Bernardo De Luca-Il tempo diviso Poesia e guerra in Sereni, Fortini, Caproni, Luzi-Salerno Editrice-
Descrizione del libro di Bernardo De Luca-Il tempo diviso Poesia e guerra-All’indomani del secondo conflitto mondiale, Vittorio Sereni, Franco Fortini, Giorgio Caproni e Mario Luzi provarono a restituire nei loro versi le conseguenze del trauma di massa per eccellenza, la guerra. Nati tra il 1912 e il 1917, questi quattro poeti trascorsero la “giovinezza” durante il Ventennio fascista; il passaggio alla maturità coincise, quindi, con lo choc bellico. Tre di loro furono direttamente coinvolti e chiamati alle armi: Sereni, Fortini e Caproni. Ma il ’43 rappresentò uno spartiacque per tutti: con l’arrivo degli Alleati, Sereni fu catturato in Sicilia e deportato nei campi di prigionia in Algeria e Marocco; Fortini fuggì in Svizzera e partecipò alla breve esperienza della resistenza con la Repubblica dell’Ossola; Caproni trascorse i diciannove mesi dell’Italia divisa partecipando alla resistenza in Val Trebbia. Luzi fu invece riformato per insufficienza toracica, ma durante i bombardamenti che colpirono Firenze la sua casa venne completamente distrutta e scontò anche lui direttamente i devastanti effetti del conflitto. I quattro giovani videro la propria biografia spezzata dalla guerra, un evento che non solo agì sull’esperienza vissuta ma determinò la loro fisionomia culturale, intellettuale e poetica: il tempo stesso appariva ormai diviso, rotto, “inceppato”, come dirà Sereni. Ecco perché nei libri di poesia che concepirono nel dopoguerra la frattura temporale causata dalla ferita bellica sembra raggiungere il passato, fino a torcerlo; ma mentre in Sereni, Caproni e Luzi, la possibilità del racconto viene del tutto a mancare, nella poesia di Fortini lo strappo traumatico si ricuce dentro una storia nuova. Non più da ricostruire, ma da cominciare a scrivere, in vista di un tempo “altro”. Il presente diventa attesa, proprio come il passato, che nella poesia impetra l’avvenire.
L’Autore
Bernardo De Luca insegna Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II». Si occupa prevalentemente di letteratura moderna e contemporanea. Ha curato l’edizione critica e commentata di Foglio di via di Franco Fortini (Macerata 2018) e Del concetto poetico di Camillo Pellegrino (Salerno Editrice, 2019). Ha pubblicato i libri di poesia Gli oggetti trapassati (Napoli 2014) e Misura (Pordenone 2018).
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Margherita Guidacci–Nata a Firenze, il 25 aprile 1921. A dieci anni perde il padre, esperienza che segna la sua giovinezza. Dopo la maturità Margherita Guidaccisi iscrive alla Facoltà di Lettere, dove nel 1943 si laurea con Giuseppe De Robertis con una tesi su Ungaretti. I suoi interessi si rivolgono quindi alla letteratura inglese e anglo-americana, soprattutto a Emily Dickinson e T. S. Eliot. Studia al British Institute di Firenze e cominica a collaborare con riviste letterarie. Nel 1946 pubblica la prima raccolta di poesie La sabbia e l’angelo. Insegna latino e greco e, dal 1950, letteratura inglese nei licei scientifici e istituti tecnici. Dal 1952 inizia la sua attività di pubblicista sulla terza pagina del «Mattino dell’Italia Centrale». Nel 1954 esce un altro volume di versi Morte del ricco. Nel 1948 vince il premio Le Grazie per cinque poesie inedite. Nel 1949 si sposa con Luca Pinna. Nel 1958 vanno a vivere a Roma, dove Margherita inizia la collaborazione col giornale «Il Popolo». Fino al 1972 insegna al liceo scientifico Cavour di Roma e poi ottiene una cattedra di letteratura anglo-americana presso l’Università di Macerata. Continua a scrivere e pubblicare libri di poesia. Muore il 19 giugno 1992.
Margherita Guidacci,Poetessa italiana
POESIE
da LE POESIE
In silenzio Scrivo parole ogni giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So che potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni istante, ogni giorno
l’urlo e il tuono. Vivo intorno.
Potrei fermarmi e attendere.
In silenzio.
All’ipotetico lettore Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
Lascia sia il vento Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d’ ogni immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.
La sabbia e l’angelo I
Non occorrevano i templi in rovina sul limitare di deserti,
Con le colonne mozze e le gradinate che in nessun luogo
conducono;
Né i relitti insabbiati, le ossa biancheggianti lungo il mare;
E nemmeno la violenza del fuoco contro i nostri campi e le case.
Bastava che l’ombra sorgesse all’angolo più quieto della stanza
O vegliasse dietro la nostra porta socchiusa-
La fine pioggia ai vetri, un pezzo di latta che gemesse nel vento:
Noi sapevamo già di appartenere alla morte.
II
Se vuoi lasciare la tua impronta, o uomo, scalfisci piuttosto la sabbia,
Perché la più alta torre diverrà sabbia alla fine.
Scrivi il tuo nome sul lido deserto, e prega il mare che presto
lo copra di lamento:
Perché tu stesso sei sabbia, sei la morte che dopo te rimane.
III
Ogni volta che dicemmo addio;
Ogni volta che verso la fanciullezza ci volgemmo, alle nostre
spalle caduta
(Tremando l’anima al suo lungo lamento);
Ogni volta che dall’amato ci staccammo nel freddo chiarore
dell’alba;
Ogni volta che vedemmo sui morti occhi l’enigma richiudersi;
O anche quando semplicemente ascoltavamo il vento nelle strade
deserte,
E guardavamo l’autunno trascorrere sulla collina,
Stava l’Angelo al nostro fianco e ci consumava.
IV
Ora il nostro amore si spanderà nella vigna e nel grano,
Il nostro veleno nei cactus e negli spini crudeli.
Si curveranno i vivi alle sorgenti, diranno:
“Chi spinse verso di noi l’acqua da occulte vene del mondo?”
E molto prima che il freddo li colga e la notte sul loro cuore s’adagi,
Anche in un meriggio d’api e di succhi ardenti,
Conosceranno l’angoscia, perché potenti noi siamo e vicini,
E non vi è fuga dal cerchio in cui già li stringiamo
Con ogni stelo da noi sorto e ogni frutto
Che colmo e grave alla nostra terra s’inchina.
V
Furono ultime a staccarsi le voci. Non le voci tremende
Della guerra e degli uragani,
E nemmeno voci umane ed amate,
Ma mormorii d’erbe e d’acque, risa di vento, frusciare
Di fronde tra cui scoiattoli invisibili giocavano,
Ronzio felice d’insetti attraverso molte estati
Fino a quell’insetto che più insistente ronzava
Nella stanza dove noi non volevamo morire.
E tutto si confuse in una nota, in un fermo
E sommesso tumulto, come quello del sangue
Quando era vivo il nostro sangue. Ma sapevamo ormai
Che a tutto ciò era impossibile rispondere.
E quando l’Angelo ci chiese. “Volete ancora ricordare?”
Noi stessi l ‘implorammo: “Lascia che venga il silenzio!”
VI
Non il ramo spezzato, non l’erba scomposta lungo il sentiero
Ci dicevano il suo passaggio, m il tocco di solitudine
Che ogni cosa in sé custodiva ed a noi rendeva, liberando
Dopo il messaggio consueto l’altra, l’ignota parola.
Come trasalivamo ascoltandola, come s’orientava sicuro
Il nostro cuore sull’invisibile traccia!
Così noi sempre ti seguimmo, Dominatore ed Amato,
Né ci sorprende la bianca luce in cui svelato al nostro fianco cammini
(Ora che l’ombra carnale è tramontata sul meridiano della morte)
Perché da lungo tempo te solo conoscevamo, a te solo
Obbedivamo, tua destinata preda,
Trascinando sulle vie della terra la tua celeste catena straniera
Margherita Guidacci,Poetessa italiana
Atlante
Davanti a te la mia anima è aperta
come un atlante: puoi seguire con un dito
dal monte al mare azzurre vene di fiumi,
numerare città,
traversare deserti.
Ma dai miei fiumi nessuna piena ti minaccia,
le mie città non ti assordano con il loro clamore,
il mio deserto non è la tua solitudine.
E dunque cosa conosci?
Se prendi la penna, puoi chiudere in un cerchio esattissimo
un piccolo luogo montano, dire: «Qui fu la battaglia,
queste sono le sue silenziose Termopili.»
Ma tu non sentisti la morte distruggere la mia parte regale,
né salisti furtivo
col mio intimo Efialte per un tortuoso sentiero.
E dunque cosa conosci?
Amore
è questo senso d’ali: averle, aprirle,
fendere con il petto un elemento ignoto
finora – e a un tratto divenuto la patria.
Come sono lontani il guscio e il bozzolo
a cui credemmo appartenere, il buio
dove crescemmo e dove non faremo
mai più ritorno!
Lieta o dolorosa
che sia la nostra ultima sorte, ormai
siamo per sempre segnati dal cielo.
In exitu
Se l’anima fuggendo dall’Egitto
scorgesse subito i colli di Chanaan,
se sui frantumi degli dei stranieri
brillasse subito il volto immortale
e dagli squarci della nostra rinunzia
già scaturisse amore,
quali ali darebbe al nostro passo
questa certezza anche tra pietre e spini!
Noi non sappiamo invece quante miglia dividano
l’ingresso nel deserto dall’incontro con Lui:
ci sgomenta la terra di nessuno
non più nostra, non ancora di Dio.
Le mie mani non sono ancora vuote
Le mie mani non sono ancora vuote
ch’io possa alzarle a Te.
Io che fallii nella stretta, fallisco
ora nella rinunzia. È così poco
quel che trattengo, scherno alla mia fame,
e tuttavia è un ingombro smisurato
che mi sbarra il cammino verso di Te.
Poiché per queste briciole furiosamente amate
non sono pronta al tuo dono
di nudità, di bellezza severa,
al silenzio più trasparente delle lacrime.
Muoio di sete
Muoio di sete
e non incontro una fontana.
La tua terra è un deserto.
Il tuo cielo una lastra ardente.
Dimmi, è così che mi ami
e ti nascondi per mettermi alla prova?
Creder questo sarebbe la salvezza
quando mi sembra che tu non ti curi
di me e neppure vi sia!
*
Margherita Guidacci,Poetessa italiana
Il mio legno
risponde al mare, la mia vela al vento.
Al soffio più lieve, alla minima onda
li sento palpitare
come il mio cuore che tende verso l’alto,
dimentico del porto, senza chiedersi
se la rotta sarà di pace o di tempesta
e senza chiedersi neppure
se vi sarà ritorno.
O mia gioia rischiosa
O mia gioia rischiosa, sempre insidiata!
Se tu non fossi insidiata,
non saresti gioia.
È necessario l’abisso
perché tu possa spiegar le tue ali.
È necessaria la notte
perché si accenda il tuo raggio.
Ogni attimo in cui mi possiedi
è vita che m’inonda, traboccante.
Ma in quello stesso attimo, so che in me si ripete
una scommessa mortale.
*
Alcuni desideri si adempiranno.
Altri saranno respinti. Ma io
sarò passata splendendo
per un attimo. Anche se nessuno
mi avesse guardata
risulterebbe ugualmente giustificato-
per quel lucente attimo – il mio esistere.
Il tuo ricordo
Il tuo ricordo, sul fondo della mia solitudine, ne rivela l’ampiezza e tuttavia la limita.
Così un canto d’uccello addolcisce l’immensità del cielo e una singola vela rende umano il mare.
È come una mancanza di respiro
È come una mancanza di respiro e un senso di morire quando mi stringe improvviso il desiderio di te tanto lontano e nulla può calmarlo, altro pensiero non può occuparmi, tranne il Paradiso che sarebbe per me lo starti accanto. Ma poiché ciò m’è negato, più cara, molto più cara d’una fredda pace mi è la stretta indicibile – quasi marchio di fuoco che proclami ancora e sempre quanto sono tua. A nessun costo vorrei separarmi da questo mio dolore.
La conchiglia
Non a te appartengo, sebbene nel cavo Della tua mano ora riposi, viandante, Né alla sabbia da cui mi raccogliesti E dove giacqui lungamente, prima Che al tuo sguardo si offrisse la mia forma mirabile. Io compagna d’agili pesci e d’alghe Ebbi vita dal grembo delle libere onde. E non odio né oblio ma l’amara tempesta me ne divise. Perciò si duole in me l’antica patria e rimormora Assiduamente e ne sospira la mia anima marina, Mentre tu reggi il mio segreto sulla tua palma E stupito vi pieghi il tuo orecchio straniero.
All’ipotetico lettore
Ho messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.
Margherita Guidacci,Poetessa italiana
Lascia sia il vento
Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d’ ogni immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.
La farfalla è condannata per le sue ali, che sono antieconomiche.
Osbert Sitwell
Non voglio
Tutti i vostri strumenti hanno nomi bizzarri
e difficili, ma io vedo chiaro
e so che in fondo sono solamente
metri e gessetti con cui misurate
e segnate – segnate e misurate
senza stancarvi.
Sfilate spilli di tra le labbra, come una sarta:
me li appuntate sull’anima
e dite: “Qui faremo un bell’orlo.
Dopo starai tanto meglio”.
Io non voglio che mi tagliate un pezzo d’anima!
Se ne ho troppa per entrare nel vostro mondo,
ebbene, non voglio entrarci.
Sono un poeta: una farfalla, un essere
delicato, con ali.
Se le strappate, mi torcerò sulla terra,
ma non per questo potrò diventare
una lieta e disciplinata formica.
Tomba lucana
La figura
piumata e con artigli (uccello e demone)
si tiene indietro, ma pronta
a balzare. La sente
senza vederla il giovane soldato
che l’ha alle spalle. La sente
e forse anche la vede l’avversario
che, giavellotto in pugno, si prepara a vibrare
il colpo micidiale. Non v’è odio
nei loro volti solo una profonda
attenzione perché si compia presto
quello che deve compiersi e, in entrambi,
una cosciente tristezza per l’amaro
fato dell’uomo in guerra. Al vincitore
nulla assicura che domani, ad opera
d’altri, non sia lui il vinto, lui l’ucciso.
Dal condannato d’oggi rifluisce
l’anima con il sangue. Misterioso
come la sua Parca, un suonatore
di flauto dà il segnale. Con le braccia
strette al petto o levate
inutilmente il cielo, ora le donne
incominciano il pianto.
Margherita Guidacci,Poetessa italiana
Guado
L’anno contiene quest’unico guado verso di te. Ogni volta lo trovo un poco più sommerso, l’onda più gonfia, la corrente più minacciosa. Eppure io t’ho raggiunto ancora, ed ogni breve istante che trascorro accanto a te diviene un “sempre” e se ne nutrirà anche il tempo deserto. Se una dura legge c’imporrà un “mai”, noi condannati ed immobili sulle opposte rive intrecceremo tuttavia i richiami di un desiderio tramutato in splendore. Così la Tessitrice ed il Pastore si rispondono: Vega ed Altair tra cui si snoda l’alto stellato fiume.
Anelli del tempo
Degli anelli del tempo, che si aggiungono
sempre nuovi, furono alcuni così stretti
che ne ricordo solo l’orrore di soffocare.
In altri, larghi e informi, vagai smarrita
senza un sostegno a cui aggrapparmi. I più,
pallidamente indifferenti, si ammucchiavano
gli uni sugli altri, subito saldandosi
senza nemmeno un segno di sutura.
Solo a pochi e per poco è tollerabile
riandare. Ma almeno questo, l’ultimo,
di cui oggi si chiude il cerchio, resta perfetto
nel mio cuore: cornice d’oro intorno
a uno specchio di gioia. Chiedo solo
di serbar quest’immagine. E che a te
uno stesso fulgore la riveli
e la circondi, allo scadere dell’ora,
nel tuo specchio gemello.
Margherita Guidacci,Poetessa italiana
Margherita Guidacci Poetessa italiana (Firenze 1921 – Roma 1992). Studiosa di lingua e letteratura inglese, ha curato traduzioni di J. Donne, E. Dickinson, Th. S. Eliot. La sua poesia, di un’intimità morale aperta a un senso religioso della vita, si affida all’intensità dei sentimenti e all’immediata evidenza del dettato: La sabbia e l’angelo (1946); Morte del ricco (1955); Giorno dei santi (1957); Paglia e polvere (1961); Neurosuite (1970); Terra senza orologi (1974); Il vuoto e le forme (1977); L’altare di Isenheim (1980); L’orologio di Bologna (1981); Una breve misura (1988).
Margherita Guidacci è nata a Firenze nel 1921. Si era laureata in letteratura italiana all’Università di Firenze, con una tesi su Giuseppe Ungaretti, specializzandosi poi in letteratura inglese ed americana, traducendo fra l’altro le opere di John Donne e le poesie di Emily Dickinson. Dal 1945 divenne insegnante, prima liceale e successivamente docente universitaria. Ha pubblicato le raccolte: La sabbia e l’angelo (Vallecchi, 1946), Morte del ricco: un oratorio (Vallecchi, 1954), Giorno dei santi (All’insegna del pesce d’oro, 1957), Paglia e polvere (Rebellato, 1961), Le poesie (Rizzoli, 1965), Neurosuite (Neri Pozza, 1970), Il vuoto e le forme (Rebellato, 1977), L’altare di Isenheim (Rusconi, 1980), Brevi e lunghe (Libreria editrice vaticana, 1980), L’orologio di Bologna (Città di vita, 1981), Una breve misura (Vecchio faggio, 1988), Il buio e lo splendore (Garzanti, 1989). È scomparsa a Roma nel 1992.
Francesco Torchiani-“Gaetano Salvemini-L’impegno intellettuale e la lotta politica”-Carocci Editore-
Descrizione sommaria del libo di Francesco Torchiani-L’attività di intellettuale e di storico di Gaetano Salvemini è sempre stata caratterizzata dall’intransigenza. A inizio Novecento, combatté contro il conservatorismo della classe dirigente liberale e impose la questione del Mezzogiorno al socialismo italiano. Fu un tenace oppositore di Giovanni Giolitti, che ribattezzò “il ministro della mala vita”. Fondò l’“Unità” e si schierò a favore dell’ingresso[…]
Francesco Torchiani-“Gaetano Salvemini-L’impegno intellettuale e la lotta politica
Introduzione 1. Malve e rosolacci Da Molfetta a Firenze/Medioevo progressivo/La scoperta di Cattaneo 2. Storia e politica Mazzini e la Rivoluzione francese/Socialismo e Mezzogiorno/Scuola e democrazia 3. Una seconda vita
Messina, 28 dicembre 1908/Giolitti, il «boss d’Italia»/Riformista a modo suo/Uno scatolone di sabbia/La palestra dell’“Unità” 4. Una guerra democratica? «Se si fa la guerra all’Austria, io ci vado»/Delenda Austria/“Slavemini” 5. La bancarotta della democrazia «Depressione socialista» e «reazione fascista»/Mussolini, un «Crispi esagerato»/Bilanci/«Mi sono messo a studiare sul serio»/Lo «scossone» Matteotti 6. Esule «À la guerre comme à la guerre»/«La chiave è in Inghilterra e negli Stati Uniti»/Un albero sradicato/«Good news from America!»/Storico del presente 7. L’officina di Harvard «I have not a country. But I have a refuge»/Democrazie in ritirata/L’ora più buia/L’Italia vista dall’America 8. Ritorno Una repubblica senza repubblicani?/I conti con il passato/Italia scombinata Abbreviazioni Note Indice dei nomi
L’Autore-Francesco Torchiani-Insegna Storia contemporanea all’Università degli Studi di Pavia. È stato fellow dell’Institute for Advanced Study di Princeton. È autore, tra gli altri, di «Il vizio innominabile». Chiesa e omosessualità nel Novecento (Bollati Boringhieri, 2021) e Delio Cantimori (Viella, 2023) e ha curato La rivoluzione del ricco di Gaetano Salvemini (Bollati Boringhieri, 2020).
Poesie di Maria Luisa Spaziani, Poetessa italiana-
Poetessa di alta levatura, traduttrice di Proust, “amica amorosa” di Eugenio Montale, Maria Luisa Spaziani è stata una delle figure letterarie più affascinanti del Novecento italiano.
Maria Luisa SPAZIANI
POESIE
Un fresco castagneto Sarebbe, il mondo, un fresco castagneto
se tutto mi guardasse coi tuoi occhi.
Marroni, intensi, laghetti dorati
ai raggi dolcemente declinanti.
Così gli occhi degli angeli, castagne
che hanno perso il riccio. Il Paradiso
è quella svestizione, ogni segreto
è arrivare al cuore.
Nessuno dice mai Nei miei vent’anni non ero felice
e non vorrei che il tempo s’invertisse.
Un salice d’argento mi consolava a volte,
a volte ci riusciva con presagi e promesse.
Nessuno dice mai quant’è difficile
la giovinezza. Giunti in cima al cammino
teneramente la guardiamo. In due,
forse la prima volta.
La morsa del salto Il desiderio è scivolare in sé,
è un ombelico interno che concentra
ogni energia, la rapida che preme
sul pettine ruggente della diga.
È scrimolo infernale, il punto-crisi
dell’acqua che sprofonda verso i quieti
allegretti del fiume. Ma mi si stringe
crudelmente la morsa del salto.
Le parole oggi non bastano Non chiedermi parole oggi non bastano.
Stanno nei dizionari: sia pure imprevedibili
nei loro incastri, sono consunte voci.
È sempre un prevedibile dejà vu.
Vorrei parlare con te – è lo stesso con Dio –
tramite segni umbratili di nervi,
elettrici messaggi che la psiche
trae dal cuore dell’universo.
Un fremere d’antenne, un disegno di danza,
un infinitesimo battere di ciglia,
la musica-ultrasuono che nemmeno
immaginava Bach.
Nulla di nulla Strappami dal sospetto
di essere nulla, più nulla di nulla.
Non esiste nemmeno la memoria.
Non esistono cieli.
Davanti agli occhi un pianoro di neve,
giorni non numerabili, cristalli
di una neve che sfuma all’orizzonte
– e non c’è l’orizzonte -.
Le tue braccia Lo spirito ha bisogno del finito
per incarnare slanci d’infinito.
Parlo con l’angelo, e le tue braccia d’uomo
soltanto lo traducono ai miei sensi.
Dove comincia l’ala? Dove nascono
musiche di tamburi di tempesta?
Amarti è sprofondare, è una foresta
sfumante in cieli altissimi.
Volo sopra le Alpi Volo sopra le Alpi, il tuo ricordo copre
la pianura del Po fino alle nevi dell’Etna.
Sei il mio paesaggio, la mia patria,
il mio emblema, il respiro profondo.
Sei l’albero di cui sono la chioma,
fiorisco alta sui tuoi folti rami.
Le tue radici mandano la linfa
che sale e canta e nutre le mie cellule.
Chi le nutriva in quegli anni incredibili
quando di te ignoravo gli occhi e il nome?
Quella voce segreta che sussurra
nei giorni giovani le sillabe: “Aspetta!”.
Parigi dorme Parigi dorme. Un enorme silenzio
è sceso ad occupare ogni interstizio
di tegole e di muri. Gatti e uccelli
tacciono. Sono io di sentinella.
Agosto senza clacson. Sopravvivo
unica, forse. Tengo fra le braccia
come Sainte Geneviève la mia città
che spunta dal mantello, in fondo al quadro.
Una rosa che sboccia Ibernati, incoscienti, inesistenti,
proveniamo da infiniti deserti.
Fra poco altri infiniti ci apriranno
ali voraci per l’eternità.
Ma qui ora c’è l’oasi, catena
di delizie e tormenti. Le stagioni
colorate ci avvolgono, le mani
amate ci accarezzano.
Un punto infinitesimo nel vortice
che cieco ci avviluppa. C’è la musica
(altrove sconosciuta), c’è il miracolo
della rosa che sboccia, e c’è il mio cuore.
Non sa, la barca, risalire il fiume Non sa, la barca, risalire il fiume.
Nessun vento contrasta la rapida.
Felicità, gonfiavi le mie vele.
Ora smorte ricadono in lamenti.
Ma sarebbero ancora le parole
l’essenziale energia. Quel silenzio
che sempre è il limo fertile del verso,
ora è puro veleno.
A sipario abbassato Quando ti amavo sognavo i tuoi sogni.
ti guardavo le palpebre dormire,
le ciglia in lieve tremito.
Talvolta
è a sipario abbassato che si snoda
con inauditi attori e luminarie
la meraviglia.
Come in una cattedrale Entro in questo amore come in una cattedrale,
come in un ventre oscuro di balena.
Mi risucchia un’eco di mare, e dalle grandi volte
scende un corale antico che è fuso alla mia voce.
Tu, scelto a caso dalla sorte, ora sei l’unico,
il padre, il figlio, l’angelo e il demonio.
Mi immergo a fondo in te, il più essenziale abbraccio,
e le tue labbra restano evanescenti sogni.
Prima di entrare nella grande navata,
vivevo lieta, ero contenta di poco.
Ma il tuo fascio di luce, come un’immensa spada,
relega nel nulla tutto quanto non sei.
Maria Luisa SPAZIANI
Voce
Natale è un flauto d’alba, un fervore di radici
che in nome tuo sprigionano acuti ultrasuono.
Anche le stelle ascoltano, gli azzurrognoli soli
in eterno ubriachi di pura solitudine.
Perché questo Tu sei, piccolo Dio che nasci
e muori e poi rinasci sul cielo delle foglie:
una voce che smuove e turba anche il cristallo,
il mare, il sasso, il nulla inconsapevole.
La cometa
Quel mio amore per lui aveva ali di cera
lunghe le ali sembravano eterne
battevano il cielo sicure, sfioravano picchi,
puntavano al sole con nervature nervine.
Fuse le ali ormai mi ricrescono dentro,
soltanto ora perdute mi diventano vere,
e ai cuori incauti grido: la passione è un fantasma
troppo importante, uomini, per potersi incarnare.
Chiomate vaganti comete di Halley, presagi
disastri prodigi che infiammano e gelano il sangue,
nessuno osi fissarvi, si arrischi a sfiorare
coaguli di pura lontananza – morgane.
Realtà e metafora
Tu, realtà e metafora, luminoso
corpo dal doppio segno. Tu moneta
d’inscindibile faccia, bianco cigno
che ingloba il suo riflesso.
Penso all’abbraccio, e all’improvviso scende
in acque buie il mio vascello ebbro.
Confluiscono oceani. L’energia,
duraturo arabesco di fulmine.
L’indifferenza
L’indifferenza è inferno senza fiamme,
ricordalo scegliendo fra mille tinte
il tuo fatale grigio.
Se il mondo è senza senso
tua solo è la colpa:
aspetta la tua impronta
questa palla di cera.
Italian poet Maria Luisa Spaziani (1922 – 2014) at her home, Rome, Italy, 1987. (Photo by Dino Ignani/Getty Images)
E lui mi aspetterà nell’ipertempo
E lui mi aspetterà nell’ipertempo,
sorridente e puntuale, con saluti
e storie che alle poverette orecchie
dell’arrivata parranno incredibili.
Ma riconoscerà, lui, ciò che gli dico?
In poche note o versi qui raccolgo
i messaggi essenziali. Un altro raggio,
aria diversa glieli tradurrà.
Sono venuta a Parigi per dimenticarti
Sono venuta a Parigi per dimenticarti
ma tu ostinato me ne intridi ogni spazio.
Sei la chimera orrida delle gronde di Notre-Dame,
sei l’angelo che invincibile sorride.
Veniamo a patti (il contadino e il diavolo):
lasciami il giorno per guardare, leggere,
sprecare il tempo, divertirmi, escluderti.
Notti e sogni, d’accordo, sono tuoi.
Quant’è difficile la giovinezza
Nei miei vent’anni non ero felice
e non vorrei che il tempo s’invertisse.
Un salice d’argento mi consolava a volte,
a volte ci riusciva con presagi e promesse.
Nessuno dice mai quant’è difficile
la giovinezza. Giunti in cima al cammino
teneramente la guardiamo. In due,
forse la prima volta.
Una rosa che sboccia
Ibernati, incoscienti, inesistenti,
proveniamo da infiniti deserti.
Fra poco altri infiniti ci apriranno
ali voraci per l’eternità.
Ma qui ora c’è l’oasi, catena
di delizie e tormenti. Le stagioni
colorate ci avvolgono, le mani
amate ci accarezzano.
Un punto infinitesimo nel vortice
che cieco ci avviluppa. C’è la musica
(altrove sconosciuta), c’è il miracolo
della rosa che sboccia, e c’è il mio cuore.
Maria Luisa SPAZIANI
Luna d’inverno
Luna d’inverno che dal melograno
per i vetri di casa filtri lenta
sui miei sonni veloci di ladro
sempre inseguito e sempre per partire.
Come un velo di lacrime t’appanna
e presto l’ora suonerà…
Lontano
oltre le nostre sponde, oltre le magre
stagioni che con moto di marea
mortalmente stancandoci ci esaltano
e ci umiliano, poi splenderai lieta
tu, insegna d’oro all’ultima locanda
lampada sopra il desco incorruttibile
al cui chiarore ad uno ad uno
i visi in cerchio rivedrò che un turbine
vuoto e crudele mi cancella.
Biografia di Maria Luisa Spaziani
Maria Luisa SPAZIANI
Maria Luisa Spaziani– Nacque a Torino, in via Saluzzo 30, il 7 dicembre 1922, figlia di un facoltoso imprenditore, Ubaldo Spaziani, titolare di un’attività nel settore dolciario. La madre Adalgisa era originaria di Mongardino d’Asti.
Torino fu per lei la città degli studi e delle prime amicizie letterarie, mentre trascorreva le sue vacanze estive a Carcare, in Liguria, nel paese della nonna paterna. Il 7 marzo 1931 nacque sua sorella Bianca Maria e, l’anno successivo, il padre venne nominato direttore presso la Venchi Unica. Furono questi gli anni in cui lesse Carlo Collodi, Charles Dickens, il Don Chisciotte, le Confessioni di un italiano e più avanti la poesia: Giovanni Pascoli, Amalia Guglielminetti, Guido Gozzano, Ada Negri. A metà degli anni Trenta, il padre passò a lavorare ai Pastifici Triestini, costretto dunque a dividersi tra Torino e Trieste. Frequentò, per scelta paterna, il Circolo filologico di corso Valdocco. In questi anni, scrisse il suo primo articolo sul giornale di cronaca Pietro Micca, anche se il vero esordio avvenne sulle pagine della Gazzetta del Popolo. All’Istituto Bertola, dove recuperò un anno, conobbe Vincenzo Ciaffi che la avvicinò ai poeti latini – iniziò a tradurre Catullo – e alla poesia italiana contemporanea: Eugenio Montale, Sandro Penna, Mario Luzi, Leonardo Sinisgalli, Libero De Libero. Dopo diversi trasferimenti, la famiglia si stabilì nella villa di via Pesaro 26, la ‘casa dei ciliegi’ immortalata dai versi montaliani.
Il 7 luglio 1942, fondò insieme a un gruppo di intellettuali torinesi la rivista di poesia Quaderni del girasole che divenne poi, in omaggio a Mallarmé, Il dado. Quaderni di poesia letteratura filosofia, a cui collaborò un gruppo nutrito di intellettuali di spicco come Luzi, Umberto Saba, Penna, Vasco Pratolini e altri. Sul Dado uscì, inoltre, il primo capitolo di The waves di Virginia Woolf, ancora inedito in Italia. Conobbe, in questi anni, Leonardo Sinisgalli ed Ezra Pound che incontrò a Rapallo, altro luogo per lei importante insieme a Roma e Parigi.
Nel frattempo, si iscrisse alla facoltà di lingue presso l’Università di Torino, conseguendo la laurea con una tesi sulla Recherche proustiana, relatore Ferdinando Neri. La poesia e la cultura francese – Alexandre Dumas padre, Gustave Flaubert, Émile Zola, Voltaire, Victor Hugo – furono sempre un punto di riferimento costante per la poetessa, la quale visse per alcuni brevi periodi a Parigi. Nel dopoguerra, conobbe Elémire Zolla, con il quale iniziò un’intensa e tormentata storia sentimentale e intellettuale. Nel 1947 diede vita con molti dei compagni del Dado al premio Torino. Essenziale fu per lei l’incontro con Montale, avvenuto in occasione di una conferenza al teatro Carignano di Torino, il 14 gennaio 1949. Iniziò così una delle relazioni intellettuali e spirituali più intense della letteratura italiana, raccontata nelle lettere oggi conservate presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia.
A ottobre uscì la mondadoriana antologia Poeti scelti, curata da Giuseppe Ungaretti e Davide Lajolo, dove compaiono alcune sue poesie. Nel 1950 la poetessa trovò lavoro presso l’ufficio stampa di una ditta anglo-cinese a Milano, dove frequentò assiduamente Montale. Nello stesso periodo, iniziò a scrivere pezzi giornalistici per numerose testate, tra le quali Milano Sera, Il Tempo, La Stampa, Corriere della sera; collaborò poi anche a numerose riviste tra cui Lo smeraldo, Epoca, Tempo illustrato, Cenobio, L’Illustrazione italiana, Radiocorriere TV, Botteghe oscure e Nuovi argomenti. Nel 1953 vinse una borsa di studio alla Sorbona e, l’anno successivo, venne pubblicata presso Mondadori, nella prestigiosa collana Lo Specchio, la raccolta d’esordio Le acque del sabato – che recuperava al suo interno anche la plaquette apparsa nello stesso anno, Primavera a Parigi – in cui dominano il tema del tempo e molteplici risonanze di ascendenza francese.
Al 1955 risale il viaggio americano – durante il quale conobbe anche Ingeborg Bachmann – a Harvard, in occasione dei seminari estivi tenuti dal giovane Henry Kissinger. Il 1956 fu l’anno de La bufera di Montale che le dedicò, come è noto, un’intera sezione, Madrigali privati, dove è evocata con il nome di Volpe. Nello stesso anno, l’attività paterna ebbe una forte flessione economica e la giovane fu costretta a trovarsi un impiego stabile, che ottenne, presso il collegio Facchetti di Treviglio, come insegnante di francese. Le opere successive, dal titolo Luna lombarda (1959) – «piccolo romanzo che […] mi ricorda una violenta felicità» (M.L. Spaziani, Prefazione, in Ead., Poesie 1954-1996, Milano 2000, p. 8) – e Utilità della memoria (1966) – «diagramma di una seria crisi» (ibid.) – rispecchiano questo momento trascorso a contatto con gli studenti.
Nell’ottobre del 1957 si trasferì a Roma, una città per lei ricca di fascino, in via del Babuino 68. Nel 1958, sposò in Campidoglio Zolla – testimone di nozze fu l’amico e poeta Alfonso Gatto – ma il rapporto tra i coniugi si logorò velocemente e il matrimonio venne sciolto già nel 1960. Al 1961 risale la morte del padre, in seguito alla quale la madre e la sorella si trasferirono a Roma. Nel 1962 pubblicò Il gong e, nello stesso anno, tradusse per Feltrinelli due romanzi di Marguerite Yourcenar, Il colpo di grazia e Alexis. Il 25 giugno 1964 nacque la figlia Oriana Lorena. Nell’autunno del 1964 iniziò la carriera universitaria alla facoltà di magistero dell’Università di Messina come docente di lingua e letteratura tedesca, per poi passare all’insegnamento di lingua e letteratura francese ed essere chiamata successivamente, nel 1969, all’Università di Palermo.
Nell’aprile del 1966, uscì da Mondadori Utilità della memoria, dove si riduce la componente postermetica in nome di una «lucida passione esplorativa» (Lagazzi, 2012, p. XIX). Nel 1970 uscì da Mondadori L’occhio del ciclone, libro legato al periodo messinese e al mare della Sicilia, definito dalla poetessa «parzialmente monotematico». Nell’aprile del 1971 morì la madre. L’anno successivo pubblicò per la ERI il volume Ronsard fra gli astri della Pléiade, per poi tornare alla lingua tedesca, nel 1973, con la traduzione di un testo teatrale di Johann Wolfgang von Goethe, il Goetz von Berlichingen. Continuò a tradurre autori amati tra cui si ricordano Jean Racine, Michel Tournier, André Gide, ma anche Gustave Flaubert, Marceline Desbordes-Valmore, Francis Jammes. Intraprese, poi, in questi anni, numerosi viaggi: in Unione Sovietica, Cina, Giappone, Marocco, Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia. Negli anni Settanta pubblicò i saggi Il teatro francese del Settecento, cui seguirono Il teatro francese dell’Ottocento e Il teatro francese del Novecento.
Alla fine degli anni Settanta era ormai un’autrice affermata: la casa editrice Mondadori pubblicò così nel 1979 un’ampia antologia della sua attività poetica, curata da Luigi Baldacci. L’anno prima, nel 1978, aveva dato vita a Roma, insieme a Giorgio Caproni, Danilo Dolci, Mario Luzi, Giovanni Raboni e Giacinto Spagnoletti, al Movimento-Poesia, con l’obiettivo di diffondere la poesia tramite varie iniziative. Nel 1979 entrò a far parte della giuria del premio Mondello e, nel 1981, dopo la morte di Montale, per onorarne la memoria, trasformò il precedente Movimento-Poesia nel Centro internazionale Eugenio Montale, istituendo poi anche il premio Montale. Dopo Transito con catene (1977), «un libro impuro, ricco di suggestioni diverse e lontane» (M.L. Spaziani, Prefazione, in Ead., Poesie 1954-1996, Milano 2000, p. 8) in cui sono raccolti anche i versi della precedente Ultrasuoni, pubblicò Geometria del disordine (1981), con cui vinse il premio Viareggio. Riprese poi a tradurre Marguerite Yourcenar di cui uscirono le Novelle orientali (1983) e Fuochi (1984). Seguirono i versi de La stella del libero arbitrio (1986), I fasti dell’ortica (1996) – qui sono raccolti anche i versi di Torri di vedetta –, La radice del mare (1999), cui si aggiungono, oltre ai numerosi articoli apparsi su riviste e quotidiani, le interviste immaginarie di Donne in poesia (1992), una raccolta di racconti, La freccia (2000) e alcuni testi teatrali, tra cui, dopo Il dottore di vetro (musicato da Roman Vlad nel 1959), si ricordano La ninfa e il suo re (1986) e La vedova Goldoni (1997). Fra i riconoscimenti da lei ottenuti ci furono ben tre candidature al premio Nobel per la letteratura nel 1990, 1992 e 1997. Sempre per Mondadori uscì nel 2002 La traversata dell’oasi, moderno canzoniere dove si celebra «una storia d’amore niente affatto ideale, ma fiorita per quel miracolo che non ha età, come un inatteso dono di grazia, un albero fuori stagione» (Lagazzi, 2012, p. XLIV).
A coronare la sua attività poetica, l’opera dedicata all’eroina centrale negli anni della formazione: Giovanna d’Arco (1990), «una narrazione epico-romanzesca in versi» (p. XXXIX), da cui poi venne tratto lo spettacolo teatrale L’angelo e il fuoco, con la regia di Luca De Fusco. Nel 2000 si trasferì in una nuova casa nel quartiere Prati, in via Cola di Rienzo 44. Il 30 maggio 2002 morì Zolla e, nello stesso anno, venne presentato il volume Poesie dalla mano sinistra. Nel 2003 fu costretta a lasciare la presidenza del Centro Montale per dissensi interni. In quello stesso anno, venne insignita dell’alta onorificenza di cavaliere di Gran Croce della Repubblica. Nel 2006 pubblicò La luna è già alta e nel 2009 per San Marco dei Giustiniani L’incrocio delle mediane con l’introduzione di Stefano Verdino. Montale e la Volpe (2011) è il titolo del volume di scritti autobiografici, in cui la poetessa racconta il suo rapporto con Montale.
Versi di Resistenza: la poesia patriottica del 25 aprile , Festa della Liberazione-dal blog “L’Altrove”-
Il 25 aprile, Festa della Liberazione, rappresenta un nodo fondativo e simbolico dell’identità repubblicana italiana, in cui storia, memoria e linguaggio si sovrappongono in un dialogo plurimo e stratificato. Se la storiografia e la memorialistica hanno ricostruito i percorsi della lotta partigiana in termini politici e militari, è la poesia a custodire le forme più intime, complesse e stratificate dell’esperienza resistenziale. La poesiapatriottica nata dalla Resistenza al nazifascismo non si limita a essere documento storico o strumento celebrativo: essa si configura piuttosto come pratica discorsiva capace di interrogare i codici etici, civili ed estetici della modernità. In questo contesto, la presenza di autori come Alfonso Gatto e Franco Fortini si affianca a quella, più taciuta ma non meno significativa, delle poete partigiane come Renata Viganò, JoyceLussu, Ada Gobetti e Maria Luisa Spaziani. Analizzare le loro opere significa restituire complessità a un canone poetico-politico spesso semplificato e ridotto a paradigma maschile ed eroico.
Festa della Liberazione dal nazifascismo
Alfonso Gatto: la pietà e la memoria come Resistenza
ALFONSO GATTO
Alfonso Gatto: la pietà e la memoria come Resistenza-Tra i poeti che più intensamente hanno tematizzato la Resistenza, Alfonso Gatto (1909–1976) occupa un posto centrale. La sua raccolta La storia delle vittime (Mondadori, 1966) costituisce un corpus poetico in cui la parola si carica di responsabilità storica, emotiva ed etica. In componimenti come Le vittime, Gatto non canta l’eroismo, ma la fragilità e la morte innocente, assumendo un tono elegiaco che trasforma la poesia in atto di pietas. La memoria, in Gatto, si coniuga sempre con il dolore e con l’ingiustizia subita, in un rifiuto programmatico della retorica bellica.
Gatto, partigiano egli stesso, fa della sua lirica una forma di memoria incarnata, in cui l’esperienza della guerra e della liberazione non si separano dalla sofferenza collettiva. In questo senso, la sua poesia diventa spazio per la riflessione civile, ma anche per una visione tragica del mondo: la Resistenza, pur necessaria, non cancella il lutto. Come nota Cesare Cases, Gatto non sacralizza la guerra giusta, ma la umanizza attraverso la compassione, offrendo una delle rappresentazioni più intense e contro-retoriche dell’antifascismo poetico.
Le vittime
La storia fosse scritta dalle vittime altro sarebbe, un tempo di minuti, di formiche incessanti che ripullulano al nostro soffio e pure ad una ad una vivide di tenacia, intente d’essere.
Gli inermi che si scostano al passaggio delle divise chiedono allo sguardo dei propri occhi la letizia ansiosa d’essere vinti, il numero che oblia la sua sabbia infinita nel crepuscolo.
Dei vincitori, ai ruinosi alberghi del loro oblio, più nulla. Rimane chi disparve nella sera dell’opera compiuta, sua la mano di tutti e il fare che è del fare il tenero. È il nostro soffio che gli crede, il dubbio di perderlo nel numero, tra noi.
Franco Fortini: la parola critica della storia
Franco Fortini
Franco Fortini (1917–1994) rappresenta l’altra grande voce della poesia resistenziale italiana, ma da una prospettiva profondamente diversa. Intellettuale marxista, saggista e polemista, Fortini elabora una poetica dialettica e autocritica, in cui l’evento storico non è mai semplicemente rappresentato, ma problematizzato. Nella raccolta Poesia eerrore (1959) e poi in Una volta per sempre (1978), l’evento resistenziale si iscrive in una riflessione radicale sul linguaggio e sulla funzione dell’intellettuale.
In testi come Traducendo Brecht, Fortini afferma l’impossibilità di separare poesia e responsabilità storica: “La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”, afferma provocatoriamente. Il riferimento a Brecht e alla poesia didattica è centrale: Fortini crede in una lirica che, anziché consolare o esaltare, interroghi, analizzi, smascheri. La Resistenza, per lui, non è solo un momento storico da celebrare, ma un problema etico-politico da rielaborare. Il poeta diventa allora testimone, ma anche interprete critico della propria epoca, capace di sfidare l’opacità della Storia attraverso la precisione della parola.
Canto degli ultimi partigiani è un testo emblematico resistenziale. Il testo si articola in strofe secche e ossessive, che alternano immagini di morte concreta – “le teste degli impiccati”, “i denti dei fucilati” – a un crescendo di disumanizzazione: “la nostra carne non è più d’uomini”. Fortini costruisce un rituale lirico della sofferenza collettiva, ma anche una promessa di giustizia: “sulla terra faremo libertà”. La voce è corale, epica e tragica insieme, radicata nella Resistenza ma rivolta a una memoria attiva, militante. L’ultimo verso, “la giustizia che si farà”, sigilla una fede laica nella storia e nella responsabilità civile.
Canto degli ultimi partigiani
Sulla spalletta del ponte Le teste degli impiccati Nell’acqua della fonte La bava degli impiccati
Sul lastrico del mercato Le unghie dei fucilati Sull’erba secca del prato I denti dei fucilati.
Mordere l’aria mordere i sassi La nostra carne non è più d’uomini Mordere l’aria mordere i sassi Il nostro cuore non è più d’uomini.
Ma noi s’è letta negli occhi dei morti E sulla terra faremo libertà Ma l’hanno stretta i pugni dei morti La giustizia che si farà.
Renata Viganò: la voce delle donne dimenticate
Renata Viganò
Renata Viganò (1900–1976), autrice del celebre romanzo L’Agnese va a morire (1949), è anche una significativa figura poetica della Resistenza. Le sue Poesie della Resistenza, meno note al grande pubblico (Wikipedia), si distinguono per il tono sobrio, narrativo, e per una forte tensione etica. La sua è una poesia quotidiana, che racconta la guerra non dal fronte armato ma dalle retrovie femminili: le madri, le contadine, le staffette, le infermiere.
Viganò rompe con la retorica dell’eroismo maschile, e afferma una visione della Resistenza come atto di cura e sacrificio. Le sue liriche, spesso semplici nella forma, hanno una forza evocativa profonda, perché portano alla luce il contributo delle donne alla lotta di liberazione. In esse il corpo femminile non è oggetto, ma soggetto della Storia: corpo che si muove, agisce, combatte e muore per la libertà. È una poesia che restituisce dignità alla memoria collettiva, ampliando il canone resistenziale oltre i confini del racconto maschile.
L’anagrafe trista è una poesia che affronta il tema del sacrificio delle donne partigiane. Attraverso un linguaggio semplice ma intenso, la scrittrice rende omaggio alle 128 donne cadute, i cui nomi compongono una sorta di “anagrafe triste”. La poesia evoca emozioni profonde, sottolineando il coraggio e la determinazione di queste donne nel combattere per la libertà. L’autrice utilizza immagini toccanti per trasmettere il senso di perdita e di memoria collettiva, rendendo il testo un tributo duraturo alla loro eroica partecipazione alla lotta partigiana.
L’anagrafe trista
Sussurravano piano piano rome le giovani fidanzate dietro le siepi d’estate a fare l’amore la prima volta, Mormoravano piano piano come la sposa che l’uomo bacia dopo la firma tremante sul registro del matrimonio. Camminavano piano piano come le mamme che vanno attorno, che sia la nOlte o che sia il giorno, alla culla del loro bambino, E invece uscivano dalla casa, ogni impresa cara era finita, Andavano fuori dalla vita per entrare nella Resistenza. Rinunciarono ai mobili nuovi comperati con tanti stenti. Non pensarono agli ingrandimenti inclinati nelle cornici. Non guardarono occhi di madri. già in pianto per altri dolori . Dalla vita si misero fuori per essere nella Resistenza. Fecero maglie e calze partigiane, fasciarono ferite partigiane, portarono armi e stampe partigiane. Ma se li agguantavano i tedeschi per mezzo di una anagrafe trista redatta dalla brigata nera, questo, voleva dire la morte. Eppure era bella la sera, In seno alla dolce stagione! Il sole, il respiro, il colore dell’aria fu per tante l’ultima vista. Altre caddero al buio, stracciate, contro le mura di un quartiere. Furono ansiose dell’ultimo istante per essere buone a tacere. Furorono paghe dell’ultima ora per disperdere il nome dei compagni nell’urlo della bocca’ infranta dal fuoco della tortura. Donne vive, vite vive: diritto e promesse d’amante. Lasciarono amore e passione per morir nella Resistenza. E qualcuna fu portata di peso e fucilata da morta, e qualcuna disse una parola dura al plotone di esecuzione.
Joyce Lussu: la traduzione del dolore storico
Joyce Lussu
Joyce Lussu (1912–1998), militante politica e traduttrice di poesia rivoluzionaria del Terzo Mondo, è tra le figure più originali della poesia resistenziale italiana. Nella raccolta Liriche, Lussu elabora una forma di poesia civile in cui soggettività e coralità si fondono. Il suo verso è secco, quasi documentaristico, ma ricco di tensione morale. La Resistenza, per Lussu, non è solo un fatto italiano, ma si inserisce in una rete di lotte internazionali contro l’oppressione.
Le sue poesie sono brevi, spesso costruite come testimonianze dirette, in cui la parola si fa strumento di resistenza contro la dimenticanza. Lussu rifiuta ogni estetismo: la forma poetica è funzionale all’urgenza del contenuto. La memoria della lotta diventa così patrimonio collettivo, e la poesia uno dei suoi veicoli più efficaci. La sua voce si aggiunge a quella di Brecht, Hikmet, Darwish: la resistenza è anche linguaggio, comunicazione, passaggio di testimone.
Ada Gobetti: il diario come forma poetica della resistenza
Ada Gobetti (1902–1968), intellettuale, pedagogista e staffetta partigiana
Ada Gobetti (1902–1968), intellettuale, pedagogista e staffetta partigiana, è nota per il Diario partigiano, testo ibrido tra testimonianza, prosa diaristica e prosa lirica. Pur non scrivendo in versi, la sua scrittura ha una densità poetica che la rende parte integrante del paesaggio letterario resistenziale. La precisione del linguaggio, la capacità evocativa delle immagini, la forza morale che attraversa ogni pagina fanno del suo diario una forma lirica della resistenza vissuta.
Gobetti restituisce la quotidianità della lotta: le marce nei boschi, le paure notturne, i bambini nascosti nei rifugi, i compagni arrestati. La resistenza, nelle sue parole, non è solo strategia militare ma scelta etica quotidiana, fatta di piccoli gesti, decisioni difficili, silenzi condivisi. Il suo sguardo femminile non è mai sentimentale, ma radicalmente politico: la poesia, qui, coincide con la pratica della libertà.
Maria Luisa Spaziani: la lirica della memoria
Maria Luisa SPAZIANI
Maria Luisa Spaziani (1922–2014), sebbene non direttamente impegnata nella lotta armata, fu testimone acuta dell’Italia resistenziale. La sua poesia, spesso più simbolica e meditativa, ha saputo cogliere l’eco lirica della Liberazione in testi in cui il tempo storico si fonde con la riflessione esistenziale. In alcune liriche, la Resistenza è evocata come tensione verso la libertà, come interrogazione della giovinezza perduta, come necessità di testimoniare.
Spaziani dimostra che la memoria della guerra può assumere anche una forma interiore, individuale, e tuttavia profondamente politica. La sua voce amplia il campo semantico della poesia patriottica, offrendone una versione meno bellicosa ma non meno intensa, in cui il trauma storico si elabora attraverso la trasfigurazione simbolica.
Poesia come vigilanza
La poesia della resistenza si configura dunque come uno spazio plurale, attraversato da voci, generi, stili e posizionamenti differenti. La centralità di Gatto e Fortini, con le loro poetiche complementari – la pietas lirica e l’analisi dialettica – trova un contrappunto necessario nella scrittura delle poete resistenti, che introducono uno sguardo di genere, una diversa etica del ricordo e una rinnovata forma del racconto storico. Rileggere oggi queste opere non significa solo fare memoria, ma anche interrogare le nostre pratiche discorsive, i nostri silenzi, le nostre esclusioni. Questi versi non sono dunque reliquie, ma un archivio vivente in cui si conserva il senso più profondo della parola democratica: non quella che esalta, ma quella che ascolta, che testimonia, che resiste. In un’epoca segnata dal riemergere di revisionismi e negazionismi, è necessario riaffermare con forza il ruolo della letteratura come spazio di consapevolezza e responsabilità. Non vi è nulla di decorativo o nostalgico in questa scrittura: al contrario, il suo compito è quello di vigilare, di mantenere acceso il fuoco della memoria, di ricordare che la libertà non è un’eredità acquisita, ma una scelta quotidiana. La poesia, in questo contesto, non celebra la patria come entità astratta, ma come spazio etico della convivenza, come luogo simbolico da difendere contro ogni forma di violenza, sopraffazione, oblio. Il 25 aprile, nella parola poetica, non è solo un ricordo: è una promessa che si rinnova ogni volta che il verso resiste al silenzio
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Renata Viganò scrittrice, poetessa e partigiana –Nacque a Bologna nel 1900 e a soli 12 anni, nel 1912, esordì con la sua prima raccolta di poesie dal titolo Ginestra in fiore, seguita, dopo tre anni, da Piccola Fiamma.
Ma oltre alla poesia, la Viganò si dedicò anche alla prosa e raggiunse l’apice del suo successo con L’Agnese va a morire, pubblicato da Einaudi nel 1949, un romanzo neorealistico ispirato alla Resistenza che ottenne il Premio Viareggio. La scrittrice partecipò, infatti, alla lotta partigiana collaborando come infermiera e scrivendo per la stampa clandestina.
Vogliamo ricordarla con voi pubblicando alcune sue poesie:
Cantata di una giovane mondina-
Mondine, mondine,
cuore della risaia.
Mio caro padre, mia cara madre,
io sono quaggiù per trenta giorni.
Appena arrivata mi sento già stanca;
chi sa come sarò al ritorno.
Si mangia poco, si beve a stento,
l’acqua fresca la troviamo di rado.
Eppure, mamma, son tanto contenta
d’esser venuta per questa strada.
Mondine, mondine,
amore della risaia.
Con le gambe sempre nell’acqua,
non so perché, vien sete in bocca.
Sono, al tramonto, una bestia stracca,
che si butta dove te tocca.
Paglia nuda e fitti respiri
nel camerone con tante zanzare.
Se per stanchezza non possiamo dormire,
qualche volta ci mettiamo a cantare.
Mondine, mondine,
fiore della risaia.
È bello, mamma, mondare il riso,
chè il riso è bianco e i padroni son neri.
Essi hanno in terra il paradiso,
noi camminiamo per bruschi sentieri.
Ma i nostri sentieri ci portano avanti,
e andiamo incontro a più dolce stagione.
Essi son pochi e noi siamo tanti,
e poco giova sentirsi padroni.
Mondine, mondine,
dolore della risaia.
Di sera guardo sulla pianura
quando si aprono in alto le stelle.
Non è il lavoro che fa paura,
chè, di questo, son figlia e sorella.
Mio caro padre, mia cara madre,
io vi ringrazio di essere forte.
Andiamo insieme su un’unica strada,
e la bandiera la portano i morti.
Mondine, mondine,
onore della risaia.
L’usignolo-
L’usignolo solo
canta triste fra i rami,
e pare che richiami
un sogno già svanito
un sogno già sfiorito.
Canta pian l’usignolo.
La ginestra-
Nasce sul brullo monte,
fra i roveti ed i sassi,
fragile come un bimbo
che muove i primi passi.
La sua fragil corolla
rallegra il senteruolo,
rallegra il pastorello
colle caprette, solo.
Oh! Ginestra ignorata
è breve la sua vita,
ella nasce in estate,
d’autunno è già sfiorita.
E uno strano contrasto
lo stelo col fior fa;
quello forte, robusto,
questo fragilità.
Renata Viganò si appassionò fin da piccola alla letteratura e coltivava un sogno: fare da grande il medico. Tuttavia le difficoltà economiche subentrate in famiglia la indussero ad interrompere il liceo e, con senso del sacrificio e una maturazione affrettata e non voluta, ad entrare nel mondo del lavoro come inserviente e poi infermiera negli ospedali bolognesi.
Questo suo impegno al servizio dei bisognosi non le impedì di scrivere per quotidianie periodici, elzeviri, poesie, racconti sino all’8 settembre 1943.
Con la firma dell’armistizio la sua vita ebbe una svolta esistenziale: assieme al marito Antonio Meluschi e il figlio, l’infermiera-scrittrice partecipò alla lotta partigianacome staffetta, infermiera e collaborando alla stampa clandestina.
Di questo periodo disagiato ma intriso di sano idealismo esistenziale fu pervasa la susseguente produzione letteraria. L’Agnese va a morire (1949), romanzo tradotto in quattordici lingue, rappresentò il punto più alto; vinse il secondo premio al Viareggio[2]e costituì il soggetto per il film omonimo diretto da Giuliano Montaldo.
Il romanzo racconta vicende partigiane con onesta semplicità da cronista e spirito di sincera adesione agli eventi, e fu considerato negli anni del dopoguerra un esempio, una testimonianza della narrativaneorealista.
Vale la pena di ricordare, tra le opere della Viganò, almeno altri due libri sul tema della Guerra di liberazione: Donne della Resistenza (1955), ventotto affettuosi ritratti di antifasciste bolognesi cadute, e Matrimonio in brigata (1976), una raccolta di efficaci racconti partigiani, uscito proprio l’anno in cui la scrittrice è scomparsa.
Due mesi prima della morte, a Renata Viganò fu assegnato il premio giornalistico Bolognese del mese, per il suo stretto rapporto con la realtà popolare della città.
Renata Viganò
Opere
Ginestra in fiore. Liriche, Bologna, Beltrami, 1913.
Piccola fiamma. Liriche (1913-1915), Milano, Alfieri & Lacroix, 1916.
Il lume spento, Milano, Quaderni di poesia, 1933.
L’Agnese va a morire, Torino, Einaudi, 1949.
Mondine, Modena, Tip. Modenesi, 1952.
Arriva la cicogna, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1954.
Donne della Resistenza, Bologna, STEB, 1955. [Ritratti di donne partigiane pubblicato in occasione della Festa dell’Unità di Bologna 1955]
Ho conosciuto Ciro, Bologna, Tecnografica emiliana, 1959.
Una storia di ragazze, Milano, Del Duca, 1962.
Matrimonio in brigata, Milano, Vangelista, 1976.
Rosario. Libera interpretazione dei quindici misteri del rosario scritta da me, non credente, per puro amore di leggenda e poesia, Bologna, A.N.P.I., 1984. [poesie pubblicate dall’ANPI Bologna in 100 copie, con incisioni di Guttuso, Covili].
Sonetti inediti, Bologna, A.N.P.I., 1984.
La bambola brutta. Storia di Eloisa partigiana, illustrazioni Viola Niccolai, a cura di “Brigata Viganò”: Dafne Carletti, Sofia Fiore, Margherita Occhilupo, Marta Selleri, Elena Sofia Tarozzi e Tiziana Roversi, Bologna, Tipografia Negri, 2017. [Nuova edizione del racconto pubblicato la prima volta in “Pioniere”, 1960]
Tawara Machi -Mattina d’agosto-Rivista Nuovi Argomenti
La Poesia di Tawara Machi -Mattina d’agosto compone la prima sezione del canzoniere d’amore L’anniversario dell’insalata (1987), della poetessa giapponese Tawara Machi, scritto quando aveva ventisei anni. Il successo commerciale dell’opera testimonia come la giovanissima scrittrice abbia saputo dare voce al vocabolario emotivo di una nuova generazione. L’uso della forma metrica del tanka, inoltre, fa dialogare l’opera con l’eredità della poesia giapponese classica. Pubblichiamo alcuni estratti, nelle traduzioni inedite di Damiana De Gennaro.
Tawara Machi
この曲と決めて海岸沿いの道とばす君なり「ホテルカリフォルニア」
tu sei questo brano
che scorre con il lungomare – Hotel California
陽の当たる壁にもたれて座りおり平行線の吾と君の足
i raggi colpiscono la parete
a cui siamo poggiati –
le nostre gambe, linee parallele
ぼってりとだ円の太陽自らの重みに耐えぬように落ちゆく
come se non sopportasse
il suo stesso peso,
il sole, ovale, sta cadendo
オレンジの空の真下の九十九里モノクロームの君に寄り添う
arancione, il cielo
sulla spiaggia di Kujūkuri –
mi avvicino a te, monocromo
あいみてののちの心の夕まぐれ君だけがいる風景である
fa sera nel mio cuore
quando te ne vai –
solo tu sei nel paesaggio
君を待つ土曜日なりき待つという時間を食べて女は生きる
un altro sabato ad attenderti –
le donne vivono mangiando
il tempo dell’attesa
球場に作り出される真昼間を近景として我ら華やぐ
come la luce di mezzogiorno
nel campo da baseball
noi splendiamo
「また電話しろよ」「待ってろ」いつもいつも命令形で愛を言う君
telefonami, poi; aspetta
si coniuga la lingua del tuo amore
sempre all’imperativo
一生かけて愛してみたき人といて虚実皮膜の論を寂しむ
pensando al labile confine
tra reale e irreale, il dolore
di volerti amare per la vita
いつか君が歌ったこんな夕暮れのハートブレイクホテルの灯り
una volta, nella luce
di un tramonto simile, cantavi Heartbreak Hotel
愛人でいいのとうたう歌手がいて言ってくれるじゃないのと思う
va bene anche solo essere amanti
dice qualcuno in una canzone –
ma ne avrebbe il coraggio?
Tawara Machi
Tawara Machi (俵万智) nasce a Osaka il 31 dicembre del 1962. Si iscrive alla facoltà di lettere presso l’Università Waseda, dove incontra il suo mentore Sasaki Yakitsuna. Nel 1986 le 50 poesie raccolte sotto il titolo di Mattina d’agosto si classificano al primo posto della trentaduesima edizione del Premio Kadokawa. L’anno successivo viene pubblicato il suo primo libro, Sarada kinenbi, che diviene subito best-seller e fenomeno letterario. Tra le sue altre opere, ricordiamo Kaze no te no hira, Chokoreto kakumin, Pu-san no hana, Ore ga Mario, Mirai no Saizu.
Fonte – Nuovi Argomenti-
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Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario –
Così descrive Arturo Graf lo scrittore e docente dell’ateneo di Milano Luciano Aguzzi: “Arturo Graf -Brillante accademico, autore di molte opere di grande rilievo, fra i più importanti studiosi del suo tempo, è un uomo dell’Europa multiculturale, profondo conoscitore della cultura inglese, tedesca e francese, oltre che di quella classica greca, latina e italiana, curioso anche della filosofia orientale, del buddismo, da cui pure trae alcune idee.”
La vetta di Arturo Graf
Avanti! pochi altri passi
e poi sarem sulla vetta;
avanti pur senza fretta,
in mezzo agli sterpi e ai sassi!
La vetta è là, tutta sgombra,
tutta serena nel sole,
lungi da quando si duole,
fuor dalle nebbie e dall’ombra.
Anima inquieta e stanca,
non ti rivolgere indietro:
in basso il vapore tetro,
in alto la luce bianca.
Voi, cui travaglia ed opprime
un cruccio greve e nascoso,
ponete mente: riposo
non è, se non sulle cime.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
La poesia che state per leggere è stata scritta da Arturo Graf il 19 gennaio 1848 per il suo caro micino. Dolce, spiritosa, scanzonata, è una vera e propria dichiarazione d’amore all’amico a quattro zampe.
O mio caro micino,
bello, lindo, pastoso,
lepido, grazioso,
ficchino, naccherino;
mentre al quieto lume
d’una lampa modello,
io, com’è mio costume,
sui libri mi scervello;
mentre assassino l’ore
cercando il pel nell’uovo,
o con l’antico errore
affastellando il nuovo;
tu vieni quatto quatto
a farmi compagnia,
e mi schizzi d’un tratto
sopra la scrivania.
Ti muovi a coda ritta
fra libri e scartafacci,
poi sulla carta scritta
placido t’accovacci.
O mio caro micino,
bello, lindo, pastoso,
lepido, grazioso,
ficchino, naccherino;
io prendo gran satolle
di testi con le note;
tu rimani in panciolle
sulle morbide piote;
se beato sonnecchi,
pieno di scienza infusa,
o mi guardi sottecchi,
sbadigli e fai le fusa.
E non so se m’inganno:
ma talvolta direi
che tu, così soppanno,
ridi de’ fatti miei.
Poi, quando finalmente
ci vengono a chiamare,
e come l’altra gente
andiamo a desinare;
io mangio quanto un grillo
consunto d’etisia;
tu pappi franco e arzillo,
la tua parte e la mia.
PRIMAVERA
(Arturo Graf)
Torna l’aprile e si rinnova il mondo,
e tutta un riso la natura appare:
de’ primi fiori inghirlandate, o care
fanciulle, il crine inanellato e biondo.
Torna l’aprile ed in leggiadre gare
apre natura il suo spirto profondo:
sciogliete, o care vergini, a giocondo
inno le voci armoniose e chiare.
Esultate, esultate al dolce orezzo.
Ché a voi s’addice e a vostra età fiorita,
obblivïosa di una certa sorte:
non a me, cui dà noja e fa ribrezzo
questo rigoglio di novella vita
intesa solo a preparar la morte.
SE SI POTESSE
Se si potesse in un tino
spremer con agili dita
la poesia dalla vita
come dai grappoli il vino!
E innebrïarsi di quella
come d’un vino giocondo,
ricreando il vecchio mondo
in una ebrezza novella!
Spremer la dolce follia
da tutti i grappoli!
Bere in un pulito bicchiere,
e i graspi buttarli via!
Bere, guardando allo insù!
Poi, dopo avere bevuto,
dire: bicchier, ti saluto!
Non voglio bevere più.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
“Pensiero fulmineo”
Talora, quando più secreta e folta
la notte incombe e l’emisfero tace.
Io, da vana deluso ombra di pace,
gli sparsi miei pensier chiamo a raccolta.
E la speranza suscito che giace
sotto le antiche ceneri sepolta,
e di tesser mi studio anco una volta
bella vita il sottil sogno fallace.
Ma d’improvviso, sì ch’io non l’avverto,
piomba dall’alto sulla mia follia
fulminando il pensier dell’infinito:
dissipa il frale e dilicato ordito,
e lascia dentro a me l’anima mia
fatta un gorgo di mar, fatta un deserto. Arturo Graf
SERA
Dalla chiesetta alpestre
giunge il clamor dell’ora:
al ciel che si scolora
olezzan le ginestre.
Una quïete stanca
scende implorata ai vivi:
la luce ai campi, ai clivi
gradatamente manca.
Un vertice selvaggio,
scabra, sassosa mole,
riceve ancor del sole
il moribondo raggio;
e sul pendio, raccolti
dentro un recinto breve,
sotto la terra greve
riposano i sepolti.
Un divino silenzio
tutte le cose ammanta,
e l’anime rincanta
beverate d’assenzio.
Solo, tra l’erbe, il grillo,
salutando la sera,
scande la tiritera
del suo gracile trillo;
nentre dall’erme lande
il mite odor del fieno
sotto il cielo sereno
lento s’eleva e spande.
Immortale favilla,
nitida gemma ardente,
espero in occidente,
là, sulla selva, brilla.
in quell’innamorato
lume il mio sguardo mira:
l’anima mia delira
risognando il passato.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
“Le Campane di Lucerna”
Il suono delle campane di Lucerna ha colpito l’animo del poeta. La loro voce romba cupa, ma quel rombo giunge gradito all’orecchio di colui che soffre. è l’annuncio di un regno di pace, di un al di là sereno. E nel cuore nasce vivo, acuto, pungente il desiderio della vita eterna. La lirica si chiude con una quartina altamente poetica. Leggetela attentamente: sono versi musicali, pare quasi di sentire l’eco del rombo di quelle campane.
Le campane di Lucerna
romban cupe in cieli oscuri:
agli afflitti, ai morituri
fan sognar la vita eterna.
La lor voce è come un tuono
che sorvoli ai monti, ai piani,
conclamando accenti arcani
di corruccio e di perdono.
Quei che prega e si prosterna,
quei che nega e si rivolta,
ciascun freme allor che ascolta
le campane di Lucerna.
A quel suono che accommiata
l’ore stanche, i dì consunti,
treman l’ossa dei defunti
nella terra consacrata (1)
O desio di vita eterna,
come pungi e come aneli,
quando rombano ne’ cieli
le campane di Lucerna!
1) nel cimitero
“Superstite”
Della chiesa superba
questo avanzo rimane,
quattro livide mura,
un arco immane,
la distesa scalea, vestita d’erba.
Dal cielo guata la luna l’ignudo altar
gl’inscritti sepolcri
e il muto pulpito e i diritti pilastri
cui la fosca edera abbruna,
e gli altri vaneggianti finestroni all’ingiro,
ove sui fondo oro e di zaffiro
un giorno sfavillar
Madonne e Santi.
Tra le deserte mura tutto è silenzio e morte
d’una vita che fu, d’un altra sorte
un solo e vivo testimonio or dura dietro
alla vota occhiaia dell’oriuolo incombe
alla ruina e le forbite trombe ancor lo smisurato
organo appaia.
Ancor grandeggia e brilla sotto la buia volta,
e par che intuoni a un popolo che ascolta
l’orror del Dies Irae Dies Illa.
Me ne’ fianchi l’intendo fiato più non comprime,
più non rompe terribile e sublime
dalle cento sue bocche il canto immenso
e sol malora, quando nei cilindri sonori s’ingorga un venticel,
l’aria di fuori freme d’un canto doloroso e blando.
E sulla sponda estrema della grigia parete
alcun pallido fior morto di sete
sul flessuoso stel palpita e trema.
“Fantasmi”
Mezzanotte: fremendo l’orïuolo
i lenti squilli nel silenzio esala;
è mezzanotte; pensieroso e solo
io seggo in mezzo alla profonda sala.
Splende d’un lume abbacinato e fioco
delle finestre il gotico traforo;
come una nebbia di stemprato foco
raggian nel buio i lacunari d’oro.
Nel ciel cui spazza il gelido rovaio,
dietro i frastagli d’una guglia bruna,
come uno scudo di forbito acciaio
il disco sale della colma luna.
È mezzanotte; una mortal quïete
il freddo e sonnolento aere ingombra;
un organo s’addossa alla parete,
e con le terse canne allistan l’ombra.
Io guardo innanzi a me lo steso arazzo,
e a poco a poco, trasparenti e pure,
veggo apparir sul fondo pavonazzo,
colorirsi e passar care figure.
Larve di donne innamorate e morte,
coronate di gigli e d’amaranti,
belle, soavi, in cheta estasi assorte,
piene di carità nei lor sembianti.
Passan lente e leggiere, in compagnia,
e tornano a vanir nell’aer scuro;
io veggo la dipinta anima mia
istorïarsi a mano a man sul muro.
L’organo si ridesta; entro le cave
trombe gorgoglia un gemebondo nato;
trema un canto nell’aria arcano e grave,
il canto della morte e del passato.
“Pallida Mors”
Mentre intorno ai fioriti e scintillanti
deschi sediam entro dorata sala,
e dalle tazze traboccanti esala
il sonoro e gentil spirto dei canti;
mentre ferve la gioia, e accende il volto
alle fanciulle e scalda il sen di neve,
dietro i serici arazzi il passo greve
e il riso acuto io della morte ascolto.
E gli occhi, pieno di sgomento il core,
ficco nei viso a mi orïuol beffardo,
e il negro, maledetto indice guardo
per l’angusto volar cerchio dell’ore.
Mi guardo a fianco, e sull’amata fronte
veggo di tratto inaridir le rose,
e spegnersi il balen dell’amorose
luci che al mio piacere eran sì pronte;
illividir le tempie ed il soave
labbro farsi di gel, sciorsi le chiome,
e sulla sedia arrovesciarsi, come
morto, il bel corpo illanguidito e grave.
E mi s’agghiaccia il cor; falso né vero
più non discerno, non rido, non piango;
ma, con le braccia al sen, muto rimango,
immobile, a guatar l’empio mistero.
“Simulacro”
Dal marmoreo fonte
ritto si leva il bianco simulacro:
ancora par che dal selvoso monte
Diana scenda al gelido lavacro.
Le fredde ignude membra
un arcano e sottil spirito avviva;
ancora sui divini omeri sembra
che balzi e suoni la faretra argiva.
Sotto l’arco del ciglio
immobilmente la pupilli guata,
guata dell’onde il lucido scompiglio
e l’ozïosa danza interminata.
Sulla fronte superba
un’ombra di pensier tacito vaga,
misterïoso desiderio, acerba
reminiscenza, fantasia presaga.
Dimmi, ricordi i chiari
gioghi d’Olimpo, il ciel liquido immenso?
De’ numi il lieto popolo, gli altari
su cui bruciava l’odorato incenso?
Ricordi tu le selve
dense, al fragor dell’irruente caccia
alto sonanti, e le inseguite belve,
e i can travolti sulla lunga traccia?
Ricordi i lieti e vaghi
recessi dove dal sanguigno ludo
posavi? i monti solitarii, i laghi
ove immergevi il divin corpo ignudo?
Ricordi i baci ardenti
d’Endimïone e il venturato scoglio?
del mal vinto pudore i turbamenti
soavi e il novo femminile orgoglio?
Ricordi ancorar? Or dove,
dov’è quel tempo e quel felice mondo?
ove il tuo culto e il nume tuo giocondo,
superba figlia dell’egioco Giove?
Buon per te che sei morta!
Il pellegrin dolente e affaticato
ti passa innanzi, e meditando il fato
de’ numi erge la fronte e si conforta.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
“Teschio”
In mezzo a una pianura erma e scoverta
sorge la gran piramide d’un monte,
che, solcata da’ fulmini, la fronte
avventa al cielo minacciosa ed erta.
L’uom di lassù potria mirar le glorie
di cinquanta città: opere e fasti
d’antiene genti, alte ruine e vasti
regni, teatro di famose istorie.
Sopra una guglia dritta acuminata,
a cui l’aquila il vol drizzar non osa,
un teschio ignudo e solitario posa,
e muto spettator dall’alto guata.
E pensa? E par così meditabondo!
e così triste! O nudo teschio e vano,
o teschio pien d’un gran pensiero arcano,
dimmi, per dio, che pensi tu del mondo?
“Sangue”
Strano licor! nell’infingarda creta
qual’arte arcana, qual poter t’instilla?
Vive per te la sciagurata argilla;
vive: il ciel può saper quanto n’è lieta.
Nullo acume di mente o di pupilla
può penetrar la tua virtù secreta;
bagni l’inerte fibra e irrequieta
vampa l’imperscrutata anima brilla.
Tu fomenti il pensier; dal cor profondo
reggi estuoso della vita il gioco,
mesci gli effetti in turbolente gare.
Strano licore! ogni tua stilla è un mondo;
e non conosce i tuoi fervori il foco,
e non conosce le tue rabbie il mare.
“Lo specchio”
Nella mia cameretta ove l’amica
luna dal ciel traguarda e il sol morente,
sovra il camin pende uno specchio, antica
d’arte venezïana opra lucente.
L’immacolato vetro intorno intorno
di negro legno una cornice accoglie,
ove industre scalpel, con stile adorno,
fiori e frutta intagliò, viticci e foglie.
D’empia Medusa al negro cerchio in cima
la turpe faccia boccheggiar si vede;
scolta è nel legno e viva altri la stima,
e dall’aspetto orribile recede.
Lo specchio d’un baglior pallido brilla
da soli antichi nel cristal piovuto;
oh, la sua grande, immobile pupilla
sa dio le orribil cose che ha veduto,
nei marmorei palazzi, entro secrete
stanze, o di simulati usci pel vano,
lucida e tonda in mezzo alla parete,
che sorda, muta, custodia l’arcano!
Or più non serba e non respinge indietro
larva né segno del veduto mondo;
lucido, eguale, immacolato il vetro
si stende come un lago senza fondo.
Talor mi pongo a riguardar furtivo
entro il suo lume, quando il giorno muore,
e nel vedermi, e nel sentirmi vivo,
d’orror mi riempio, mi s’agghiaccia il core.
E l’empia Gorgo mi saetta addosso
l’atroce sguardo e mi trapassa dentro;
vorrei fuggire e il piè mover non posso,
immobil guardo ed impietrar mi sento
Fonte-Poesie pubblicate da Lunaria
Arturo Graf: una guida verso la ricorrenza -di Fabio Cecchi-
Fabio Cecchi
Nell’ombra che attende. Passata la ricorrenza legata al cantore sammaurese, i suoi ben noti versi ci introducono quella oramai prossima dell’altrettanto illustre (all’epoca, s’intende) Arturo Graf (1848-1913). Il padre, di provenienza teutonica, poté fornirgli il cognome che, anomalo nel panorama di casa nostra, è ed è stato d’aiuto alla folla nel consolidarsi in mente. Se sembrava prerogativa di molte voci romantiche e dei personaggi loro una giovinezza nomade, anche a Graf toccò un biculturalismo, lui che si insedierà a ponte tra le esperienze letterarie dei secoli XIX e XX. La biblioteca della facoltà di Lettere di Torino ne reca oggi il nome, e ivi risiede inoltre, come da volontà, il patrimonio culturale della sua persona:
«Gode lo studio mio, se nol sapete, di più comodità, di varii pregi:
quattro migliaia di volumi egregi veston dall’alto al basso la parete.
C’è la bibbia in tedesco ed in latino, con le Mille e una Notte e il Pecorone;
c’è con l’Emilio l’Imitazione; ci sono l’opre di Pietro Aretino.» (da Notte di Natale, 1893)
Nel capoluogo torinese Graf esercitò per un largo ventennio l’insegnamento della letteratura italiana, formando tra i molti Attilio Momigliano, Francesco Pastonchi e Giovanni Cena. Prima di ciò riuscì ad apporre la firma su pagine di giornali letterari sempre con base a Torino; lo sappiamo accanto a un redattore quale Rodolfo Renier e già definito “di ingegno squisito e coltura molta” da parte di Antonio Labriola.
Nelle aule accademiche il suo nome circola oggi nella veste di storico della letteratura e dei costumi, rendendo onore agli sforzi di lui ricercatore ma eludendo quella produzione in versi che per le scuole secondarie è assolutamente nulla cosa (discorso estensibile a molteplici altri casi).
Forte del sodalizio con Hermann Loescher egli produsse una buona lista di scritti, alcuni mai tramontati, come Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, altri noti a pochi come La poesia popolare rumena; molte lezioni sulla Commedia sono poi confluite in libelli dati prontamente alle stampe. Questo metterà il nostro in contatto epistolare con un professore in erba che al vate fiorentino e nazionale riservava uno dei tavoli di studi nella dimora di Castelvecchio, e troveremo Zvanì citarlo con devozione nelle postille ai Poemi Conviviali. Per finire, elenchiamo un romanzo ben accolto, Il riscatto, ed un libro, Ecce Homo, piuttosto cospicuo considerando che raccoglie aforismi e brevi detti, scaturiti sia dall’ingegno che dalla coscienza.
STILE E MATERIA POETICA
Cosa abbiamo sott’occhio? Sonetti, innanzitutto, regolari ma anche minimi. Gli endecasillabi, affiancati talvolta ai più capienti alessandrini, prevalgono nella prima fase, fin che il poeta sposa il verso breve (settenari, ottonari) prima in Morgana poi nelle Rime della Selva per l’intero canzoniere.
«Semplice, chiaro, preciso è, pur nel verso, il mio dire.
Non so, non voglio mentire, né la parola, né il viso.» (Rime della Selva, Prologo)
Vorrei ora riportare un passaggio da una mia sortita in un dizionario degli autori. «Il Graf – vi è scritto – è tra i pochissimi a uscire indenne dalla lezione carducciana […]». Del tutto vero: nessuna trattazione politico-patriottica, con la materia storica che cede la scena a quella mitologica (Tantalo, Invocazione a Venere, Flora Nivalis, la Fenice). Neppure troveremo, netta distinzione dallo Zanella (per il quale, si ricorda, il nostro stilò una sentita prefazione allegata alle uscite postume per Le Monnier) carmi celebrativi con dedica a esponenti delle alte classi.
Invece, al pari del corrispondente romano Domenico Gnoli, e rispondendo ad un nascente astro d’origine romagnola, Graf tratteggia molto abilmente squarci naturali e paesaggi, spendendo senza riserbo lodi e paragoni per il fonte e l’invitta cima, la tea e gli arguti e festanti augelli.
Dove Graf può accostarsi al nostro primo vincitor del Nobel e, senza tralasciare numerosi passaggi appartenenti a Psiche, per molti vetta della poesia di Giovanni Prati, è evidente l’intento d’innalzare la posizione dell’intellettuale. Questi detiene il sacro compito di diffondere la ragione, di fronte un volgo reticente e dalla minima volontà di accogliere precetti ed inviti. Di seguito si allega una selezione certamente indicativa al riguardo: “diffida della garrula plebe”; “addio, pestifera proda”; “vive nell’ora presente, nell’ora corta e declive, senza saper come vive, per la più parte la gente…” e ci par lecito aggiungere: “O martire cruento, sai tu di che genìa / pieno ed infetto sia, il mondo ch’hai redento?” (da Ad un Crocifisso lungo la Via).
La questione pare aver coinvolto pure il Rapisardi, il quale assai di rado ebbe ad astenersi dall’emetter voce a nome della collettività. A dimostrazione, ne le ammirevoli Poesie religiose (1887, Catania) si alternano espressioni quali “gagliarda invitta stirpe” ed altre del tipo “turba rea” e “vili objetti del volgo”.
Con Medusa in molti cominciarono e chiusero con l’autore. Egli salta difatti alle cronache come poeta del male di vivere, e non nel senso tanto caro e fruttuoso ai poetucoli d’oggi. Ivi s’apprende che all’affermazione dello studioso corrisponde una sfera sociale scarna tutt’altro che esaltante.
La terzina che segue, impostata in prima persona, lo vede esporre con scarsa ritrosia la negatività del momento.
«Così vivo e mi sfaccio e mi consumo,
La notte il bujo, il dì guardo la polve,
Piego le braccia neghittose e aspetto» (Terrore)
Una soggettività non celata quindi, che riesce ad adombrare i cauti tinteggiamenti leopardiani, così riecheggianti di Petrarca ed altri nomi della classicità. Una valutazione sarà certamente soggetta ai punti di vista, e per chi “impegnato” anche alla corrente d’appartenenza. Ancora:
«Quand’io contemplo la funesta arena
ove men perde chi più presto muore
[…]
sento stringermi il cor, sento piu scura
farsi la notte dello stanco ingegno.
Ed un pensiero immobile m’assedia
e prorompo in un grido: Empia Natura,
quanto ha mai da durar questa tragedia?» (Umana tragedia)
Inevitabile per i viventi l’incontro con oppressione e dolore, vengono innalzati temibili appelli nichilisti:
«Taciam noi pur! regni il silenzio dove
regna destino forsennato, e immenso
empia di sé l’inesorabil etra.» (Omnia ruunt)
Il poeta, parte attiva in parecchi dibattiti del suo tempo anche di genere filosofico-epistemologico, giunge – dopo spasmodiche deviazioni di percorso – a proclamarsi cattolico di confessione. Per una Fede, opuscolo dato alle stampe nel 1906, espone le motivazioni dietro la scelta. È insieme curioso e lodevole constatare però come nella produzione lirica ciò non provochi stravolgimenti o un modo differente di porsi nei confronti dell’Ordine delle Cose o di Sé. Ne Le Rime della Selva, con cui Graf sceglie preventivamente di congedarsi dal vasto pubblico lasciando gli ultimissimi esercizi alle pagine della «Nuova Antologia», l’ardore iniziale s’ammorza sfociando ripetutamente in un distacco nostalgico ma coscienzioso.
«Il benvenuto non posso, non posso dartelo come
fanno, per dir qualche nome, lo sgricciolo e il pettirosso.
[…]
Vecchio e finito. Dio buono! Chi è che sa dirmi al vero
ov’abbian lor cimitero i giorni che più non sono?» (Al novo giorno)
Non possiamo tuttavia attestare la sommessa invocazione degli ultimi passaggi come forzata e dissonante. In linea col sentimento espresso notiamo meglio calzare tutt’altra esclamazione, se non che teniamo in conto il codice etico dei letterati del tempo.
Ci serviamo ad ogni modo dei precedenti stralci al fine di una sintesi: un linguaggio calibrato e spesso steso con originalità, una certa tensione emotiva e di pensiero, un’atmosfera complessiva che risente di molta esplorazione, dunque delle cadute e degli slanci di questa.
CAMMINO POETICO
Lungo il Novecento parecchi poeti di valore e risonanza riuscirono a vedere le loro fatiche riunite in volume unico (in altri casi, come per Carducci e Cena, si optò per gli scritti completi).
Il primo omaggio postumo sfornato dalla patria torinese consiste nel volume piuttosto sgangherato che è POESIE 1893-1906, apparso nel 1915. Si conta un certo numero di errori di stampa ed oltre alle Danaidi, uscite all’incirca a mezzo del periodo indicato, sono poi omesse le aggiunte apportate ai libri dall’autore in un secondo tempo. In bene, oltre ad un ritratto fotografico quel giusto lugubre, rileviamo l’inclusione di Fiori, poesia inedita in copia da fac-simile.
Ogni opera appare in edizione definitiva nel più moderno e corposo LE POESIE dato alle stampe nel 1922 da Giovanni Chiantore (chiamato a succedere dalla vedova di Graf, la quale già fu vedova Loescher). Vistato dall’allievo poi francesista Ferdinando Neri, esso si avvale della prefazione del membro del Senato Vittorio Cian, che del professore sapeva molto più di quanto abbia voluto presentarci (uno dei tanti carteggi a cura di Clara Allasia).
Nelle note preposte all’Indice si fa doverosamente presente come piuttosto che selezionare si è optato per escludere POESIE E NOVELLE (Roma, 1876), primissima apparizione – per l’Italia – del nostro. Se può esser stata mossa ragionevole l’aggirare un eccessivo ingombro, non possiamo tuttavia in questa sede segnalare una maggiore coincidenza dei canti sopra accennati rispetto ai Poemetti (vedi sotto).
Il viaggio a ritroso nel tempo continua con il piuttosto raro VERSI che nel 1874 il nostro diede alle stampe nella città di Braila, Romania, dove la madre gestiva una attività dall’alterna fortuna. I più arditi collezionisti potrebbero infine mettersi sulle tracce di Versi di Filarete Franchi (riportato come Bianchi in altre fonti) fatica primissima di un Graf appena quattordicenne e celato da pseudonimo.
MEDUSA (1880, poi 1890): Graf dà avvio alla sua produzione di rilievo con un libro non meno sinistro del titolo affibiatogli. La lettura viene per così dire alleviata dal centinaio di disegni realizzati da Carlo Chessa (anch’egli con studio a Torino) che inframezzano i componimenti. L’edizione terza, sempre affidata all’esimio compare Loescher, accresce notevolmente l’opera di una terza sezione in linea con le antecedenti. La critica, come da previsione, è spaccata: si contano opinioni a favore ineggianti al vivido simbolismo e al linguaggio sofisticato (in buon numero i dantismi) ed altre meno accondiscenti che rilevano un “gelido leopardismo” e “il difetto di un’ansiosa morale”.
DOPO IL TRAMONTO (1893): sono qui raccolti nuovi spunti, molti di materia autobiografica. Il pessimismo che contraddistingue Medusa da cima a fondamenta va attenuandosi lasciando il posto ad un più artistico intento che apre una fase di discreto equilibrio. Una certa divulgazione è stata favorita dalla larga antologizzazione di Breve la Vita? componimento esemplare per il pensiero dell’autore.
LE DANAIDI (1897, poi 1905): in prima apparizione non ripagano le attese, nonostante, attingendo dall’Alighieri sulla scia di Tennyson, Graf produca Ultimo Viaggio di Ulisse, poema di buona caratura e lunghezza. Il riesumato Loescher provvederà, dopo una certa attesa, a rieditare la presente raccolta in veste definitiva; un valore aggiunto sarà dato da liriche come Sic transit e la collana di sonetti “Consigli a un Poeta Giovane”.
MORGANA (1901): ritorno alle edizioni milanesi, che propongono un volume alquanto ingombrante al paragone con gli esili cartoncini dei rivali. L’autore fa scelta di declinare eventuali spasmi filosofici virando su brani impressionistici e rischiando il plagio argomentativo di quanto fatto vedere ne Le Danaidi. Da segnalare sono Venezia e Napoli, catture dei rispettivi ambienti e atmosfere rese in capitoletti di quartine brevi. Qui contenuta è inoltre quella perla occulta degli annali letterari che risponde al titolo Il Canto della Vecchia Cattedrale, susseguirsi di più voci, chiaro preludio ai Poemetti che sappiamo esser già in stesura. Il successo è molto modesto e pure la seconda edizione non porterà maggiori clamori.
POEMETTI DRAMATICI (1905): In carta a mano, stampato in rosso e in nero, illustrato da composizioni a intero formato e fregiato di testate e finali squisitamente stilizzati, legato in pergamena. Questa la presentazione che Treves allega alle sue uscite, soffermandosi con lecito orgoglio sul prezioso ricamo che contorna i testi. Graf può ora dar frutto letterario alle letture sacre di cui si è sempre accompagnato, chiamando a raccolta le figurue del Messia, dei profeti e molti altri soggetti. I modelli sono svariati: le Operette del beneamato Leopardi, i libretti di Pietro Trapassi, e l’opera magna del Rapisardi, Lucifero (1880) dove possiam discernere somiglianze nel tono e nell’impostazione (canto XII, per la precisione).
Ad ogni modo, sia per materia sia per i ricercati accostamenti di versi, trattasi d’un lavoro adatto a palati fini mentre indigesto ha modo di presentarsi al lettore occasionale.
LE RIME DELLA SELVA (1906) è l’opera che garantisce al professore una certa fama postuma: in essa si condensa l’essenza delle sua poetica. Alla prima versione, rivisitata per il soddisfatissimo Treves, non si aggiungeranno che un pugno di liriche, alcune però assai estese.
Graf anticipa quelli che saranno a breve i cavalli di punta della “penna del Wessex” Thomas Hardy: l’invettiva ad un Tempo impietoso ed implacabile (Al Novo Giorno, L’Oriuolo a Cùculo) nonché il commento steso su un Allora rievocato (Quella Sera, Voce dal Passato).
Dove più, dove meno riuscita, molti passaggi dell’opera di Graf non hanno perso il loro lustro, e hanno ispirato a suo tempo non poche voci di lato rinnovatore oltre che crepuscolare. Non era comunque possibile che il Graf superasse anche quest’ultimo orizzonte, preda precoce, come aveva a definirsi, d’una “incresciosa vecchiezza”.
Non importa: un sincero desiro di ascolto risulta sufficiente per accoglierlo, ripagati, sugli scaffali di casa nostra. E in fondo, il professore, per come sappiamo ebbero a evolversi molti avanguardisti, sull’esempio di Mario Rapisardi suo idolo (il quale prese nel nuovo secolo a firmarsi classicista per rimarcare un’opposizione), avrebbe forse gradito non ispirarli.
Bibliografia minima
Arturo Graf, Le Poesie (Chiantore, Torino 1922)
Luigi Baldacci, Poeti Minori del’800
Fabio Cecchi
Fabio Cecchi è nato a Cesena nel 1991. Risiede a Igea Marina ed è studente universitario di ramo umanistico. Nella variegata sfera delle “attività in seconda” si alternano la composizione pianistica, il volontariato, il calcetto amatoriale, lettura e scrittura. Ignoto e convinto hardiologo (seguace della poetica di Thomas Hardy), nel vasto mar letterario si è sospinto in particolare sull’ottocento meno considerato (Guerrini, Prati, Graf, Cena…). Da questi e non solo attinge nella lenta formazione, tra slanci sociali e squarci intimisti, di un corpus poetico di – sempre relativo – valore.
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
Biografia di Arturo Graf
Arturo Graf fu poeta, aforista e critico letterario. Nacque ad Atene da padre tedesco e madre italiana il 19 gennaio 1848. Tre anni più tardi si trasferì a Trieste con la famiglia. Alla morte del padre andò a vivere a Brăila, in Romania, ospite del fratello della madre. Solamente nel 1863 rientrò in Italia dove frequentò il liceo a Napoli. Terminato il liceo seguì le lezioni di Francesco de Sanctis; in seguito si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza conseguendo la laurea in legge nel 1870. Intanto, per un breve periodo, Arturo Graf si dedicò al commercio a Braila e al ritorno in Italia si recò a Roma dove conobbe Ernesto Monaci; con quest’ultimo strinse una salda amicizia, iniziando approfonditi studi sul Medioevo del quale si occupò anche in seguito, con particolare attenzione ai suoi aspetti simbolici. Nel 1875 ottenne la libera docenza in Letteratura italiana; il primo incarico lo portò a Roma, come docente di Letteratura italiana e di Letteratura romanza all’Università della capitale. Nel 1876 gli venne affidata la cattedra di Letteratura neolatina presso l’Università degli Studi di Torino, dove iniziò i corsi con la conferenza “Di una trattazione scientifica della storia letteraria”; nel 1882 si trasferì definitivamente nel capoluogo piemontese, insegnando sempre – come professore ordinario – letteratura italiana fino al 1907. Nel 1883 fondò, insieme a Francesco Novati e Rodolfo Renier, il “Giornale storico della letteratura italiana” del quale divenne poi condirettore. Collaborò anche alla rivista “Critica Sociale” e a “Nuova Antologia”; su quest’ultima pubblicò le opere in versi “Medusa” nel 1880, “Dopo il tramonto” nel 1890, e “Rime delle selva” nel 1906: queste opere rispecchiano la sua lenta e graduale conversione al razionalismo positivistico, dove si trova un primo accenno di simbolismo cristiano. Le dolorose vicende familiari di quel periodo, tra le quali la morte per suicidio del fratello Ottone nel 1894, lo fecero avvicinare alla religione: il poeta scrisse l’opera “Per una fede” nel 1906, il “Saggio sul ‘Santo’ di A. Fogazzaro”, gli aforismi e le parabole di “Ecce Homo” nel 1908 e il suo unico romanzo, “Il riscatto”, nel 1901. Nel contesto della Letteratura italiana, “Il riscatto” è uno degli elaborati più caratteristici dello spiritualismo del primo Novecento, dove viene rappresentata, anche con riferimenti autobiografici, la contrapposizione fra la legge dell’ereditarietà, nella quale necessariamente ogni avvenimento deve essere determinato da quello che lo precede, e la volontà individuale, intenta a liberarsi dei legami e a fuggire. L’opera poetica di Arturo Graf risente dell’atmosfera cupa delle leggende medievali, tipiche del primo romanticismo con le meditazioni sulla morte, sul male del mondo, la visione di paesaggi solitari e patetiche esistenze tragiche che troppo spesso si risolvono in macabre rappresentazioni e, solo di rado, in un più acuto simbolismo che consente all’autore di raggiungere un’efficace simbologia funebre, tetra, sommessa, percorsa da lunghi brividi musicali. Le sue opere:
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
Poesie e novelle di gioventù (1876)
Il riscatto (1901)
Della poesia popolare romena (1875)
Di una trattazione scientifica della storia letteraria (1877)
La leggenda del paradiso terrestre (1878)
Roma nella memoria e nelle immaginazioni del medioevo (1882-1883)
Attraverso il Cinquecento (1888)
Il diavolo (1889)
Foscolo, Manzoni, Leopardi (1889)
Miti, leggende e superstizioni del medioevo (1892-1893)
L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel sec. XVIII (1911)
Medusa (1880)
Polve
Dopo il tramonto (1890)
Le Danaidi (1897)
Morgana (1901)
Poemetti drammatici (1905)
Rime della selva (1906)
Arturo Graf- poeta, aforista e critico letterario
Cenni biografici di Arturo Graf (Atene, 1848 – Torino, 1913) tratti dal componimento ‘Consigli a un poeta giovane’.
Nato in Grecia da padre tedesco e da madre italiana, di Ancona, il cosmopolita autore trascorse una gioventù girovaga al seguito della famiglia. Visse dall’età di 15 anni dapprima a Trieste, poi in Romania, ed ancora a Napoli, dove si diplomò e si laureò in Legge seguendo i corsi di Francesco de Sanctis, ed in seguito a Roma, per stabilirsi infine stabilmente a Torino, città in cui ottenne le cattedre universitarie di letteratura neolatina e di letteratura italiana.
Oggi è ricordato per la sua poesia ‘pessimista’ e per i suoi rigorosi saggi di critica letteraria, grazie ai quali è considerato uno dei massimi esperti italiani di filologia classica.
Così lo descrive lo scrittore e docente dell’ateneo di Milano Luciano Aguzzi: “Brillante accademico, autore di molte opere di grande rilievo, fra i più importanti studiosi del suo tempo, è un uomo dell’Europa multiculturale, profondo conoscitore della cultura inglese, tedesca e francese, oltre che di quella classica greca, latina e italiana, curioso anche della filosofia orientale, del buddismo, da cui pure trae alcune idee.”
A proposito delle sue liriche, aggiunge: “La sua poetica trae alimento da un sentimento sostanzialmente ‘pagano’ della vita, dove non c’è la luce della provvidenza della religione e del cristianesimo. Siamo in quei decenni fra Ottocento e primi del Novecento in cui tutto appare in crisi, che in poesia producono il crepuscolarismo, il decadentismo, l’edonismo dannunziano. Graf è fuori da queste correnti, più legato ai classici e ad esperienze della poesia tedesca e inglese e agli italiani Foscolo, Leopardi, Manzoni e Carducci. Però la sua poesia risente molto del clima di crisi e della crisi si fa portavoce. Il suo non è un ‘pessimismo eroico’, come è stato a volte definito quello del Leopardi, ma piuttosto una pretesa, personale e soggettiva, di ‘realismo’.”
Larry McMurtry-Voglia di tenerezza- Traduttore Margherita Emo-Editore Einaudi-
Descrizione-del libro di Larry McMurtry-In “Voglia di tenerezza” siamo ben lontani dall’epopea western cantata da Larry McMurtry in “Lonesome Dove”. In questo romanzo si racconta principalmente la vita di due donne, madre e figlia, diverse tra di loro, fisicamente e caratterialmente. Aurora, la madre, è un’affascinante vedova quarantanovenne che ama farsi corteggiare dagli uomini, frivola, vanitosa, brillante ed impulsiva. Emma, la figlia, disordinata, poco ambiziosa, vive un matrimonio infelice, anche se sembra voler trovare una via di uscita che possa regalarle serenità. Altri personaggi circondano queste due donne: gli spasimanti, la donna di servizio, i vicini di casa, le amiche, ognuno di loro con la propria storia da raccontare.
Larry McMurtry-Voglia di tenerezza-
McMurtry ci regala pagine divertenti, essendo capace di rendere i personaggi empatici e soprattutto umani, con le loro debolezze, manie e personalità. Ma è anche capace di toccare il nostro animo e di commuoverci, perché la vita riserva sempre gioie e dolori.
È trascorso molto tempo da quando vidi il film. La sensazione che provo oggi, ripensando a quest’ultimo, è che mi toccò molto, forse più del libro.Descrizione scritta da Elisabetta Porta-
Cenni biografici di Larry Mcmurtry
Larry McMurtry -Scrittore e sceneggiatore americano
Larry Jeff McMurtry (June 3, 1936 – March 25, 2021) è stato un autore e sceneggiatore americano. Nato nel 1936 a Archer City, nel Texas, romanziere e sceneggiatore, nel 1986 ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa con Lonesome Dove e nel 2006 l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale con I segreti di Brokeback Mountain. Da molti dei suoi romanzi sono stati tratti film di grande successo come Hud il selvaggio, L’ultimo spettacolo e Voglia di tenerezza. Einaudi ha pubblicato, in una nuova traduzione, Lonesome Dove (2017), Le strade di Laredo (2018) e Voglia di tenerezza (2021). Nel 2024 esce Il cammino del morto (Einaudi).
Larry Jeff McMurtry (June 3, 1936 – March 25, 2021) was an American novelist, essayist, and screenwriter whose work was predominantly set in either the Old West or contemporary Texas.[1] His novels included Horseman, Pass By (1962), The Last Picture Show (1966), and Terms of Endearment (1975), which were adapted into films. Films adapted from McMurtry’s works earned 34 Oscar nominations (13 wins). He was also a prominent book collector and bookseller.
Tracy Daugherty‘s 2023 biography of McMurtry quotes critic Dave Hickey: “Larry is a writer, and it’s kind of like being a critter. If you leave a cow alone, he’ll eat grass. If you leave Larry alone, he’ll write books. When he’s in public, he may say hello and goodbye, but otherwise he is just resting, getting ready to go write.”[3]
Early life and education
McMurtry’s birth certificate states that he was born in Wichita Falls, Texas, the son of Hazel Ruth (née McIver) and William Jefferson McMurtry.[4] He grew up on his parents’ ranch outside Archer City, Texas. The city was the model for the town of Thalia which is a setting for much of his fiction.[5] He earned a BA from the University of North Texas in 1958 and an MA from Rice University in 1960.[6][7]
In his memoir, McMurtry said that during his first five or six years in his grandfather’s ranch house, there were no books, but his extended family would sit on the front porch every night and tell stories. In 1942, McMurtry’s cousin Robert Hilburn stopped by the ranch house on his way to enlist for World War II, and left a box containing 19 boys’ adventure books from the 1930s. The first book he read was Sergeant Silk: The Prairie Scout.[8]: 1–8
McMurtry and Kesey remained friends after McMurtry left California and returned to Texas to take a year-long composition instructorship at Texas Christian University.[11] In 1963, he returned to Rice University, where he served as a lecturer in English until 1969, and a visiting professor at George Mason College (1970) and American University (1970–71).[12] He entertained some of his early students with accounts of Hollywood and the filming of Hud, for which he was consulting. In 1964, Kesey and his Merry Pranksters conducted their noted cross-country trip, stopping at McMurtry’s home in Houston. The adventure in the day-glo-painted school bus Furthur was chronicled by Tom Wolfe in The Electric Kool-Aid Acid Test. That same year, McMurtry was awarded a Guggenheim Fellowship.[13]
He described his method for writing in Books: A Memoir. He said that from his first novel on, he would get up early and dash off five pages of narrative. When he published the memoir in 2008, he said this was still his method, although by then, he wrote 10 pages a day. He wrote every day, ignoring holidays and weekends.[8] McMurtry was a regular contributor to The New York Review of Books.[18]
In 1989, McMurtry testified on behalf of PEN America before the U.S. Congress in opposition to immigration rules in the 1952 McCarran–Walter Act that for decades permitted the visa denial and deportation of foreign writers for ideological reasons.[17] He recounted how before PEN America was to host the 1986 International PEN Congress, “there was a serious question as to whether such a meeting could in fact take place in this country… the McCarran–Walter Act could have effectively prevented such a gathering in the United States.” He denounced the relevant rules as “an affront to all who cherish the constitutional guarantees of freedom of expression and association. To a writer whose living depends upon the uninhibited interchange of ideas and experiences, these provisions are especially appalling.” Subsequently, some provisions that excluded certain classes of immigrants based on their political beliefs were revoked by the Immigration Act of 1990.[21]
Antiquarian bookstore businesses
Texas While at Stanford, McMurtry became a rare-book scout.[22] During his years in Houston, he managed a bookstore called the Bookman. In 1969, he moved to the Washington, D.C., area. In 1970 with two partners, he started a bookshop in Georgetown, which he named Booked Up. In 1988, he opened another Booked Up in Archer City. It became one of the largest antiquarian bookstores in the United States, carrying between 400,000 and 450,000 titles. Citing economic pressures from Internet bookselling, McMurtry came close to shutting down the Archer City store in 2005, but chose to keep it open after great public support.
In early 2012, McMurtry decided to downsize and sell off the greater portion of his inventory. He felt the collection was a liability for his heirs.[23] The auction was conducted on August 10 and 11, 2012, and was overseen by Addison and Sarova Auctioneers of Macon, Georgia. This epic book auction sold books by the shelf, and was billed as “The Last Booksale”, in keeping with the title of McMurtry’s The Last Picture Show. Dealers, collectors, and gawkers came out en masse from all over the country to witness this historic auction. As stated by McMurtry on the weekend of the sale, “I’ve never seen that many people lined up in Archer City, and I’m sure I never will again.”[24]
In 2006, he was co-winner (with Diana Ossana) of both the Best Screenplay Golden Globe[31] and the Academy Award for Best Adapted Screenplay for Brokeback Mountain, adapted from a short story by E. Annie Proulx. He accepted his Oscar while wearing a dinner jacket over jeans and cowboy boots.[32] In his speech, he promoted books, reminding the audience the movie was developed from a short story. In his Golden Globe acceptance speech, he paid tribute to his Swiss-made Hermes 3000 typewriter.[33]
Personal life
McMurtry married Jo Scott, an English professor who has authored five books.[34] Before divorcing, they had a son together, James McMurtry. Both James and his own son, Curtis McMurtry, are singer/songwriters and guitarists.[35]
In 1991 McMurtry underwent heart surgery.[36] During his recovery, he suffered severe depression. He recovered at the home of his future writing partner Diana Ossana and wrote his novel Streets of Laredo at her kitchen counter.[37][38]
McMurtry married Norma Faye Kesey, the widow of Ken Kesey, on April 29, 2011, in a civil ceremony in Archer City.[39]
McMurtry died on March 25, 2021, at his home in Tucson, Arizona. He was 84 years old.[40]
It was announced in early 2023 that McMurtry’s personal property, including his writing desk, typewriters and personal book collection would be sold at public auction by Vogt Auction in San Antonio, Texas, on May 29, 2023.[41]
– ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -Edizione del TCI anno 1929-copia anastatica-
Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-
ABBAZIA di FARFA-situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell’abbazia – secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° – si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un’attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all’incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all’interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell’abbazia erano tutti originari dell’Aquitania, a quell’epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell’abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall’abbazia si estesero in tutta l’Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l’abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell’attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l’apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L’intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell’abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell’Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L’istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell’898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l’intervento militare di Alberico II per porre fine all’ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l’elezione dell’abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell’abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell’attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l’opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt’altro che pacifici, inseriti nell’aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l’abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall’abate Berardo II nel 1097, di trasferire l’abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell’abbazia.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), 5 voll., Roma 1879-1914; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; id., Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti (Regesta chartarum Italiae, 11, 17), 2 voll., Roma 1913-1932.Letteratura critica: J. Guirand, La badia di Farfa alla fine del secolo decimoterzo, Archivio della R. Società romana di storia patria 15, 1892, pp. 275-288; I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; P. Kehr, Urkunden zur Geschichte von Farfa im XII. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 9, 1906, pp. 170-184; I. Schuster, Ugo I di Farfa. Contributo alla storia del monastero imperiale di Farfa nel sec. XI, Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria 16, 1911, pp. 1-212; id., L’imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino alla fine del Medioevo, Roma 1961; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle (BEFAR, 221), 2 voll., Roma 1973; P. Di Manzano, T. Leggio, La diocesi di Cures Sabini, Fara Sabina [1980]; F.J. Felten, Zur Geschichte der Klöster Farfa und S. Vincenzo al Volturno im achten Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 62, 1982, pp. 1-58.F. Betti
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