ROMA. Miti greci per principi dauni al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia-
Roma- 21 nov 2024-Al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, alla presenza del Ministro della Cultura, Alessandro Giuli, è stata inaugurata la mostra “Miti greci per principi dauni”, che celebra la restituzione all’Italia di 25 reperti archeologici, tra cui un importante gruppo di vasi apuli ed attici a figure rosse, recuperati nell’ambito di una riuscita operazione di diplomazia culturale condotta con i Carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio Culturale e finora conservati nelle collezioni di antichità classica dell’Altes Museum di Berlino.
Sono intervenuti: la direttrice del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Luana Toniolo; il Direttore generale Musei e curatore della mostra, Massimo Osanna; il Capo Dipartimento per la tutela del patrimonio culturale e curatore della mostra, Luigi La Rocca; il procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Roma, Giovanni Conzo; il Comandante dei Carabinieri Tpc, Gen. D. Francesco Gargaro; il Capo Dipartimento per la valorizzazione del patrimonio culturale, Alfonsina Russo; l’Ambasciatore tedesco in Italia, Hans-Dieter Lucas.
Il progetto espositivo, a cura di Luigi La Rocca, Massimo Osanna e Luana Toniolo, nasce nell’ambito dell’Accordo di cooperazione culturale siglato lo scorso 13 giugno a Berlino tra i Ministeri della Cultura italiano e tedesco, la Fondazione per l’Eredità Culturale della Prussia (SPK) e l’Altes Museum di Berlino.
Grazie a questa intesa, raggiunta a valle di un importante lavoro delle Procure della Repubblica di Roma e Foggia e dei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, oltre che degli uffici del Ministero della Cultura, rientra definitivamente in Italia un importante gruppo di vasi, provenienti dalla Puglia settentrionale, area abitata dall’antica popolazione dei Dauni.
In virtù della provenienza daunia, i materiali torneranno poi in Puglia e saranno assegnati definitivamente all’istituendo Museo di Foggia presso Palazzo Filiasi, all’esito dei lavori di restauro e adeguamento funzionale attualmente in corso e finalizzati alla realizzazione di un museo dedicato proprio alle attività di contrasto al fenomeno dello scavo clandestino e della illecita esportazione di beni archeologici.
Tra gli oggetti in mostra un gruppo di straordinari vasi a figure rosse di grandi e medie dimensioni – ben attribuibili per caratteristiche stilistiche ad alcuni dei ceramografi più noti e prolifici, attivi nella seconda metà del IV secolo a.C., come il Pittore di Dario e il Pittore dell’Oltretomba -, e due vasi attici, prodotti cioè nella regione di Atene, e uno lucano pure appartenenti al rimpatrio da Berlino.
Oggetti di lusso prodotti essenzialmente per essere deposti nelle tombe e decorati con scene mitologiche. Grazie a un allestimento immersivo e accessibile, le opere raccontano la loro storia e quelle degli dei e degli eroi in essi raffigurati.
Il nucleo di reperti compariva nell’elenco di beni trafugati dal noto trafficante d’arte Giacomo Medici, condannato nel 2009 per traffico illecito di beni culturali. In base alle indagini, fu prima acquisito da una famiglia svizzera (collezione Cramer) e poi venduto all’Altes Museum dal commerciante di antichità Christopher Leon, per 3 milioni di marchi nel 1984.
Le opere saranno esposte al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 16 marzo 2025.
Con l’occasione ed in virtù del dialogo virtuoso tra Italia e Germania, è stato avviato un programma di prestiti di opere a lungo termine con lo stesso museo berlinese, grazie alla collaborazione dei Parchi archeologici di Paestum e Velia e del Museo archeologico nazionale di Napoli.
Fonte:
Ufficio Stampa e Comunicazione MiC 21 nov 2024
“Apokopè”: caduta della vocale finale (ed eventualmente della consonante che la precede) di una parola. Da non confondersi, secondo la consolidata, ma inevitabilmente, e forse suo malgrado, apertura a rischi o arricchimenti di contaminazione, grammatica della lingua italiana, con l’“elisione” che si ha quando la vocale finale cade solo davanti ad altra vocale.
Una questione da Liceo classico, essenzialmente, e che appartiene a quella terminologia tecnica, ignota ai più, che definisce i passaggi e i movimenti di un testo, ma anche della lingua parlata, che in effetti “spiegano”, ma sempre, significativamente, “a posteriori”, come è stato costruito un qualunque “discorso”.
Nessuno scrittore, nessun poeta scrive pensando a queste definizioni, a queste che sono infine mere classificazioni di lingue continuamente in divenire, applicate a opere che nascono (o dovrebbe nascere) sotto tutt’altre motivazioni.
In realtà lingua parlata e poesia hanno più di un elemento in comune. Senza scomodare quelle che sono ormai tesi consolidate, secondo cui tutta la poesia che noi chiamiamo “epica”, era essenzialmente orale e come tale tramandata, insieme ad una non ancora abbastanza esplorata e per ora sedicente cultura popolare, basterebbe ricordare che la musicalità in poesia è un canone mai abbandonato, nemmeno quando la poesia stessa si è espressa in versi sciolti (cioè fuori dei dogmi che hanno regolato i versi in rime, senari, settenari, etc.), perché, al pari della musica, quando si vuole uscire da schemi consolidati, non è possibile farlo se non rispettando (ancora!) certi criteri non del tutto, alla fin fine, così aperti.
Ma, senza divagare: come nessun pittore dipinge sulla tela avendo a fianco del cavalletto il manuale di prospettiva o della composizione dei colori (salvo il più che rispettabile “pittore della domenica”, cui dovrebbe essere rivolta l’ammirazione che si deve a ogni persona in cui l’onestà intellettuale domina su ogni altro atteggiamento, e che è serenamente consapevole dei propri limiti), nessuno scrittore e nessun poeta scrive pensando alle regole grammaticali, a quelle della composizione (che qualcuno pretende di insegnare a tavolino), a uno “stile” che, quando è pedissequamente quello del tempo presente, si riduce nel migliore dei casi a un semplice riecheggiare temi che fanno parte di un sempre evanescente streaming, e nel peggiore, di un adeguarsi alla moda del momento, quale che sia.
E allora perché questo titolo dell’appena pubblicato libro di Fosco Giannini?
Ma prima ancora una premessa, non del tutto scontata. Chi conosce le opere dell’Autore proposte nel corso ormai di tutta una vita, sa bene che Giannini, essenzialmente, e per scelta, scrive in quello che possiamo definire in prima battuta, e molto provvisoriamente, il dialetto anconetano, dove il poeta – a parte la nascita in piccolo paese una volta nell’alto pesarese ma oggi passato armi e bagagli alla vicina Romagna – vive, ha lavorato e che lo ha visto impegnato in politica fin dalla prima giovinezza. Come vedremo, questa annotazione non è ininfluente.
Ma, tornando al titolo di questa che è, se non mi sbaglio, la sesta raccolta di poesie, (ma lo dico con assoluto beneficio di inventario). Proviamo a formulare un paio di ipotesi, del tutto gratuite e provvisorie.
La più suggestiva, e perciò, come quasi sempre accade, la più infondata, consisterebbe nell’idea che questa “perdita” dell’ultima consonante sia una sorta di metafora di un’altra, più grave e più fondata perdita: quella cioè di un “finale” possibilmente positivo, e che si configura al contrario, come presa di coscienza di una sconfitta che, passando per le “disavventure” esistenziali dei protagonisti di queste poesie, si allarga poi ad una sorta di sconfitta non tanto generazionale, come forse ci si poteva attendere, ma espressamente di “classe”.
In queste poesie difficilmente si intravede uno spiraglio di luce. Difficilmente in questi versi vengono espressi sentimenti quali felicità, soddisfazione, o quantomeno serenità.
Qui siamo davvero lontani da quel tono un po’ mellifluo che è la cifra di un indugiare a sentimenti un po’ scontati e perfino banali che talvolta ha caratterizzato la produzione poetica di scrittori di sicuro spessore lirico, anche, e starei per dire, soprattutto in ambito dialettale, per quanto “evoluto” esso si sia voluto rappresentare. Ma qui apriremmo un capitolo molto ampio che necessiterebbe di adeguati spazi. (E la speranza, e l’auspicio, è che una cultura esplicitamente di “classe”, prenda prima o poi il coraggio di affrontare una questione che non potrà essere a lungo procrastinabile, pena la totale sparizione di una forma d’arte che ha dimostrato di avere tutte le carte per dare un contributo ad una visione di una società diversa).
Certo, siamo del resto anche lontanissimi da quella tristezza ostentata dei tanti poeti della domenica, questi sì esecrabili, con tutti i loro piagnistei e quelle angosce di facciata.
La sostanza che compone queste opere rimarca in maniera netta la differenza tra un vero poeta come è Fosco Giannini, la cui ultima raccolta è pubblicata da una coraggiosa casa editrice di Senigallia, la “Ventura”, da quella pletora di dilettanti che tali non si sentono, perché il “mercato”, la diffusione di libri di poesie, detta le sue regole in maniera iperegualitaria. Vendite nei canali ufficiali praticamente pari a zero. Diffusione, dunque, al buon cuore di amici e parenti. Uno scenario desolante, e tutto italiano.
Fosco Giannini da sempre (e non si tratta di una esagerazione,) sceglie consapevolmente di essere testimone di atteggiamenti, di modi di affrontare la realtà che appartengono, sostanzialmente, alle classi più deboli, ai diseredati, a quelli che non possono contare che sulla sopravvivenza quotidiana, in qualunque modo essa si presenti.
Siamo di fronte ad un pessimismo che definirei, in prima battuta, “ragionato”. Esso è dunque “oggettivo” e, insieme, più profondo perché più in profondità ne ricerca le cause e le dinamiche. Una scelta che non si può che definire “coraggiosa”, non fosse altro perché si pone nettamente al di fuori di un “senso comune” diventato ormai senza infingimenti, la proposizione delle tesi e dell’ideologia (questa sì ancora ben viva e vegeta) delle minoritarie ma potentissime classi dominanti.
Un’altra ipotesi, solo in apparenza poco rispettosa del dettato del poeta e che comunque rientra nei termini della cosiddetta ‘licenza poetica’, vorrebbe che il termine, il titolo, i suoni (e in poesia, bisogna ribadirlo, il suono conta molto) sia in qualche modo evocatore di culture “altre”, mediterranee in particolari. “Apokopè” evoca un termine greco. E sostanzialmente dal greco deriva, come una quantità di altri termini di cui si è persa la radice e, in qualche modo, il significato profondo.
Non diversamente “Amaladè”, un’altra raccolta di poesie di Fosco Giannini, suona come un termine evocativo di culture orientali, mentre non è altro, ma questo lo rende in qualche modo più significativo, che una semplice e diretta frase di un dialetto (quello anconetano : ‘amala adesso’) di cui è ancora difficile stabilire in che modo sia stato contaminato dalle culture, dai traffici, dalle lingue dei paesi che da secoli stanno dall’altra parte di un Adriatico che non è mai stato tanto grande da dividere, in maniera definitiva, le due sponde.
In questa raccolta di poesie il “dialetto” di Ancona, (torniamo a metterlo tra virgolette perché, come vedremo presto, si presta quantomeno a due versioni, che non sono interpretazioni di una “lingua” ben definita) elimina radicalmente tutti quegli aspetti “tipici” delle culture popolari che fanno sempre la gioia e argomento di quelli che di cultura popolare non sanno e non vogliono conoscere niente. (E, naturalmente, non vi appartengono in alcun modo),
La scelta di Fosco Giannini è chiara e non apre spazi a diverse interpretazioni.
Le espressioni popolari, quelle usate quasi sempre per ridurre e banalizzare problemi più complessi, o strumentalizzate, (rifacendosi ad una presunta e mai definita saggezza popolare), non fanno parte del bagaglio poetico dell’Autore. Queste stesse espressioni, sappiamo come spesso vengono usate per ridurre a “macchietta”, una specie di triste parodia, un pensiero che si immagina “alternativo”, ma che in realtà riproduce pedissequamente le ripetizioni e gli slogan, logori ma in qualche modo efficaci, di una cultura sostanzialmente subordinata.
Qui, in queste poesie, non c’ è traccia di questa “deriva”. Al contrario, il dialetto diventa un modo di riappropriarsi delle radici più popolari, quelle più genuine che non sanno solo “far ridere”, (come nei patetici festival dei vari vernacoli), ma che anzi, e più spesso, usano questo linguaggio che può sfuggire al dominio linguistico dominante per raccontare una realtà “altra”.
È una scelta. Una scelta del resto difficile e, forse, alla lunga, perdente.
Il problema della “lingua da usare” diventa allora il vero tema dirimente, quello su cui la discussione sembra sempre aperta e impossibile da chiudere.
Nelle poesie di Fosco Giannini la scelta è netta.
Ma è netta, e difficilmente contestabile, perché in questo caso l’Autore non si rifà ad una tradizione che usa il dialetto come momento di unificazione, di spirito di appartenenza ad una cultura locale, ma al contrario tenta (e a mio modesto parere ci riesce per la gran parte) di rendere questa “lingua”, non universale ( il che sarebbe un altro modo di appiattire ogni tematica), ma funzionale all’espressione, alla esposizione, verrebbe da dire, di una società altra che sotto traccia, scava ancora e subisce la grande distanza da quelle classi che in qualche modo si sono allineate al pensiero corrente.
Certo, poi le poesie di Fosco parlano anche di amore, di sentimenti complessi, di situazioni amorose complesse, e questo non è altro che logico dal momento che queste situazioni sono condivise e vissute da tutta l’umanità.
La lingua della poesia di Fosco Giannini, è una lingua “a parte”, nel senso che le parole, ultimo grado del discorso, non appartengono, a ben vedere, ad una lingua codificata. Ne inventa una. La libertà che l’autore si prende nell’uso di parole che possono appartenere, talvolta, ma non così raramente, anche ad altri “dialetti”, contaminandoli, è la libertà di chi si muove nel campo, per molti versi inesplorato, della tradizione popolare italiana.
In questo contributo alla lettura del libro di Fosco Giannini, come si può vedere, non ci sono citazioni, non sono presentati brani di poesie che del resto, staccati dal pur piccolo contesto della singola poesia, risulterebbero poco significativi o, che è peggio, darebbero un’immagine alla fine fuorviante. Ogni poesia è evidentemente leggibile da sola, come una frequentazione di un solo momento.
Ma credo che anche questo libro di Fosco Giannini, dal momento che ha un titolo che e raccoglie un numero importante di poesie, sia da considerare come un’opera compiuta e definita. Allo stesso modo importanti musicisti hanno voluto riunire in un’opera ben definita quelle che potevano tranquillamente presentarsi come opere in sé compiute. Penso ai Concerti Branderbughesi di Bach. Anche in questo caso, ogni capitolo può essere letto come un pezzo a sé stante. Ma per comprendere il disegno complessivo ci vuole forse un po’ di pazienza che comunque è completamente ripagata.
Il motivo per cui non ho mai citato neanche un verso delle poesie di “Apokopè” è in quest’ottica. Questo libro va letto come un’opera in cui ogni parte, ogni poesia, sostiene e si completa con l’altra, in un intreccio che crea, appunto, una trama in cui leggere, e neanche tanto in trasparenza, quello che è, nettamente, il punto di vista di Fosco Giannini.
E poi, come segnalare una poesia piuttosto che un’altra se non affidandosi ad un criterio totalmente soggettivo, privo di una logica condivisibile?
Ma siccome Fosco inserisce in questa raccolta una poesia edita in altri tempi, considerandola, in un’ottica insieme politica e musicale, come una sorta di filo rosso, allora vale la pena di citarla, e soprattutto di leggerla:
Come i poeti
Sott’al lavello
è pieno de formighe,
pare che cianne
el fogo al culo
come cercasse un dio badulo;
se move in righe,
ordine de questura,
a caccia de mollighe,
un pezzo de culatello
sortiti dà la spazzatura.
Nero, dietro al detersivo,
‘ppartato che non pare vivo,
c’è el scarafaggio,
da solo per disperazio’,
o per coraggio.
Vie’ dà la starda
del sciacquo’,
el passo de j anacoreti,
dannato senza ragio’,
come i poeti.
(Dalla raccolta “Apokopè”)
Sergio Leoni fa parte della redazione nazionale di “Cumpanis” e del gruppo di lavoro “Arte, Cultura, Comunicazione” del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.
Mattino anconetano
S’enne sveijati i mostri
de le tredici cannelle,
colpi de tosce e spadacci’ de ferri.
Naschene come rospi le prime bancarelle
S’alza el scirocco e il mare
è sale ’nte i polmoni:
aspro è l’odore d’ostrighe
e limoni.
(Dalla raccolta di Fosco Giannini “Borea”. “Mattino anconetano” è dedicata all’opera di copertina di Rodolfo Bersaglia per la raccolta “Apokopè”)
“Apokopè” e il suo dialetto
Poesia dialettale: definizione quanto mai generatrice di equivoci. Ebbi la fortuna di frequentare Franco Scataglini nella metà degli anni ’70, quando ero ragazzo. Sulla scorta di un mio rilevamento (la constatazione e l’analisi di uno strano florilegio della poesia dialettale in ogni provincia d’Italia, in quegli anni) sottoposi a Scataglini una tesi: quella “poesia dialettale”, che in sé avrebbe dovuto essere linguaggio del popolo, in verità era vergata, in grandissima parte, da una “classe” in vasta proliferazione: la piccola borghesia semicolta; una “poesia” distorta e assassinata dagli esponenti più decadenti, annoiati e “bovaristi” delle “professioni”, che utilizzavano il dialetto come una sorta di divertissement e, tutti convinti che quello fosse il linguaggio del popolo (disprezzando, nell’essenza, il popolo), producevano una “poesia” volutamente priva di afflato, spiritualità, universalità, senza ambizione poetica, dunque senza metafora, metonimia, sineddoche. Con un linguaggio povero, rozzo e “volgare” (nella modalità spregiativa che la borghesia ha sempre utilizzato per il volgo), che era quello che la piccola borghesia “poetica” attribuiva al popolo. Scataglini, naturalmente – poiché da tempo e ben prima di me era giunto allo stesso punto analitico – “approvò” la mia tesi. Essendo innamorato dell’infinita musicalità del dialetto e della sua potenza evocativa e avendo, tuttavia, appurato a quale degenerazione un suo utilizzo sbagliato, equivoco e ambiguo potesse portare, seppi sin da subito – coadiuvato da Scataglini e dalle letture innamorate di Pier Paolo Pasolini nella sua ferrigna e risplendente poesia friulana, di Biagio Marin, Franco Loi, Mario Brasu, poeta-pastore sardo, nelle sue liriche contro la guerra e contro l’occupazione della sua Isola da parte della Basi militari Nato, Ignazio Butitta nella sua poesia siciliana di arance, antifascismo e lotte contadine – che cosa fare: utilizzare il dialetto come una lingua alta, come un diverso strumento linguistico dalla lingua italiana, un diverso congegno da essa ma dalle stesse potenzialità estetiche ed evocative. La stessa scelta di uno strumento – dialetto o lingua italiana – che un musicista opera tra il violino e il pianoforte, tra la chitarra e l’oboe. Il dialetto come un utensile per il più alto livello poetico possibile, non come un recinto ideologico-estetico ove far pascere una brutalità di rime bovine. Il dialetto per il firmamento della poesia, non per una caricatura efferata del popolo. Col tempo, per farmi largo nell’incomprensione, tentai di rafforzare, raffinare sempre più la mia argomentazione, giungendo ad affermare che la poesia tout court, essendo una rottura col linguaggio quotidiano, è già di per sé, nel suo determinarsi, un “linguaggio dialettale”. Una forzatura, certamente; ma come cantava Fabrizio De André, un assunto, se non del tutto vero, quasi per niente sbagliato.
(Fosco Giannini)
FONTE-ASSOCIAZIONE La Città Futura C. F. 96440760583 | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Sinossi del libro di Giovanni Ferroni-Il confronto con l’inevitabile modello delle tragedie di Corneille e Racine, le raffinate strategie di seduzione del pubblico, i presupposti filosofici di drammi a lieto fine ma ricchi d’ambasce e poveri di letizia, il rapporto con l’opera coeva di Giambattista Tiepolo e l’influenza postuma esercitata sui libretti di Da Ponte sono l’oggetto dei sei densi capitoli di questo saggio dedicato al teatro di Pietro Metastasio (1698-1782). Davanti al lettore sfilano così personaggi e situazioni drammatiche che danno voce e figura alle aspirazioni profonde e ai temuti fantasmi del Rococò, stagione di una civiltà sospesa fra l’eredità tardo barocca e l’annuncio del travaglio di fine Settecento. Espressi in uno stile personalissimo e capace di assorbire con apparente naturalezza tradizioni letterarie diverse, il desiderio e l’impossibilità della trasparenza del cuore, l’utopia di felicità private e dimentiche dei doveri, l’antinomia fra piacere e verità, fra passioni e ordine razionale, sapranno ancora parlare alla sensibilità dei primi romantici prima d’entrare nel lungo cono d’ombra che ancora offusca la ricezione di questo protagonista della cultura europea del Settecento. Con rigore metodologico e apertura interdisciplinare, grazie a una scrittura tersa, severa adesione ai testi e al costante dialogo con la letteratura critica, questo studio, cui una costruzione progressiva e circolare e la frequenza di richiami interni garantiscono unità nella varietà prospettica, restituisce ora una piena intensità di senso all’opera di Metastasio.
AUTORE-GIOVANNI FERRONI (Firenze 1982) è docente e ricercatore di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Padova. Si è occupato prevalentemente di testi e autori del Rinascimento.
Editoriale Le Lettere Redazione e uffici operativi
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Descrizione del libro di Marco Dalla Torre-Antonia Pozzi (1912-1938), straordinaria voce lirica del ‘900, frequentò intensamente la montagna, traendone ispirazione più di ogni altro poeta italiano. Marco Dalla Torre ne ricostruisce l’attività alpinistica e ne indaga la relativa trasfigurazione poetica, che costituisce una linea tematica fortemente originale all’interno del suo canzoniere. Il testo è completato da una ricca documentazione fotografica inedita.
Breve biografia di Antonia Pozzi, nata a Milano nel 1912, morì suicida nel 1938.Grazie all’agiatezza della sua famiglia, ebbe la possibilità di viaggiare molto in Italia e all’estero e di praticare vari sport, soprattutto l’alpinismo. Nel 1935 si laureò in Estetica con Antonio Banfi e, negli ultimi anni di vita, sviluppò una crescente apertura alla società e alla storia. Le sue poesie sono state pubblicate postume in varie edizioni e traduzioni, accolte tutte con profondo interesse. Una grande attenzione hanno suscitato anche le pagine di diario sopravvissute, le molte lettere e la tesi di laurea. Antonia Pozzi ha lasciato inoltre una consistente produzione fotografica di notevole e ormai ampiamente riconosciuto valore artistico.
Edizione con testo a fronte-Traduzione di Silvia Bre-A cura di Ottavio Fatica
ADELPHI EDIZIONI
Risvolto-Robert Frost-Poesie Fuoco e ghiaccio«Come un pezzo di ghiaccio su una stufa rovente la poesia deve cavalcare il proprio scioglimento». Questa spiazzante formula di poetica racchiude i due estremi del fuoco e del ghiaccio, al centro della visione di Frost come di molti suoi versi – estremi inestricabilmente complementari, di quelli che fanno il tormento e la delizia di critici e lettori. «Ma il bello sta nel modo in cui lo dici» recita un suo verso. Così, dietro i grandi monologhi drammatici espressi in un parlato popolare, come dietro i sonetti e le altre composizioni formalmente ineccepibili da lui predilette – del verso libero diceva che era come «giocare a tennis senza rete» –, c’è sempre qualcos’altro. Qualcosa che ci turba, che ci mette in discussione, e non si lascia domare. Sarà per questo che le sue poesie, anche a leggerle cento volte, manterranno sempre la loro freschezza, continueranno a custodire il loro segreto. In questa vastissima scelta, tratta da tutta la sua produzione, il lettore avrà modo di incontrare il maggiore poeta americano del Novecento, diventato paradossalmente, come tutto ciò che lo riguarda, il più ‘moderno’, forse perché il più refrattario, ingannevole, e a modo suo audace, fra i grandi modernisti. Quello con cui bisogna ogni volta tornare a fare i conti.
In copertina
Robert Frost ritratto nella sua fattoria vicino a Ripton, Vermont. Fotografia di Tom Hollyman. tom hollyman/photo researchers/premium archive via getty images
Nota biografica-Robert Lee Frost (San Francisco, 26 marzo 1874 – Boston, 29 gennaio 1963) è stato un poeta statunitense. È uno dei più noti e importanti poeti americani e fu anche traduttore e drammaturgo.
8 settembre 1943.Da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”
Laterza Editori
da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”-“Eravamo numeri. Non più uomini. Il mio era 7943. Ero uno dei tanti. Mi avevano preso sulle montagne ai confini con l’Austria, mentre tentavo di arrivare a casa, dopo l’8 settembre del ’43. Ci portarono a piedi fino a Innsbruck e poi, dopo quattro o cinque giorni, ci caricarono sui treni e ci portarono in un territorio molto lontano, che a noi era sconosciuto, oltre la Polonia, vicino alla Lituania, nella Masuria, in un lager dove poco tempo prima erano morti migliaia di uomini; gli storici parlano di cinquanta-sessantamila russi. Erano prigionieri, morti di fame
e di tifo. Noi andammo ad occupare le baracche che avevano lasciato libere, nello Stammlager 1-B.
Dopo quattro o cinque giorni, ci proposero di arruolarci nella repubblica di Salo, ossia di aderire all’Italia di Mussolini. Eravamo un gruppo di amici che avevano fatto la guerra in Albania e in Russia. Eravamo rimasti in pochi. Ci siamo messi davanti allo schieramento, e quando hanno detto “Alpini, fate un passo avanti, tornate a combattere!”, abbiamo fatto un passo indietro. Gli altri ci hanno seguito.
E fummo coperti d’insulti, di improperi. Avevamo visto cos’eravamo noi in guerra, in Francia prima, poi in Albania e in Russia. Avevamo capito di essere dalla parte del torto. Dopo qello che avevamo visto, non potevamo più essere alleati con i tedeschi. Perciò da allora fummo dei traditori. Fummo della gente che non voleva più combattere. E ci trattarono come tali. Nell’ordine dei lager venivamo subito dopo gli ebrei e gli slavi; noi che non eravamo nemmeno riconosciuti dalla Croce rossa internazionale. Ci chiamavano internati militari, ma eravamo prigionieri dentro i reticolati, con le mitragliatrici piazzate nelle torrette che ci seguivano ogni volta che ci spostavamo. Abbiamo resistito. Tanti di noi non sono tornati. Più di quarantamila nostri compagni sono morti in quei lager, durante la prigionia. Io ritornai nella primavera del 1945, a piedi, dall’Austria, dove ero fuggito dal mio ultimo campo di concentramento.
Arrivai a casa che pesavo poco più di cinquanta chili, pieno di fame e di febbre. E feci molta fatica a riprendere la vita normale. Non riuscivo nemmeno a sedermi a tavola con i miei, o a dormire nel mio letto. Ci vollero molti mesi per riavere la mia vita.
Avevamo dietro le spalle la Storia, che ci aveva aperto gli occhi su quello che eravamo noi e su quel che erano coloro i quali ci venivano indicati come nostri nemici. Quello che ci avevano insegnato nella nostra giovinezza era tutto sbagliato. Non bisognava credere, obbedire, combattere. E l’obbedienza non doveva essere cieca, pronta e assoluta. Avevamo imparato a dire no sui campi della guerra. E molto più difficile dire no che si.
Ripeto spesso ai ragazzi che incontro: imparate a dire no alle lusinghe che avete intorno. Imparate a dire no a chi vuol farvi credere che la vita sia facile. Imparate a dire no a chiunque vuole proporvi cose che sono contro la vostra coscienza. E’ molto più difficile dire no che si.”
da “Mario Rigoni Stern. Un ritratto”, Laterza, 2021.
Cenni biografici Evelyn Scott (Clarksville, Tennessee, 1893 – New York 1963) era una scrittrice, drammaturga e poetessa americana. Scrittore modernista e sperimentale, Scott “era una figura letteraria significativa negli anni ’20 e ’30, ma alla fine cadde nell’oblio della critica”.
DESCRIZIONE – RECENZIONI
“Avuta, giovanissima, l’intrepida avventura di una fuga dal Brasile con un uomo povero e marito di un’altra, ha lasciato un libro autobiografico… Uno stile duro, freddo, sempre amaro d’istinto, che rimarrà un esempio di ardita forza” (Elio Vittorini, Americana)
“Evelyn Scott scriveva piuttosto bene, per essere una donna” (William Faulkner)
Nel 1913 una ragazza minorenne, incinta, fugge in Brasile con un uomo che potrebbe essere suo padre, suscitando uno scandalo di cui si impadronisce la stampa. Rimane in Sud America sei anni, in una zona remota, affrontando prove durissime, miseria, sofferenza, disprezzo. E’ la storia di una sfida: una delle molte sostenute da questa giovane nata nel 1893 nel Tennessee, che si è lasciata alle spalle una casa in stile Via col vento, un’adolescenza di “ardente femminista” e persino il suo nome vero, per chiamarsi Evelyn Scott, consapevole, forse, che la sua vita somiglierà a quella di un’eroina romanzesca degli anni Venti.
Tornata in America, Evelyn Scott diventa improvvisamente una stella del firmamento letterario di New York: la sua carriera di scrittrice è vertiginosa. Quando pubblica le sue prime poesie, William Carlos Williams le scrive: “Lei è – oltre a H.D. – l’unica donna che possa far poesia oggi”.
E Sinclair Lewis, dopo aver letto il suo primo romanzo, The Narrow House: “Salutiamo Evelyn Scott. E’ una di noi; una che sa; un’artista autentica. Il suo libro è un avvenimento”. Escapade (In fuga), il diario del suo periodo brasiliano, s’impone nel 1923 come storia di uno scandalo e di una ribellione ai codici sociali. Ma Evelyn sembra avere anche il dono della divinazione critica: scrive il suo primo lungo saggio americano su Joyce, Un contemporaneo del futuro, e “lancia” Willian Faulkner, allora agli esordi, convincendo il proprio editore a pubblicare L’urlo e il furore. Quando però Faulkner riceve il Nobel nel 1950 Evelyn non pubblica più da tempo; morirà nel 1963, dimenticata, lasciando dietro di sé poche tracce e molti enigmi.
Elio Vittorini, nell’Americana, scopriva Evelyn Scott tra i “piccoli scrittori irrequieti” degli anni Venti – Robert McAlmon, Waldo Franck, Ben Hecht – e pubblicava alcune pagine di Escapade nella traduzione di Eugenio Montale. “Non le ho più dimenticate” scrive Marisa Bulgheroni nel commento alla prima edizione italiana (1988). “Il libro brasiliano di Evelyn si colloca sullo scaffale di quei rari testi autobiografici (Walden di Thoreau, La mia Africa di Karen Blixen) che usano la prima persona singolare come un appostamento, un osservatorio tramite il quale rivelarci un mondo mai fino allora immaginato – si tratti di un lago tra i boschi,di un continente o dello spazio psichico”.
Editori Riuniti, Via di Fioranello n.56, 00134, Roma (RM)
Poesie di Stig Dagerman -Breve è la vita di tutto quel che arde
Traduzione di: Fulvio Ferrari-IPERBOREA casa editrice indipendente fondata da Emilia Lodigiani
DESCRIZIONE-Per la prima volta tradotta in italiano, un’antologia che dà conto di circa dieci anni di attività poetica di Stig Dagerman.
«Un giorno all’anno si dovrebbe immaginare / la morte chiusa in una scatoletta bianca. / A nessuna illusione si dovrebbe rinunciare, / nessuno morrebbe per quattro dollari in banca. // (…) Nessuno vien bruciato all’improvviso / e nessuno per strada ha da crepare. / Certo, è menzogna, son del vostro avviso. / Dico soltanto: Possiamo immaginare.» Stig Dagerman espresse anche in versi la vicinanza agli ultimi e l’umanesimo dolente che in una continua tensione tra speranza e disincanto attraversano la sua multiforme opera in prosa. Negli anni 1944-47 e 1950-54, fino al giorno prima di morire, scrisse per il giornale anarchico Arbetaren oltre 1300 dagsedlar, poesie satiriche a commento della cronaca politica e sociale che con il loro tono diretto contribuirono a fare di Dagerman un riferimento identitario per i giovani libertari della sua generazione. Il metro è per lo più tradizionale, quasi da filastrocca, ma la giocosità della rima e del ritmo potenzia per contrasto la durezza dei contenuti: gli accordi della «democratica» Svezia con la Spagna di Franco, i senzatetto di Stoccolma lasciati al freddo, i bambini armati per combattere le guerre dei grandi. Ai brevi componimenti di denuncia, questo volume affianca una scelta di versi in cui la forma irregolare insieme alla riflessione sulla condizione umana, pur sempre intrecciata all’impegno politico, avvicina l’autore alle avanguardie internazionali e ben accoglie simboli e metafore della sua narrativa. Una lettura toccante che aggiunge un tassello significativo al ritratto di uno sperimentatore instancabile al quale ancora oggi s’ispirano scrittori, giornalisti e musicisti di tutta Europa.
Approfondimento
«Abbattete i poveri». E Dagerman si spense
Data: 1 Dicembre 2022
Recensione di Angelo Ferracuti a «Breve è la vita di tutto quel che arde» di Stig Dagerman, apparsa su La Lettura il 6 novembre 2022
Tutta la letteratura di Stig Dagerman è fortemente permeata di esistenzialismo politico e coerenza tematica, ma anche da un contrasto molto forte tra io e mondo, istinto di libertà, desiderio di giustizia sociale contrapposti alla brutalità del potere. Come la sua cristallina postura di autore è segnata da una combattività angosciata e a volte disperata, che pendolareggia tra sogno utopico e disincanto, speranza e disillusione, e da una militanza totale nel movimento libertario svedese vissuta a microfono aperto nella sua breve vita, iniziata nel 1923 e finita a soli 31 anni nel 1954 quando morì suicida al culmine del successo editoriale.
In poche stagioni ci ha lasciato alcuni libri di rara forza espressiva, valore letterario e trasporto emotivo, la passione e la purezza delle raccolte di racconti, romanzi come «Bambino bruciato», «I giochi della notte», «Il serpente», l’esordio del «1945», il lancinante «Il nostro bisogno di consolazione», un breve ma intensissimo monologo filosofico sulla tensione dell’uomo verso la felicità, il bisogno di libertà e lo schiacciante sistema di dominio sociale, che può reputarsi il suo testamento intellettuale; i reportage lirici di «Autunno tedesco», quando fu inviato da l’«Expressen» nel 1946 in Germania fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia, a raccontare il Paese sconfitto, tutti libri fedelmente editi da Iperborea.
Un’altra componente di Dagerman e della sua letteratura è la ricerca ossessiva della coerenza visionaria attraverso quella che ha definito «La politica dell’impossibile», nella letteratura e nella vita, titolo di un libro di saggi, avversa a quella «Realpolitik», la politica concreta, pragmatica, dello status quo, dei compromessi e della rinuncia al cambiamento, schiacciata dal giogo economico.
Adesso esce il libro delle sue poesie politiche, «Breve è la vita di tutto quel che arde» (Iperborea) tradotto e curato con rigore e passione da Fulvio Ferrari, professore ordinario di Filologia germanica all’università di Trento, ma soprattutto grande conoscitore e divulgatore delle letterature scandinave. Si tratta di una scelta del suo corpus poetico che mette insieme testi sparsi ai «dagsedlar», dispacci quotidiani spesso scritti in rima affidati al giornale anarchico «Arbetaren» («L’operaio»), di cui era redattore, che però nel linguaggio corrente significa anche «ceffoni» per la loro immediatezza e vicinanza ai fatti di cronaca.
Insieme agli accadimenti storici c’è anche la vena esistenzialistica e romantica dello scrittore svedese: l’incrocio di questi due elementi è la sua cifra, il suo conio profondo che percorre tutta la sua opera, dentro quell’angoscia e paura prodotte dalla Seconda guerra mondiale che ne è il tellurico fondale storico.
Nel libro si alternano differenti stili compositivi, riflessioni intimistiche sulla condizione umana e il senso della vita, così come testi di impegno sociale come l’intenso «No pasarán» dove commemora l’epica tragica della guerra di Spagna con tutta la sua verve antifranchista, un inno alla lotta, alla resistenza.
La poesia di Dagerman ha una urgenza politica, ma soprattutto esistenziale, stilistica, la forma è il suo fuoco, la forma che incrocia gli ideali dei «Cuori ardenti» di cui parla in un saggio, anche per questo lo sentiamo contemporaneo e fratello, la sua letteratura è viva. I «dagsedlar», scritti con caustica ironia, hanno spesso l’andamento di una filastrocca, un gusto agrodolce, nel senso che ibridano lo stile cantilenante del verso con contenuti di dura crudezza, spietati, del palcoscenico impazzito del mondo, e nascono sempre da una notizia di cronaca.
I temi sono l’antimilitarismo, la bomba atomica, la condizione umana degli ultimi, la violenza sui bambini, un argomento molto caro a Dagerman, siano essi i senzatetto svedesi o gli africani dannati della Terra, i neri americani condannati a morte e portati al patibolo, come in «Due volte morto»: «Tutti quanti abbiamo da imparare,/ ci si allena ore e ore per fare il boia./ Che importa come un negro può campare,/ Quello che conta è che un negro muoia».
L’anarchico ribelle, quello che dice di voler opporre il potere delle sue parole «a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà», è anche al fianco dei lavoratori insorti in Germania dell’Est contro il regime comunista: «Quante volte il popolo avete chiamato./ Ora rispondiamo: Siam qui, siamo arrivati./ Fatevi avanti, popolari signori/ – e se vi è possibile, disarmati!».
L’ultima poesia scritta da Dagerman si intitola «Attenti al cane!», pubblicata il 5 novembre 1954, e nasce dopo avere letto la dichiarazione di un responsabile della Previdenza sociale di Värmland, una contea che si trova nella parte occidentale del Paese: «Certo è deplorevole che gente che vive di sussidi tenga poi un cane» fu l’affermazione indignata di una persona probabilmente appartenente alla ricca borghesia svedese.
Stig Dagerman il ribelle, lo scrittore nato nel cuore del proletariato e figlio di un operaio artificiere poverissimo e di una telefonista, quello posseduto dal radicalismo che giovanissimo diresse «Storm», il giornale della gioventù anarchica, reagisce a queste parole scrivendo versi venati di ironica indignazione, descrive la gente dei bassifondi come quelli che «stanno in stanzette strette e fosche/ con i loro bastardi costosi», poi la denuncia arriva con un’invettiva provocatoriamente sarcastica: «Ora è il momento di esser risoluti:/ Abbattere i cani! Non è buona cosa?/ E siano poi anche i poveri abbattuti,/ così il Comune risparmia qualcosa».
La poesia fu pubblicata il giorno dopo la sua morte, l’aveva scritta ventiquattr’ore prima di uccidersi con il gas di scarico della sua automobile.
Dopo una serie di tentativi di suicidio non riusciti, sprofondato in una cupa depressione, questa volta aveva organizzato tutto, scrivendo persino l’epitaffio per la sua lapide: «Qui riposa/ uno scrittore svedese/ caduto per niente/ sua colpa fu l’innocenza/ dimenticatelo spesso».
PAOLO RUFFILI-LE POESIE DI DAGERMAN- Fonte sito www.italian-poetry.org
Stig Dagerman (1923-1954), svedese, è uno di quei talenti precoci che compiono tutto quello che li riguarda creativamente parlando entro i trent’anni, indipendentemente dal fatto che si sia deliberatamente tolto la vita al compimento dei 31 anni. Del resto aveva tentato di farlo qualche altra volta già prima e, a spiegarne almeno in parte la prospettiva autodistruttiva, c’è la sua vicenda biografica, anche se l’autore più tardi ha descritto l’infanzia come l’epoca forse più felice della sua vita. Ma, in seguito all’abbandono da parte della madre nei primissimi mesi dopo la nascita e per la difficoltà del padre minatore di garantire le condizioni essenziali alla crescita, il piccolo Stig fu ospitato e cresciuto dai nonni paterni. Nei nonni, similmente a quanto accadde allo scrittore austriaco Thomas Bernhard (con il quale c’è più qualche altra somiglianza sul piano della scrittura), trovò delle figure vivaci, rassicuranti ed intellettualmente stimolanti, dunque le prime condizioni per il futuro percorso intellettuale. L’uccisione del nonno nel 1940 da parte di uno squilibrato e, poco tempo dopo, la perdita della nonna colpita da una emorragia cerebrale, portarono Dagerman a commettere il primo di una serie di tentati suicidi. Trasferito a Stoccolma dal padre, a soli tredici anni poté avvicinarsi all’anarchismo e al sindacalismo e iniziò precocemente l’attività di scrittore in seno all’Unione Sindacale Giovanile, per poi diventare redattore del giornale Storm (La tempesta), per passare più avanti ad occuparsi di fatti di cronaca, nel combattivo giornale anarcosindacalista Arbetaren (L’operaio). La sua produzione ebbe un’accelerazione legata a un’energia esplosiva incontenibile: drammi teatrali, racconti, saggi e reportage, scritti satirici, poesie, romanzi. Divenne un originale esponente della letteratura quarantista, capitanata da Karl Vennberg e Erik Lindegren, e resta a tutt’oggi una figura mitica della letteratura svedese. Iperborea, che ha pubblicato romanzi e racconti, manda in libreria di Dagerman, Breve è la vita di tutto quel che arde (traduzione e cura di Fulvio Ferrari), poesie esistenziali, vivide e tormentate nei loro affondi dentro i labirinti della psiche, e poesie satiriche, a commento potente della cronaca politica e sociale del suo tempo. Sono versi sempre intensi, scritti in uno stile che attraverso l’ossessione, l’analisi impietosa, la satira amara, mira a mettere in scacco tutte le maschere di comodo dell’esistenza svelandone la realtà di tragedia e di farsa.
L’Autore
Stig Dagerman –Anarchico lucido e appassionato incapace di accontentarsi di verità ricevute, militante sempre in difesa degli umiliati, degli offesi e dell’inviolabilità dell’individuo, Dagerman appartiene alla famiglia dei Kafka e dei Camus e resta nella letteratura svedese una figura culto che non si smette mai di rileggere e riscoprire. Segnato da una drammatica infanzia, intraprende molto giovane una folgorante carriera letteraria bruscamente interrotta dalla tragica morte, lasciando quattro romanzi, quattro drammi, poesie, racconti e articoli che continuano a essere tradotti e ristampati. Iperborea ha pubblicato Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte, Perché i bambini devono ubbidire?, La politica dell’impossibile, Autunno tedesco e Il serpente.
casa editrice Iperborea- Chi siamo
Iperborea è una casa editrice indipendente fondata da Emilia Lodigiani nel 1987 per far conoscere la letteratura dell’area nord-europea in Italia.Primi a esplorarla in maniera sistematica, si è potuto farlo con vasta libertà di scelta e una produzione di altissima qualità, che spazia dai classici e premi Nobel, inediti o riproposti in nuove traduzioni, alle voci di punta della narrativa contemporanea.
Oltre ai paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia), Iperborea pubblica letteratura baltica, nederlandese, tedesca, canadese, islandese (incluse le antiche saghe medioevali), una collana di narrativa per l’infanzia (I Miniborei) e una serie dedicata alle strisce dei Mumin di Tove Jansson.
Dal 2018 lancia la serie The Passenger, un libro-magazine che raccoglie inchieste, reportage letterari e saggi narrativi che formano il ritratto della vita contemporanea di un paese o una città (non solo del Nord Europa) e dei loro abitanti. Dal 2020 The Passenger è tradotto anche in inglese, pubblicato e distribuito in tutto il mondo in coedizione con Europa Editions.
Nel 2021 è arrivata la serie Cose Spiegate bene, in collaborazione con il Post: ogni numero è dedicato all’approfondimento di un tema, attraverso articoli, infografiche e illustrazioni originali.
Inoltre, dal 2015, Iperborea organizza a Milano e in varie città d’Italia il festival I Boreali, dedicato alla cultura nordica.
Descrizione–A distanza di oltre 500 anni dalla sua scomparsa, Louise Labé (1524 ca -1566), delicatissima poetessa lionese, mantiene intatto il suo fascino di donna libera e bella, evoluta ed emancipata, padrona, insieme, del suo corpo e della sua dignità, della sua cultura e della sua vita privata. Sebbene per secoli emarginata dagli ambiti educativi ed accademici perché considerata una voce avversa a quella delle patrie tradizioni – dunque femminista – il suo antico grido di protesta contro lo sfruttamento e la prevaricazione della donna da parte del suo “vir” incoerente e spesso brutale, e quindi anche ad opera degli ambiti maschilisti socialmente affermati, non si è mai spento. Perché l’uomo, secondo Lei, per essere veramente degno “d’honore e di rispetto”, deve sempre, da “vir”, mirare ad essere un “civis urbanus”; e la donna, non più ignorante e bigotta, svincolarsi dalla tendenza alla passività, ovvero da quello stato di rassegnazione che si è fatto complice della sua secolare inferiorità, per ambire ad un tenore di vita quanto più consono alle potenzialità della sua indole, davvero capace di qualificare la sua persona.
SONETTO IV
Da quando il crudele amore avvelenò
per la prima volta del suo fuoco il mio petto,
ho bruciato senza tregua del suo furore divino
che mai un giorno ha abbandonato il mio cuore.
Qualunque sia il supplizio, ed abbastanza me ne ha dato,
qualunque sia la minaccia e la prossima disgrazia
qualunque pensiero di morte che mette fine a tutto,
il mio cuore ardente non si stupisce di nulla.
Tanto più Amore ci assale con forza,
più ci fa raccogliere le nostre forze,
e ci fa essere sempre vigorosi nei suoi conflitti;
ma questo non è perché ci favorisce,
lui che disprezza gli dei e gli uomini,
ma per apparire più forte contro i forti.
XVIII
Baciami, baciami, baciami ancora!
Devi essere avventato, impudente, audace!
Corteggiami! Inseguimi! Baciami, così,
e ti ricambierò in carboni ardenti.
Soffri? Vieni, decoriamo il dolore.
Te ne darò ancora, come questi, e ancora
e ci baceremo, ancora, mentre
la gioia ci lacera.
So che il fuoco anima la tua creta informe,
permettimi, allora, di esagerare in felicità:
che la passione, violenta, sia regina, oggi.
Amo ciò che faccio
ma la gioia suprema mi è preclusa
se sono priva dei miei incontri selvaggi.
* SONETTO VIII
Io vivo, io muoio; io brucio e annego.
Ho molto caldo mentre soffro il freddo;
la vita mi è troppo dolce e troppo dura;
ho una grande tristezza mescolata di gioia.
Rido e piango nello stesso momento,
e nel mio piacere soffro molti grandi tormenti;
la mia felicità se ne va, e mai dura;
nello stesso momento sono secca e lussureggiante.
Così Amore mi conduce incostante;
e quando io penso di essere nel maggior dolore
all’improvviso mi trovo fuori da ogni pena.
Poi quando credo la mia gioia essere certa
e che sono nel punto più alto della mia desiderata felicità
ritorno nella mia sventura precedente.
SONETTO XIII
Oh! se fossi rapita sul bel petto
di colui per il quale io mi sento morire:
se la voglia non mi impedisse di vivere
il poco tempo che mi resta:
se stringendomi mi dicesse “cara Amica,
appaghiamoci l’uno con l’altro”, sarebbe certo
che mai tempesta, Euripe, ne vento
potranno separarci durante la nostra vita:
se nel tenerlo stretto tra le mie braccia,
come l’edera all’albero avvinghiata,
giungesse la morte invidiosa della mia felicità:
quando nella dolcezza dei nostri amplessi,
il mio spirito fuggisse sulle sue labbra
io morirei felice più di quanto lo fossi vivendo.
XXIV
Non condannatemi, donne, se mi commuovo
se sento mille fiamme ardere,
e mille scosse e mille spasimi,
se non mi stanco di piangere l’amore.
Oh, no! Non insultatemi
se sbaglio, la sentenza è questa.
Non esagerate coi pettegolezzi:
capitemi, quell’amore fu dolce.
Non è il dio del fuoco a indire
battaglia. Non ridite di Adone
che precipitò nel delirio d’amore
violento e splendido. Siate caute
soffrite ciò che io ho sofferto: allora,
gentili signore, non sarete tanto invidiose.
Descrizione del libro di Stefania Limiti, Sandra Bonsanti–La vittoria della destra in Italia ci mette di fronte alla concreta possibilità che venga stravolta la Costituzione del 1948. Da tempo si parla soprattutto di introdurre l’elezione diretta del capo dello Stato o del presidente del Consiglio. Il mondo democratico e progressista si trova di fronte a una grande battaglia politica per contrastare una riscrittura della Carta che ne mette in discussione i suoi princìpi fondanti.
È vero che esistono Paesi democratici che eleggono direttamente il capo dello Stato ma è anche vero che in altri l’elezione popolare del presidente coincide con tratti fortemente autocratici, dall’Ungheria alla Russia e alla Turchia.
Le autrici hanno dunque voluto contestualizzare la questione nella nostra storia repubblicana, ricostruendo il significato del presidenzialismo – formula tecnico-giuridica tesa a rafforzare i poteri del governo, indebolendo quelli del Parlamento – alla luce delle esperienze politiche che lo hanno sostenuto, a oggi senza successo: quelle golpiste e missine, la piccola pattuglia dei gollisti democristiani, la P2, la Grande Riforma craxiana e le nervose esternazioni di Francesco Cossiga, fino ai giorni più recenti con la pretesa delle grandi banche d’affari di “azzoppare” le costituzioni antifasciste.
Contestualizzare il presidenzialismo nella storia italiana consente dunque di vedere chiaro dietro alle intenzioni di chi vorrebbe mettere il potere nelle mani di un capo eletto a furor di popolo.
Sandra Bonsanti -Nata a Pisa nel 1937, sposata, ha tre figlie. Si è laureata in etruscologia a Firenze e ha vissuto per molti anni a New York. Ha cominciato la sua attività professionale nel 1969 al “Mondo” con Arrigo Benedetti.
Associazione Libertà e Giustizia Via Cordusio 4, 20123 Milano
Ora e sempre Resistenza! Intervista a Sandra Bonsanti
Giornalista, scrittrice e politica italiana: FUL ha incontrato Sandra Bonsanti per una chiacchierata sul valore dell’antifascismo e della memoria storica.
Sandra Bonsantinasce a Pisa il 1° giugno 1937. Figlia di Alessandro Bonsanti, scrittore e sindaco repubblicano di Firenze, è una bambina quando alleati e partigiani liberano la città dai nazisti. Avvia l’attività da giornalista nel 1969 a Il Mondo, settimanale politico, culturale ed economico. Lavora poi per La Stampa, Epoca e Panorama. Nel 1981 entra nella redazione del quotidiano La Repubblica guidato da Eugenio Scalfari, di cui diviene una delle firme di punta. Bonsanti è una delle più autorevoli interpreti del whatchdog journalism italiano, il giornalismo “cane da guardia” della democrazia che interroga politici e personaggi pubblici, indaga sul potere e pretende chiarezza e trasparenza dalle istituzioni per esercitare un’informazione piena e consapevole verso i cittadini.
Nel 1994 Bonsanti diventa membro della Camera dei deputati: alle urne per la XII legislatura vince il seggio nel collegio uninominale di Firenze 2 con la coalizione dei Progressisti. In Parlamento sarà membro della commissione parlamentare antimafia. Nel 1996 rinuncia a ricandidarsi alle elezioni per assumere la guida del quotidiano Il Tirreno. Su incarico dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione Nazionale Stampa Italiana redige con Angelo Agostini la “Carta dei doveri del giornalista”. Dal 2002 al 2015 è presidente di Libertà e Giustizia, un’associazione italiana di cultura politica attiva. Nel 2017, riceve dal sindaco Nardella Il Fiorino d’Oro della città di Firenze, l’onorificenza assegnata alle personalità che con il loro operato hanno dato lustro alla città o si sono distinti a livello internazionale.
È autrice di libri che indagano sui misteri del potere in Italia come Il grande gioco del potere (Chiarelettere, 2013) e Colpevoli (Chiarelettere, 2021) scritto a quattro mani con Stefania Limiti. Ha sempre difeso, onorato e sensibilizzato sull’importanza della memoria storica, dell’antifascismo e della Resistenza, da cui discende la nostra Costituzione. Sandra ci ha aperto le porte di casa a Firenze per una chiacchierata sul valore della Resistenza e dell’antifascismo. Seduti fra tantissimi libri e appunti sparsi, in compagnia di una foto con Sandro Pertini e una vecchia cartolina di New York inviata da Oriana Fallaci, le ho chiesto che significato assume al giorno d’oggi la Festa della Liberazione, festeggiata il 25 aprile con il governo più a destra dell’Italia repubblicana. «Possiamo dire senza timore di essere accusati di esagerare che l’impegno di tutti i cittadini che si riconoscono nella Costituzione deve essere ancora più fermo e deciso di quanto lo sia stato nel passato. Si tratta di sostenere e difendere il grande lavoro e i grandi sacrifici che sono alle spalle del 25 aprile 1945. Dunque, per noi un impegno senza incertezze» osserva Bonsanti.
I vincitori delle ultime elezioni sono la cosiddetta “Generazione Colle Oppio”, dal nome della storica sede del Movimento Sociale Italiano dove molti esponenti di Fratelli d’Italia hanno mosso i primi passi in politica. Alcuni membri della maggioranza e del Governo Meloni sono accusati di aver riportato le lancette indietro di trent’anni, prima della svolta di Fiuggi di Gianfranco Fini. Forse la destra italiana fatica ad affrancarsi definitivamente dal fascismo perchè non è antifascista? «La destra italiana, diversamente da quello che è accaduto in altri Paesi, come in Germania, insiste a trovare pretesti per non dare un addio definitivo a quello che è stato il coinvolgimento di tanti cittadini italiani con il fascismo. Il perché va cercato in motivazioni di origine familiare, oppure semplicemente storiche. Ogni caso è a sé e non c’è una spiegazione unica» spiega Bonsanti.
Sfortunatamente, allo stesso tempo, restano sempre meno partigiani: spetta alle istituzioni tenere alto il valore della memoria storica. Nata come reazione al regime fascista e dalle sue ceneri, la repubblica è l’affermazione dei valori dell’antifascismo. «Le istituzioni possono sicuramente aiutare a celebrare il valore di ogni singolo partigiano e dei partigiani riuniti nelle loro associazioni. È importante mostrare che le istituzioni stanno decisamente dalla parte di chi ha combattuto contro il fascismo.»
In tempo di guerra che sconvolge l’Europa, non posso esimermi da chiedere a Sandra se trova delle analogie fra la Resistenza italiana di allora e quella ucraina di oggi: «Ogni popolo deve essere riconosciuto libero di scegliersi amici e nemici. Un’analogia importante può essere riscontrata nel fatto che si tratta, sia in Ucraina che nell’Italia della guerra, di invasioni del proprio territorio e nel fatto che ci sono uomini e donne pronti a combattere e a morire per la libertà» risponde.
Anche l’informazione gioca un ruolo importante nel promuovere la memoria. Circa vent’anni fa è iniziata un’opera mistificatoria della Resistenza. Chiedo alla nostra ospite, dall’alto della sua lunga esperienza di giornalista, come si fa una corretta informazione su questa stagione cruciale della nostra storia. «Tutti noi possiamo fare qualcosa di più per promuovere la memoria come cittadini ed è ancora di più quello che può fare l’informazione: approfondire singoli episodi, raccontare e descrivere i personaggi che ne sono stati protagonisti, raccontare esattamente i principi in cui credevano coloro che si sono immolati.»
C’è dunque un momento della Seconda Guerra Mondiale che necessita di un approfondimento? «Mi piacerebbe che fossero approfonditi i motivi per cui in Toscana ci furono tante stragi e perché l’esercito dei liberatori americani e italiani antifascisti ci mise tanto tempo ad arrivare fino alla Toscana. Inoltre, a mio avviso tutti gli sbarchi sono stati memorabili, caratterizzati da atti di coraggio e da atti di eroismo», puntualizza Bonsanti.
A proposito di fascismo e antifascismo, faccio un’ultima domanda a Sandra e le chiedo cosa vorrebbe dire alle ragazze e ai ragazzi di oggi: «Penso che sbaglierebbero i giovani se pensassero che ai giorni d’oggi quello che è successo non capiterà mai più. Bisogna continuare a studiare e a trasferire la loro memoria fresca dall’avere ascoltato tanti protagonisti di allora alle generazioni che verranno» conclude lei.
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