Ismail Kadaré è nato nel 1936 ad Argirocastro, nell’Albania meridionale, si è laureato in filologia a Tirana e ha proseguito gli studi a Mosca. Tornato in patria, inizia la sua carriera come giornalista e divenne direttore di “Les lettres albanaises”. La poesia è stata la sua prima passione: Ispirazioni giovanili (1956), Il mio secolo (1961). E alla poesia è sempre tornato regolarmente: Perché pensano queste montagne (1964), Motivi di sole (1968), Il tempo (1976), Gocce di pioggia caddero sul vetro (2003).
Ismail Kadaré
Anche quando la memoria-
Anche quando la mia memoria fosse stanca
come quei tram dopo mezzanotte
che fermano solo nelle principali stazioni,
Io non ti dimenticherò.
Ricorderò
la silenziosa serata, infinita nei tuoi occhi,
il singhiozzo soffocato, caduto sulla mia spalla
come la perpetua neve.
L’addio è arrivato
me ne vado lontano da te …
Nulla di eccezionale,
solo qualche sera
le dita di qualcun altro, si intrecceranno tra i tuoi capelli
con le mie dita, chilometri lontane …
Cristallo-
Da tempo non ci vediamo e sento
come pian – piano ti dimentico
come muore il tuo ricordo in me
come muoiono i capelli e ogni cosa.
Adesso cerco in giù e in su
un posto dove lasciarti
una strofa o una nota, oppure un brillante
dove posarti, baciarti, vederti.
E se nessuna tomba ti accetterà
troverò una pianura o un oasi di fiori
dove posarti dolcemente come polena
ovunque, ovunque ti dispenso..
Ingannandoti, ma forse così
potrei baciarti andandomene senza ritorno
e non si saprà mai né da noi né da altri
se la dimenticanza è questa oppure no.
Tu piangesti-
Tu piangesti e a bassa voce dicesti
Che io ti tratto come fossi una prostituta.
A quel tempo non feci caso al tuo pianto
Ti amavo senza sapere di amarti.
Solo una mattina, all’improvviso mi svegliai
Senza te e il mondo mi sembrò vuoto,
Allora capii ciò che avevo perso
E capii altrettanto che cosa guadagnai.
Brillava su di me come un smeraldo tedioso
E la felicità si rabbuiò come il crepuscolo dietro le nubi
Non sapevo scegliere tra le due
Una più bella dell’altra mi sembrava.
Perché dev’essere così questa collezione di gioielli
Cui la luce e l’orrore la illuminavano allo stesso modo,
Che nel moltiplicare la brama la vita si accentuava
Ma anche la morte altrettanto evocava.
Ismail Kadaré
Breve biograia di Ismail Kadaré è nato nel 1936 ad Argirocastro, nell’Albania meridionale, si è laureato in filologia a Tirana e ha proseguito gli studi a Mosca. Tornato in patria, inizia la sua carriera come giornalista e divenne direttore di “Les lettres albanaises”. La poesia è stata la sua prima passione: Ispirazioni giovanili (1956), Il mio secolo (1961). E alla poesia è sempre tornato regolarmente: Perché pensano queste montagne (1964), Motivi di sole (1968), Il tempo (1976), Gocce di pioggia caddero sul vetro (2003).
Nel 1963 pubblicò il primo romanzo, Il generale dell’armata morta, e da allora si è dedicato intensamente alla narrativa. Ha pubblicato una cinquantina di volumi fra romanzi, racconti e saggi. Nel 1990 ha chiesto e ottenuto asilo politico in Francia, dove è membro onorario dell’Accademia. Nel 1992 ha ottenuto il Premio Grinzane Cavour per la narrativa straniera; nel 2005 l’International Booker Prize; nel 2009 il Premio Principe delle Asturie per la Letteratura. Sempre nel 2009 gli è stato conferito la Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione dall’Università di Palermo, riconoscimento voluto fortemente dagli “arberesge” di Piana degli Albanesi. Il Premio LericiPea “alla Carriera” nel 2010 è stato conferito a Kadaré, un poeta la cui voce magistrale è estremamente riconoscibile e si snoda in un vero e proprio “Universo Kadaré”, che dalla poesia al racconto e al romanzo si dilata in una dimensione storica e geografica dal passato al presente, collegando la letteratura albanese alle radici stesse della cultura europea. Kadaré costruisce un ponte tra la sua terra e i paesi che la circondano, trattando i caratteri specifici della storia e della cultura di quel paese, ridotto per lunghi periodi al silenzio, e gli aspetti generali che strutturano la vita di tutti i popoli, violenza e menzogna del potere, dedizione al dovere e varchi di libertà.
Con l’inedito Anche se è Aprile, da cui il titolo del volume che il LericiPea dedicò al poeta premiato, è giunta a noi in quest’occasione una perla, che ancora una volta dispiega l’opera di Kadaré nell’alveo di quella ribadita “unica Letteratura europea da Proust a Tolstoj”, che si evidenzia nel riallacciare la sua poesia, come scrive Marina Giaveri, “non solo ai grandi poeti russi del Novecento, ma ad un conosciuto e praticato panorama europeo”.
La sua opera ha ampia diffusione in Italia, dove sono usciti fra gli altri: Il mostro (Fandango 2010). L’incidente (Longanesi 2010), Il crepuscolo degli dei della steppa (Fandango 2009), Il generale dell’armata morta (Longanesi 2010), Aprile spezzato (ivi 2008), Dante l’inevitabile (Fandango 2008), Il successore (Longanesi 2008), La figlia di Agamennone (ivi 2007). Un invito a cena di troppo (ivi 2012), La bambola (La Nave di Teseo, 2017).
Poesie di Christa Wolf Poetessa e scrittrice tedesca-
Christa Wolf, nata nel 1929 a Landsberg an der Warthe, oggi in Polonia, si affermò come scrittrice nel 1963. Studiò a Jena e in Magdeburgo e sposò lo scrittore Gerhard Wolf. Sostenitrice del partito socialista, a cui si era iscritta nel 1949, fu una delle autrici più importanti della GDR (Deutsche Demokratische Republik). In seguito assunse una posizione molto critica nei confronti del regime comunista. Oltre a Trama d’infanzia, ricordiamo: Il cielo diviso (1963), Riflessioni su Christa T. (1968), Cassandra (1983), Medea.Voci (1996) e La città degli angeli (2011). Wolf è morta nel 2011, all’età di 82 anni, ed è sepolta a Berlino, nel Dorotheenstädtische Friedhof [N.d.B. lo stesso cimitero dove si trova la tomba di Bertold Brecht].
Christa Wolf,
Riconosciuta – Colpevole di Christa Wolf
ERKANNT
Das bin ich nicht
beteure ich
schuldbewußt
in die fordernden
anklagenden
enttäuschten Gesichter
Aber das bin ich doch wirklich nicht ich
Wirklich bin ich nicht
Nicht ich bin wirklich
Ich bin wirklich nicht
Bin ich nicht wirklich?
Das bist du
sagt der Tod
Ich bin es gewesen
gestehe ich
Zweifellos
30.11.88
SCHULDHAFT
Im Vortraum
sah ich
ein Doppelwesen
Er liegend
sie stehend
zusammengewachsen
an ihren Füßen
dergestalt
daß der Mann
sich nur aufrichten konnte
mit den Füßen der Frau
sie aber die Stehende
nur gehen konnte
in den Füßen des Mannes
So blieben sie
unbeweglich
14.9.87
Zentralbild Ecklecken 9.3.1963 Zum Tag des Buches – Schriftstellerin Christa Wolf Christa Wolf begann nach ihrem Germanistikstudium, als Literaturkritikerin, als Lektorin und Mitarbeiterin im deutschen Schriftstellerverbund. Als erste belletristische Arbeit erschien 1961 die “Moskauer Novelle”, die sogleich ungewöhnliche Beachtung fand. Ihre neue Erzählung “Der geteilte Himmel”, die im Mai erscheinen wird, steht zur Diskussion für den FDGB-Literaturpreis 1962-1963. Gegenwärtig arbeitet Christa Wolf an einem Filmdrehbuch für ihre Erzählung “Der geteilte Himmel”. UBz: Schriftstellerin Christa Wolf
RICONOSCIUTA
Questa non sono io
assicuro
ai volti
esigenti
che mi accusano
delusi
Certo questa non sono io
Davvero non lo sono
Non lo sono davvero
Io davvero non sono io
Vero che non sono io?
Questa sei tu
dice la morte
Lo sono stata
lo ammetto
Non c’è dubbio
COLPEVOLE
Nel dormiveglia
vedevo
un essere duplice
Sdraiato lui
e lei in piedi
uniti
così che
solo con i piedi della donna
ai suoi piedi
l’uomo
si sarebbe sollevato
e lei pur ritta
avrebbe potuto camminare
solo con i piedi dell’uomo
Restavano dunque
immobili
[ Traduzione di Anna Chiarloni e Ida Travi. Anterem 56, 1998 ]
Christa Wolf,
PRINCIPIO SPERANZA
(Christa Wolf, nata Christa Ihlenfeld)
Inchiodato
alla croce del passato
ogni movimento
spinge
i chiodi
nella carne.
SOLITARI DENTRO STANZE GRIGIE
A tastoni si cammina lungo gli steccati,
si sta seduti solitari dentro stanze grigie
come in camere nebbiogene,
ed è difficile liberarsi dalla tristezza
per tutte le occasioni mancate della vita
– per l’amore perduto,
il dolore incompreso,
la gioia sconosciuta
e il sole mai visto
di paesi stranieri.
PARLAVI DI COSE CHE NON VEDEVANO
Parlavi di cose che non vedevano
e loro ridevano.
Ma tu rema sul fiume oscuro
controcorrente;
va’ per la via sconosciuta
alla cieca, ostinato,
e cerca parole radicate
come il nodoso ulivo –
lascia che ridano.
Desidera che dimori l’altro mondo
nella soffocante solitudine odierna
in questo presente smemorato –
lasciali pure.
Il vento marino e la rugiada dell’alba
esistono senza che alcuno li cerchi.
Breve biografia di Christa Wolf –Poetessa e Scrittrice tedesca (Landsberg an der Warthe 1929 – Berlino 2011).Ha studiato e operato nella Repubblica Democratica Tedesca, cui ha aderito con spirito critico, anche se, dopo la riunificazione della Germania, ciò non è valso a stornare dalla sua figura riserve e sospetti d’ambiguità. Scrittrice problematica, incline al virtuosismo, dopo le poesie raccolte in Wir, unsere Zeit (1959) e Moskauer Novelle (1961), ottenne grande successo col romanzo Der geteilte Himmel (1963; trad. it. 1983), in cui il destino dei personaggi è segnato dalla divisione della terra tedesca. Non minore risonanza ottennero Nachdenken über Christa T. (1969; trad. it. 1973), il racconto Kein Ort. Nirgends (1979; trad. it. 1984), sulla vita e il suicidio di H. von Kleist, con significativi rimandi all’attualità, e il romanzo Kassandra (1983; trad. it. 1984). Dopo la caduta del muro di Berlino, ha raccolto una serie di testi polemici nel volume Im Dialog (1990) e nel discusso scritto autobiografico Was bleibt (1990; trad. it. 1991). Tematicamente legato al mito classico, come il precedente Kassandra, è Medea Stimmen (1996; trad. it. 1997), che riprende in chiave originale tematiche femministe. Tra le pubblicazioni più recenti sono da ricordare la raccolta Hierzulande Andernorts (1999), il romanzo Leibhaftig (2002; trad. it. 2002), i racconti Ein Tag im Jahr 1960-2000 (2003), l’opera in forma di diario Mit anderem Blick (2005) e il romanzo autobiograficoStadt der Engel oder The Overcoat of Dr. Freud. Roman (2010; trad. it. La città degli angeli, 2011). Postumi sono stati pubblicati in Germania: entrambi nel 2012, la raccolta di inediti Rede, dass ich dich e August (trad. it. 2012), ultimo racconto della scrittrice redatto sei mesi prima della morte; i diari Ein Tag im Jahr, 2001-2011, im neuen Jahrhundert (2013).
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Descrizione del libro di Cesare Pavese-Un romanzo al femminile, scritto da un uomo dalla sensibilità femminile: le protagoniste sono donne irrequiete, fragili, “sole”, come recita il titolo. Il senso di questo racconto, nella sua drammaticità, può essere sintetizzato nelle parole di Clelia, la voce narrante: “Non si può amare un altro più di se stessi. Chi non si salva da sé, non lo salva nessuno”. Ed è proprio a Clelia che Pavese affida il suo punto di vista, rivolgendo lo sguardo di una donna libera e disillusa su un’Italia postbellica dove, accanto alla ricostruzione, imperversano la noia e il vuoto esistenziale di una generazione incapace di comunicare e di vivere. Donne annoiate, dunque, come Momina, Mariella, Nene e Rosetta, l’unico personaggio autentico, che, come in un gioco di specchi, riflette la stessa, drammatica fragilità dell’autore, quasi preannunciandone la tragica fine. “Tra donne sole” è un romanzo dolente e spietato, pubblicato nel 1949, sotto il titolo “La bella estate”, insieme al racconto “Il diavolo sulle colline”, un anno prima del suicidio di Pavese. Una storia di disincanto e solitudine, “di scoperta della città e della società”, in cui, si aggirano, pirandellianamente, in una Torino cupa, frivola e borghese, più maschere che volti, vittime e attori di una vita senza senso. Solo l’ingenua Rosetta, incarnazione di un male di vivere non dissimile da quello di Pavese, ha la forza di opporsi ad un vuoto esistenziale divenuto insopportabile, congedandosi, come lui, dalla vita. Il ricorso a dialoghi fitti, serrati, sottolinea il crudo realismo della narrazione e la scrittura, tipicamente pavesiana, lucida, straniata ma, nello stesso tempo, appassionata, descrive, senza filtri, esistenze che si consumano nel cinismo, in contorti e ambigui giochi psicologici e nell’assoluta incapacità di uscire da una disperante solitudine. Nel 1955 Michelangelo Antonioni ha liberamente tratto dal romanzo il film “Le amiche”.
Cesare Pavese, “Tra donne sole”, Einaudi
Biografia di Cesare Pavese – Nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo (Cuneo), da Eugenio e da Consolina Mesturini, in una cascina di proprietà del padre, luogo di residenza estiva dei Pavese che vivevano a Torino. Preceduto da Maria, di sei anni più grande, Cesare fu allevato da Vittoria Scaglione, il cui fratello, Pinolo, gli ispirò la figura di Nuto nella Luna e i falò.
Cesare-Pavese-
In seguito alla prematura scomparsa del padre per un tumore al cervello (2 gennaio 1914), la madre, donna dura ed energica, dovette mandare avanti la famiglia da sola. Cesare frequentò la prima elementare a Santo Stefano, poi a Torino, presso un istituto privato, quindi il ginnasio inferiore presso i gesuiti e quello superiore al Cavour, dove conobbe Mario Sturani, suo fraterno amico. Entrato al liceo Massimo d’Azeglio nell’ottobre del 1923, ebbe come professore Augusto Monti, crociano, intellettuale eticamente solido e profondamente antifascista, e, fra i compagni, Tullio Pinelli, Remo Giacchero, Giorgio Curti.
Nel 1925 Pavese si invaghì di una ballerina del varietà, Pucci, a testimonianza di una predilezione ossessiva per artiste di caffè concerto o attricette (v., già nel dicembre 1924, la lirica Per un’attrice di cinematografo giovanissima, straniera, lontana). Nel dicembre di quell’anno scrisse il racconto autobiografico Lotte di giovani e tradusse il Prometheus unbound (Prometeo slegato) di Percy Bysshe Shelley e le Odi di Orazio. Ottenuta nel 1926 la maturità classica, si iscrisse quindi alla facoltà di lettere dell’Università di Torino. Sul finire dell’anno il suicidio dell’amico Elico Baraldi turbò profondamente Pavese, che confidò la propria angoscia alle pagine di un breve diario.
Il 2 dicembre 1927 si formò la confraternita degli ex allievi del liceo d’Azeglio, in contatto con il Monti, cui parteciparono, oltre a Cesare, figure quali Norberto Bobbio, Massimo Mila, Leone Ginzburg, Giulio Einaudi (nonché amici non ‘dazeglini’ come Giulio Carlo Argan, Ludovico Geymonat, Franco Antonicelli).
Il 20 giugno 1930 (con voto finale di 108/110) Pavese discusse la tesi di laurea, Interpretazione della poesia di Walt Whitman, con Ferdinando Neri, titolare di letteratura francese, dopo un precedente ‘rifiuto’ dell’anglista Federico Olivero.
Nel frattempo Cesare – grazie alla mediazione di Arrigo Cajumi – aveva offerto, nel marzo, la propria collaborazione all’editore Bemporad per tradurre romanzi statunitensi: in novembre apparve ne La Cultura l’articolo Un romanziere americano, Sinclair Lewis, poi suggellato dal contratto per la traduzione di Our Mr Wrenn, a stampa l’anno dopo. Falliti i tentativi di ottenere una borsa di studio alla Columbia University, nel novembre del 1930 morì la madre; tra settembre e novembre di quell’anno Cesare scrisse I mari del Sud, vero spartiacque che divide lo sperimentalismo giovanile dalla grande stagione confluente in Lavorare stanca.
Nel 1932, evitato il servizio militare, Pavese prese a insegnare in scuole private e serali, continuando a pubblicare saggi sulla letteratura americana e traducendo Moby Dick di Herman Melville e Dark laughter (Riso nero) di Sherwood Anderson (entrambi usciti in quell’anno): sognava di andare in America, ma non vi si recò mai. Sempre in quel periodo conobbe Tina Pizzardo, comunista, insegnante di matematica, vivace, sportiva, di cui si innamorò disperatamente.
Il 1933 fu segnato dalla lettura di un libro fondamentale per la cultura etno-mitologica pavesiana, The golden bough di James G. Frazer. Sempre nel 1933 Giulio Einaudi fondava la casa editrice omonima, con sede in via Arcivescovado 7, rilevando, nel medesimo tempo, La Cultura, rivista poi diretta da Leone Ginzburg: questi nel marzo del 1934 fu arrestato con Monti e altri del gruppo antifascista Giustizia e libertà, probabilmente a causa della delazione di una spia dell’Ovra, Dino Segre, ovvero Pitigrilli. Pavese subentrò nella direzione della rivista, ma come prestanome, giacché l’effettivo direttore era Cajumi. Nel luglio si iscrisse al Partito nazionale fascista (PNF), per poter insegnare liberamente nelle scuole statali.
L’attività di americanista di Pavese fu assai intensa, in questo primo quinquennio degli anni Trenta: nel 1934 pubblicò saggi su William Faulkner e Sinclair Lewis, mentre usciva la traduzione del Portrait di James Joyce, con il titolo Dedalus. Nei primi anni Trenta scrisse inoltre liriche che confluirono successivamente in Lavorare stanca, e i racconti del ciclo-romanzo Ciau Masino, comprendente anche sei poesie. Lavorare stanca era già in bozze per le edizioni di Solaria, con la cura di Alberto Carocci, all’inizio del 1935. La raccolta si segnala nel diagramma lirico novecentesco per un ductus fortemente e talora brutalmente prosastico, con verso lungo e ritmo quasi sempre anapestico; ciò non impedisce talora lo slargarsi in aperture visionarie e vibranti, come, ad esempio, nella celebre Lo steddazzu.
Il 15 maggio 1935 Pavese venne arrestato in qualità di direttore della Cultura ma soprattutto perché reo di possedere lettere cifrate del pittore Bruno Maffi indirizzate alla Pizzardo, cui aveva offerto disponibilità del proprio recapito, giacché la donna era severamente controllata dalla polizia. Dopo essere stato per breve tempo alle Carceri nuove di Torino e a Regina Coeli a Roma, Pavese venne confinato a Brancaleone Calabro dove, giunto il 4 agosto 1935, rimase fino al marzo del 1936, quando ottenne il condono e poté rientrare a Torino. L’esperienza del confino è in parte narrata e trasfigurata nel romanzo Il carcere (in Prima che il gallo canti) e, precedentemente, nel racconto Terra d’esilio, del luglio 1936. Nel frattempo era uscita la traduzione di The 42nd parallel (42° parallelo, 1934) di John Dos Passos, mentre le prime copie di Lavorare stanca (Firenze), arrivarono alla fine del gennaio del 1936. Nel marzo successivo, a Torino, venuto a sapere che Tina si era fidanzata e prossima a sposarsi con il polacco Enrico Reiser, Pavese entrò in una cupa depressione, documentata dal diario con accenti di estrema violenza.
Nel 1937 Cesare scrisse alcuni racconti importanti fra cui Temporale d’estate, Carogne, L’idolo, nonché altre liriche destinate a entrare nell’edizione einaudiana di Lavorare stanca (Torino 1943); tradusse The big money (Un mucchio di quattrini) di Dos Passos e Of mice and men (Uomini e topi) di John Steinbeck. L’anno dopo fu la volta di Moll Flanders di Daniel Defoe e di The autobiography of Alice B. Toklas (Autobiografia di Alice Toklas) di Gertrude Stein. Nel 1938 Pavese venne assunto presso Einaudi; continuava a produrre racconti e poesie, finché, alla fine di novembre, cominciò a scrivere il suo primo romanzo, Memorie di due stagioni (con titolo definitivo Il carcere, terminato nell’aprile dell’anno seguente, apparve nel 1948 in Prima che il gallo canti). Nel 1939, oltre a tradurre il Copperfield e testi di storiografia di Christopher Dawson e George Macaulay, diede alla luce, in estate, Paesi tuoi, il romanzo che segnò l’esordio narrativo (Torino 1941), destinato a rinnovare la prosa narrativa italiana, per il suo contributo di asciutta e quasi incantata brutalità narrativa, derivata da modelli americani come, ad esempio, il James M. Cain di Postman always rings twice, ma anche da paradigmi più barocchi e strazianti come il Faulkner di Sanctuary. Nel 1940 scrisse La tenda (poi La bella estate); fra il 1940 e il 1941 La spiaggia; sempre nel 1940 tradusse Benito Cereno di Melville e Three lives (Tre esistenze) della Stein. Nel 1941 tradusse The Trojan horse (Il cavallo di Troia) di Christopher Morley e scrisse numerosi racconti di Feria d’agosto, alcuni dei quali furono pubblicati nel Messaggero di Roma.
Nella primavera del 1940 rivide Fernanda Pivano, che aveva avuto come allieva durante le supplenze al d’Azeglio: iscritta all’Università, colta e spregiudicata, anche lei americanista (tradusse, per Einaudi, la Spoon River anthology di Edgar Lee Master). Cesare si innamorò di lei, mentre l’Italia entrava in guerra, e le chiese di sposarlo, ottenendo un rifiuto; scrisse per lei, oltre a lettere lunghe e suggestive, alcune poesie splendide, che segnarono il passaggio a una nuova lirica, preludio alla stagione più tarda delle liriche per la Garufi e per Connie: si tratta di un nuovo stile, rarefatto e lirico rispetto al precedente verso lungo gonfio di ‘realismo’ prosastico, un nuovo modo quasi ‘dannunziano’, in realtà molto grecizzante e mitico, di cantare la donna isolandola in un universo naturale talora aereo, ma progressivamente sempre più funebre.
A Roma Pavese scese, nel febbraio del 1942, per prendere contatto con i redattori locali della Einaudi, Carlo Muscetta e Mario Alicata; pubblicò in volume La spiaggia (Roma 1942) e la traduzione di The Hamlet di William Faulkner, con il titolo Il borgo; scrisse altri racconti poi inclusi in Feria d’agosto. A causa dei bombardamenti la sede della Einaudi fu dapprima trasferita in un rifugio, quindi a Roma, dove Pavese si recò a dirigerla dal gennaio del 1943. La situazione però anche qui si faceva difficile, come si legge in una drammatica (ma non priva di ironia) missiva a Giulio Einaudi del 19-20 luglio. Così il 26 luglio, subito dopo la caduta di Mussolini, Cesare fece rientro a Torino, nella nuova sede di via Galileo Ferraris, mentre a Roma restava Leone Ginzburg.
Nonostante il precipitare degli eventi, Pavese continuò a lavorare strenuamente a Torino: fino a quando, dopo l’8 settembre, l’Einaudi venne posta sotto tutela del commissario della Repubblica sociale italiana (RSI) Paolo Zappa. Mentre gli amici erano tutti alla macchia nella Resistenza, egli rimase solo «nelle grinfie della storia» (v. Lettere, I, p. 740) vedendosi costretto a recarsi dapprima presso la sorella sfollata, a Serralunga di Crea nel Monferrato, quindi al collegio Trevisio di Casale Monferrato, retto dai padri Somaschi, ove diede lezioni private agli studenti sotto falso nome fino alla Liberazione.
La permanenza nel collegio – documentata soprattutto dai ricordi di padre Giovanni Baravalle, con cui strinse amicizia – testimonia il massimo avvicinamento di Cesare alla religione, nonché importanti letture filosofiche, mistiche e mitografiche. Cesare conobbe inoltre un ex allievo di Baravalle, Carlo Grillo, singolare personaggio di giovane nobile, filosofo e ‘decadente’, che ispirò il Poli del Diavolo sulle colline. Al 1942-43 risale anche il famigerato «taccuino segreto», in cui Cesare sfoga il suo irrazionalismo e un inquietante anti-antifascismo. Tuttavia poi l’adesione al comunismo fu precoce, come ha dimostrato Mariarosa Masoero attribuendo a Pavese alcuni articoli anonimi apparsi nella Voce del Monferrato del maggio 1945 (Masoero, 2006), tanto che «In breve volgere di tempo lo scrittore del diario “nero” e della crisi religiosa si scopre comunista» (Mondo, 2006, p. 127).
Nel 1944 Pavese continuava a scrivere prose poi raccolte in Feria d’agosto, mentre gli eventi di questi anni gli ispirarono un racconto, Il fuggiasco, poi materia per La casa in collina. Dopo la fine della guerra riprese il lavoro alla Einaudi, ma le morti eroiche in giovane età di Leone Ginzburg, Giaime Pintor, Gaspare Pajetta e di altri turbarono non poco l’animo di un uomo segnato dal ‘rimorso del sopravvissuto’. Il 1945 fu comunque un anno di intensa attività: come sempre Pavese cercava la risurrezione attraverso il duro lavoro. Alla Einaudi era considerato ormai un direttore editoriale di grande autorevolezza; riprese i contatti con Ernesto De Martino, già incontrato nel 1943, dalla cui collaborazione nacque la cosiddetta collana viola di etnologia, psicologia, storia delle religioni (che ospitò, fra le altre, opere di Carl Gustav Jung, Lucien Lévy-Bruhl, Karl Kerényi, Vladimir J. Propp, Bronislaw Malinowski, Leo Frobenius, James G. Frazer, Mircea Eliade ecc.). In luglio si recò a Roma, nella sede di via Uffici del Vicario 49, mentre a Torino era Massimo Mila a sostituirlo. Nel frattempo conobbe Davide Lajolo e cominciò a collaborare con l’Unità: nell’autunno prese la tessera del Partito comunista italiano (PCI). A Roma amava immergersi in una solitudine fatta di lavoro intenso e cinematografi serali. Conobbe però una donna, Bianca Garufi, per cui scrisse le poesie del ciclo La terra e la morte (apparse a stampa in rivista nel 1947). Nella capitale continuò a risiedere fino all’autunno del 1946, quando fece ritorno a Torino.
Nel novembre del 1945 uscì Feria d’agosto, mentre sul finire dell’anno cominciò a lavorare ai Dialoghi con Leucò. Nel giugno del 1946 scrisse alcuni versi per una donna, T. (Teresa Motta). Nel frattempo continuava a comporre i magistrali «dialoghetti» e, a quattro mani con Bianca Garufi, cominciò un romanzo, Fuoco grande, rimasto incompiuto. Non smetteva peraltro di scrivere di letteratura americana (su Peter Matthiessen e Joseph Conrad), né di collaborare a l’Unità con pezzi politico-letterari: nel caso dei Dialoghi col compagno utilizzò la forma dialogica che, in un universo remoto, aveva applicato a Leucò; d’altra parte è fra ottobre e dicembre di quest’anno che scrisse il romanzo Il compagno, mentre ancora stava lavorando ai dialoghi mitici.
Nel 1947 terminò e pubblicò i Dialoghi con Leucò (Torino) e diede alle stampe Il compagno (Torino), che, segnalato allo Strega, fu insignito soltanto del premio Salento l’anno successivo. Notevole ancora l’impegno sul versante anglo-americano: oltre a saggi e recensioni, tradusse Captain Smith and company (Capitano Smith) di Robert Henriques. Fra il settembre di quell’anno e il febbraio del 1948 scrisse La casa in collina che uscì, insieme con Il carcere, in Prima che il gallo canti (Torino, novembre 1948), tradusse privatamente la Teogonia di Esiodo e cominciò lo scambio epistolare con Rosa Calzecchi Onesti, incaricata della traduzione dei poemi omerici per la Einaudi. Non si dimentichi che Pavese stesso aveva tradotto per proprio conto fra l’altro l’episodio dell’evocazione dei morti dell’XI dell’Odissea, una prima volta parzialmente in un quaderno del confino calabrese, poi integralmente in fogli sciolti: quest’ultima traduzione va datata proprio a ridosso del 1948, in cui uscì il volume contenente il libro XI dell’Odissea a cura di Mario Untersteiner (Firenze, Sansoni: con dedica autografa a Pavese del maggio, o luglio, 1948, conservato nella biblioteca di Pavese).
Fra giugno e ottobre scrisse Il diavolo sulle colline, mentre continuava la collaborazione con l’Unità e altre riviste. Nel 1949 scrisse Tra donne sole, ma non tralasciò il mondo antico, traducendo fra l’altro alcuni inni omerici. Nel novembre uscì La bella estate (Torino), che comprendeva il romanzo eponimo, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole. Pavese ricevette un giudizio piuttosto sferzante dall’antico maestro Augusto Monti, cui rispose piccato in uno scambio epistolare teso ma sincero. L’ultimo romanzo, La luna e i falò, fu composto tra settembre e novembre del 1949 e uscì sempre per i tipi di Einaudi (Torino 1950).
Il romanzo ha un respiro più fluente rispetto ai precedenti, quasi a comporsi in un ritmo classico, georgico, ove il ritorno alla terra originaria è un ritorno alla terra tout court; tuttavia l’umanesimo della Luna e i falò è macchiato dall’orrore, dalla violenza e dalla follia delle cose e delle persone, della guerra trascorsa, di tutto ciò insomma che si contrappone alla calma e alla forza della natura e degli uomini che vogliono dominarla. Come sempre il fondo sacrificale e sanguinoso del rito e del mito emerge in Pavese anche quando sembra che un ordine possa controllare il caos.
Fu al termine del 1949, fra ottobre e dicembre, che si acuì il contrasto fra Pavese e De Martino nella conduzione della ‘collana viola’: il grande etnologo, ex socialista da poco iscritto al PCI, riceveva accuse dagli ‘ortodossi’ del partito, a causa degli autori pubblicati, rappresentanti dell’irrazionalismo novecentesco, quando non filonazisti o apertamente reazionari. Anche Pavese era guardato con sospetto, ma reagì ironicamente o energicamente (e pubblicamente). Lo scambio di lettere con De Martino alterna momenti di incomunicabilità ad altri più concilianti. Alla tragica morte di Pavese, De Martino, con una discutibile lettera a Giulio Einaudi, additò la ‘pericolosità’ della collana, pur continuando a lavorarvi, magari saltuariamente, fino al 1958; nel 1962 un nuovo voltafaccia, in cui De Martino rivalutò e la collana e la figura di Pavese.
Nel 1949 l’impegno di direttore editoriale, insieme con la pubblicazione di articoli militanti e teorici, era sempre intensissimo: tutto questo accumulo di lavoro incise evidentemente sul sistema nervoso di Pavese, che cominciò ad avvertire stanchezza, a soffrire d’insonnia e a denunciare piccole crisi di panico. «Esaurimento – è una parola – ma che cosa significa?», si domandava nel diario il 28 novembre. L’incontro con Constance Dowling, nel capodanno romano, arrivò dunque a fulminare un uomo già predisposto allo shock. Le sorelle Dowling, Constance e Doris, erano attrici americane; la seconda aveva lavorato con Raf Vallone, amico di Cesare, nel film di Giuseppe De Santis Riso amaro, alla cui elaborazione scritta forse aveva partecipato anche lo stesso Pavese. Che rivide Connie (ipocoristico di Constance) nel marzo del 1950, a Cervinia: fu un innamoramento senza scampo.
D’altra parte la sorella Doris divenne una buona amica per Cesare, che scrisse per le due sorelle soggetti cinematografici, tra cui uno tratto dal Diavolo sulle colline. Connie e Doris rappresentavano ‘fisicamente’ il cinema per Cesare: le lettere sui progetti filmici per le due sorelle sono numerose. La tarda lettera a Connie del 17 aprile forse accompagnava la poesia T’was only a flirt, l’ultimo semplice tremendo blues. Constance stava per ripartire per New York, Pavese si trovò solo davanti al proprio nudo orrore, la disperata speranza di sposare Connie si era bruciata: lei non sarebbe tornata mai, Cesare lo sapeva e lo scrisse a Doris il 6 luglio.
L’anno 1950 non fu certo vuoto di impegni culturali; fra l’altro Pavese entrò a far parte della redazione della rivista Cultura e realtà, diretta da Mario Motta, facente capo all’area della ‘sinistra cristiana’, piuttosto invisa all’ortodossia del PCI, in cui pubblicò un saggio sul mito e una risposta polemica a Franco Fortini che aveva attaccato De Martino accusandolo di cedere ai pericoli dell’irrazionalismo. L’articoletto uscì nel marzo, mese in cui Pavese scrisse anche gran parte delle liriche per Connie, fra cui la suprema, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Il 24 giugno vi fu il trionfo mondano di Cesare, che si recò a Roma a ricevere il premio Strega per La bella estate, uscito l’anno precedente. Pavese giunse all’ultimo momento al ninfeo di Villa Giulia, elegantissimo, accompagnato dalla bella Doris Dowling nell’occasione e si fece fotografare docilmente.
Dopo l’apoteosi, l’incubo dell’estate in città. Un’estate davvero fatale per Pavese. Recatosi dapprima dai suoi amici, i coniugi Ruata, a Varigotti, vi restò pochi giorni spostandosi a Bocca di Magra, dove bruciò un estremo, rapido amore impossibile per una ragazza, Pierina (Romilda Bollati di Saint-Pierre, sorella di Giulio Bollati). Fatto ritorno a Torino in un afoso deserto, se si eccettua la presenza dei coniugi Rubino, presso i quali aveva conosciuto Connie, Pavese vide la Alterocca, sua futura biografa, il 17 e ancora il 18 agosto (a cena in un locale in riva al Po), confidandole di sentirsi lucidamente all’epilogo della propria parabola. Il 23 le scrisse esprimendole il proprio desiderio di «silenzio». La prossimità della fine sembra ormai ineludibile.
Sabato 26 agosto 1950, nel primo pomeriggio, Pavese si recò all’albergo Roma, sotto i portici di piazza Carlo Felice, e prese una piccola stanza al terzo piano. In serata fece alcune telefonate, tra l’altro a Fernanda Pivano e, probabilmente, a una ragazza conosciuta qualche giorno prima in una sala da ballo che avrebbe eluso il suo invito, definendolo musone e noioso. La sera del giorno dopo Pavese fu ritrovato senza vita sul letto: si era tolto la vita con il sonnifero.
Il messaggio ai posteri, vergato sulla prima pagina di una copia dei Dialoghi con Leucò, suonava: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi», firmato Cesare Pavese. Era modellato su quello di Vladimir V. Majakovskij, come Cesare lo aveva letto nell’antologia Il fiore del verso russo curata da Renato Poggioli per Einaudi (1949). Eccone le prime righe: «A tutti. Se muoio non accusate nessuno. Niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva soffrire. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi».
Opere. L’edizione delle opere «complete» di Pavese, in 14 volumi (16 tomi), uscì per i tipi torinesi di Einaudi nel 1968. Ora sono disponibili: Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti (2000) e Tutti i racconti (2002). Si vedano inoltre: Poesie giovanili (1923-30), a cura di A. Dughera – M. Masoero, Torino 1989; Pavese giovane, Torino 1990; Il mestiere di vivere (1935-1950), nuova ed. integrale condotta sull’autografo, a cura di M. Guglielminetti – L. Nay, Torino 1990; L. Mondo, Il tormento di Pavese, prima che il gallo canti, in La Stampa, 8 agosto 1990 (taccuino inedito); Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), a cura di M. Masoero, Torino 1993; Le poesie, a cura di M. Masoero e con introduzione di M. Guglielminetti, Torino 1998; Tra donne sole, nuova ed. con l’aggiunta delle lettere di C. Pavese e I. Calvino, Torino 1998 (in appendice la sceneggiatura del film Le amiche di M. Antonioni); Dodici giorni al mare. Un diario del 1922, a cura di M. Masoero, Genova 2008; Il serpente e la colomba. Scritti e soggetti cinematografici, Torino 2009; Le Odi di Quinto Orazio Flacco tradotte da Cesare Pavese, a cura di G. Barberi Squarotti, Firenze 2013.
Fonti e Bibl.: I manoscritti e dattiloscritti principali sono custoditi nell’Archivio Pavese presso il Centro di studi di letteratura italiana in Piemonte Guido Gozzano-Cesare Pavese della facoltà di lettere dell’Università degli studi di Torino; provengono dalla famiglia (fondo Sini-Cossa) e dalla Einaudi; sul sito HyperPavese – database imprescindibile e in progress – curato da Mariarosa Masoero, molti materiali sono disponibili digitalizzati.
Sono stati pubblicati nuclei (spesso) inediti dell’epistolario in varie sedi; si veda, ad esempio: P. Pulega, Tre lettere inedite di C. P., in Studi novecenteschi, 1974, n. 7, pp. 107-109; P. Briganti, In margine alla corrispondenza P. – Jahier. Una lettera inedita di P., in Studi e problemi di critica testuale, 1974, vol. 9, pp. 234-243; M. Leva, Tredici lettere inedite di C. P. ad Aldo Camerino, in Strumenti critici, XXX (1976), pp. 247-256; F. Contorbia, P.: le lettere inedite a Sibilla, in La Stampa – Tuttolibri, 26 febbraio 1987; M. Guglielminetti, Una poetica ‘tenzone’: Mario Sturani e C. P., in Mario Sturani 1906-1978, a cura di M.M. Lamberti, Torino 1990, pp. 192-199; C. Pavese – E. De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di P. Angelini, Torino 1991; A. Dughera, Monti e P.: storia di un’amicizia attraverso le lettere, in Id., Tra le carte di P., Roma 1992, pp. 49-103; S. Savioli, L’ALI di P., in Levia Gravia, I (1999), pp. 259-288; M. Guglielminetti – S. Savioli, Un carteggio inedito tra C. P. e Mario Bonfantini, in Esperienze letterarie, 2000, n. 3-4, pp. 61-85; C. P. & Anthony Chiuminatto. Their corrispondence, a cura di M. Pietralunga, Toronto-Buffalo-London 2007; C. P. tuo Muscetta, a cura di G. Ferroni – E. Frustaci, Catania 2007; Officina Einaudi. Lettere editoriali 1940-1950, a cura di S. Savioli, Torino 2008; C. Pavese – R. Poggioli, “A meeting of minds”. Carteggio 1947-1950, a cura di S. Savioli, Alessandria 2010; Una bellissima coppia discorde. Il Carteggio fra C. P. e Bianca Garufi (1945-1950), a cura di M. Masoero, Firenze 2011.
Strumento bibliografico imprescindibile è L. Mesiano, C. P. di carta e di parole. Bibliografia ragionata e analitica, Alessandria 2007, cui si rimanda per brevità. Precedentemente: M. Lanzillotta, Bibliografia pavesiana, Rende 1999; Ead., Materiali pavesiani, in Filologia antica e moderna, 1997, vol. 13, pp. 101-113; cfr. anche C. P.: le carte, i libri, le immagini (catal.), a cura di A. Dughera – D. Richerme, Torino 1987. Fra gli studi biografici: D. Lajolo, Il “vizio assurdo”. Storia di C. P., Milano 1960 (poi: P., Il vizio assurdo, Milano 1984); B. Alterocca, P. dopo un quarto di secolo, Torino 1975 (poi: C. P. Vita e opere di un grande scrittore sempre attuale, Quart [Aosta] 1985); L. Mondo, Quell’antico ragazzo. Vita di C. P., Milano 2006. Si aggiunga la dettagliata Cronologia di M. Masoero in C. Pavese, Tutti i romanzi, cit., pp. LXVII-CIII; nonché T. Wlassics, P. falso e vero. Vita, poetica, narrativa, Torino 1987, pp. 25-64, e F. Vaccaneo, C. P., una biografia per immagini: la vita, i libri, le carte, i luoghi, Cavallermaggiore (Torino) 1996 (1ª ed. Torino 1989). Fra le testimonianze si vedano almeno N. Ginzburg, Le piccole virtù e Lessico famigliare, rispettivamente Torino 1962 e 1963; A. Monti, I miei conti con la scuola, Torino 1965; P. Spriano, Le passioni di un decennio, Milano 1986; T. Pizzardo, Senza pensarci due volte, Bologna 1996.
Fra i contributi critici più recenti: R. Gigliucci, C. P., Milano 2001; Sotto il gelo dell’acqua c’è l’erba. Omaggio a C. P., Alessandria 2001 (con un carteggio inedito con Raffaele Pettazzoni); P. e la guerra, a cura di A. d’Orsi – M. Masoero, Alessandria 2004; M. Masoero, “Anche astenersi è un prender parte”. C. P. a Casale Monferrato, in Come l’uom s’eterna, S. Mauro Torinese 2006; C. P. e la “sua” Torino (catal.), a cura di M. Masoero – G. Zaccaria, Torino 2007; V. Capasa, “Lo scopritore di una terra incognita”. C. P. poeta, Alessandria 2008; G. Remigi, C. P. e la letteratura americana. Una “splendida monotonia”, Firenze 2012; C. P., un greco del nostro tempo, a cura di A. Catalfamo, S. Stefano Belbo 2012.
Castelnuovo di Farfa -Il Murales della Memoria-Brano dal libro di Franco Leggeri
Castelnuovo di Farfa -Il Murales della Memoria-Brano dal libro di Franco Leggeri –Un vecchio proverbio castelnuovese dice testualmente: “’U giornale (ora anche il web) è come u somaru, quillu che jhi carichi porta…”. Assistiamo , leggiamo, a Castelnuovo a “Lezioni di Memoria e Appartenenza”. Grande lezione impartita a noi “vecchi ignoranti castelnuovesi” che, appunto, di Storia castelnuovese , non avendola vissuta, abbiamo un “disperato” bisogno di abbeverarci alla fonte “Ornischi” o “Bollica”. Noi vecchi castelnuovesi stiamo imparando cosa significa essere ignoranti. Se ben ricordo , in teoria, l’ignorante è chi dice <non so>, ma in realtà , a mio avviso, dopo aver letto vari articoli relativi alla “Memoria e Appartenenza” credo che, in verità oggi, a Castelnuovo è colui che <non sa e non conosce la Storia castelnuovese > ma la vuole spiegare ed illustrare ai protagonisti cioè a noi VERI CASTELNUOVESI. Il proverbio castelnuovese citato all’inizio è vero:” L’ignoranza della Storia castelnuovese? Grazie al web è diventata “saccenza”.A Castelnuovo assistiamo, in fatto di Storia ,a una sorta di: “liberi tutti… di sparare idiozie storiche che sono così eclatanti nella “semplicistica e ingenua” ricostruzione nella fase cronologica, date, e nei personaggi . Mnemosune (memoria) ) la madre di tutte le Muse, i greci la identificavano con la capacità di tenere a mente, rammentare, quindi con un’abilità della ragione, della testa, in prima istanza. Il “potere” castelnuovese è complice di questo “ANNO ZERO” della “nuova storia castelnuovese”. A noi castelnuovesi quello che abbiamo vissuto è entrato in circolo nel nostro sangue, è parte di noi.Noi vecchi castelnuovesi , allontanati e isolati dal “potere arrogante dell’ignoranza” ,che nome dobbiamo dare a chi offende la nostra intelligenza? Qual’è il nome corrispondente? Rabbia? O piuttosto delusione, sconforto, fastidio? A Castelnuovo l’ignoranza della vera storia castelnuovese è alla base della situazione attuale. L’inflazione d’informazione, in continua crescita ed evoluzione, fa perdere il senso di continuità del tempo, il valore della memoria, in un perpetuo “attimo presente” che cancella percorsi storici lenti, difficili, conquistati a fatica, tra passi in avanti e dolorosi ritorni al passato.Questa “ dittatura dell’informazione castelnuovese” è la causa dell’indifferenza con cui si accettano decisioni che hanno e avranno conseguenze pesanti per la società e la democrazia del nostro amato Castelnuovo.È pericoloso per il “potere castelnuove”che la gente abbia conoscenza, anzi coscienza, dei fatti storici che, in bene e in male, sono all’origine della situazione attuale. Noi castelnuovesi, quelli dell’Orgoglio castelnuovese, dobbiamo aver presente che la memoria storica non è “automatica”, deve essere tenuta viva, non “mummificata” e resa “sterile” , attualizzata , cosa ben diversa “dal racconto diverso”. La Storia , la nostra storia castelnuovese, viene “messa a tacere” per, a mio avviso, non dare ai giovani la capacità di analisi, critica, denuncia , discussione del presente alla luce del passato al fine di non far conoscere i “percorsi” in cui si sono perse conquiste e spesso anche i valori. La VERA storia di Castelnuovo ci permette, a noi tutti , di crearci una coscienza critica indispensabile per comprendere il tempo di oggi e per intervenire nella società castelnuovese con libertà, obiettività, apertura, forza intellettuale e morale. Ripeto da anni che sono pronto per un pubblico dibattito con le autorità e gli “storici castelnuovesi”.
Castelnuovo e i colori della rabbia,
Noi che abbiamo la parola interdetta
aspettiamo le stelle del cielo
per vedere ,da questo ponte della Storia,
l’ultima acqua silenziosa del nostro passato.
In questo spazio infinito dei ricordi
possiamo solo gettare i nostri sassi della rabbia.
Noi non abbiamo voce
perché oscurati e dimenticati
e il nostro respiro è nascosto al sole.
Ora l’ombra del silenzio scivola
e trascina a valle la voce dell’oblio.
A noi Castelnuovesi non resta che imparare
la trama dei racconti
nasconderli nel libro dell’anima
e custodirli nei cassetti della memoria.
Scriveremo e racconteremo
lo “schiaffo della resa”
che le sirene del potere ,
beffandosi del nostro dolore
e il non essere capaci di rifiutare le “monetine“ dell’umiliazione,
Maria Stuarda, forma italianizzata di Mary Stuart, è stata sicuramente la regina più importante della Scozia.
Nota Biografica:
Nata l’8 dicembre 1542 da Giacomo V Re di Scozia e dalla sua seconda moglie Marie de Guise, duchessa francese imparentata con la casa reale di Francia, Maria era la nipote di Margaret Tudor, sorella di Enrico VIII d’Inghilterra, il re famoso per aver rotto i legami con la chiesa cattolica e aver istituito la fede anglicana.
Poco dopo la sua nascita, il padre morì lasciando lei come unica erede e nel 1543, nella cappella del Castello di Stirling, la piccola fu incoronata Maria, Regina di Scozia.
Ci fu una breve reggenza di James Hamilton mentre nel 1554 la madre Marie de Guise decise di rompere il fidanzamento tra la figlia ed il principe Edoardo, figlio di Enrico VIII che con questo sposalizio avrebbe messo le mani sul regno di Scozia.
Maria Stuarda
Descrizione del romanzo:
Il “brutale corteggiamento” ebbe inizio. Così venne definito quello che seguì a questa rottura, le campagne militari inglesi contro la Scozia nel tentativo di rapire Maria e farla sposare con Edoardo. Marie de Guise fuggì portando con sè la figlia di castello in castello fino ad arrivare nella corte di Francia storica alleata scozzese dove il re Enrico IIapprofittò per farla sposare con il figlio Francesco II nel 1558 che però morì poco dopo.
Cresciuta e allevata alla corte dissipata di Caterina de’ Medici, fu la legittima regina di Scozia. Nella terra che fu di William Wallace fu richiamata dai membri dell’aristocrazia, ansiosi anzitutto di assicurare al loro paese l’indipendenza dai vicini meridionali. Infatti, il Parlamento scozzese, senza l’assenso della sovrana, aveva ratificato la modifica della religione di Stato passando da quella cattolica a quella protestante sotto la spinta del furore del riformatore John Knox.
Maria sbarcò a Leith nel 1561, possedendo numerose virtù e talenti appresi dall’educazione ricevuta in Francia, ma era manchevole di quella forza per far fronte alla pericolosa situazione scozzese.
I rapporti con la cugina Elisabetta I d’Inghilterra
Nel frattempo sul trono di Inghilterra salì Elisabetta, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, la donna per cui il re ruppe i rapporti con la Chiesa di Roma. I rapporti tra le cugine, Maria Stuarda ed Elisabetta I, furono difficili e complicati. innanzitutto per la fedeltà che molti cattolici inglesi decisero di dare alla regina di Scozia non riconoscendo Elisabetta. Ancor di più, ad incrinare i rapporti tra le due regine, accorse la difficile situazione della successione.
Elisabetta non aveva figli e non era intenzionata ad averla. Maria invece, captando la possibilità di unire i due regni sotto la sua egida, si sposò con il cugino Lord Darnley, che grazie a sua madre vantava certi diritti di successione al trono inglese. Dal matrimonio nacque Giacomo VI di Scozia (poi Giacomo I d’Inghilterra), battezzato nel Castello di Stirlingsu una tavola rotonda, come a renderlo il nuovo re Artù che avrebbe presto unito Scozia e Inghilterra.
A rendere ulteriormente intricati i legami tra le regine fu la morte sanguinosa del marito di Maria Stuarda, accusata dalla cugina di essere complice dell’attentato. La regina scozzese aveva un segretario favorito, l’italiano Rizzio, in contrasto con Darnley e i nobili protestanti che dominavano la politica del paese. Rizzio fu ucciso dallo stesso Lord sotto gli occhi della regina. A sua volta, un anno dopo il marito di Maria fu ucciso da James Hepburn, IV conte di Bothwell, che divenne poi il marito della regina di Scozia, rendendo ancora più credibile la sua implicazione nell’assassinio del precedente marito.
I nobili scozzesi, benchè non eccessivamente morali, furono urtati da questi atti che disonoravano la nazione. Imprigionarono Maria a Lochleven per processarla. Ella fuggì per chiedere asilo alla cugina Elisabetta.
La regina d’Inghilterra, nonostante l’antipatia per Maria, odiava anche le ribellioni e la figura del calvinista Knox. Decise così di trattenerla in prigionia cercando di intavolare una trattativa ma con condizioni di pace alquanto irragionevoli, come che rinunciasse al trono a favore di Giacomo VI e che lo facesse educare in Inghilterra.
I continui rifiuti, la sete di vendetta, e l’aspirazione a sposare il re Filippo di Spagna la portarono per ben 19 anni ad essere imprigionata e ad essere accusata di complicità nelle congiure contro la regina anglicana. La prova della sua partecipazione fu trovata nella firma al documento della cospirazione di Babington che prevedeva la morte di Elisabetta. Il processo che ne seguì la condannò a morte, nonostante il figlio Giacomo chiese che la pena fosse commutata in esilio.
La condanna a morte fu firmata il 1° febbraio 1587 per quella che le Camere definirono “quel drago enorme e mostruoso ch’è la regina degli scozzesi”.
Durante il processo, Maria Stuarda, per sottolineare la sua fedeltà alla religione cattolica, alla Scozia e il non essersi piegata all’Inghilterra anglicana, disse ai suoi accusatori “guardate nelle vostre coscienze e ricordate che il teatro del mondo è più ampio del regno d’Inghilterra.” Essendo una regina straniera, nonché la prima sovrana ad essere giustiziata nonostante legittimamente unta e coronata, non poteva essere accusata di alcun tradimento.
La sua vita, divenuta così modello di eroina di romanzo, campionessa di fede, fu venerata dal mondo cattolico come santa e martire. Trascorse i suoi ultimi giorni pregando e perdonando il suo boia al quale disse “vi perdono con tutto il mio cuore, perché ora io spero che porrete fine a tutte le mie angustie”.
Morì decapitata l’8 febbraio del 1587 con ben due colpi di scure, indossando una sottoveste di raso rosso, colore liturgico del martirio per la religione cattolica usato per dimostrare la sua innocenza. La regina chiese che le dame, alla sua morte, vestissero il “nero spagnolo”. Il nero divenne il colore ufficiale del lutto per i re, i principi e nobili vari, cioè coloro che erano più vicini ai papi e agli uomini influenti della Chiesa.
Le opere a lei ispirate
La sua figura ispirò un romanzo di Alexandre Dumas in cui si concentra la malinconia per il ruolo storico per cui la Regina era nata ma che le sanguinose vicende le impedirono di essere. A lei furono anche dedicate un’opera lirica di Gaetano Donizetti e un’opera di teatro di Frederich Schiller. Vittorio Alfieri nel 1788 scrisse la tragedia “Maria Stuarda”.
A livello cinematografico sono decine i film in cui compare e due su tutti la vedono protagonista, entrambi intitolati “Mary Queen of Scots”, usciti nel 1971 e nel 2013. Nel primo la figura della regina fu recitata da Vanessa Redgrave che ottenne anche una candidatura agli Oscar per questo ruolo. Tra il 2013 e il 2017 le è stata dedicata anche una serie TV, chiamata ”Reign”, incentrata sulla sua giovinezza impersonata dall’attrice Adelaide Kane.
Nel 2018, invece, è uscito il film “Maria regina di Scozia“, diretto da Josie Rourke con protagoniste Saoirse Ronan e Margot Robbie. Si tratta dell’adattamento cinematografico di My Heart is my own: the life of Mary Queen of Scots, biografia della regina scozzese scritta da John Guy.
Biografia di Maria Stuarda-Figlia (Linlithgow 1542 – Fotheringay Castle, Northamptonshire, 1587) di Giacomo V e di Maria di Lorena. Mandata in Francia (1548) perché fosse sottratta al fidanzamento con Edoardo d’Inghilterra voluto da Enrico VIII, M. vi fu educata alla corte di Enrico II e fidanzata col delfino Francesco, che poi sposò nell’apr. 1558. Bella, di carattere energico, seppe tener testa alle difficoltà che Caterina de’ Medici, avversa al partito dei Guisa, cui M. era legata da rapporti di parentela, le opponeva, dominando il debole marito. La morte di Francesco II (5 dic. 1560) la fece però attenta alla situazione in Scozia, dove si era favorevolmente conclusa, con l’aiuto di Elisabetta d’Inghilterra, la lotta per la proclamazione del protestantesimo; M. si rifiutò di riconoscere il trattato di Edimburgo, in base al quale erano stati espulsi i Francesi, ma accettò l’invito dei lord protestanti, presto delusi dell’amicizia di Elisabetta, e nell’agosto 1561 sbarcò a Leith. Furono anni tranquilli: la collaborazione fra i lord protestanti e M. fu cementata dall’appoggio del conte di Moray e dell’ala moderata dei protestanti scozzesi, che consentì a M. la personale professione del culto cattolico e una generale politica di tolleranza religiosa. Il difficile equilibrio (la pressione dei circoli cattolici su M. non era meno forte del violento estremismo di J. Knox) fu rotto quando M., che aveva rifiutato un matrimonio col conte di Leicester proposto da Elisabetta, sposò, incurante dell’opposizione protestante, Enrico Darnley, il capo dei cattolici scozzesi (1565); poi sconfisse Moray, che si rifugiò in Inghilterra. La grave situazione fu complicata dall’ambizione del debole Darnley a farsi proclamare principe-consorte e dall’improvvisa passione di M. per il suo segretario Davide Rizzio; una breve alleanza di Darnley con i nobili protestanti, sempre più irritati dai tentativi di restaurazione cattolica di M., portò all’assassinio di Rizzio (1566) e poi si sfasciò. M. diede una nuova prova del carattere tutto passionale e non politico della sua azione; riconciliatasi col marito (il 19 giugno le nasceva il figlio Giacomo), riuscì a scindere l’opposizione dei nobili, e con l’aiuto dei conti di Bothwell, di Huntly e di Atholl tornò a Edimburgo dal suo rifugio di Dunbar, iniziando una relazione con Bothwell, che fu l’inizio della catastrofe. Darnley fu assassinato (9 febbr. 1567), e nel maggio successivo, dopo avventurose vicende, M. sposò, secondo il rito protestante, Bothwell. La violenta opposizione dei nobili, che vincitori a Carberry Hill costrinsero M. all’abdicazione e al ritiro a Lochleven, travolse la sua testarda resistenza e, sconfitta ancora a Langside, M. cercò rifugio in Inghilterra presso Elisabetta. L’avversione personale per la regina cattolica, che aveva in varie occasioni mostrato di non voler rinunciare ai suoi diritti al trono inglese, fu contenuta dall’imbarazzo politico di Elisabetta che non voleva immischiarsi nella punizione di una regina; e per un momento si pensò di risolvere la difficile situazione sposando M. col duca di Norfolk. Un progetto che fallì presto, mentre M. tentava disperati complotti con i Guisa e con Filippo II di Spagna, finché, compromessasi imprudentemente nella congiura di A. Babington, nell’ott. 1586 fu processata e (11 ottobre) condannata a morte. Dopo molte esitazioni, Elisabetta si decise a firmare il decreto di morte, che fu eseguito il 7 febbraio 1587.
ROMA Municipio XIII-La VILLA ROMANA delle COLONNACCE
– Fotoreportage di Franco Leggeri
Roma- Municipio XIII-Castel di Guido- Fotoreportage di Franco Leggeri –I visitatori che in questi giorni , a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, sono stati ospiti del GAR a Villa Romana delle Colonnacce e qui guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana molti ospiti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi , muniti di cartello con la relativa descrizione di Plinio, che si trovano nell’angolo in fondo all’area archeologica sono alcuni esemplari di : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
Questi alberi sono qui a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato una occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
ROMA – Municipio XIII-Castel Di Guido – Villa Romana delle Colonnacce
Fotoreportage di Franco Leggeri -Anno 2005-
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
Castel di Guido- La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale.La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono,catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Baldo degli Ubaldi dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “. Ricordiamo il recente, superbo, lavoro della Dott.ssa Daniela Rossi nel quartiere Massimina sulla via Aurelia. La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela.Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
After Images. L’eccidio della famiglia Einstein Mazzetti: risonanze visive-
Fotografie di Eva Krampen Kosloski-Sellerio Editore
Descrizione del libro della Sellerio Editore -Il 3 agosto 1944 nella tenuta Il Focardo di Rignano sull’Arno, circa 15 chilometri a sudest di Firenze, poche ore prima che l’avanguardia delle forze alleate raggiunga la villa, un commando tedesco giustizia Nina Mazzetti e le sue figlie Luce, 27 anni, e Anna Maria, 18. Nina è la moglie di Robert Einstein, ricco commerciante, ebreo apolide, che viveva in Italia da diversi anni. Era il cugino dello scienziato Albert. Robert, che durante la strage era in fuga nei campi, poco dopo il suo ritorno e la scoperta del massacro si suiciderà.
Presenti all’esecuzione sono Lorenza e Paola Mazzetti, cugine di Luce e Anna Maria, che da alcuni anni, di fatto adottate, vivono con la famiglia degli zii. Vengono risparmiate perché non ebree. All’epoca sono poco più che bambine.
Lorenza e Paola diventeranno, ognuna a suo modo, personaggi importanti della stagione culturale del dopoguerra. Lorenza trasferitasi a Londra sarà una delle protagoniste – se non la vera artefice – del Free Cinema inglese, una delle «onde nuove» più trascinanti della cultura europea che vede protagonisti registi del calibro di Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson. Tornata in Italia negli anni Sessanta sarà anche pittrice, giornalista, intellettuale influente. Dei mesi che precedettero quella terribile esperienza scriverà nel libro Il cielo cade, mentre dal mondo cinematografico della Londra del dopoguerra nascerà il Diario londinese (entrambi pubblicati da questa casa editrice).
La sorella Paola sarà scrittrice, illustratrice, artista.
Sua figlia, Eva Krampen Kosloski, fotografa, tornerà nei luoghi dell’infanzia e della tragedia con la madre e la zia e ne documenterà l’atmosfera, la bellezza, la nostalgia. E fotograferà le due sorelle pochi anni prima della loro scomparsa: nella tenuta di Monte Malbe in Umbria, nella villa del Focardo, a Roma…
Queste toccanti immagini, con altre storiche che documentano quell’infanzia dal tragico epilogo, insieme ai documenti che registrano la strage, sono oggetto di un’importante mostra che fino al 25 febbraio 2024 è visitabile in anteprima assoluta presso il Memoriale della Shoah di Milano, e che in seguito sarà portata a New York al Centro Primo Levi.
After Images. L’eccidio della famiglia Einstein Mazzetti: risonanze visive
Edizione bilingue (italiano e inglese) Brossura, formato 17×24 cm Con 74 illustrazioni a colori
La casa editrice Sellerio
Quello che è diventata la casa editrice Sellerio era in un certo modo già presente nel carattere di chi l’ha ispirata come impresa culturale e fondata come impresa economica. Il centro guardato dalla periferia, per scoprire che la periferia è il centro.
La casa editrice Sellerio nasce nel 1969, con un piccolo investimento da parte di Elvira ed Enzo Sellerio celebre fotografo, sulla base di una idea nata parlando assieme a Leonardo Sciascia e Antonino Buttitta, l’antropologo. I quattro sono amici e sono protagonisti della vita culturale palermitana. Palermo negli anni Sessanta è una strana città. Da mille anni una delle capitali dell’Occidente, da mille anni alla periferia dell’Occidente. Crocevia e crogiuolo di tutti gli elementi fondamentali assorbiti dalla cultura occidentale. Ne è legata e distaccata insieme. In ogni sua stagione di fervore culturale (e gli anni Sessanta sono anni di fervore) produce un tipo di intellettuale, egocentrico e presuntuoso quando è un piccolo intellettuale; originale e creativo quando è un grande intellettuale. È un intellettuale segnato da un particolare movimento dialettico: dal suo cantuccio guarda il centro del mondo. Osserva quanto fragili e piene di eccezioni sono sempre diventate in Sicilia le mode e le verità altrove proclamate di volta in volta infallibili e assolute. Considera tutto questo dapprima con risentimento per esserne escluso, con sufficienza, con desiderio; poi scopre che il suo cantuccio è il mondo. Così, fin dall’inizio Sellerio è una casa editrice periferica e interessata alle periferie. Ma è questo essere una specie di provincia dell’anima che le consente di esprimere una generalità. Di non essere una nicchia, ma un soggetto. Perché il soggetto è inevitabilmente un punto di vista, cioè una provincia che si fa centro.
Il programma all’origine della casa editrice è il ritorno a una cultura che Sciascia definisce «amena», cioè una cultura in cui il cosiddetto impegno è implicito e non esplicito, quindi una cultura della leggerezza, che non rinuncia all’eleganza, una cultura delle idee, sì, ma in forma di cose belle.
La fine degli anni Sessanta segna l’apice del grande impegno ideologico e politico della cultura italiana. Ma come sempre, dall’apice, dalla sommità comincia la discesa. Alla fondazione della casa editrice vi è, volontario o involontario, l’intuito che sta per cominciare quello che allora si chiamerà riflusso. Tutti leggono soltanto di politica. Tutto è politico, in quegli anni, perfino la letteratura, perfino l’arte. Tutto è essenziale, ascetico, importante e ostentatamente povero. Se è colto, è sperimentale. La prima collana Sellerio si chiama invece La civiltà perfezionata. È fatta di carta pregiata, con le pagine intonse. E pubblica testi di «belle lettere»: ricercata letteratura, rarefatta, distante anni luce da ogni tempesta politica. Sono testi caratterizzati da due linee apparentemente parallele, in realtà convergenti: la letteratura siciliana, e la letteratura europea meno nota e più raffinata. Due linee che convergono perché si dipartono da un illuminismo di base: il credere che la cultura non ha bisogno di aggettivi, che è di per sé trasformatrice. I due primi titoli sono infatti Mimi siciliani del nobile letterato Lanza e Lettere sulla Sicilia di Eugène Viollet Le Duc, scrittore francese (nonché architetto) malinconico e di sensibilità autobiografica. Ogni volume è accompagnato da incisioni di grandi illustratori (Mino Maccari, Tono Zancanaro, Bruno Caruso) e da una introduzione che in casa editrice si prende l’abitudine (in parte per il gusto della modestia, in parte per la vanità della modestia) a chiamare Nota. Le Note sono testi che hanno come modello gli scritti occasionali di Sciascia stesso, che non prendono mai di petto il loro oggetto, ma vi alludono alla ricerca di connessioni e suggestioni apparentemente lontane ma che in realtà centrano più di ogni zelante documentazione. Così le Note sono introduzioni ma costituiscono, se si vuole, letture autonome. Lanza, per esempio, è introdotto da Calvino.
La prima svolta: la pubblicazione de L’affaire Moro di Leonardo Sciascia.
Dentro la casa editrice, nei primi anni serpeggia un dissenso. C’è chi vuole conservare una dimensione minima e riservata, un carattere strettamente amatoriale (sull’esempio del milanese Scheiwiller, o dell’editore nisseno Salvatore Sciascia). Altri invece vorrebbero misurarsi col mare aperto, con una presenza editoriale più marcata e pubblica, forse nazionale. Nel 1978, senza che nessuno lo abbia programmato volontariamente, arriva un libro di Sciascia come la spada di Alessandro Magno che taglia il nodo gordiano. L’affaire Moro è un classico libro Sellerio (forse il primo tipico). Pubblicato in una collana per pochi com’è La civiltà perfezionata, vende più di centomila copie. È un libro di denuncia, senza parrocchie, coraggioso, scritto nella prosa magnifica di Sciascia. Non teme di essere un libro di grande responsabilità ideale; ma è fatto per essere letto e goduto. Insomma è nato lo stile di una casa editrice e il suo spazio a livello nazionale.
La seconda svolta: la collanina blu della Memoria. Nasce la piccola editoria. Mentre circola lo slogan «piccolo è bello». Tra la casa editrice e l’immaginario dell’italian style si crea un involontario circolo virtuoso.
Fortunato, fortunoso e fortuito – avrebbe detto Sciascia – fu dunque il presentarsi di Sellerio sulla scena nazionale. Ma fu vissuto come una occasione da non mancare. E nell’autunno del 1979 nacque la collana che mancava. Il blu della Memoria. Prima di tutto la grafica. Fu una piccola rivoluzione, nel grigiore metallico delle copertine di quegli anni l’irrompere della macchia blu, della carta vergata, dell’immagine pittorica figurativa al centro della sovraccoperta, dentro una cornicetta colorata che richiamava il colore delle lettere del titolo. Un effetto cromatico accentuato da quella che era allora una originalità audace: i colori delle lettere e della cornice che cambiavano di numero in numero: una volta gialli, una volta celesti, una volta grigi, una volta rossi, quasi mai bianchi. Il libro tornava ad essere anche un oggetto elegante, anche per quel suo formato tendente al quadrato, studiato per essere su misura per la tasca di una giacchetta. Un’unica legge per i contenuti: la curiosità intelligente (intelligente, diceva Sciascia nel senso di intelligenza col lettore «come si dice intelligenza col nemico», cioè intesa rapida, sotterranea, forse complice) che il libro doveva comunicare al lettore, resa con stile letterario. Leggerezza. Una collana amena, appunto. Per quell’accavallarsi di casi fortunati che contornano le buone imprese, La memoria accompagnò – forse incoraggiò, addirittura, si può azzardare, inaugurò – una serie di novità in ciò che allora cominciava a chiamarsi «immagine». Nasceva allora lo stile della piccola editoria. Nasceva dentro l’idea dei prodotti italiani come esempio di cose belle fatte bene e con stile. La memoria, nella sua fortuna di lettori e di critica, sosteneva queste tendenze e ne era sostenuta.
La consacrazione nazionale: il caso Bufalino. Difficilmente un altro editore avrebbe scoperto Diceria dell’untore. Perché quella scoperta fu il frutto dello stile di lavoro di Sellerio.
Un uomo già anziano. Un tipico professore di Liceo siciliano. Coltissimo ma impenetrabilmente schivo. Poco appariscente, sembrava più un erudito che uno scrittore di talento. E poi la sua scrittura barocca, ricercata allo spasimo, figlia, apparentemente, dell’altra metà del secolo. Nel 1981 l’incontro con Bufalino fu casuale e solo il fatto che lo stile di lavoro di Elvira Sellerio (che allora cominciava a occuparsi a tempo pieno, da direttore editoriale, della sua impresa) è poco programmato e molto guidato dalla curiosità, poté produrre quella piccola inchiesta alla fine della quale nel cassetto di Bufalino fu scovato Diceria dell’untore. Una casa editrice più ordinata, un direttore editoriale più tradizionale, uno stile di lavoro più efficiente avrebbe mai trovato Diceria dell’untore? Comunque, quel romanzo che fu la consacrazione di Sellerio tra gli editori nazionali, vinse un meritatissimo Campiello nel 1981 e segnò un cambiamento anche nella cultura italiana. La narrativa italiana girò pagina. E cominciò la stagione dei nuovi scrittori italiani. Almeno per Sellerio.
Saggi legati soprattutto alla storia, alle scienze del linguaggio e a quella che una volta si chiamava varia umanità. Rigore scientifico ma anche il tentativo perenne di rinverdire il vecchio saggio di lettura – che non è la divulgazione o la volgarizzazione ma la capacità di mantenere lo stile, la curiosità e l’innocenza di fronte alle tematiche più teoriche ed erudite.
Nel frattempo nel 1976 erano nate due collane di saggistica. Biblioteca siciliana di storia e letteratura e Prisma. La Biblioteca è la prima collana di storia della Sellerio. Il titolo è vagamente crociano. C’è Croce infatti, forse senza che se ne abbia esplicita intenzione, sotto tutta la storia di Sellerio. Perché non possiamo non dirci crociani? Perché Croce era forse prima di tutto un grande letterato. La storia che cerca di fare Sellerio è storia con la S maiuscola, quella che Les Annales chiamavano storia evenemenziale, dei grandi avvenimenti. (Non che non sia presente anche una storia sociale e materiale, una microstoria: essa è raccolta nella collana Quaderni, fondata nel 1984). Storia di grandi avvenimenti, storia siciliana ma non solo. Ma soprattutto libri di storia fatti, o almeno questo è il tentativo perenne, per essere letti più che studiati (è in questa collana che compare il libro dello storico Francesco Renda Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, la più completa storia della Sicilia postunitaria). Prisma invece è la collana di saggistica più classica e più specialistica: essa è destinata agli studi dei linguaggi e delle letterature intesi nel senso più ampio. Nel corso degli anni a queste prime si aggiunsero altre collane: La diagonale e La nuova diagonale, Fine secolo, destinate rispettivamente a saggi di varia, a lettere diari biografie e memorie di viaggio, alla letteratura dei diritti civili (Fine secolo, fu inventata ed è diretta da Adriano Sofri). Ma la cifra che le unifica tutte quante è sempre quella. Non perdere mai l’innocenza e la curiosità. Non perdere mai di vista che la conoscenza è un orizzonte non un traguardo. Se non è incanto, la conoscenza è tecnicismo per i tecnici. Un esempio è la Sentenza, di Luciano Canfora, che indaga sul caso della esecuzione del filosofo del fascismo Gentile e del coinvolgimento del grecista Marchesi. Canfora è intellettualmente coinvolto, per le sue posizioni politiche di sinistra per il suo antifascismo e per essere grecista; ma questo coinvolgimento non prevale sulla obiettività e dà al libro, semmai, un di più di passione. Canfora dal 1990 dirige la collana La città antica, l’unica collezione di scritti classici con studi critici e testi a fronte diretti al vasto ambito dei lettori non specialisti.
Gli anni Ottanta di Tabucchi, di Consolo, di Adorno, di Maria Messina. Sellerio è in prima fila in quella stagione in cui con un nuovo orgoglio la narrativa italiana scopre (riscopre) un’altra generazione di scrittori.
Dopo Diceria dell’untore il nome della casa Sellerio si salda in qualche modo con la vena dei nuovi scrittori italiani. Sellerio, nel suo piccolo, contribuisce a riprendere l’esportazione della cultura italiana all’estero. Accanto a Bufalino, sono richiestissimi i diritti di traduzione di scrittori che la casa editrice va scoprendo. Antonio Tabucchi, Maria Messina, Luisa Adorno, sono i nomi più interessanti. Ed è indicativo che non di inediti si tratti. Ma di scrittori caduti nel dimenticatoio, che Sellerio scopre e rilancia. Segno che gli anni Ottanta sono proprio la stagione della piccola editoria che esercita una funzione di svecchiamento, contro la pigrizia e il letargo dei giganti dell’editoria. E di questa stagione, la stagione della nuova generazione di narratori italiani, assieme a un paio di altri, Sellerio è protagonista e traino.
Il risveglio dei giganti. I grandi gruppi editoriali riassorbono i piccoli, con i manager al posto dei vecchi leoni. Fine della piccola editoria. Sellerio resiste, assieme a pochi altri. E lancia un nuovo genere di giallo all’italiana. Un piccolo editore, Sellerio?
Nel 1990 esce da Sellerio un librettino. Racconta di un commissario di polizia che indaga su un torbido delitto, nel passaggio dalla repubblica di Salò alla repubblica italiana. Il commissario, De Luca si chiama, è un funzionario del regime fascista onesto e molto scettico, in un’epoca in cui le due qualità – onestà e scetticismo – non possono andare d’accordo. Sembra il primo giallo «revisionista», in quanto presenta il volto umano di un’epoca e un momento storicamente perversi. Ma il suo autore ha abbastanza cultura, talento e onestà intellettuale per far argine a quello che potrebbe essere uno scandaluccio e per farne un caso letterario. Con Carta bianca di Carlo Lucarelli si può dire che nasca un nuovo genere di giallo italiano. Seguirà un profluvio di letteratura poliziesca, para o similpoliziesca, italiana e straniera, di grandissimo interesse e successo. Quasi a conferma di una profezia di un grande scrittore svizzero importato in Italia da Sellerio. Nel 1985 la casa editrice aveva pubblicato il romanzo di uno strano giallista svizzero e irregolare Glauser (Il grafico della febbre, giunto a una decina di ristampe), che diceva: «il racconto poliziesco è il miglior mezzo per diffondere idee ragionevoli». E a questo motto profetico oggi – che sembra più nulla possa dirsi se non in forma di giallo – pare obbedire il giallo Sellerio. All’apice di questa avventura con il poliziesco c’è la scoperta di un vero e proprio genere nuovo. Il poliziesco di scuola siciliana, e due nomi senza commento: Andrea Camilleri e Santo Piazzese. Sono titoli di successo e di grande diffusione. Sull’onda di questi anni Novanta, Sellerio inaugura altre collane, più marginali e divaganti. Come Il castello che viaggia nei grandi libri della letteratura del mondo non globalizzato – dall’Irlanda all’America latina, all’Africa, agli Afroamericani. Come Il divano che butta qui e là sotto gli occhi del lettore le più diverse stranezze, da collezionisti di oggetti inesistenti o da eruditi di cose perdute o da manualistica di pratiche del tutto inutili. Un ventaglio di grande ricchezza intellettuale, di spirito ed eleganza, di suggestioni, che consente a Sellerio di sfuggire a quello che è il grande vento editoriale degli anni Novanta. Il risveglio dei giganti. Le nuove immani concentrazioni editoriali. Le cosiddette sinergie che tolgono i libri dalle mani degli editori, e ne fanno gadget. Sellerio è così ormai un caso più unico che raro di piccola editoria. Un artigiano robusto come una industria. Un gruppo di dilettanti più bravi del miglior professionista. Una follia con dentro il metodo più rigoroso. Ma stiamo parlando ancora di un piccolo editore?
Gli anni del Duemila per Sellerio sono stati gli anni di un’esperienza nuova: i cinque milioni di copie di libri di Camilleri, oggi diventati trenta milioni, prodotti a Palermo e venduti in Italia, più i diritti di traduzione venduti fino al Giappone. Ma non c’è solo questo.
C’è prima di tutto che questa esperienza capace di travolgere e di tramutare non ha travolto e tramutato. E non è solo l’esperienza dei grandi numeri. È ancora una volta, negli anni dei giganti multimediali e multinazionali della comunicazione, l’esperienza di lanciare ovunque nel mondo la cultura in lingua italiana da una provincia siciliana in cui si prende ancora il gelato al gelsomino e si investe ancora il tempo a perdere tempo felicemente. Forse bisogna ancora accorgersi che in questi primi anni del Duemila la Sicilia ha esportato ovunque due cose, due cose sole ma cariche di significato e di speranza: il vino siciliano e i libri blu di Sellerio. E non solo libri. Nell’autunno del Duemila la casa editrice ha cercato una via nel nuovo campo del multimediale. Sellerio ha prodotto, per la prima volta in Italia, un cartone animato interattivo dal Cane di terracotta. Un libro video e gioco interattivo insieme: un’invenzione, premiata con la menzione d’onore al «Bologna New Media Prize». Oltre Camilleri, poi, tornando ai libri, gli anni Duemila sono stati anni di scrittori dal mondo di cui si parla molto e se ne parlerà per molto. La canadese Margaret Doody: aveva pubblicato un libro e poi il suo editore americano si era dimenticato di lei. Ma Margaret aveva creato un nuovo detective nel filosofo Aristotele, un detective deduttivo e realistico, rimandando indietro nel tempo il genere del giallo speculativo. E con questa operazione ironica di proiettarlo nel passato ha tolto ogni anacronismo a un genere, appunto la detection speculativa, che sembrava oggi impossibile: un best seller, il primo libro, seguito da altri due in prima mondiale e venduti in più di centomila copie. Ancora un miracolo editoriale: un’anziana signora inglese, caso letterario europeo degli ultimi anni, Penelope Fitzgerald, che parla delle cose profonde e invisibili e forti della vita, con una grazia colorita di tinte tenui che è stata paragonata alle tele di Turner. Il divertimento triste e trascinante del russo Dovlatov, che parla della sua esperienza di russo a cavallo della caduta del muro, con un umorismo acuto e dissacrante che ha la forza – è stato detto – di Čechov. Bolaño, cileno e giramondo, un Borges dei tempi di Tarantino (è un critico francese a definirlo così nella commemorazione per la sua recente scomparsa), che trae dal passato di ieri delle dittature sudamericane, e dal presente della diaspora della sua generazione di sudamericani, cronache vere, ma che sembrano uscite dalla smorfia dada e surrealista. E le scoperte più recenti. Due giallisti di grande qualità e di grande successo. Gianrico Carofiglio (Testimone inconsapevole e Ad occhi chiusi) l’inventore del «legal thriller» italiano, con un personaggio così vero, l’avvocato Guerrieri, che solo un magistrato di lungo corso com’è lui poteva scolpire. E la spagnola Alicia Giménez-Bartlett: l’ispettrice Petra Delicado e il vice Garzón sono due piedipiatti così indimenticabili, nel loro umorismo dolceamaro, nella loro durezza dal cuore tenero, che il grande critico Cesare Cases parla dell’autrice come «geniale scrittrice mediterranea».
– Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
Rosa Leveroni i Valls neix a Barcelona l’1 d’abril del 1910 en el si d’una família de la mitjana burgesia. El seu pare, descendent d’una família d’armadors de vaixells de Gènova, fa de gerent d’un magatzem de metalls, i la seva mare, de mestra. Fa els primers estudis al col·legi Príncep d’Astúries i, posteriorment, fins als dotze anys, a les Dames Negres del passeig de Gràcia.
Rosa Leveroni
Als quinze anys publica els seus primers versos a la revista Patufet, i comença a tenir clara la seva vocació literària. Tot i que el seu pare la pressiona perquè es dediqui al negoci familiar, als dinou anys, coincidint amb la caiguda de la dictadura de Primo de Rivera, entra a l’Escola de Bibliotecàries, que aleshores dirigeix Jordi Rubió. Aquesta institució, fundada per Eugeni d’Ors, té com a professors alguns dels intel·lectuals catalans més brillants del moment (Carles Riba, Ferran Soldevila, Nicolau d’Olwer, Rafael de Campalans). L’estada a l’Escola de Bibliotecàries i, en especial, la coneixença de Carles Riba, és cabdal en la formació intel·lectual i personal de Leveroni.
L’any 1933 rep una beca per anar a Madrid a fer una tesina sobre literatura infantil. En tornar, entra a treballar a la biblioteca de la Universitat Autònoma de Barcelona. Durant la guerra civil fa dos cursos de la carrera de Filosofia i Lletres. L’any 1937 és finalista al premi Joaquim Folguera amb el llibre Epigrames i cançons, que publica l’any 1938, prologat per Carles Riba. La influència ribiana i, en general, de tota la generació postsimbolista és molt present en aquest volum. Els temes que hi apareixen seran els que es repetiran durant tota la seva obra: la tristesa, la desolació amorosa, la melangia…, sentiments continguts i objectivats gràcies a la disciplina del vers.
El 1939, després de la Guerra Civil, la depuració de funcionaris de la Generalitat fa que perdi la feina com a bibliotecària de la Universitat Autònoma. Durant la dècada dels quaranta, Leveroni dedica tota la seva energia a la resistència cultural catalana enfront de la repressió franquista, i es converteix en l’ànima del grup intel·lectual que Carles Riba forma al seu voltant. És ella qui distribueix clandestinament les Elegies de Bierville de Riba, qui actua de contacte entre els intel·lectuals catalans de l’interior i els de l’exili, i és una de les primeres col·laboradores de la revista Poesia (fundada el 1940) i de la revista Ariel (fundada el 1946).
Rosa Leveroni per al suple Foto: Ferran Sendra
L’any 1952 publica un segon volum de poesia, Presència i record, prologat per Salvador Espriu. La mort del seu pare, l’obliga a centrar-se en el negoci familiar. En aquesta època assisteix assíduament als congressos de literatura catalana que se celebren a Anglaterra, organitzats per la Catalan Society, entitat de la qual és membre. Durant les dècades dels seixanta i dels setanta, la seva figura es manté cada vegada més apartada i aïllada de l’escena literària catalana, fet al qual també contribueix el seu silenci poètic.
L’any 1981 publica el volum Poesia, que recull tota la seva obra poètica, amb pròleg de Maria Aurèlia Capmany i dos epílegs de Carles Riba i Salvador Espriu, escrits respectivament el 1938 i el 1950 i que havien prologat els dos reculls poètics. L’any següent, el conjunt de la seva obra és reconegut amb l’atorgament de la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Mor el 4 d’agost del 1985, poc abans que es publiqui un volum de contes que recull la seva producció narrativa. És enterrada a Port-Lligat.
Rosa Leveroni
Rosa Leveroni-Poesia”PRESENZA E RICORDO”
*
Con il grigiore di questo cielo,
l’argento dell’ulivo
deve sembrare il tocco di un pennello
dalla fine trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava l’oscurità.
Tutta la luce è rimasta
sul ramo d’ulivo.
Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
(Presència i record. Barcelona: Edicions de l’Óssa Menor, 1952)
* * *
Elegies dels dies obscurs
III
Desmai de cap al tard damunt de l’aigua
adormida del port. Els núvols grisos
deixaven la tristesa de sentir-se
orfes del seu rosat botí de posta,
sobre el mirall opac. L’ala del somni
ratllava les cobertes treballades
d’un íntim cansament. Ja cap bandera
no ornava els mastelers. I les desferres
dels bots abandonats eren la muda
crida del desesper. Els nostres passos
ressonaven pel moll i les paraules
foren el lent sospir de la nostàlgia
d’un viatge mai fet… Ah! les inútils
veles del mort desig, ¿com desplegar-les
al vent que no vindrà per a portar-nos
al goig del mar obert, a l’alegria
de les ones batents, si els braços àvids
d’aquest port desolat ens retenien?
VIII
Aquest so greu de corda adolorida
que subratlla el meu cant, és la penyora
deixada per la mort perquè et recordi,
amor adolescent. És la teva ombra
que en l’alta solitud dels camins aspres,
el braç acollidor, va fer-me ofrena
d’aquest repòs segur, oh flama pura
del meu amor passat, present encara
en el somriure las d’un món que porta
el pes de tots els morts en les florides
de cada primavera renovada.
Ets el meu port tancat on de l’inútil
navegar porcel·lós veig la tristesa
i el conhortament… Ombra benigna
que m’acompanya el cant atemperant-lo
amb unes notes greus, serva’m els braços
eternament oberts…
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 105-108)
Rosa Leveroni
* * *
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen,
ignorant cap a on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el festeig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya
s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres
vetllant un rierol,
i coneixen el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres,
mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Jo porto dintre meu
per fer-me companyia
la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra,
aire i sol, mar i estrella,
perquè fossis més meu,
perquè jo fos més teva.
(Epigrames i cançons. Barcelona: Gustau Gili, 1938)
Antologia
Alcune poesie
Con il grigiore di questo cielo
l’argento de l’olivera
deve sembrare il tocco di un pennello
di una raffinata trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava la tenebra.
Tutta la luce è andata
al brancam de l’olivera.
(Presenza e ricordo. Barcellona: Edizioni dell’orso minore, 1952)
* * *
Elegies dels muore oscurs
III
Svenendo nel pomeriggio in acqua
sonno dal porto. Le nuvole grigie
hanno lasciato la tristezza dei sentimenti
Orfani con il loro sedere rosa,
sullo specchio opaco. L’ala del sogno
graffiato i ponti lavorati
di una stanchezza intima. Nessuna bandiera più
niente Ornava els Mastelers. I les desferres
delle barche abbandonate erano i muti
grido di disperazione. I nostri passi
risuonava attraverso il molo e le parole
Erano il lento sospiro della nostalgia
da un viaggio mai fatto… Ah! Ah! quelli inutili
candele del desiderio di morte, come aprirle
al vento che non verrà a prenderci
alla gioia del mare aperto, alla felicità
delle onde battenti, se l’avidità braccia
Ci hanno tenuti lontano da questo porto desolato?
VIII
Quel serio suono di corda dolorante
che sottolinea il mio canto, è la penyora
lasciato alla morte per ricordarti,
amore adolescenziale. È la tua ombra
che nell’alta solitudine delle strade aspre,
il braccio di accoglienza, mi ha fatto un’offerta
di questo riposo sicuro, oh fiamma pura
dal mio amore passato, presente ancora
nel sorriso quelli di un mondo che porta
il peso di tutte le morti in Florida
di ogni primavera rinnovata.
Sei il mio porto chiuso dove dell’inutilità
surf in porcellana vedo la tristezza
I el conhortament… Ombra benigna
che mi accompagna la canzone temprandola
Sul serio, servi le mie braccia
eternamente aperto…
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Seguite i sentieri che conducono i campi,
ignorante cappuccio a sul furgone,
amato da un profumo di terra morbida
Non posso errívol.
E prendono i colori caldi del rame
con un bacio dal sole che tramonta,
e cieli d’amore, sotto i rami,
la festa del popolo.
Seguite i sentieri per la vigna
stanno allineando la costa,
E hanno la sete e lo sguardo
un bell gotim un punt.
Per favore seguite i sentieri tra pollancre
vegliare su un torrente,
E conoscono il volo delle borse di studio,
il gioco della pioggia e del sole…
Amo tutte le strade, anche le più dure,
purché siano aperti
E hanno messo un nuovo tremore alla frutta
nei miei sensi svegli.
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 80-81)
Rosa Leveroni
* * *
Porto dentro di me
per farmi compagnia
solo la solitudine.
La solitudine immensa
amarla infinitamente
Voglio essere la terra,
Aire i sol, mar i estrella,
perché tu eri più mio,
in modo che potessi essere più come te.
(Epigrammi e canzoni. Barcellona: Gustau Gili, 1938)
Rosa Leveroni-Poetessa spagnola
Rosa Leveroni (Barcelona, 1910-1985). Poeta i narradora. La seva poesia es troba influïda pel mestratge de Carles Riba, tant en els models formals com en el refús de la superficialitat i el barroquisme. La seva obra és breu i es troba recollida en dos volums: Poesia (1981) i Contes (1985). Conrea també l’assaig i la crítica literària (sobre Ausiàs March, especialment). Durant la postguerra desenvolupa una tasca important en la represa de la cultura i la llengua catalanes. L’any 1982 és reconeguda amb la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Va ser una de les primeres membres i, posteriorment, sòcia d’honor de l’Associació d’Escriptors en Llengua Catalana.
Rosa Leveroni (Barcellona, 1910-1985). Il poeta e il cantastorie. La sua poesia è influenzata dalla maestria di Carles Riba, sia nei modelli formali che nel rifiuto della superficialità e del barocco. Il suo lavoro è breve ed è raccolto in due volumi: Poesia (1981) e Racconti (1985). Coltiva anche saggio e critica letteraria (soprattutto su Ausiàs March) Nel dopoguerra sviluppa un importante compito nel restauro della cultura e della lingua catalana. L’anno 1982 è riconosciuta con la Croce di San Giorgio della Generalitat di Catalogna.
POEMES DE ROSA LEVERONI
VI TARDA DE POESIA
20 D’ABRIL DE 2022
AULES DE DIFUSIÓ CULTURAL DE LA GARROTXA
POEMES DE ROSA LEVERONI
PÒRTIC
del llibre Epigrames i cançons, 1938
Jo porto dintre meu per fer-me companyia la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra, aire i sol, mar i estrella, perquè fossis més meu, perquè jo fos més teva.
ELS RECORDS III
Jo fos per tu aquesta cançó tan dolça que desgrana el molí;
aquest oreig suau que t’agombola perfumant-te el matí.
Fos el flauteig dels tòtils a la tarda en la calma dels horts.
Si fos aquesta pau que t’acompanya en el repòs dels ports …
o fos la punxa de la rosa encesa d’un desig abrandat; aquell record d’una hora de follia, d’aguda voluptat.
Si fos l’enyorament d’uns braços tendres que varen ser-te amics,
o bé la revifalla rancorosa d’aquells menyspreus antics.
Si jo no fos per tu record amable, fos almenys un neguit,
un odi o un dolor, una recança … Ho fos tot, menys l’oblit.
(del llibre Presència i record, 1952)
CANÇÓ DE LES BESADES
El primer bes que florí,
te’n recordes?, jo el donava. Tu em prengueres el segon vora del riu que cantava.
I després ja començà
el rosari de besades.
Unes amb regust de sol
i neu dalt de la muntanya. Altres amb claror d’estels
i perfum de lluna clara.
Totes d’un encantament
que ens feia les hores calmes …
D’aquell rosari passat,
sols el record m’acompanya i la recança també,
amor, si tu l’oblidaves.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
ABSÈNCIA I
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis,
i sóc tan lluny de l’amat!… Sols tinc la mar per companya; ella bé prou que em somriu dins la cala arredossada.
Em somriuen els estels i la lluna niquelada,
el campanar cimejant
i la vela ben inflada,
i la gavina en ple vol,
i el peix fugint de la xarxa…
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis! Si sóc tan lluny de l’amat
res dintre meu ja no canta.
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
No vull el mirall del mar, ni l’estelada florida;
ni claror de cels novells, ni encetar cap nova via.
Vull la dolçor del teu braç abraçant la meva vida; vull la claror dels teus ulls i la teva veu amiga.
XXIII
ABSÈNCIA VII
Em pren la calma dels camps quan l’hora esdevé rogenca.
I la quietud de la mar
quan els vents dormen la sesta. I mentre vola l’ocell
l’ànima esdevé lleugera …
Saber-te lluny sense dol
em fa ressò de miracle.
Ara, però, veig el món
amb la claror que m’encanta de tenir-te dintre meu,
que fa que no em cal pensar-te.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
CANÇÓ D’UN SETEMBRE
Era una coma d’oliveres
amb una casa i un camí,
al capdavall dues figueres
fent ombra fresca a un doll molt fi.
Era migdia. Reposava
la vinya negra de gotims; vora el portal un gall cantava; es feinejava porta endins.
Aquella font era tan clara, era tan net aquell cel blau … Omplia el pit la joia avara
i la llangor fou tan suau!…
Jo no sabia que l’amava
però en sos ulls em vaig mirar … Des d’aleshores l’estimava,
ja no he sabut què és oblidar.
(del llibre Presència i record, 1952)
Vull sentir-te com arrel
dins la foscor beneïda d’aquesta terra vivent
de nostra amor compartida.
(del llibre Presència i record, 1952)
Rosa Leveroni
CLAROR DAURADA
És la claror daurada de la posta d’un dia de tardor
que veig en els teus ulls i que m’ofrenen la teva tremolor.
És aquell deix cansat, com d’arribada després de tràngols forts
a l’esperat recer, on tots els somnis troben la pau dels ports.
És el somriure lleu, la veu sonora d’haver estimat ja tant,
que em prenen dolçament i se m’emporten sense saber on van…
(del llibre Presència i record, 1952)
ELS CAMINS III TEMA AMB VARIACIONS
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen ignorant cap on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el fresseig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres vetllant un rierol,
i coneixent el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres, mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(del llibre Presència i record, 1952)
COLOR DEL TEMPS
Clavellines als balcons,
parets blanques, fustes blaves. Esclat de llum: campanar; randes albes a les platges. Tocs de mel en la claror;
verds i blaus, joies de l’aigua …
Quin perfum primaveral ofrenaves, vila amable! …
(del llibre Presència i record, 1952)
Si jo tingués un veler sortiria a pesca d’albes. Encalçaria els estels
per posar-me’n arracades.
Si jo tingués un veler, totes les illes i platges
em serien avinents
per al somni i les besades.
Si jo tingués un veler,
en cap port faria estada. El món fóra dintre seu,
ai amor, si tu hi anaves …
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges on d’aquest meu navegar pugui reposar les ales.
Tots els camins de la mar un a un se’m refusaven; sols els ports resten oberts amb l’agombol de les cases.
Les veles han desertat
tots els vents que les tibaven. L’estrella signa el retorn
al vell sofrir delectable.
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges …
(del llibre Poesia, 1981)
GLOSES MALLORQUINES
Si bastiment hi havia
que fadrines se’n dugués vestides de mariners,
jo la de davant seria.
Tota la mar trescaria, estimat meu, sols que us ves.
Totes les illes hauria
per a bescanvi d’un bes. Pirates i bandolers
a tots ells jo robaria,
i res no m’aturaria
si els teus braços jo trobés.
Els teus llavis jo tindria com a més segur recés. Pirates i mariners
i moros de moreria,
res ja no m’espantaria
si en els teus ulls em negués…
Rosa Leveroni
III
GLOSES MALLORQUINES VII
Vós heu robat i robeu
i vós sou la robadora;
el cor m’heu robat, senyora, i l’ànima em pledegeu.
Vós teniu tot l’amor meu,
no en voleu ser sabedora. Vós jugueu amb mi, senyora, i potser vos arrisqueu.
El cor m’heu robat, senyora, potser el vostre hi perdereu. És molt cara la penyora, mireu, senyora, el que feu!
L’enamorar enamora
i, si l’ànima em voleu, mireu-me als ulls, missenyora, que dins ells la trobareu.
El cor m’heu robat, senyora. Ara el vostre me’l deveu.
(del llibre Presència i record, 1952)
Tota la mar trescaria
si prop meu sempre et tingués!
(del llibre Presència i record, 1952)
VOLDRIA QUE EL MEU CANT FOS COM UNA ALBA
Voldria que el meu cant fos com una alba secreta per a tots,
i només un de sol capís els signes
dels inefables mots.
Voldria que el meu cant fos com l’alosa o com el dia clar,
que posen en el cel la seva joia
sense res esperar.
Voldria que el meu cant fos com un himne de gràcies per la sort
de trobar dintre meu tot el misteri
de la vida i la mort.
(del llibre Poesia, 1981)
TESTAMENT
Quan l’hora del repòs hagi vingut per a mi vull tan sols el mantell d’un tros de cel marí. Vull el silenci dolç del vol de la gavina dibuixant el contorn d’una cala ben fina; l’olivera d’argent, un xiprer més ardit
i la rosa florint al bell punt de la nit;
la bandera d’oblit d’una vela ben blanca
fent més neta i ardent la blancor de la tanca. I saber-me que sóc, en el redós suau,
un bri d’herba només de la divina pau.
(del llibre Poesia, 1981)
Donem les gràcies a totes les persones que han fet possible aquesta VI Tarda de Poesia:
ALS QUI HAN LLEGIT TEXTOS EN PROSA:
Reflexions i records de Rosa Leveroni Carta de Salvador Espriu
A LES LECTORES I LECTORS DE POEMES:
Pòrtic
Els records
Cançó de les besades
Rosa encesa del desig …
No vull el mirall del mar …
Els camins
Color del temps
Claror daurada
Si jo tingués un veler …
Glosses mallorquines: Si bastiment hi havia … Voldria que el meu cant fos com una alba Testament
A L’ÀNGEL GIRONA, MÚSIC VERSIONADOR I INTÈRPRET:
Em pren la calma dels camps
Cançó d’un setembre
Glosses mallorquines: Vós heu robat i robeu … Són les illes del record …
A L’EDITOR DEL POWER POINT:
Glòria Llinàs Francesc Bragulat
Maria Biarnés Montse Delgà Conxita Ayats Margarida Arau Tura Tarrús Roser Melià Montse Trubat M. Teresa Roura Pilar Gurt
Descrizione-Harold Bloom ha scritto che “con l’eccezione di Shakespeare” Emily Dickinson dimostra più originalità cognitiva di qualsiasi altro poeta occidentale dopo Dante, e che i critici quasi sempre sottovalutano la sua sorprendente complessità intellettuale. Forse anche per questa complessità, quasi un prisma che moltiplica immagini, luci, sensi, la poetessa che dalla sua stanza ha inviato una “lettera al mondo” colma di verità distillate in solitudine, continua ad attirare ovunque “biografi, filologi, docenti, studiosi, traduttori, critici” (Vivian Lamarque). E soprattutto lettori, catturati e conquistati dall’enigma di Emily, “piccola come lo scricciolo” e vestita sempre di bianco. I suoi versi concisi, intensi e misteriosi ritraggono ciò che la circonda: animali, fiori, piante, voci di una poesia spesso definita oracolare. Da un isolato punto di osservazione lo sguardo acutissimo di Emily ha saputo individuare e ampliare i limiti dell’espressione e della comprensione, indicare nuovi significati, vedere oltre la vita. Ha saputo creare un linguaggio nuovo per suggerire sensi inediti, pause come improvvise deviazioni nel volo degli uccelli: forse indecifrabili, ma ipnotiche, libere.
Emily Dickinson
Crocetti Editore
Traduzione: Barbara Lanati;
Pagine: 96
Prezzo: € 7,00
ISBN: 9788883064326
Data Uscita: 02/07/2024
LA CASA EDITRICE CROCETTI
Fondata nel 1981 dal grecista e traduttore Nicola Crocetti, la casa editrice Crocetti è specializzata nella pubblicazione di opere di poesia e di letteratura neogreca, omaggio alle origini del suo fondatore.
In quasi quarant’anni di attività, la Crocetti ha pubblicato numerose opere di poeti italiani e stranieri, tra cui i Premi Nobel Ghiorgos Seferis, Odisseas Elitis, Saint-John Perse, Derek Walcott e Tomas Tranströmer. Nel catalogo figurano inoltre volumi di Emily Dickinson, Antonio Machado, Walt Whitman, Ghiannis Ritsos, Costantino Kavafis, Louis Aragon, Kahlil Gibran, Rainer Maria Rilke, Edna St. Vincent Millay, Paul Valéry, Simone Weil, Yehuda Amichai, Anne Sexton, Manolis Anaghnostakis, Adrienne Rich, Jaime Saenz, Carol Ann Duffy, Thomas Bernhard. Quasi tutti i volumi sono pubblicati con il testo originale a fronte.
Tra gli autori italiani in catalogo, troviamo Alda Merini, Franco Loi, Antonella Anedda, Giovanni Raboni, Maria Luisa Spaziani, Antonio Porta, Cesare Viviani, Milo De Angelis, Aldo Nove, Giorgio Manganelli, Mariangela Gualtieri, Maria Grazia Calandrone, Pierluigi Cappello.
Oltre alle opere di singoli autori, la Crocetti ha inoltre pubblicati alcuni volumi collettanei, come le antologie della poesia basca, svedese, russa, greca e svizzera di lingua tedesca.
Da alcuni volumi editi dalla Crocetti sono stati tratti spettacoli teatrali interpretati da importanti attori italiani. Ne sono un esempio alcuni monologhi drammatici di Ghiannis Ritsos, portati sul palcoscenico, tra gli altri, da Moni Ovadia, Paolo Rossi, Anna Bonaiuto, Elisabetta Vergani, Isabella Ragonese, Luigi Lo Cascio ed Elisabetta Pozzi.
Nel 1995 alle collane di poesia si è aggiunta la collana di narrativa neogreca “Aristea”, che ha proposto ai lettori alcuni dei romanzi greci più venduti e letterariamente più rilevanti del Ventesimo secolo, finora assolutamente sconosciuti al pubblico italiano.
Nel 2020 la Crocetti è stata acquisita dal gruppo Feltrinelli e ha inaugurato questa nuova fase cominciando a ristampare i titoli che l’hanno resa una delle più prestigiose case editrici italiane.
LA RIVISTA “POESIA”
Nel gennaio 1988 Nicola Crocetti ha fondato “Poesia”, la rivista mensile di cultura poetica più diffusa d’Europa. Fin dal primo numero, le caratteristiche principali di “Poesia” sono state: il taglio internazionale e informativo, la distribuzione capillare nelle edicole e un apparato iconografico che finalmente consentiva ai lettori di conoscere i volti dei poeti.
La distribuzione nelle edicole ha permesso alla rivista di raggiungere un pubblico molto vasto, distribuito su tutto il territorio nazionale. La tiratura di “Poesia” ha raggiunto in passato le 50.000 copie. Molte tra le maggiori Università europee e tra le più prestigiose Università americane sono abbonate alla rivista fin dal primo numero. Nei suoi trentatré anni di vita, “Poesia” ha venduto complessivamente circa tre milioni di copie.
L’alto interesse non solo italiano nei confronti di questa rivista può essere verificato digitando la parola “poesia” sul motore di ricerca Google: su oltre cento milioni di pagine la rivista “Poesia” risulta in prima posizione tra quelle regolarmente visitate.
Del comitato di redazione di “Poesia”, garante del suo alto livello culturale, fanno o hanno fatto parte sei Premi Nobel per la Letteratura (il russo-americano Joseph Brodsky, il caraibico Derek Walcott, l’irlandese Seamus Heaney, il greco Odisseas Elitis, il polacco Czesław Miłosz e lo svedese Tomas Tranströmer), oltre a poeti di fama nazionale e internazionale, come Yves Bonnefoy, Tony Harrison, Charles Wright, Adam Zagajewski, Durs Grünbein, Paul Muldoon, Antonella Anedda, Milo De Angelis, Nicola Gardini, Franco Loi, Vivian Lamarque, Silvio Ramat.
Dopo che per i primi tre anni “Poesia”è stata diretta dai poeti Patrizia Valduga e Maurizio Cucchi, nel 1991 la direzione è stata assunta da Nicola Crocetti, e la rivista si è sempre più caratterizzata per la sua vocazione internazionale. Nei 358 numeri usciti con cadenza mensile fino all’aprile 2020 e nelle sue 30.000 pagine, la rivista ha proposto centinaia di articoli su poeti tradotti per la prima volta in italiano e di nuove traduzioni di poeti ancora sconosciuti in Italia. In totale ha pubblicato quasi 3.500 poeti, tra i maggiori a livello nazionale e internazionale, e oltre 36.000 poesie tradotte da una quarantina di lingue, quasi sempre con il testo originale a fronte.
La casa editrice Crocetti ha organizzato anche diversi festival di poesia. In collaborazione con il Comune di Parma e il Teatro Due, dal 2004 al 2012 ha curato la sezione internazionale del Festival di poesia di Parma, uno dei più prestigiosi appuntamenti culturali di quegli anni, al quale sono intervenuti alcuni dei maggiori poeti del mondo.
Nel 2003 il Ministero dei Beni Culturali ha assegnato a “Poesia”un riconoscimento per la sua attività di diffusione della poesia in Italia, consegnato al direttore della rivista Nicola Crocetti il 12 maggio 2003 al Quirinale dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Con il passaggio al gruppo Feltrinelli, dal maggio 2020 “Poesia” ha cambiato veste grafica, periodicità (da mensile in bimestrale) e canale distributivo (dalle edicole alle librerie). Non è mutata, però, la passione con cui i suoi redattori e i collaboratori raccontano da trentaquattro anni il mondo poetico italiano e internazionale.
Per attivare l’abbonamento a “Poesia” scrivi a info@poesia.it . Otterrai tutte le informazioni.
I numeri arretrati di “Poesia” (nuova serie) sono ordinabili in libreria (certamente nelle Librerie Feltrinelli) e nei principali store online (lafeltrinelli.it, ibs.it, Amazon.it ecc).
Nel nostro magazzino sono disponibili molti titoli del catalogo Crocetti, chiedi al tuo libraio di fiducia di ordinarteli. In caso di difficoltà o per ulteriori informazioni scrivi a info@poesia.it
Franco Leggeri-brano da Murales Castelnuovesi-Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo i raccolti con il padrone è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, ma golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia , anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi”.
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