una profonda trasformazione ed evoluzione personale e al tempo stesso per un cambiamento radicale della società, per renderla piú giusta, aperta, umana, perché l’una e l’altra cosa possono accadere davvero soltanto insieme: è una nota di fondo che dagli anni Settanta si è travasata nel femminismo intersezionale contemporaneo, e mi pare possa essere uno degli elementi piú preziosi che il movimento delle donne porta in dote al XXI secolo».
Benedetta Tobagi- Pavia – L’autrice di Covando un mondo nuovo parteciperà all’incontro Una liberazione individuale e collettiva, alle ore 21 presso il Collegio nuovo (via Abbiategrasso, 404). Conduce l’incontro Marina Tesoro. L’incontro si tiene in presenza e in remoto. È obbligatoria la registrazione al seguente link entro il 2 dicembre per la partecipazione in presenza; entro il 3 dicembre, ore 18.30 per chi desidera collegarsi da remoto. L’evento è trasmesso anche in diretta Facebook su @collegionuovopavia.
Copia anastatica dell’Articolo scritto da MARIA BELLONCI
per la Rivista PAN diretta da Ugo Ojetti- n°3 del 1935
MARIA BELLONCI-Scrittrice
Biografia di Maria BELLONCI-Nacque a Roma il 30 novembre 1902, primogenita di Gerolamo Vittorio Villavecchia, discendente da una famiglia aristocratica piemontese, e di Felicita Bellucci, di origine umbra. Il padre, professore di chimica, fondatore della chimica merceologica in Italia, dal 1896 al 1934 tenne la direzione del Laboratorio chimico centrale delle gabelle.
MARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro BemboMARIA BELLONCI- Lucrezia Borgia e Pietro Bembo
Breve biografia di Lucrezia Borgianasce a Subiaco il 18 aprile 1480, figlia di Vannozza Cattanei (la donna che rimase al fianco di Alessandro VI per un quindicennio, devota come una moglie morganatica e madre di quattro dei suoi figli: Juan, Cesare, Jofrè e Lucrezia) e di Rodrigo Borgia, poi papa con il nome di Alessandro VI. Si sposa a 13 anni con Giovanni Sforza di Pesaro (il suo abito nuziale vale ben 15.000 ducati) e successivamente a 18 anni, dopo il decreto di annullamento del primo matrimonio, con Alfonso d’Aragona, duca di Bisceglie, fatto uccidere due anni dopo dal fratello di lei, Cesare Borgia, il celebre Valentino. Fra i due matrimoni intesse inoltre una relazione con Pedro Calderon, uomo di fiducia del padre. Anche questo rapporto viene troncato drammaticamente dalla famiglia: prima ferito di spada, Pedro viene poi ritrovato cadavere nel Tevere, mani e piedi legati. In seguito ai nuovi progetti matrimoniali della famiglia Borgia, Lucrezia si sposa con Alfonso d’Este, primogenito del duca Ercole I. Accompagnata da un grande corteo, il 2 febbraio 1502 entra a Ferrara, portando con sé la terribile fama di essere al tempo stesso “figlia, moglie e nuora” del papa Alessandro VI.
Biografia di Maria BELLONCI
di Luisa Avellini – Dizionario Biografico degli Italiani
MARIA BELLONCI
Biografia di Maria BELLONCI-Nacque a Roma il 30 novembre 1902, primogenita di Gerolamo Vittorio Villavecchia, discendente da una famiglia aristocratica piemontese, e di Felicita Bellucci, di origine umbra. Il padre, professore di chimica, fondatore della chimica merceologica in Italia, dal 1896 al 1934 tenne la direzione del Laboratorio chimico centrale delle gabelle.
Gli studi e il matrimonio, 1909-1928
Iscritta nel 1909 alla scuola delle monache del Sacro Cuore, presso Trinità dei Monti – un collegio che le sarebbe rimasto nel cuore come una seconda casa piena di affabili, profonde liturgie – fra il 1913 e il 1921 frequentò il ginnasio-liceo Umberto I. Di questi anni intellettualmente attivi e illuminati dai primi amori adolescenziali rievocò, in una pagina giornalistica datata 3 gennaio 1959, «il senso di vita traboccante dei miei sedici anni per il quale mi pareva d’essere chiusa in una mandorla d’immortalità» (Pubblici segreti, Milano 1965, pp. 110 s.1). Ma una formazione interiore importante è attribuita nei suoi ricordi anche ad alcune frequentazioni ambientali, come S. Maria Maggiore: la basilica a pochi passi dall’abitazione familiare, in via Farini, le offriva «il linguaggio narrativo dei mosaici» e la contemplazione di «cadenze espressive» che suggerivano un «neorealismo storico» (ibid., 30 agosto 1959, p. 173).
Nel corso degli anni Venti si presentarono due eventi biograficamente decisivi: la stesura di una prima prova narrativa – il romanzo Clio o le amazzoni (1922) – e l’occasione di sottoporre quella prova d’apprendistato al giudizio di Goffredo Bellonci, illustre critico militante d’origine bolognese, nonché in quegli anni redattore del Giornale d’Italia. Il lavoro, giudicato promettente ma acerbo, non vide mai la luce; ma la relazione allieva-maestro che s’instaurò con Bellonci, più anziano di vent’anni, generoso di consigli di lettura e di presentazioni ai letterati romani, sfociò nel fidanzamento (1925-27) e quindi nel matrimonio, celebrato l’11 agosto 1928. «Quando ci sposammo, lui mi fece lezione sui classici per anni […]. Sono stata cresciuta da lui per scrivere», confessò anni dopo (intervista a Giorgio Torelli, in Epoca, 4 marzo 1973).
La biografia di Lucrezia Borgia, 1929-1939
Il 7 luglio 1929 uscì, sulle colonne del Popolo di Roma, l’articolo Letture di fanciulle: primo di una serie di interventi pubblicati due volte al mese nella rubrica «L’altra metà», dedicati al tema della donna nella vita sociale e nella storia, un dato della biografia intellettuale che situò precocemente la questione critica dello specifico e personale femminismo di Maria. Qualche mese dopo (marzo 1930) l’illustre filologo e accademico d’Italia Giulio Bertoni, imbattutosi in un elenco di gioielli di Lucrezia Borgia, affidò alla già appassionata indagatrice di fonti il compito di studiare il documento per darne conto all’associazione di Studi romani. La descrizione delle gioie borgiane – in particolare quella dell’armilla recante inciso un distico di Pietro Bembo – aprì all’aspirante scrittrice nuovi orizzonti: i tempi inquieti e il profilo chiaroscurale della figlia di papa Alessandro VI, tramite il medium degli oggetti che la ornarono, si imposero come esigenza di studio storico approfondito e di racconto biografico, in un percorso di letture e di ricerche archivistiche svolte fra Roma, Mantova e Modena, che si protrasse dall’inverno del 1930 fino al 1937.
Nel frattempo Goffredo Bellonci aveva informato Arnoldo Mondadori dell’attività in corso e si avviò così la trattativa per la pubblicazione del lavoro. Alla curiosità dell’editore, fece riscontro la lettera di Maria: «Si tratta di un’opera alla quale lavoro da due anni assiduamente: ho voluto seguire la vita veramente straordinaria di questa donna sui documenti del tempo, numerosissimi, sparsi in tutti gli archivi di’Italia. Ho avuto la fortuna di trovare molte cose inedite che mi permettono di ricostruire questa vita con una novità di prospettiva che, credo, stupirà tanto quelli che sono avvezzi a vedere nella Borgia il simbolico fiore del male, quanto quelli che addirittura vorrebbero fare di lei un innocente fiorellino sbattuto dalla tempesta» (Milano, Fondazione Mondadori, Arch. storico Arnoldo Mondadori editore, Carteggio Maria Bellonci 1932-1968: 5 novembre 1932).
Nel marzo 1933 l’autrice firmò il contratto per la pubblicazione e nel 1935 si apprestava alla consegna, ma una serie di difficoltà editoriali rinviò la programmazione fino alla primavera del 1938 quando finalmente, dopo aver accettato a malincuore la richiesta di alcuni tagli, congedò il suo lavoro per la stampa.
Nel Piccolo libro delle consolazioni segrete (Fondazione Bellonci), un diario tenuto fra 1936 e 1937, si trova conferma di un dato importante, documentato dagli studi di Ilaria Calisti (2008, Appendice) e di Luisa Avellini (2011): la nascita di un’amicizia profonda, corroborata dall’interesse comune per i destini femminili, e in particolare per il diritto delle donne all’affermazione intellettuale, e sfociata in un insistito scambio intellettuale, con Anna Banti (Lucia Lopresti, moglie di Roberto Longhi). Dalle lettere di quest’ultima (della corrispondenza fra le due scrittrici restano solo le sue lettere, poiché Banti distrusse quelle di Bellonci con molti altri documenti verso la fine della vita), come anche dal Diario breve 1938-1943 (conservato anch’esso presso la Fondazione Bellonci) si evince che, ricevute dall’editore le bozze della biografia borgiana nel luglio 1938, lo scrittoio di Bellonci vide spesso la vicinanza informata e partecipe dell’amica.
Lucrezia Borgia e il suo tempo uscì nella primavera del 1939, con successo di pubblico e traduzioni in tedesco, ungherese e spagnolo. In luglio vinse il premio Viareggio ex aequo con Arnaldo Frateili (per Clara fra i lupi, Bompiani) e Orio Vergani (per Basso profondo, Garzanti). Il cammino dell’opera prima continuò sul binario delle ristampe e delle nuove edizioni con revisione dell’autrice, come quella del 1960, rivista e arricchita di numerose illustrazioni, ma soprattutto quella del 1974 nella collana «Scrittori italiani e stranieri» (SIS) sotto gli auspici di Vittorio Sereni, che avendo già accolto nella stessa collana una seconda edizione de I Segreti dei Gonzaga, sollecitava l’autrice a sottrarre anche il primo libro dal genere storiografico per sottolinearne la valenza narrativa.
Il secondo romanzo storico, 1941-1947
La rinnovata spinta creatrice che portò all’uscita nell’immediato dopoguerra de I Segreti dei Gonzaga (Milano 1947 e 1971) si muoveva in parallelo con le revisioni di Lucrezia. In questa fase, nello sguardo di Bellonci ormai sistematico sul Rinascimento e via via più solido e acuto, il profilo di Isabella d’Este – già vivido e plasticamente antagonista della Lucrezia Borgia del 1939 – ascese, nella sezione dei Segreti a lei riservata (Isabella fra i Gonzaga), al ruolo di comprimaria, per assurgere a quello di ‘fantasma’ di primo piano nel successivo impegno narrativo.
Anche per il trittico sui Gonzaga, come era accaduto con i gioielli di Lucrezia, lo spunto narrativo nacque da situazioni visuali, in particolare nella sezione Ritratto di famiglia condotta sulla contemplazione degli affreschi della Camera degli Sposi di Andrea Mantegna, ma anche per Isabella fra i Gonzaga con le visite pressoché medianiche all’appartamento della marchesa nel castello di Mantova. Si trattava di interrogare oggetti, profili pittorici, ambienti per trarne quasi il calco che l’intelligenza, la sensibilità, il più intimo carattere di una figura del passato vi avevano impresso.
Nella corrispondenza con Mondadori del 1941 Bellonci, segnalando l’uscita del Ritratto di famiglia nel numero di febbraio de La Lettura, dava notizia di una proposta di Bompiani, per aderire alla quale chiedeva l’autorizzazione al suo editore. Bompiani si diceva disposto a raccogliere il Ritratto in un volumetto illustrato, aggiungendovi anche lo scritto in corso di stesura dedicato all’appartamento di Isabella d’Este nel castello di Mantova, proposta forse sostitutiva dell’epistolario di Isabella che Bellonci avrebbe dovuto curare e che veniva rinviato per la chiusura dell’Archivio Gonzaga. Lo studio dell’appartamento e la lettura già avviata delle lettere della marchesa portavano dunque in primo piano negli interessi dell’autrice l’antagonista di Lucrezia, tanto che l’anno successivo trattò con Mondadori la stampa del libro organico cresciuto intorno al Ritratto con la gran parte delle tre sezioni (la terza era Il duca nel labirinto dedicata a Vincenzo Gonzaga) già pronte.
Tramite la preziosa documentazione epistolare dell’Archivio mondadoriano emerge, pur nel difficile passaggio della guerra e del primo dopoguerra vissuto dai Bellonci a Roma e nelle oscillazioni di umore di Maria connesse a una depressione strisciante, l’affollarsi di progetti nella mente della scrittrice, come il più volte preannunciato lavoro sulla Fine degli Este studiato per anni e poi abbandonato o come il progetto di un libro su Vespasiano Gonzaga di Sabbioneta accarezzato fino alla morte e mai realizzato.
Nel frattempo però un’altra brillante idea le aprì un nuovo fronte di attività e di notorietà: le riunioni di letterati che dal giugno 1944 erano divenute un’abitudine domenicale (gli ‘Amici della domenica’) di casa Bellonci si trasformarono nel 1946, con la partecipazione economica di Guido Alberti produttore del liquore Strega, nella struttura del premio letterario italiano più celebrato, dotato di un inusuale sistema di valutazione affidato a una votazione pubblica a due turni spettante all’intero gruppo di ‘Amici’.
La prima sessione del premio Strega, nell’estate del 1947, cui Bellonci per correttezza non presentò I segreti dei Gonzaga, vide vincitore Tempo di uccidere di Ennio Flaiano su una rosa di partecipanti di altissimo livello, fra i quali Alberto Moravia con La romana, Vasco Pratolini con Cronache di poveri amanti, Cesare Pavese con Il compagno, Anna Banti con Artemisia. Nella stessa estate, con i Segreti, Bellonci sfiorò la seconda affermazione al premio Viareggio, andato infine alle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci.
Narratrice senza limitazione di genere, 1951-1972
Nella seconda metà degli anni Quaranta le condizioni economiche precarie indussero Bellonci, come molti intellettuali del tempo, a impegnarsi in traduzioni di romanzi stranieri e in attività giornalistiche, proseguite peraltro per tutta la vita (da menzionare, per qualità e successo, le versioni dal francese dei Racconti di Stendhal, 1961; della Signora delle camelie di Dumas figlio, 1970; dei Tre moschettieri di Dumas padre, 1978; del Viaggio al centro della terra di Verne, 1983). Ma dal 1951, con la rubrica radiofonica Scrittori al microfono, iniziò anche una proficua collaborazione con la Rai, che dalla radio approdò poi nei decenni successivi alla televisione, passando per l’impegno nel Terzo Programma con l’appuntamento mensile delle ore 21 La donna e il secolo nel 1952, il ciclo di trasmissioni, sempre del Terzo Programma, intitolato Milano viscontea (1953) di cui pubblicò per la ERI i testi nel 1954, il programma Racconti di viaggio del 1955-57, fino alla rubrica «Taccuino» consistente nella lettura di un testo nell’intervallo di un concerto, che proseguì continuativamente sul Terzo Programma dal 1959 al 1974. Senza dimenticare la partecipazione, con l’Intervista impossibile a Lucrezia Borgia interpretata da Anna Maria Guarnieri, alla serie radiofonica delle «Interviste immaginarie» del 1974.
A fronte di un successo professionale costante, gli anni Cinquanta riservarono a Bellonci inquietudini private. Nel 1952 il marito venne licenziato dal Giornale d’Italia: la solidarietà del mondo della cultura e l’intervento di Alcide De Gasperi, cui Bellonci si era rivolta, procurarono all’anziano critico bolognese un nuovo impiego sulle pagine del Messaggero, ma la sua salute risentì del trauma con il primo manifestarsi dei disturbi cardiaci che lo avrebbero condotto alla morte nell’agosto 1964.
Al principio degli anni Sessanta, l’aspirazione a essere riconosciuta come narratrice senza limitazione di genere letterario aveva incontrato la chiaroveggenza critica di Giacomo Debenedetti, allora docente incaricato di letteratura moderna e contemporanea all’Università di Messina. In un intervento tenuto in un convegno a Positano nel 1961 Debenedetti – che frequentava con la moglie Renata il salotto degli Amici della domenica dal 1946 – si assunse l’impegno di parlare dell’opera di Bellonci mentre era in gestazione il terzo libro: un nuovo trittico di racconti, che sarebbe stato edito nel 1972 sotto il titolo di Tu, vipera gentile.
Secondo l’attitudine di intuizione prospettica propria delle letture critiche di Debenedetti fin dal 1961, il dato emergente fu che, in controtendenza rispetto a quanto il pubblico continuava ad attendersi da lei, «Maria Bellonci è intenta a un lavoro segreto» (cfr. Debenedetti, [1961], p. 9). Sembrava che la grande «trasparenza pubblica» dell’autrice, che in questa fase si confessava a diari e taccuini e diffondeva opinioni, interviste e polemiche, fosse un modo per «difendere il segreto dell’altro lavoro». «Ci si domanda» – concludeva Debenedetti – «se Maria Bellonci […] non abbia ora, nella sua più intensa maturità di scrittrice, il dubbio di avere solo giocato alla libertà». Ha ricevuto finora ordini dalla storia, e la tentazione ora può essere quella di «lavorare senz’ordini […] d’essere lei insomma a crearsi la trama delle sue storie con la stessa disponibilità con cui finora ne ha foggiato la forma vitale». Forse è giunto il momento per lei di sostituire ai romanzi ottenuti resuscitando la storia altri romanzi che «raccontino il possibile anziché riavverare il già accaduto» (ibid., pp. 10 s.). Debenedetti, scomparso prematuramente nel 1967, non ebbe la possibilità di verificare che il segreto del «romanzo romanzo» avrebbe dato il suo frutto migliore nell’ultimo lavoro di Bellonci: il racconto di se stessa narrato in prima persona da Isabella d’Este.
Lo ‘schianto’ della morte di Goffredo, vittima di un infarto fulminante il 31 agosto 1964, mentre era ospite nella villa dei Mondadori in occasione del premio Viareggio, costituì uno spartiacque nella vita e nella scrittura.
Il trauma venne lentamente riassorbito. Bellonci prese a occuparsi dell’Istituto internazionale per la storia del teatro fondato da Goffredo a Venezia nel 1963, accettò di condurre per Il Messaggero la rubrica «Pubblici segreti» che mantenne fino al 1970 (tali interventi sono apparsi postumi col titolo Pubblici segreti 2, Milano 1989, per cura di Anna Maria Rimoaldi, che aveva curato anche Segni sul muro: racconti, articoli ed elzeviri 1944-70, ibid. 1988), dette alle stampe sotto il titolo di Pubblici segreti alcuni scritti usciti su Il Punto fra 1958 e 1964 (ibid. 1965), e costituì infine nel 1966 l’Associazione Goffredo Bellonci. Nella citata intervista a Giorgio Torelli per Epoca del 1973, a quasi dieci anni dalla scomparsa del marito, del superamento della crisi diede lei stessa la valutazione più consona: «Ho portato con me questa privazione di Goffredo in quello che faccio. E credo si avverta, nei miei scritti, tanta disperazione umana».
La frequentazione assidua della Rai e l’attenzione per le possibilità dello strumento televisivo furono in questo periodo all’origine di un incontro che si rivelò determinante per il futuro della vita e dell’opera della scrittrice: la conoscenza nel 1965 – in occasione della proiezione dello sceneggiato televisivo di tre racconti di Grazia Deledda, George Sand e George Eliot – con Anna Maria Rimoaldi che ne aveva curato la regia. Di formazione scientifica – era laureata in matematica e statistica – la nuova amica, appassionata di teatro ed esperta dell’ambiente della produzione televisiva, divenne collaboratrice di fiducia di Bellonci che la nominò poi anche sua erede ed esecutrice testamentaria.
Nello stesso tempo, sembra fra il 1969 e il 1970, s’interrompeva il lungo e duraturo sodalizio con Anna Banti: probabilmente per dissensi innescati da valutazioni opposte su lavori letterari, per reciproche delusioni o, complessivamente, per il logorarsi inevitabile di un legame intenso e prolungato proveniente però da stagioni tramontate.
Dalla Rai giunse intanto (1969) la proposta di una sceneggiatura televisiva dedicata a Isabella d’Este: un lavoro che, con la collaborazione costante della Rimoaldi, occupò quasi sette anni e migliaia di pagine, senza mai pervenire alla messa in onda. Nel frattempo Bellonci pubblicò sempre con Mondadori Come un racconto gli anni del Premio Strega (Milano 1971: già apparso nel 1968 nella collana del Club degli editori dedicata alle opere vincitrici del premio e diretta da lei stessa) e, poco dopo, Tu, vipera gentile.
Gli archivi mondadoriani permettono una precisa ricostruzione della vicenda ideativa del nuovo trittico nel quale emerge, a fianco del racconto eponimo che rielaborava Milano viscontea uscito nel 1954 presso la ERI e di Soccorso a Dorotea aggiunto nel 1971, il taglio innovativo di Delitto di Stato, la cui stesura era stata avviata nel 1955, ma protratta per problemi esterni (come la sospensione da parte di Mondadori di un assegno mensile concordato in precedenza) e interni: di carattere esistenziale (i tentativi di curare una depressione ricorrente; la mancanza dell’incoraggiamento di Goffredo a proseguire il lavoro), ma anche legati alle esigenze narrative (secondo la testimonianza postuma di Rimoaldi, soprattutto la difficoltà di «proseguire il racconto con il linguaggio cancellieresco dello Striggi […] quasi raffreddato dal calcolo politico»: cfr. E. Ferrero, Note ai testi, in Opere, II, 1997, p. 1513).
Nel febbraio 1962 Delitto di Stato era uscito in una prima stesura sulla rivista Pirelli diretta da Vittorio Sereni. Circa dieci anni dopo, durante l’inaugurazione a Mantova del Teatro scientifico del Bibbiena, un incontro occasionale con un lettore appassionato alla vicenda riaccese la facoltà creativa di Bellonci, decisa alla fine a superare ogni difficoltà stilistica facendo narrare la storia dal giovane Paride. Tu, vipera gentile giunse in libreria nell’ottobre 1972, nella collana mondadoriana SIS.
La soddisfazione per il successo fu oscurata fra 1973 e 1974 dalla grave malattia e poi dalla morte della madre, cui nel decennio successivo si aggiunsero i lutti per il fratello Leo, deceduto nel marzo 1979, e per la sorella Gianna, morta dopo una prolungata malattia nel marzo 1983.
Il romanzo capolavoro, 1976-1986
Mentre, nel corso del 1976, si palesava il fallimento per problemi economici del monumentale sceneggiato su Isabella d’Este – un’amarezza cocente per la scrittrice – giunse però dalla Rai la proposta di sceneggiare in due puntate Delitto di Stato, per la regia di Gianfranco De Bosio. Con l’appoggio di Anna Maria Rimoaldi e in un’amichevole sintonia con il regista, Bellonci consegnò nella primavera del 1977 il copione, partecipò con grande interesse alle riprese svolte a Mantova nell’estate del 1980, con un cast eccellente (Sergio Fantoni, Remo Girone, Eleonora Brigliadori); non mancò infine nel gennaio 1982 alla presentazione a Londra del film televisivo in occasione della mostra sui Gonzaga allestita al Victoria and Albert Museum.
Già da due anni era peraltro immersa in un arduo lavoro commissionato dalla ERI per la ricostruzione del testo originale del Milione di Marco Polo da codici antichi francesi, italiani e latini. L’impresa doveva fiancheggiare l’uscita dello sceneggiato diretto da Giuliano Montaldo prevista per il novembre 1982: il testo vide infatti la luce in giugno. Si era aggiunta poi nel 1981 l’ulteriore richiesta della Rai di trarre un video novel dalla sceneggiatura di Montaldo, ritrascrivere cioè in forma romanzata un film televisivo secondo un’abitudine angloamericana inusuale in Italia. Non occorre sottolineare come tutte queste attività di scrittura di fatto sperimentali, del resto praticate in prospettiva drammaturgica anche nella sceneggiatura abbandonata del film televisivo progettato per Isabella d’Este, offrissero a Maria motivi tecnico-stilistici di riflessione, l’aprirsi di nuove ‘zone poetiche’ che sollecitavano risposte nuove, pur nel quadro costante della sua raffinata attenzione per lo strumento linguistico del narratore, quella lingua italiana la cui «fluidità senza bastioni di regole fisse rende possibili tutti gli ardimenti, tutti gli scorci, tutti i moti» (Pubblici segreti, 1965, p. 136). Cosicché, quando Montaldo (1983) la invitò a rileggere i sette copioni della sceneggiatura isabelliana, riprese vigore l’ipotesi, già presente nelle sue agende del 1976, di far confluire il lungo e inutilizzato lavoro in un romanzo, che tuttavia sembrò in competizione, nella progettazione creativa di Bellonci ormai ultraottantenne, con il fantasma di Vespasiano Gonzaga, anch’esso presente a intermittenza nella ricerca documentaria e nelle prove di scrittura dell’autrice.
Fu Isabella d’Este ad avere la meglio, e nell’accanito lavoro del 1984-85 prese forma il capolavoro di Bellonci, Rinascimento privato (Milano 1985), il racconto di Isabella che, in prima persona, mette in scena se stessa e la propria vita con il controcanto delle dodici lettere (senza risposta ma mai distrutte e spesso rilette) di Robert de la Pole.
L’invenzione dell’ecclesiastico inglese, ammiratore segreto della marchesa, fu un’intuizione del febbraio 1981, a seguito di una lettera del giovane prete canadese André Desjardins studioso del Rinascimento, ammiratore e corrispondente di Bellonci: dalla missiva, in cui il giovane si scusava per aver tenuto nascosto senza una precisa ragione il sacerdozio nell’incontro romano di anni prima, la scrittrice prelevò direttamente l’inizio della prima lettera di Robert a Isabella.
Il romanzo apparve sulla metà di aprile 1985. Un coro di amici l’anno dopo convinse Maria a presentare finalmente un ‘suo’ romanzo al ‘suo’ premio Strega. Ma era destino che, il 4 luglio, la sua Isabella dovesse vincere sola.
Maria Bellonci, cedendo a un male incurabile, era morta infatti a Roma, poche settimane prima, il 13 maggio 1986.
I suoi scritti sono stati riuniti nei due «Meridiani» Mondadori delle Opere, I-II, a cura di E. Ferrero, Milano 1994-97.
Fonti e Bibliografia
Milano, Fondazione Mondadori, Arch. storico Arnoldo Mondadori editore, Carteggio M. B. 1932-1968; Roma, Fondazione Bellonci: M. Bellonci, Piccolo libro delle consolazioni segrete 1936; Diario breve 1938-1943.
Debenedetti, M. B., presentazione di M. Forti, Milano s.d. [ma 1961]; A. Banti, I pubblici segreti. Appunti, in Paragone, XVI (1965), ottobre, pp. 137-139; M. Grillandi, Invito alla lettura di M. B., Milano 1983; V. Branca, B., M., in Diz. critico della letteratura italiana (UTET), a cura di V. Branca, Torino 1986, ad vocem; E. Ferrero, Introduzione, in M. Bellonci, Opere, I, cit., pp. XI-XXXVI; G. Leto, Cronologia, ibid., pp. XXXIX-LXXII; L. Serianni, La prosa di M. B., ovvero la ricerca dell’acronia, in Studi linguistici italiani, XXII (1996), pp. 50-64; M. Onofri, Introduzione, in M. Bellonci, Opere, II, cit., pp. XI-XLIV; V. Della Valle, L’italiano «d’autrice» di M. B., ibid., pp. XLVII-LXXII; M. Simonetta, M. B., Manzoni e l’eredità impossibile del romanzo storico, in Lettere italiane, L (1998), pp. 248-263; S. Roush, Isabella inventrix. History and creativity in M. B.’s «Rinascimento privato», in Italica, LXXIX (2002), pp. 189-203; G. Antonelli, La voce dei documenti nella scrittura di M. B., in Narrare la storia: dal documento al racconto, a cura di T. De Mauro – N. Fusini, Milano 2006, pp. 95-112; I. Calisti, Per il romanzo storico di mano femminile nel Novecento: lo sguardo sul Rinascimento di Anna Banti e M. B., tesi di dottorato, Università degli studi di Bologna, 2008; Id., «La maestosa armonia di un tempo senza tramonti»: la ‘plenitudo temporis’ romana in «Rinascimento privato» di M. B., in Fra Olimpo e Parnaso. Società gerarchica e artificio letterario, a cura di F. Pezzarossa, Bologna 2008, pp. 193-224; L. Avellini, Gli orologi di Isabella. Il Rinascimento di M. B., Bologna 2011
Fonte Enciclopedia TRECCANI online. di Luisa Avellini – Dizionario Biografico degli Italiani
Roberto Fineschi-Italo Calvino è stato marxista. In memoriam .
Ass. La Città Futura -Roma
Italo Calvino
Italo Calvino è stato un grande intellettuale comunista e marxista. Se nella seconda fase della sua vita si allontanò da quelle posizioni, permanevano tuttavia importanti linee di continuità che permettono di ricondurlo nell’alveo di quella tradizione filosofica, politica, civile e morale.
Presento qui, in occasione della ricorrenza del centenario della nascita e in forma estremamente schematica, alcune idee che sto sviluppando in uno studio di carattere organico sulla “filosofia” di Italo Calvino che uscirà l’anno prossimo.
Italo Calvino, sanremese cui “capitò” di nascere a Cuba, è stata una figura di intellettuale tra le più grandi della storia italiana recente, tra i pochi con un ampio respiro internazionale e universalmente apprezzato per originalità e profondità. Viaggiatore del mondo, parigino di adozione, ebbe notoriamente forti legami con il territorio toscano: oltre a morire infaustamente proprio a Siena nel 1985, amò profondamente il litorale prossimo a Castiglion della Pescaia, scenario di alcune delle sue opere; vi passò per molti anni l’estate nella sua residenza immersa nella pineta di Roccamare e scelse la cittadina toscana come luogo per la propria sepoltura.
ITALO CALVINO
Al di là della memorialistica locale, mero pretesto per avviare il discorso, è altro il ricordo che vorrei rievocare. Se sempre viene a ragione ricordato il periodo della sua militanza politica diretta come membro del Partito Comunista Italiano – interrotta con le dimissioni del 1957 in seguito ai fatti ungheresi e alla timidezza con cui il PCI procedeva con la destalinizzazione -, meno frequentemente tale esperienza viene collegata a ragioni teoriche e filosofiche – oltre che, ovviamente, pratiche – che lo spinsero a questa adesione e che restarono vive ben al di là del fatidico ‘56. Queste ragioni spingono a sostenere – questa la tesi – non solo che Calvino sia stato e rimasto comunista nell’arco della sua vita, ma che le sue posizioni possano essere identificate come “marxiste”, ovviamente intendendo con questo termine una adesione in senso ampio ad alcune linee di ragionamento derivate da Marx, sulle quali, pur mutando accenti e priorità, non ha mai cambiato idea. Ancora più arditamente credo si possa sostenere che, dieci anni prima della “crisi del marxismo” degli anni Settanta, Calvino ne avesse anticipato i tratti di fondo oggettivi e soggettivi e pure i vicoli ciechi di alcuni dei suoi esiti; ne trasse conseguenze pratiche coerenti dal suo punto di vista, con una sospensione di giudizio che non significò affatto fine della ricerca o assenza di posizionamento critico-intellettuale; si trattò piuttosto di una epochè attiva, inquirente, pungolo costante volto a stimolare la realtà per rendere visibile l’invisibile, dire il non detto. Credo si possa affermare che, in questo senso, non ci fosse intento più realistico del suo interesse per l’utopia e il mondo fantastico-invisibile.
In questa ricerca, che inizialmente pare prendere vie completamente diverse, si riannodano linee di continuità che paiono a me evidenti: il paradigma teorico su cui si era basato fino a quel momento non era ritenuto completamente sbagliato, ma insufficiente a pensare l’accresciuta complessità del reale. Se certi aspetti andavano ridimensionati, per altri versi si trattava di ampliarlo, ma a partire da basi non rinnegate. L’esplorazione del complesso reale, anche nella prospettiva di tale ampliamento, è quanto farà nel resto della sua vita. Se da una parte è evidente che nella seconda metà degli anni Sessanta, successivamente alla pubblicazione del saggio L’antitesi operaia[1] e agli sviluppi esposti in Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)[2], Calvino ripensò profondamente le proprie posizioni “filosofiche”, pare però a me, dall’altra, che definire che cosa fosse lo “storicismo dialettico” con il quale fece i conti nel primo dei saggi menzionati sia parte integrante del problema; questa espressione è infatti quanto mai imprecisa e irrisolta ed è difficile stabilire, alla luce dello stato corrente degli studi, in che misura si possa avvicinare a spunti interamente hegeliani o marxiani. Rispetto alle determinanti fondamentali di quelle impostazioni, non ritengo che le linee generali del suo ragionamento deviassero così drasticamente.
Questo “marxismo” di fondo, il legame contraddittorio di esso con il “comunismo” e con lo “stalinismo” e la progressiva distinzione di queste tre categorie è stato il retroterra di molte delle sue riflessioni, anche tarde, che più volte nella maturità lo hanno portato a riflettere sull’esperienza giovanile, sui suoi limiti ma anche sul suo valore. In questa nota, tra i molti, vorrei fare brevemente cenno a un articolo in cui riflette sullo “stalinismo” di quella generazione e dove riprende i termini del discorso dando almeno in parte il senso storico-culturale della continuità/discontinuità del Calvino fine anni Settanta. L’articolo si intitola significativamente con una domanda: Sono stato stalinista anch’io?[3]; a essa Calvino risponde coraggiosamente: “Sì, sono stato stalinista” (2836). Spiega:
“Per molti comunisti di «base» rimasti in attesa dell’ora X della rivoluzione, Stalin era la garanzia vivente che questa rivoluzione ci sarebbe stata […] C’era poi lo Stalin che diceva che il proletariato doveva raccogliere la bandiera delle libertà democratiche lasciata cadere dalla borghesia, e questo era lo Stalin la cui strategia serviva d’appoggio alla linea del partito di Togliatti, e sembrava corrispondere a una prospettiva di continuità storica tra la rivoluzione borghese e quella proletaria” (2836).
Calvino non si nasconde quanto “già” si sapesse su Stalin e confessa la sua reticenza del tempo a darne conto o ad ammetterlo; tutto ciò rientrava nel “pacchetto” Stalin: le possibili linea di divergenza e di criticità rispetto alle purghe e all’autoritarismo vivevano accanto ai principi suddetti senza soluzione di continuità. Nella propria autocomprensione Calvino può dunque affermare: “Tanto il mio stalinismo quanto il mio antistalinismo hanno avuto origine dallo stesso nucleo di valori” (2837). In sostanza:
“Lo stalinismo aveva la forza e i limiti delle grandi semplificazioni. La visione del mondo che veniva presa in considerazione era molto ridotta e schematica, ma all’interno di essa si riproponevano scelte e lotte per far prevalere le proprie scelte, attraverso le quali molti valori che si presumevano esclusi tornavano in gioco” (2839). Insomma: “lo stalinismo si presentava come il punto d’arrivo del progetto illuminista di sottomettere l’intero meccanismo della società al dominio dell’intelletto. Era invece la sconfitta più assoluta (e forse ineluttabile) di questo progetto” (2840).
Questo – oramai consapevole – rapporto contraddittorio emerge anche nell’apprezzamento e nella sostanziale condivisione da parte di Calvino del pragmatismo anti-ideologico staliniano, che però adesso Calvino capisce non essere stato autentico in Stalin, non trattandosi altro che di concessione di monarca, rispetto a una vera concretezza metodologica e pratica.
ITALO CALVINO
Pur con le sue criticità, l’idea di fondo era che l’URSS avesse raggiunto una saggezza suffragata dal travaglio storico della sua realizzazione:
“Proiettavo sulla realtà la semplificazione rudimentale della mia concezione politica, per la quale lo scopo finale era di ritrovare, dopo aver attraversato tutte le storture e le ingiustizie e i massacri, un equilibrio naturale al di là della storia, al di là della lotta di classe, al di là dell’ideologia, al di là del socialismo e del comunismo” (2841).
Ma fuori dal moralismo o dalla semplificazione storica, Calvino ammette che il suo stalinismo, nel bene e nel male, fu un momento di un processo storico complesso con i suoi tratti di necessità e i suoi ristretti margini di consapevolezza e autodecisione. Da ciò conclude il suo intervento con queste affermazioni:
“Se sono stato (pur a modo mio) stalinista, non è stato per caso. Ci sono componenti caratteriali di quell’epoca, che fanno parte di me stesso: non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato o approssimativo. Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi. Non credo a nessuna liberazione né individuale né collettiva che si ottenga senza il costo di un’autodisciplina, di un’autocostruzione, d’uno sforzo. Se a qualcuno questo mio modo di pensare potrà sembrare stalinista, ebbene, allora non avrò difficoltà ad ammettere che in questo senso un po’ stalinista lo sono ancora” (2842).
Il senso profondo di questa riflessione pare a me la consapevolezza non tanto dell’inconsistenza del retroterra filosofico-culturale del comunismo storico, ma quella delle sue insufficienze, dei suoi limiti e del suo necessario ripensamento, ma a partire da capisaldi che sono propri di quel pensiero e che neppure lo spauracchio dello stalinismo riesce a scalfire nel suo profondo. Non solo la legittimità di quella lotta storica comunista è rivendicata, ma anche un approccio metodologico individuale e collettivo e alcuni principi di fondo (razionalismo, storicità determinata, libertà possibile solo nella necessità, contraddizioni storiche, temi che qui posso evidentemente solo rievocare); tutti hanno una matrice marxiana che cercherò di mostrare a suo tempo nello studio annunciato.
ITALO CALVINO
Nella disfatta culturale postmodernista, nel cieco individualismo metodologico e morale dell’ideologia contemporanea, la voce di Calvino risuona come chiaro richiamo a una ben precisa tradizione storica, politica, culturale. Concludo ricordandolo con le sue stesse parole:
“Detto questo, rimango molto legato a certe caratteristiche che sono state l’immagine positiva del comunista, per me, e che mi hanno spinto a identificarmi con quel modello di vita… Lo spendersi per il bene comune, la disciplina interiore, l’affrontare le situazioni difficili, il senso della storia. Anche se oggi mi sarebbe impossibile darmi delle etichette politiche se non molto generiche, mi situo pur sempre in una storia che ha come spina dorsale il movimento operaio»[4].
Note:
[1] Originariamente apparso in “II menabò 7 – Una rivista internazionale”, Einaudi, Torino 1964. Ripubblicato in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 127ss.
[2] Originariamente apparso col titolo Cibernetica e fantasmi in “Le conferenze dell’Associazione Culturale Italiana”, fase. XXI, 1967-68, pp. 9-23; successivamente, in un testo ridotto, col titolo Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in “Nuova Corrente”, n. 46-47, 1968. Raccolto infine in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 205ss.
[3] Originariamente apparso su “La repubblica” del 16-17 dicembre 1979 come contributo di un inserto dedicato al centenario della nascita di Stalin. Ora raccolto in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 2835 ss. (si cita da questa edizione).
[4] Calvino, Il futuro che vorrei vedere, «Nuova Gazzetta del popolo», 23 luglio 1978, p. 2.
FONTE– Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Asmaa Azaizehè una poetessa, interprete e giornalista. Nasce nel 1985 nel villaggio di Daburieh in Galilea, Palestina. Per diversi anni ha lavorato come giornalista per giornali arabi e palestinesi come presentatrice televisiva e speaker radiofonica. Nel 2012 diventa la prima direttrice del museo Mahmoud Darwish di Ramallah. Le sue poesie sono tradotte in oltre 10 lingue.
Gli occhi del merlo.
Il disco della vita mi cadrà presto addosso
Dopo di ciò non accadrà molto
Le persone che desideravo incontrare sono morte
Il paese che sognavo è diventato una canzone rap in una macchina lontana
I cavalli che ho allevato in tenera età mi hanno morso il braccio
E non sembra che stiano mollando la presa.
Ad ogni modo,
il mio calamaio è grande e sembra che non vivrò abbastanza a lungo per svuotarlo.
Le poesie che avrei voluto scrivere le ho cristallizzate nel suo sudario.
E ho insegnato ai polpi che sono usciti dalla mia schiena come come percepire la sua assenza.
Mi siedo sulla la roccia della nostalgia
E aspetto che il vento mi dia forma
E, dunque, diventare un merlo
dagli occhi grandi e profondi
Per vedere il nuovo disco della mia vita.
Forse non ricorderò che sono esistito
Né che questo albero, che diventerà la mia casa, era qualcosa di misterioso, come fosse mio padre.
عين الشحرور
بعد قليل
سيسقط قرص حياتي في حضني
لن يحدث الكثير بعد ذلك
الّذين تمنّيتُ لقاءهم ماتوا
البلد الّذي حلمتُ به
صار أغنية رابْ في سيّارةٍ بعيدة
الخيول الّتي ربّيتها في صغري
عضّت ذراعي
ولا يبدو أنّها ستفلتها
في كلّ الأحوال
محبرتي كبيرةٌ
ولا يبدو بأنّي سأعيش وأفرغها
القصائد الّتي تمنّيتُ كتابتها زججتُها في كفنه
والأخطبوطات الّتي نتأتْ من ظهري
علّمتُها كيف تتلمّس غيابه
أجلس فوق صخرة الشوق
وأنتظر أن تنحتني الريح
فأصير شحرورًا بعينٍ كبيرة
عينٍ كبيرةٍ وعميقة
سأرى فيها قرص حياتي الجديد
ربّما لن أذكر أنّني كنتُ أنا
وأنّ هذه الشجرة
الّتي ستصير بيتي
كانت شيئًا غامضًا كأنّه أبي.
Ninna nanna
Sono stanca di paragonare cose tra loro
E a malapena riesco a vederle per ciò che sono
Anche il gelsomino nel mio giardino è stanco
Un passante ha detto che somiglia ad un campo di cotone
E andò allargando le sue braccia e le sue gambe fino a sfibrarsi
Paragonavo la morte al buio pesto in cui abbiamo perso le chiavi della porta,
Ad un sogno dal quale non ci svegliamo,
Alla vacuità di un idolo per il quale ci umiliamo,
finché mio padre non cadde a terra e morì.
Ebbene la morte divenne morte.
Semplicemente morte.
Sono innocente nella metafora.
Ho paragonato me stessa ad una spiga di grano e ci sono rimasta incastrata,
e da allora Darwin fissa la sua scrivania
Sono innocente nella poesia.
Queste ninna nanna le scrivo per dormire
come amuleti che piego per poi scriverci ancora.
تهليلة
تعبتُ وأنا أشبّه أشياءً بأشياء
فأنا بالكاد أرى الأشياء كما هي
الفلّة في حديقتي تعبت هي الأخرى
أحدهم مرّ وقال إنّها مثل حقلٍ من القطن
فراحتْ تمدّ ذراعيها وقوائمها حتّى تمزّقت أليافها
كنتُ أشبّه الموت
بظلمةٍ سخماءَ أضعنا فيها مفتاح الباب
بحلمٍ لا يقظة منه
بجوف صنمٍ نتذلّل إليه
إلى أن ارتطم أبي بالأرض ومات
فصار الموت موتًا
موتًا فقط
أنا بريئةٌ من التشبيه
شبّهتُ نفسي بسنبلةٍ وعلقتُ فيها
فظلّ داروين، منذها، صافنًا في طاولته
أنا بريئةٌ من الشِّعر
هذه تهليلاتٌ أكتبها لأنام
هذه أَحْجِبَةٌ
أطويها لأعاود الكتابة.
Breve nota biografica di Asmaa Azaizeh
Asmaa Azaizehè una poetessa, interprete e giornalista. Nasce nel 1985 nel villaggio di Daburieh in Galilea, Palestina. Per diversi anni ha lavorato come giornalista per giornali arabi e palestinesi come presentatrice televisiva e speaker radiofonica. Nel 2012 diventa la prima direttrice del museo Mahmoud Darwish di Ramallah. Le sue poesie sono tradotte in oltre 10 lingue.
Pasquale D’Auria è laureando in Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi di Bari, con una tesi sulla letteratura palestinese contemporanea.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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Articolo scritto da Ugo Ojetti per la Rivista PAN n°5 del 1934
Salvatore Di Giacomo nacque a Napoli il 12 marzo 1860, figlio primogenito di Francesco Saverio Di Giacomo, medico abruzzese, e Patrizia Buongiorno, il cui padre insegnava al Conservatorio di San Pietro a Maiella. Dopo aver conseguito la licenza liceale presso il Vittorio Emanuele, frequentò per volere del padre la facoltà di Medicina. Di Giacomo non aveva alcun interesse per gli studi cui era stato indirizzato, tanto che nell’ottobre 1880 abbandonò l’università in seguito a un celebre episodio che egli stesso descrisse sei anni più tardi.
Un giorno, recatosi ad assistere a una lezione di anatomia, rimase nauseato alla vista del cadavere di un vecchio, sul cui volto il professore aveva tracciato «cinque o sei linee di demarcazione», in modo da spiegare la composizione del cranio. Corso fuori dall’aula, si trovò suo malgrado protagonista di una scena raccapricciante: il bidello, che scendeva portando in una tinozza membra umane, scivolò riversando il macabro contenuto, mentre il giovane si diede alla fuga, abbandonando l’edificio di Sant’Aniello a Caponapoli e il percorso accademico. Di Giacomo si sentiva attratto dalla letteratura e dalla critica letteraria. Alleggerito del fardello di studi coatti, poté cercare di realizzare i propri desideri. Si rivolse così al Corriere del Mattino, diretto da Martino Cafiero. La collaborazione cominciò con «alcune novelle di genere tedesco», ispirate principalmente alla coppia Erckmann-Chatrian.[2] Cafiero e Federigo Verdinois, che si occupava della parte letteraria, sospettarono potesse averle tradotte. Di Giacomo fu costretto a scriverne altre per dimostrarne l’autenticità, e al tempo stesso ricevette uno sprone a proseguire nell’attività di novelliere. Dopo alcuni mesi diventò ordinario collaboratore del Corriere, assieme a Roberto Bracco, con cui instaurò una profonda amicizia, e Giuseppe Mezzanotte.[3]
Lasciato il Corriere, passò dapprima al Pro Patria, quindi alla Gazzetta letteraria diretta da Vittorio Bersezio. In seguito andò al Pungolo. Il 21 settembre 1884 perse il padre nell’epidemia di colera che colpì la città. Quell’anno pubblicò per l’editore Tocco la già copiosa produzione poetica in lingua napoletana, che apparve con il titolo Sonetti. Seguirono, nel giro di pochi anni, le raccolte poetiche ‘O Funneco verde (1886), Zi’ munacella (1888) e Canzoni napoletane (1891). Nel 1892 fu tra i fondatori, assieme a Benedetto Croce, Vittorio Spinazzola e altri intellettuali, della nota rivista di topografia e arte napoletana Napoli nobilissima.
Salvatore di GiacomoSalvatore di GiacomoSalvatore di Giacomo
Salvatore di Giacomo-Fonte – Wikipedia- Fonte – Wikipedia-Biografia di Salvatore Di Giacomo (Napoli, 12 marzo 1860 – Napoli, 5 aprile 1934) è stato un poeta, drammaturgo e saggista italiano. Salvatore Di Giacomo nacque a Napoli il 12 marzo 1860, figlio primogenito di Francesco Saverio Di Giacomo, medico abruzzese, e Patrizia Buongiorno, il cui padre insegnava al Conservatorio di San Pietro a Maiella. Dopo aver conseguito la licenza liceale presso il Vittorio Emanuele, frequentò per volere del padre la facoltà di Medicina. Di Giacomo non aveva alcun interesse per gli studi cui era stato indirizzato, tanto che nell’ottobre 1880 abbandonò l’università in seguito a un celebre episodio che egli stesso descrisse sei anni più tardi. Un giorno, recatosi ad assistere a una lezione di anatomia, rimase nauseato alla vista del cadavere di un vecchio, sul cui volto il professore aveva tracciato «cinque o sei linee di demarcazione», in modo da spiegare la composizione del cranio. Corso fuori dall’aula, si trovò suo malgrado protagonista di una scena raccapricciante: il bidello, che scendeva portando in una tinozza membra umane, scivolò riversando il macabro contenuto, mentre il giovane si diede alla fuga, abbandonando l’edificio di Sant’Aniello a Caponapoli e il percorso accademico. Di Giacomo si sentiva attratto dalla letteratura e dalla critica letteraria. Alleggerito del fardello di studi coatti, poté cercare di realizzare i propri desideri. Si rivolse così al Corriere del Mattino, diretto da Martino Cafiero. La collaborazione cominciò con «alcune novelle di genere tedesco», ispirate principalmente alla coppia Erckmann-Chatrian.[2] Cafiero e Federigo Verdinois, che si occupava della parte letteraria, sospettarono potesse averle tradotte. Di Giacomo fu costretto a scriverne altre per dimostrarne l’autenticità, e al tempo stesso ricevette uno sprone a proseguire nell’attività di novelliere. Dopo alcuni mesi diventò ordinario collaboratore del Corriere, assieme a Roberto Bracco, con cui instaurò una profonda amicizia, e Giuseppe Mezzanotte.[3] Lasciato il Corriere, passò dapprima al Pro Patria, quindi alla Gazzetta letteraria diretta da Vittorio Bersezio. In seguito andò al Pungolo. Il 21 settembre 1884 perse il padre nell’epidemia di colera che colpì la città. Quell’anno pubblicò per l’editore Tocco la già copiosa produzione poetica in lingua napoletana, che apparve con il titolo Sonetti. Seguirono, nel giro di pochi anni, le raccolte poetiche ‘O Funneco verde (1886), Zi’ munacella (1888) e Canzoni napoletane (1891). Nel 1892 fu tra i fondatori, assieme a Benedetto Croce, Vittorio Spinazzola e altri intellettuali, della nota rivista di topografia e arte napoletana Napoli nobilissima. Dal 1893 ricoprì l’incarico di bibliotecario presso varie istituzioni culturali cittadine (Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Maiella, Biblioteca Universitaria, Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III). Nel 1902 divenne direttore della Sezione autonoma Lucchesi-Palli della Biblioteca nazionale e dal 1925 al ’32 fu bibliotecario capo. Dopo essere stato escluso dal Senato del Regno in sede di verifica dei poteri[4], nel 1925 aderì al manifesto degli intellettuali fascisti e fu nominato accademico d’Italia nel 1929. Fino al 1903 Di Giacomo aveva goduto di notevole popolarità e pressoché unanimi consensi, ma la sua produzione continuava ad essere segnata dall’etichetta di “poesia dialettale”. Uno studio di Benedetto Croce, apparso quell’anno su La Critica, giovò alla reputazione dell’artista presso i critici e cercò di dissolvere un equivoco frequente. Secondo Croce un autore è innanzitutto poeta, e Di Giacomo aveva dimostrato di eccellere scrivendo in versi. Si era impadronito della poesia tout court, per cui la lingua in cui l’aveva espressa era un aspetto secondario.[5] Francesco Gaeta, citando lo scritto crociano, ne enucleava efficacemente le linee essenziali: «Salvatore Di Giacomo è, sic et simpliciter, un poeta. Quanto all’aggettivo “grande”, esso traspariva dall’intero contesto dello studio».[6] Il 20 febbraio del 1916 sposò a Napoli Elisa Avigliano[7] (Nocera Inferiore, 13 ottobre 1879[8] – 15 giugno 1962[9]). Nel 1930, mentre si trovava in villeggiatura a Sant’Agata sui due Golfi, Di Giacomo fu colpito da un malore dovuto a un disturbo alla vescica. Dopo qualche giorno si riprese ma col passare del tempo il male lo costrinse al riposo assoluto. Morì nella sua abitazione in Via S. Pasquale a Chiaia, nella notte del 5 aprile 1934, all’età di settantaquattro anni. Popolarità Il giornalista napoletano Roberto Minervini, ricordando Salvatore Di Giacomo, scrisse: «Alle trattorie di lusso preferiva nascoste osterie ove tra una pietanza e l’altra rimaneva trasognato, né valevano a ridestarlo le sue canzoni, sonate e cantate per fargli onore dai posteggiatori di quei pittoreschi locali. Non amava Marechiaro, la più celebre di tutte, perché veniva indicato non come l’autore di Ariette e Sunette o Assunta Spina, ma come l’autore di Marechiaro. Il puntuale riferimento lo infastidiva e lo innervosiva: una sera al Gambrinus, abituale convegno di letterati, giornalisti e uomini politici, gli fu presentata una signora che non gli risparmiò il dolore: poco dopo fu visto allontanarsi, salutando appena con un gesto».[10] Emilia Persico Molto chiacchierata la relazione con la celebre cantante napoletana Emilia Persico,[11] e a causa della sua ricerca e originalità linguistica nell’ambito della lingua napoletana, subì attacchi da parte della Accademia dei filopadriti.[12] Era zio del percussionista Gegè Di Giacomo. I successi Le poesie L’esordio dell’autore risale al 1882, quando la casa editrice Ricordi lo mise sotto contratto e fece pubblicare Nannì e E ghiammoncenne me’. Alcuni suoi versi del 1885, non particolarmente amati dall’autore (tanto da non essere inseriti nelle raccolte da lui curate personalmente), sono stati musicati dal compositore abruzzese Francesco Paolo Tosti per quella che resta una delle più famose canzoni in lingua napoletana, Marechiaro, e dal musicista tarantino-napoletano Mario Pasquale Costa di cui ricordiamo anche Era de maggio, in cui due giovani innamorati ricordano il loro primo incontro: a maggio, in un giardino profumato di rose. C’è poi Luna Nova e la spensierata Oilì oilà che irritò i benpensanti milanesi che non si sapevano spiegare il motivo di tanta ilarità in una città appena colpita da gravi epidemie.[13] Aiuto Mario Pasquale Costa, Salvatore Di Giacomo (info file) Menu 0:00 «Oilì oilà». Versione strumentale (LMMS) Aiuto Salvatore Di Giacomo, Enrico De Leva (info file) Menu 0:00 «’E spingule francese» Marechiaro si rivelò un ritratto per questo villaggio tra le rocce di Posillipo, nel quale Di Giacomo immaginò una bella ragazza, di nome Carolina, che si affaccia da una finestra ricca di piante di garofano. Sempre nello stesso anno Di Giacomo e Costa produssero un altro successo, la canzone appassionata Oje Carulì. Nel 1888 pubblicò la scanzonata Lariulà e scrisse la celeberrima ‘E spingule francese, musicata da Enrico De Leva, riproduzione quasi integrale di un canto popolare di Pomigliano d’Arco[14]. Il teatro Fu anche autore di opere teatrali, tra cui Assunta Spina, probabilmente il suo dramma più noto, tratto dalla sua novella omonima, ripetutamente rappresentato e poi adattato per il cinema e per la televisione. Altra opera importante fu ‘O mese mariano, tratta dalla novella Senza vederlo, portata poi in televisione per l’interpretazione di Titina De Filippo. Scrisse inoltre i drammi ‘O voto, tratto dalla novella Il voto, A “San Francisco”, tratto dalla sua collana di sonetti omonima, e Quand l’amour meurt.
Descrizione dl libro di Tanguy Viel- Iceberg –La letteratura, nelle mani degli sciocchi, è intollerabile. La letteratura, tuttavia, ha sempre contato tra le sue fila una parte di miserabili, che prendono in mano la penna solo perché si trovano interessanti. Del resto, come diceva Goethe, «ci sono libri che sembrano scritti non per l’istruzione del lettore, ma per fargli vedere che l’autore sapeva qualcosa». Ed è così che, anno dopo anno, le librerie vengono invase di opere inconsistenti quanto un refolo d’aria.
Tanguy Viel- Iceberg –
Esiste, tuttavia, un esiguo numero di scrittori che si chiedono cosa voglia dire scrivere, a cosa serva e, soprattutto, a chi. Scrittori che non si sentono, a differenza di altri, autorizzati a scrivere. O per cui la scrittura rimane, al di là di tutto, un’attività poetica, un’opera di invenzione e di ricerca con successo irregolare. Attraverso una serie di illuminanti digressioni sulla scrittura e sulla lettura, Tanguy Viel passeggia tra gli scaffali delle biblioteche, si interroga sulla vita degli scrittori e scorge, in ogni pagina letta, la promessa di una risposta alla ricerca che sta svolgendo. Ad accompagnarlo in questo viaggio subacqueo – poiché nei libri veri c’è sempre qualcosa di marino – alcune tra le più
Tanguy Viel
Breve biografia di Tanguy Viel è nato nel 1973 a Brest e vive a Nantes.Ha collaborato con France Culture, ha scritto per numerose riviste. I suoi libri sono: Le Black Note, Cinéma, L’assoluta perfezione del crimine (Neri Pozza 2004), Insospettabile (Neri Pozza 2006, BEAT 2017), Paris Brest (Neri Pozza 2010).
La storia della casa editrice Neri Pozza
Nel 1938, Neri Pozza e i suoi amici, una piccola brigata di «teste calde» tenuta d’occhio dalla polizia fascista, creano a Vicenza le Edizioni dell’Asino Volante. Le edizioni sorgono per uno scopo preciso: pubblicare il primo libro di poesie di Antonio Barolini, che l’avvocato Ermes Jacchia, un eccentrico editore ebreo costretto alla fuga dalle leggi razziali, non può più dare alle stampe. In questo modo, ereditando, cioè, il compito di un editore ebreo vittima della stupidità e della crudeltà dell’epoca, Neri Pozza scopre la sua vocazione d’editore. Una vocazione che, al di là dei due brevi periodi di prigionia nelle carceri vicentine di San Biagio e San Michele per «sospetta attività antifascista», si esprimerà ininterrottamente, dapprima con le edizioni del Pellicano e infine con la fondazione, nel 1946 a Venezia, della Neri Pozza Editore.
La storia di Neri Pozza: Gli anni 50 e 60
Dalla pubblicazione, nell’anno di fondazione, di Peter Rugg l’errante di William Austin fino all’apparizione della Grande vacanza di Goffredo Parise nel 1953, le edizioni Neri Pozza costituiscono una delle più straordinarie avventure intellettuali del dopoguerra italiano. Con una grafica moderna e la collaborazione dei maggiori poeti e scrittori del tempo (Gadda, Montale, Sbarbaro, Luzi, Cardarelli, Bontempelli), Neri Pozza pubblica titoli spesso indimenticabili: La bufera e altro e Farfalla di Dinard di Eugenio Montale, Il primo libro delle favole di Carlo Emilio Gadda, In quel preciso momento di Dino Buzzati, Il ragazzo morto e le comete, il capolavoro di Goffredo Parise scritto quando l’autore non era ancora ventenne. Negli anni Sessanta, Neri Pozza dà vita a una innovativa collana di letteratura americana: «Tradizione americana», diretta da Agostino Lombardo, in cui appaiono autori come Whitman, James, Melville, Thoreau, Emerson, Hawthorne. Saggisti della casa editrice sono Carlo Ludovico Ragghianti, Giorgio Pasquali, Concetto Marchesi, Amedeo Maiuri, Emilio Cecchi, Carlo Diano, figure fondamentali della cultura italiana del tempo.
La storia di Neri Pozza: dagli anni 2000 ad oggi
Nel corso dei decenni Neri Pozza unisce la fedeltà all’impostazione originaria del suo fondatore alla scoperta delle nuove tendenze della narrativa internazionale e nazionale, pubblicando alcuni tra i maggiori bestseller come La ragazza dall’orecchino di perla di Tracy Chevalier, Shantaram di Gregory David Roberts, Annus Mirabilis di Geraldine Brooks, Il Simpatizzante di Viet Thanh Nguyen, Le quattro casalinghe di Tokyo di Natsuo Kirino, I Melrose di Edward St Aubyn, La sesta estinzione del premio Pulitzer Elizabeth Kolbert.
Sotto la direzione di Giuseppe Russo prima, e dal settembre 2023 con l’arrivo di Giovanni Francesio, Neri Pozza ha portato in Italia romanzi di successo come Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton, One Day di David Nicholls, ha riscoperto autori come Michael McDowell (di cui la casa editrice, dopo il successo della serie Blackwater, sta traducendo tutte le opere), e poi ancora autori come Abraham Verghese, che con Il patto dell’acqua ha stregato i lettori, e Barbara Kingsolver, che con il suo Demon Copperhead ha vinto il Pulitzer per la narrativa e il Women’s Prize for Fiction nel 2023, arrivando fino a Triste Tigre di Neige Sinno, il libro vincitore del premio Strega Europeo 2024.
Tra i grandi successi della narrativa italiana si annoverano Due vite di Emanuele Trevi, romanzo vincitore del Premio Strega 2021, e autori e autrici come Denise Pardo, Francesca Diotallevi, Giuseppe Berto, Alberto Riva, Roberto Cotroneo, Eugenio Murrali e Paola Barbato, il cui nuovo romanzo è in uscita ad autunno 2024.
Accanto alla produzione di narrativa, Neri Pozza pubblica anche saggistica – dalla opere di Irvin D. Yalom fino a Splendore e viltà di Erik Larson, passando per i recenti successi di Vittorio Zincone (Matteotti dieci vite), Riccardo Chiaberge (La formula della longevità), di Nathan Thrall (Un giorno nella vita di Abed Salama, vincitore del Premio Pulitzer 2024) e la prestigiosa collana La quarta prosa, curata dal professore e filosofo Giorgio Agamben.
Le collane di Neri Pozza
Il programma della casa editrice si articola nelle seguenti collane: I narratori delle tavole, con le voci più originali della letteratura americana ed europea; Neri Pozza Bloom, contenente le ultime tendenze della letteratura nazionale ed internazionale; Le tavole d’oro, portavoce delle narrazioni del nuovo Oriente; Biblioteca Neri Pozza, collana di novità e riscoperte in edizione tascabile; La quarta prosa, collana di saggi e filosofia diretta da Giorgio Agamben; Neri Pozza Beat, un ampio repertorio di romanzi tascabili; Il tempo storico, diretta da Pierluigi Vercesi; I neri di Neri Pozza, sezione dedicata ai gialli con autori dal successo internazionale come Lisa Jewell, Jean-Luc Bannalec, Pierre Martin.
Il Gruppo Athesis
La casa editrice è una società per azioni e fa parte del Gruppo editoriale Athesis, espressione delle Associazioni Industriali di Verona e di Vicenza. Tra le società di Athesis figurano quotidiani (L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi, La Gazzetta di Mantova), concessionarie di pubblicità (PubliAdige), televisioni (TeleArena, Tele Mantova). Neri Pozza editore costituisce la Divisione Libri di questo Gruppo con l’insieme dei suoi marchi: la casa editrice Neri Pozza e Beat, la Biblioteca degli Editori Associati di Tascabili, la casa editrice di paperback.
Henri Gobard–L’alienazione linguistica- Prefazione di Gilles Deleuze-
Editore –Giometti & Antonello-Macerata
Quarta
Henri Gobard-L’alienazione linguistica-… E dire che ci sono professori d’inglese che parlano inglese per parlare inglese e che così si guadagnano da vivere: siamo a Ionesco! Che d’altronde ha trovato la sua ispirazione geniale in un celebre manuale d’inglese. Questi manuali in fondo ci dicono: prima imparate a parlare, dopo potrete dire qualcosa! Non capiscono nulla del processo di acquisizione del linguaggio: si parla solo se prima si ha qualcosa da dire: SENZA DESIDERIO NON C’È PAROLA.
Risvolto del libro di Henri Gobard-L’alienazione linguistica-Questo pamphlet è una preziosa e avvincente analisi dell’elemento in cui tutti noi, in quanto umani, inconsapevolmente ci muoviamo, e che determina forse più di ogni altra cosa le nostre idee, e quindi le nostre azioni: il linguaggio. Il fuoco della polemica è rivolto in maniera feroce contro l’egemonia della lingua anglo-americana, ma la questione è ben più ampia: come si instaura il potere, in tutte le sue forme, all’interno del linguaggio? In che modo, noi umani, abitiamo il linguaggio, e in che modo possiamo renderci refrattari alle forme di potere che se lo contendono? L’analisi «tetraglossica» di Gobard ci offre nuovi e sorprendenti strumenti per rispondere a tali domande, proponendoci di pensare il linguaggio come un ambiente a più dimensioni, almeno quattro appunto, in cui si dispiega la nostra esistenza fin dai primissimi passi. Tutto ciò in uno stile che si fa beffe della saggistica accademica. Come scrive Gilles Deleuze nella sua prefazione, «Gobard non procede in alcun modo come un comparatista. Procede come un polemista o una sorta di stratega, preso egli stesso in una situazione. Si colloca in una situazione reale in cui le lingue si affrontano concretamente». E ancora: «Gobard ha un nuovo modo di valutare i rapporti del linguaggio con la Terra. In lui ci sono un Court de Gébelin, un Fabre d’Olivet, un Brisset e un Wolfson, che ancora resistono: per quale avvenire di linguistica?».
Nota biografica
Di Henri Gobard sappiamo che fu allievo all’École des Hautes Études, per divenire poi professore al dipartimento di psicologia e di inglese all’Università di Parigi VIII-Vincennes, sin dalla sua fondazione nel 1968. Fu membro fondatore dell’Istituto di ricerche sociolinguistiche (IRSOL). Membro del premio Nietzsche di Taormina fondato dall’associazione internazionale di studi e ricerche su Nietzsche, vi tenne nel 1976 una conferenza sul tema Blake e Nietzsche. Nel 1974 sviluppò presso l’Università di Friburgo un primo modello dell’analisi tetraglossica che avrà compimento nella sua opera qui tradotta. Ha pubblicato due libri: L’alienazione linguistica (1976), La guerra culturale (1978). Il modello di indagine del linguaggio sviluppato da Gobard ebbe una influenza decisiva sulle teorie di Guattari e Deleuze che hanno luogo in Kafka. Per una letteratura minore. I suoi interessi sull’aspetto complessivo della lingua in relazione alla psiche e alla società lo hanno portato all’inizio degli anni sessanta ad interessarsi in un primo momento all’antipsichiatria di Ronald Laing e David Cooper, con cui poi polemizzò nei suoi libri-pamphlet del decennio successivo, nonché a tradurre le opere dell’antropologo e psicanalista Georges Devereux, di cui insieme a Tina Jolas ha curato varie traduzioni di opere presso Gallimard e Flammarion.
Sibilla Aleramo Poesie, lettere a Dino Campana e Biografia-
Sibilla Aleramo
Nota-Quello fra Dino Campana e Sibilla Aleramo fu un amore tanto intenso quanto breve e tormentato. La loro relazione durò poco più di un anno, tra il 1916 e il 1917. La Aleramo era una donna bellissima e una scrittrice già nota (Una donna era uscito nel 1906 suscitando scalpore per la sua impronta femminista); Campana era un uomo solitario, malato, spesso aggressivo. Il loro amore fu disperato e folle, ma necessario.
Sibilla Aleramo Poesie
Ritmo
Ritrovata adolescenza, gioia del colore, occhi verdi di sole sul greto, scheggiato turchese immenso de l’onde, biondezza di cirri e di rupi, rosea gioia di tetti, colore, ritmo, come una bianconera rondine l’anima ti solca.
*
Son tanto brava
Son tanto brava lungo il giorno. Comprendo, accetto, non piango. Quasi imparo ad aver orgoglio quasi fossi un uomo. Ma, al primo brivido di viola in cielo ogni diurno sostegno dispare. Tu mi sospiri lontano: «Sera, sera dolce e mia!» Sembrami d’aver fra le dita la stanchezza di tutta la terra. Non son più che sguardo, sguardo sperduto, e vene.
*
Nuda nel sole
Nuda nel sole per te che dipingi sto immobile, il seno soltanto ritmando la vita gagliarda del cuore. Come un cielo soave d’aurora è per te questa mia forma lucente, un prato un’acqua una solitaria fiorita di petali, tralci di vigna in festività. E adori, e fervente le dolci dita su la tela conduci. Nuda nel sole ed immobile, frammento di natura, ti miro orante ed oprante. Da te invasa da te riassorbita, sei tu che mi divinizzi o la mia divinità è che ti crea, artista, arte, spirito? Tacitamente il seno respira.
*
Sibilla Aleramo
Charità notturna
Chiarità notturna, volo d’ore bianche, disteso cielo, tendo la mia mano che vi stringe, e v’offro, v’offro. Ci veda qualcuno. Non me, ma sola la mia mano che vi tiene, ore fruscianti, grande sereno, spiaggia d’astri.
*
Brucio la mia vita
S’io mi muovo, s’io mi sollevo, tutto svanisce, tutto s’aggela. Ma s’io resto così distesa, gli occhi chiusi, le labbra aureolate di brace, l’ardore della mia palma sul battito della mia gola, io brucio la mia vita, brucio la mia vita, il mio sangue si consuma nelle mie vene, io sento che si consuma solo nel ricordo d’un altro sangue, d’una voluttà data e provata, dell’amore lontano che forse non ritroverò.
*
Morte, m’hai sentita?
Morte, m’hai sentita? Nella notte ti ho invocata, piangendo e fors’anche ridendo per sedurti t’ho chiamata, ultima luce, speranza di due braccia accoglienti, un nome ancora da invocare, morte, madre, sorella, amata, una che mi prenda, una che mi voglia…. Ed eri lontana. Bianca e bella s’io ti pensavo su altri reclina, s’io t’imaginavo intenta a baciar altri, altri certo non più di me dolenti, oppur creature felici, morte, m’hai sentita s’anche non sei accorsa? Nessuno certo t’implorava quanto me, o cara quanto fu cara la vita, e tu chi sceglievi in vece mia? Ma forse, forse da lontano hai trasalito…. E ora non ti chiamo più. Stormi mi ventano dietro la fronte, aliante mondo inespresso del mio pensiero, parole che furono visioni e ch’io ancora non dissi, amore che tutti comprende i ruinati amori e li risolleva…. Verità della mia vita, incompiuta missione che nell’alba mi riappare, ch’era il miracolo, ed io forse l’ho tradita…. E forse, o morte, non venuta al mio richiamo delirante mi raggiungerai nel fervore del ripreso canto, troncherai nella mia gola il canto, un giorno chiaro…. Ch’io mi rammenti allora, ch’io mi rammenti come eri bella, come eri bella questa notte, morte, su le fronti che invece di me baciavi.
*
Sibilla Aleramo
Da Assisi
Sul colle una sta, sola, dinanzi a questo, nodo silente del mondo. Vento scende verde d’argento. Ode respiro d’assenti acque. Cantici cari dissennati ascolta, di sorrisi sorgivi, di baci ariosi, volatili delizie, e le tiene, quasi creature in grappolo, sola ne lo svariar de le luci, fra le braccia o tra l’ali, rondine e sorella, che nulla si sperda di nessuna primavera.
*
In quest’alba
In quest’alba, ricche le vene di melodia e dolenti, che tutti aduno e mesco i desideri eterni, uno, d’una rosa bianca sul cespo, solo m’avanza incontro al giorno, e il giorno è di gennaio, oh giardino che non vedrò!
*
Anche quest’ore
Passeran quest’ore di spasimo come passarono le mille di gioia. O fiore che avrei voluto soltanto baciare, o petto dolce dove imploravo festosamente la morte, ma quest’ore che vivo di strazio son più generose ancora dell’altre gridanti felicità. Mi tendo a te che ho colpito, da lontano mi tendo più pulsante di quando ridevamo nudi nel sole, la fronte più affocata, insaziata. Dono d’angoscia gemente che pur anche si dissolverà, lungo di febbre ansito verso la tua pena…. Tutti i miei capelli per addormirti da lungi!
*
Sibilla Aleramo
Una risata
Una risata. Forse un giorno la sentirò prorompermi dalla gola: giorno di gran sole, risata sopra il mondo, e poi due braccia che mi sollevino ansante verso la prima stella della sera.
*
Sibilla Aleramo
E’ IL LAVORO
OGGI L’AURORA
Entro il mio cuore
la tortura, oh tutta la tortura
del mondo patita
geme ch’io in parole la redima,
e io perdutamente balbetto,
il mio cuore ancora in sé sente
le infinite morti
da uomini inferte a uomini,
gli anni trascorrono
e sempre nel ricordo l’orrore
e sempre l’insostenibile vergogna
e sempre in me il gemito,
vano gemito anziché parole,
e il terrore che anche il più grande canto
vano pur esso sarebbe,
che mai l’ascolterebbe
se nuovamente domani sul mondo
la tortura infierisse
infanzia e vecchiaia insiem cancellando
e tutte le speranze?
Speranza aurora!
Chi guarda ancora l’aurora?
Mio cuore, tu lo sai!
E non è per essa che ancor batti?
Tanti e tanti e tanti,
vicino a te e lontano
ogni dì s’alzano e non armi impugnano,
o forse armi sono,
martelli, vanghe, libri
e vanno con questi lor vivi arnesi,
la terra è tutta un cantiere,
ogni dì è lavoro,
quanto lavoro su la terra intera,
da secoli da millenni
curvo era sino a ieri
ma ora di sé è fiero
s’anche duramente ancor soffre e lotta,
ben saldo nel voler mai più
guerre né torture,
nel volere il mondo
trasformato in fraterno giardino,
oh mio cuore, più non devi gemere,
abbi fede, tu vedi,
è il lavoro oggi l’aurora!
poesia di Sibilla Aleramo
“Le mie mani”
Le mie mani,
ricordando che tu le trovasti belle,
io accorata le bacio,
mani, tu dicesti,
a scrivere condannate crudelmente,
mani fatte per più dolci opere,
per carezze lunghe,
dicesti, e fra le tue le tenevi
leggere tremanti,
or ricordando te
lontano
che le mani soltanto mi baciasti,
io la mia bocca piano accarezzo.
Sibilla Aleramo (da ‘Poesie‘, Mondadori, 1929)
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta “Rina” (Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960), è stata una scrittrice, poetessa e giornalista italiana.
Sibilla Aleramo
lettera di Sibilla Aleramo a Dino Campana
Ecco la bellissima lettera che Sibilla scrisse all’amato:
Villa La Topaia, Borgo San Lorenzo , 7 – 8 agosto 1916
Notte — Possa tu riposare, mentre io ardo così nel pensiero di te e non trovo più il sonno, e sono felice.
M’hai promesso di farti rivedere ancor più bello, mia bella belva bionda.
Come passerai questi giorni e queste notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, riposa.
Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcezza anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta fede, Dino. Mi sento ancora così forte, per questo scambio del nostro sangue.
Sibilla Aleramo
Nota-Quello fra Dino Campana e Sibilla Aleramo fu un amore tanto intenso quanto breve e tormentato. La loro relazione durò poco più di un anno, tra il 1916 e il 1917. La Aleramo era una donna bellissima e una scrittrice già nota (Una donna era uscito nel 1906 suscitando scalpore per la sua impronta femminista); Campana era un uomo solitario, malato, spesso aggressivo. Il loro amore fu disperato e folle, ma necessario.
Sibilla Aleramo,Lettera a Dino Campana, (6 Agosto 1916).
Lo so, è un altra epoca, altro sentire, quì l’umanità si attacca alle tende,si consuma di tisi, assapora attimi persi, è il tempo in cui gli amori erano per sempre perche un solo bacio impegnava metà della vita, ed ogni momento passato insieme era chirurgicamente intagliato nei cuori.
Perché non ho baciato le tue ginocchia? Avrei voluto fermare quell’automobile giù per la costa, tornare al Barco a piedi, nella notte, che c’è il tuo petto per questa bambina stanca. Tornare. Come una bambina, questa del ritratto a dieci anni. Non quella che t’ha portato tanto peso di storie di memorie affannose, che t’ha parlato come se stesse ancora continuando il suo povero viaggio disperato, come se non ti vedesse, quasi, e non vedesse lo spazio intorno, le querce, l’acqua, il regno mitico del vento e dell’anima… Tu che tacevi o soltanto dicevi la tua gioia. Sentivi che la visione di grandezza e di forza si sarebbe creata in me non appena io fossi partita? Nella tua luce d’oro. E non ho baciato le tue ginocchia. I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono il cielo. Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata così lontano. Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu non hai bisogno di me! È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere insieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima. Dino, Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore del miracolo. Non so, ho paura. È vero che m’hai detto amore? Non hai bisogno di me. Eppure la gioia è così forte. Son tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero, son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni? Scrivimi!
Sibilla Aleramo
13 GENNAIO 1960 moriva SIBILLA ALERAMO
Come spesso accade, la sua attività letteraria ha origine da una situazione personale difficile: nel periodo della sua adolescenza la madre, in preda alla depressione e a causa dei conflitti con il padre, tentò il suicidio. Si salvò, ma fu presto internata nel manicomio di Macerata, dove rimase fino alla sua morte.
Un altro fatto fu decisivo per la giovane Maria: a quindici anni subì una violenza sessuale da parte di un impiegato della fabbrica diretta dal padre e presso cui lei stessa lavorava come contabile. Ne scaturì, come era usuale all’epoca e lo sarebbe stato fino al 1981, un matrimonio “riparatore”. La convivenza si rivelò subito insopportabile e nonostante l’amore per suo figlio Walter nato nel 1895, cadde in una profonda depressione, tanto da tentare, come sua madre, il suicidio.
È a questo punto che inizia ad affacciarsi l’attività letteraria come ancora di salvezza. A partire dal 1897 inizia a pubblicare articoli su vari giornali di ispirazione femminista e socialista. A Milano le fu affidata la direzione del settimanale socialista “L’italia femminile”, collaborando con intellettuali come Giovanni Cena, Maria Montessori, Ada Negri e Matilde Serao. Certamente queste attività la portarono ad una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti e ad acquisire il coraggio necessario a lasciare il marito e il figlio per essere finalmente libera.
È in questo frangente che, trasferitasi a Roma e iniziata una relazione con Giovanni Cena, iniziò a scrivere quello che sarebbe stato uno dei primi libri femministi apparsi in Italia. Una donna, questo il titolo del romanzo, fu pubblicato nel 1906 e racconta la sua vita dall’infanzia fino alla decisione di abbandonare la famiglia, in nome di un’emancipazione femminile, ancora troppo spesso negata.
“Come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinchè continui a baloccarsi come nell’infanzia?”
Per Una donna Maria utilizzò per la prima volta lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, che le suggerì il compagno Giovanni Cena, ispirato dalla poesia Piemonte di Carducci («e l’esultante di castella e vigne / suol d’Aleramo», vv. 31-32: Aleramo era il nome di una potente famiglia medievale piemontese).
Da allora questo divenne il suo nome non solo nella letteratura, ma anche nella vita quotidiana.
Terminata la storia con Cena ebbe numerose altre relazioni, anche di carattere omosessuale. Ma fu probabilmente il legame con Dino Campana il più passionale e allo stesso tempo il più tormentato. Fu una storia d’amore e di follia, che precipitò a seguito del disagio psichico del poeta, a causa del quale fu rinchiuso in manicomio. Della relazione abbiamo testimonianza grazie alle poesie che i due amanti si scrivevano e si dedicavano, ma soprattutto grazie alle lettere che si inviavano.
Proprio dalla loro fitta corrispondenza epistolare ho preso questo testo:
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perchè io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Con il nostro sangue e con le nostre lacrime facevamo le rose
Che brillavano un momento con il sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P.S. E così dimenticammo le rose.
Sibilla Aleramo
Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio) nacque ad Alessandria il 14 agosto 1876. Trascorse un’adolescenza molto triste a causa della malattia mentale della madre; ancora giovanissima, fu costretta ad un matrimonio “riparatore” con un collega di lavoro che l’aveva violentata. La nascita del figlio Walter (1895) sembrò portare un soffio di gioia nella sua infelice vita coniugale; tuttavia, non bastò a riempire i vuoti della sua esistenza. Dopo un tentativo di suicidio, Rina cominciò a cimentarsi nella scrittura, nella quale trovò, oltre alla sua vocazione, anche il riscatto dall’esistenza gretta e stereotipata a cui le convenzioni sociali l’avevano sempre costretta.
Su varie riviste – come Gazzetta letteraria, L’Indipendente, Vita moderna, Vita internazionale – pubblicò soprattutto articoli di argomento femminista e socialista: questo suo impegno la portò ad avvicinarsi a Giorgina Craufurd Saffi, con la quale tenne una fitta corrispondenza. Punti nodali del suo impegno per l’emancipazione femminile furono la lotta contro la prostituzione e la campagna per il diritto di voto alle donne; si attivò, in tal senso, per promuovere manifestazioni, sezioni di movimenti femminili ed altre iniziative. Diresse inoltre il settimanale milanese L’Italia femminile,nel quale tenne una rubrica di discussione con le lettrici e ricercò la collaborazione di intellettuali progressisti come Giovanni Cena, Maria Montessori, Ada Negri e Matilde Serao; nello stesso periodo conobbe Anna Kuliscioff e Filippo Turati.
Nel 1901 le tensioni familiari, ormai divenute insostenibili, la spinsero ad abbandonare il marito e il figlio. L’anno successivo si trasferì a Roma, dove si legò sentimentalmente a Giovanni Cena e cominciò a collaborare con la Nuova Antologia. Nel 1906 diede alle stampe il suo romanzo autobiografico Una donna, nel quale descrisse minutamente il suo difficile percorso di vita dall’infanzia fino alla rottura del matrimonio. L’opera mirava ad affermare il diritto di tutte le donne ad una vita libera e consapevole, contro le costrizioni e le umiliazioni imposte dall’ideologia del sacrificio, uno dei valori-cardine della società borghese dell’epoca. In quell’occasione, fu proprio Cena a suggerirle lo pseudonimo Sibilla Aleramo, che sarebbe poi diventato il suo nome nell’arte e nella vita.
Il successo del libro concise con un profondo cambiamento nell’autrice, che rivide progressivamente le sue posizioni sul femminismo. Più che sulla parità fra i sessi, infatti, il suo impegno si concentrò da quel momento in poi sulla rivendicazione e sull’espressione della diversità femminile.
Dopo la fine della relazione con Cena, Sibilla cominciò a condurre una vita errabonda e bohémien; si avvicinò al Movimento Futurista, nonché ad altre avanguardie artistiche e letterarie. Destarono scandalo le sue numerose relazioni amorose; una delle più complesse, quella con Dino Campana, incontrato durante la prima guerra mondiale. Indipendente e anticonformista, Sibilla sfidò non solo la società perbenista del tempo, ma anche molti ambienti intellettuali, che la tennero in dispregio per i suoi costumi sessuali eccessivamente disinvolti.
Nel 1936 sembrò trovare un punto di riferimento stabile in un giovane studente, a cui restò legata per un decennio. Nel secondo dopoguerra, si iscrisse al Partito Comunista Italiano e svolse un’intensa attività politica e sociale, collaborando, fra l’altro, all’Unitàe alla rivista Noi donne. Morì a Roma il 13 gennaio del 1960, dopo una lunga malattia.
Sibilla Aleramo ci ha lasciato una ricca produzione letteraria tra romanzi, liriche, collaborazioni giornalistiche e diari. Tra gli scritti di maggior spicco, oltre al già citato Una donna, i romanzi Il passaggio (1919) e Il Frustino (1932), le raccolte poetiche Momenti (1921), Selva d’Amore (1947) e Luci della mia sera (1956). La sua figura di donna e di artista ha impresso solchi profondi nella cultura e nella memoria: lo testimoniano non solo le tante strade intitolate a suo nome in tutto il territorio italiano, ma anche l’interesse che la sua vicenda ha saputo ispirare a critici, studiosi, scrittori e artisti. Grande, in particolare, è stata nei suoi riguardi l’attenzione del cinema italiano, attraverso le due pellicole Inganni (1985) e Un viaggio chiamato amore (2002).
Le dieci poesie proposte sono tratte da Momenti, prima opera in versi della Aleramo. L’anelito alla libertà vi si esprime in uno stile innovativo, essenziale e nondimeno elegante, che intreccia in modo singolare carnalità e lirismo: una poesia di immagini, tutta fuoco e immediatezza, nella quale elementi del tardo Romanticismo, del Decadentismo e della Scapigliatura vengono rielaborati alla luce della nuova coscienza femminista e antiborghese. Vi si avverte la propensione dell’autrice nei confronti delle avanguardie letterarie, che l’eterogeneità dei temi e la rottura con gli schemi tradizionali della metrica e del verso rendevano congeniali alla sua sensibilità nervosa e al suo anticonformismo.
Donatella Pezzino
Sibilla Aleramo
Sibilla Aleramo
Pseudonimo di Rina Faccio, nasce ad Alessandria il 14 agosto 1876. Presto si stabilisce con la famiglia a Civitanova Marche dove sposa a quindici anni un giovane del luogo.
Nel 1901 abbandona marito e figli iniziando, come lei stessa amava dire, la sua “seconda vita”. Conclusa una relazione sentimentale con il poeta Damiani inizia una vita errabonda che la avvicina a Milano e al movimento futurista, a Parigi e ai poeti Apollinaire e Verhaeren, infine a Roma e a tutto l’ambiente intellettuale ed artistico di quegli anni (qui conosce Grazia Deledda). Durante la prima guerra mondiale incontra Dino Campana e con lui inizia una relazione complessa e tormentata.
Al termine della seconda guerra mondiale si iscrive al P.C.I. e si impegna intensamente in campo politico e sociale. Collabora, tra l’altro, all’«Unità» e alla rivista «Noi donne».
Muore a Roma nel 1960, dopo una lunga malattia. Opere principali: Una donna (1906), considerato il primo libro femminista apparso in Italia; Il passaggio (1919);Momenti (1920); Andando e stando (1920); Amo, dunque sono (1927); Gioie d’occasione (1930); Il frustino (1932); Orsa minore (1938); Dal mio diario (1945);Selva d’amore (1947); Il mondo è adolescente (1949); Aiutatemi a dire (1951); Luci della mia sera (1956).
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