Mariano Ciarletta -Poesie dalla raccolta “Trovare la parola”
-Rivista L’Altrove-
Mariano Ciarlettamostra una maturazione poetica molto accentuata, sia nelle tematiche, sia nelle modalità: una scrittura più concisa, diretta, essenziale, liberata da possibili ridondanze e aggettivazioni. Trovare la parola nei meandri confusi e disordinati della realtà, osservata e percepita con l’attenzione dello studioso ma anche con l’empatia e l’emozione del vero poeta, dell’autentico artista che sa discernere tra logica e sogno, tra razionalità e indicibilità dell’anima, andare in fondo e risalire redento: “Scavo la vita come un frutto / morbido e pregno di colore / ne levo la polpa, il sugo e i semi. / Due morsi per sigillare il dolore / inghiottendo sapore e passato.” Questo, direi, è il nocciolo significativo di tutto quanto poi sviluppato in questa silloge pregevole, dove l’esposizione è densa e intensa, basata normalmente su pochi versi, in cui la parola trovata, studiata, gestita, trova la sua sistemazione ottimale, sia nel simbolo, sia nell’allusione, sia nello spessore semantico. Un osservare e descrivere gli infiniti aspetti del quotidiano, con brevi ma significativi tratti, che, complessivamente, ricostruiscono e restituiscono la realtà prossima, in cui Mariano Ciarletta poeta eccellente è consapevolmente ed emotivamente inserito.
Dalla prefazione di Giuseppe Vetromile.
Nascosti
Non parla più la tavola celeste In questi giorni di maggio. Saprò la risposta al termine della sigaretta che stringi tra i confini che ho varcato.
Sconosciuti
hai lasciato la pioggia e ci siamo ritrovati diversi, su sponde opposte, al centro. Ognuno tira le proprie somme, ci osserviamo senza conoscerci più.
Nero fiume
Se la poesia è morta come ho sentito perché c’è bile delle mani tremanti quando l’esigenza riporta al bianco, al nero fiume che travalica la ragione.
Granitico
La malinconia di ciò che doveva essere ferisce in questi giorni di marzo – ghiaccio – un pagliaccio ride in fondo ad una stanza un gioco scontato, familiare alla menzogna.
Vorrei il dono della roccia granitica, ma mille ragionamenti prendono – violentano – «equilibrio» è un calato di un recinto un incontro tra confinanti e confinati.
Salato
Vorresti questo senso di colpa? Sai intingerlo come pane nel sugo salato? Credi bene chiudere, appiattire nel silenzio? Ieri ho premuto sulle tue scuse lacrime calde immaginando un mattino senza noi.
Di te una macchiolina grigia? Le lenti sul comodino?
Mariano Ciarlettaè nato a Salerno nel 1992. Nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Gestione e Conservazione del patrimonio archivistico e librario. Nel 2023 il titolo di dottore di ricerca in studi letterari, linguisti e storici presso l’Università degli studi di Salerno. Attualmente, nella stessa università, riveste la posizione assegnista di ricerca. Oltre il percorso in ambito storico, fin dall’età di quattordici anni, Mariano Ciarletta coltiva la passione per la letteratura e per la poesia. Diversi suoi inediti sono stati pubblicati su riviste nazionali ed internazionali. Tra le raccolte recenti ricordiamo: Il Vento Torna Sempre, La Vita Felice (2018) e Trovare la parola, Terra d’Ulivi Edizioni (2023). Con la poesia Invisibili (Verso il mare), inclusa proprio nella seconda silloge, Ciarletta ha ricevuto la medaglia d’Onore al premio letterario Internazionale Luigi Vanvitelli.
“La poesia non cerca seguaci, ce “La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Dalila e Daniela, le fondatrici.
Per informazioni: laltrovepoet@outlook.it
rca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Mantova- Mostre | Poesia e salvezza. Picasso a Palazzo Te-
MANTOVA – Dal 5 settembre 2024 al 6 gennaio 2025, Palazzo Te a Mantova ospiterà Picasso a Palazzo Te. Poesia e Salvezza. Curata da Annie Cohen-Solal in collaborazione con Johan Popelard, la mostra rappresenta il fulcro del programma culturale 2024, dedicato al tema della Metamorfosi. Prodotta dalla Fondazione Palazzo Te, in collaborazione con il Musée national Picasso-Paris e la famiglia dell’artista, questa esposizione offre un dialogo affascinante tra Picasso e la tradizione mitologica di Giulio Romano.
All’interno della mostra, saranno esposte circa 50 opere di Picasso, alcune delle quali mai viste prima in Italia. Tra i lavori più importanti vi sono le incisioni dedicate alle Metamorfosi di Ovidio, realizzate nel 1930. Questi capolavori sono una riflessione visiva sulle leggende mitologiche e sulla connessione di Picasso con il Rinascimento.
L’artista e la poesia come salvezza
Picasso, arrivato in Francia nel 1900, fu per lungo tempo uno straniero marginalizzato. Considerato un anarchico e avanguardista, trovò nella poesia un mezzo per superare la sua condizione di esclusione. La poesia non solo permise a Picasso di esprimere la sua visione creativa, ma fu anche un rifugio personale che lo aiutò a navigare tra le tensioni della società francese. Annie Cohen-Solal, curatrice della mostra e autrice del libro “Picasso. Una vita da straniero”, sottolinea come la poesia sia stata per Picasso una via di salvezza nelle fasi più difficili della sua vita.
Le sezioni della mostra
Pablo, Giulio e Ovidio: La prima sezione della mostra esplora il dialogo tra le incisioni di Picasso e le Metamorfosi di Ovidio. Sarà esposto un vaso etrusco, mai visto prima, che riflette sulla trasformazione e sul viaggio dell’anima, in dialogo con i disegni di Picasso che narrano la caduta di Fetonte, l’amore di Giove e Semele e altre storie mitologiche.
Picasso straniero a Parigi… accolto dai poeti: La seconda sezione presenta il legame di Picasso con il mondo dei poeti parigini del primo Novecento. L’artista, attraverso figure come Guillaume Apollinaire e Max Jacob, trovò un nucleo intellettuale che lo accolse e lo sostenne. Il periodo della Prima guerra mondiale rappresentò un momento di grande crisi per l’artista, che riuscì però a trovare nuovi stimoli grazie all’incontro con il poeta Jean Cocteau.
Quando Picasso diventa Poeta: la Salvezza: La terza sezione esplora come la poesia sia diventata un elemento centrale per Picasso, aiutandolo a superare una crisi personale e professionale nel 1935. Le opere come Donna sdraiata che legge (1939) e Sta nevicando al sole (1934) mostrano l’influenza della poesia nella sua arte.
La metamorfosi vissuta come strategia: La quarta sezione analizza il tema della metamorfosi, presente in opere di grande intensità visiva. Tra queste, una serie di lavori mai esposti prima in Italia, che mettono in evidenza il rapporto di Picasso con il suo alter ego Minotauro.
Info mostra
La mostra è promossa dal Comune di Mantova e organizzata da Palazzo Te in collaborazione con il Musée national Picasso-Paris. Un appuntamento che permette di scoprire un Picasso inedito, lontano dagli stereotipi, in dialogo con la tradizione classica e poetica.
Con l’acquisto del biglietto, i visitatori potranno accedere anche alla mostra parallela di Palazzo Reale a Milano: Picasso lo straniero, in programma dal 20 settembre 2024 al 2 febbraio 2025.
Festival di Film di aVilla Medici Roma: ecco le opere in programma – Sin dalla sua creazione nel 2021, il Festival di Film di Villa Medici esplora i legami tra cinema e arte contemporanea andando alla scoperta di nuove scritture filmiche. La quarta edizione del festival, che si svolgerà dall’11 al 15 settembre 2024, sarà animata da uno spirito pionieristico favorendo l’incontro tra una varietà di opere capaci di mettere in discussione, sconvolgere e modificare il nostro rapporto con le immagini ma anche di rinnovarne tutto l’incanto.
Una trentina di film saranno proiettati su tre schermi (di cui uno all’aperto) a Villa Medici, offrendo un’esperienza unica sotto il cielo di Roma, la città del cinema per eccellenza. Tra Via Veneto e Piazza di Spagna, Villa Medici celebrerà le immagini in movimento: film di artisti, sperimentali, di fiction, documentari; corti, medio e lungometraggi. Il festival accoglierà una varietà di narrazioni, senza limiti geografici o formali.
Il festival è diviso in tre sezioni: il concorso internazionale, con dodici film recenti di ogni genere e durata; la programmazione Focus, con film di artisti fuori concorso, opere scelte dai giurati e incontri speciali con i cineasti; infine, le grandi serate del Piazzale, con proiezioni all’aperto di anteprime e classici restaurati.
La giuria 2024 incarna questo spirito di apertura riunendo tre personalità di diversa estrazione artistica: Clément Cogitore, regista e artista visivo, Vimala Pons, regista teatrale e attrice, e Rasha Salti, curatrice, ricercatrice e scrittrice.
La giuria assegnerà due premi: il Premio Villa Medici per il Miglior Film e il Premio Speciale della Giuria per un film particolare che abbia attirato l’attenzione dei giurati. Questi premi, del valore rispettivamente di 5.000 e 3.000 euro, offrono inoltre ai registi l’opportunità di una residenza a Villa Medici.
Oltre alla giuria, il festival riunisce a Villa Medici una comunità di autori e di cinefili per far crescere una riflessione collettiva sul cinema e sulle sue evoluzioni.
Il festival riunirà una costellazione di film che si distinguono per la singolarità del loro soggetto o della loro forma, e che invitano a viaggiare dentro universi vicini e lontani, facendo luce sulle grandi questioni del mondo contemporaneo. Queste produzioni di tutte le durate e i generi comprendono 9 prime italiane e 3 prime romane.
Film in programma
12 film in concorso internazionale
A FIDAÏ FILM di Kamal Aljafari (2024, Germania, Palestina, Qatar, Brasile, Francia, 78’)
Prima romana
Il film indaga sul sequestro di film palestinesi dal Palestine Research Center a Beirut, nel 1982, e propone la contro-narrazione di una storia di appropriazione perpetua.
BOOMERANGdi Maïder Fortuné (2024, Francia, 13’)
Prima italiana
Canebière, palazzo costruito a Marsiglia alla vigilia della guerra d’Algeria, è affrontato come un corpo dalla telecamera che lo esplora. Il palazzo prende vita attraverso il suono di voci intrecciate, tra cui la voce di James Baldwin.
DAU:AÑCUT (MOVING ALONG IMAGE) di Adam Piron (2023, Stati Uniti, 15’)
Prima italiana
Nel 2014, il regista scopre che un uomo in Ucraina porta il tatuaggio di un parente in abiti tradizionali amerindi. Tramite la ricostruzione dei filmati della ricerca di quest’uomo, il film interroga le conseguenze della perdita di controllo su un’immagine e l’ironia circolare del tempo.
È A QUESTO PUNTO CHE NASCE IL BISOGNO DI FARE STORIA di Constanze Ruhm (2024, Austria, Portogallo, 96’)
Prima italiana
Indagando il lavoro di Carla Lonzi, femmisita italiana e cofondatrice di Rivolta Femminile, il film ci porta in un viaggio nel tempo attraverso una storia della violenza sulle donne, rendendo così omaggio alle donne artiste dal XVII secolo sino ai nostri giorni.
FAMILIAR TOUCH di Sarah Friedland (2024, Stati Uniti, 90’)
Prima romana
Familiar Touch è un film sull’approdo alla vecchia: una donna ottuagenaria nella sua transizione verso la vita in una casa di riposo, in cui affronta il conflittuale rapporto con sé stessa e con i suoi caregiver, tra le fluttuazioni della memoria, dell’identità anagrafica e dei suoi desideri.
HOW LOVE MOVESdi Pallavi Paul (2023, India, 63’)
Prima italiana
Il film è ambientato in un cimitero islamico nel cuore di Nuova Delhi, dove le cicatrici della violenza pandemica e comunitaria convivono con una bellezza trascendentale. Un guardiano di tombe, con il suo incrollabile amore per i defunti, sarà il portale d’accesso a questo mondo.
MAN NUMBER 4di Miranda Pennell (2024, Regno Unito, 9’)
Prima italiana
Il confronto con una fotografia disturbante trovata sui social media genera una serie di interrogazioni su cosa significhi essere spettatore.
PEPE di Nelson Carlo de Los Santos Arias (2024, Repubblica Dominicana, Namibia, Germania, Francia, 123’)
Prima romana
Una voce che sostiene di provenire da un ippopotamo. Una voce che non comprende la percezione strutturale del tempo. Una voce che, dalla trance, attraversa le lingue di un evento storico. “È mio il suono che esce dalla mia bocca?. O, più precisamente, cos’è una bocca?”. L’unica cosa che sa con certezza è che è morto. Il primo e ultimo ippopotamo ucciso nelle Americhe.
REAL di Adele Tulli (2024, Italia, Francia, 83’)
Prima italiana
Al giorno d’oggi, noi esseri umani fatti di carne trascorriamo gran parte del nostro tempo in un ambiente digitale, alla ricerca di felicità, ricchezza, relazioni, conoscenze ed esperienze. Di cosa è fatta la realtà di oggi?
THE PERFECT SQUARE di Gernot Wieland (2024, Germania, Belgio, 8’)
Prima italiana
Wieland ha lavorato per dodici anni con un addestratore di animali che insegnava agli uccelli a volare in cerchio o in quadrato. Il film esamina il modo in cui le norme estetiche influenzano la nostra visione del mondo (occidentale) e perché esse conducano al fallimento.
THE RETREAT di Gelare Khoshgozaran (2023, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, 22′)
Prima italiana
The Retreat è un film processuale, che indaga gli effetti temporali, spaziali e relazionali generati dai movimenti migratori sul corpo e sulla mente degli esuli.
VIÊT AND NAM di Trương Minh Quý (2024, Vietnam, Filippine, Singapore, Francia, Paesi Bassi, Italia, Germania, 129’)
Prima italiana
Prima di lasciare il Vietnam in un container insieme a futuri migranti, il giovane minatore Nam, cerca di trovare i resti di suo padre, un soldato ucciso durante la guerra civile. Ma l’amante di Nam, Việt, vorrebbe poter restare per sempre nelle profondità della miniera di carbone.
Gli appuntamenti Focus: Cartes blanches e Contrechamp
La sezione Focus è costituita da proiezioni di film fuori concorso e da numerosi incontri con artisti e registi internazionali.
3 Cartes blanches
Le cartes blanches sono un’occasione di scambio privilegiato con i membri della giuria – Clément Cogitore, Vimala Pons e Rasha Salti – che propongono una selezione di film legati alla loro attività di artisti, registi, autori o curatori.
Il regista Clément Cogitore mette in dialogo il suo film documentario BRAGUINO e il cortometraggio in 16mm dell’artista inglese Ben Rivers, ORIGIN OF THE SPECIES.Il ritratto di un singolare settuagenario che vive in una remota regione di Inverness, assieme a Darwin e le sue teorie come unica compagnia, è accostato a quello di una famiglia che sceglie di vivere una vita isolata nei boschi della Siberia. Un’osservatorio sulla capacità di inventare modi di vita autonomi, un nuovo rapporto col tempo, con il prossimo, con quella società tenuta a distanza, in favore di una rinnovata comprensione della natura, ad un tempo superba e crudele.
Per raccontare il suo rapporto con il cinema, Vimala Pons presenta due film: un musical di animazione, burlesco e malinconico (MON FARDEAU), e un film-saggio autobiografico, simile a un diario, dal linguaggio visivo ipnotico (HEART OF A DOG). Due film introspettivi, di concezione diversa, ma che tessono legami segreti al cuore dei quali è l’animale.
Rasha Salti ci invita a scoprire il film del regista documentarista Ali Essafi, AVANT LE DECLIN DU JOUR. Questo film è un omaggio singolare e magistrale agli artisti in resistenza negli anni 70 in Marocco, conosciuti come un periodo di lotte e sogni collettivi. Un film d’archivio che esuma l’intensa creatività che quell’aria di rivolta è riuscita a liberare dalla violenza del regime.
Poesia di Giuseppe Ungaretti- in Memoria di Moammed Sceab
Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1º giugno 1970) è uno dei tre grandi poeti dell’Ermetismo italiano. Trasferitosi a Parigi nel 1912, prese parte alla Prima guerra mondiale nelle trincee del Carso e poi in Champagne. Dal 1935 al 1942 insegnò in Brasile e dal 1947 al 1965 fu professore di letteratura moderna alla Sapienza.
Si ritrovarono a Parigi, complice il comune amore per la poesia, e qui soggiornarono condividendo lo stesso domicilio all’hotel Rue de Carmes.[2] Uniti emotivamente e artisticamente dalla stessa sofferenza per la comune condizione di “apolidi sradicati”, continuarono qui la loro produzione letteraria[3]. Mohammed scrisse con lo pseudonimo di “Marcèl”. Incapace di superare la sua crisi di identità[4], divenuto dipendente dall’uso dell’assenzio, Shehab morì suicida[5] nel suo appartamento il 9 settembre 1913, dopo avere distrutto tutta la sua opera letteraria, di cui non ci resta più traccia se non nelle note di Ungaretti che la descrive come scritta in “purissimo francese” e fortemente legata alla ragione e alla logica, quasi in antitesi con la sua “poesia dell’inesprimibile”.
A lui Ungaretti, nel 1916, dedicò la poesia “In memoria“[6], che apre la sua raccolta d’esordio Il porto sepolto, scritta durante la prima guerra mondiale mentre serviva come militare a Locvizza sul fronte del Carso. Shehab viene ricordato nella poesia come “alter ego” del poeta italiano e vittima di una sorte e di una fine che avrebbe potuto essere la stessa per entrambi. Della figura di Shehab, nel 1963 in un’intervista al Corriere della Sera, Ungaretti disse: “simbolo di una crisi delle società e degli individui che ancora perdura, derivata dall’incontro e scontro di civiltà diverse e dall’urto e conseguenti sconvolgimenti tra tradizioni politiche e il fatale evolversi storico dell’umanità”.
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Questa poesia di Giuseppe Ungaretti Cent’anni sono passati da quando il poeta combatteva e conosceva gli orrori della guerra sul Carso, “scontando la morte vivendo”; in mezzo ai brevi componimenti nel quale descriveva la terribile vita di trincea, ebbe a ricordare un amico. “Locvizza, il 30 settembre 1916”, reca il quaderno di Ungaretti; e Locvizza, o Lokvica, è nei pressi del Monte San Michele “bagnato di sangue italiano”, come dice Fuoco e mitragliatrici. Nei pressi, anche, di San Martino del Carso. Luoghi di guerra dove Ungaretti si trovava non di rado a ricordare episodi della vita civile, che sembrava oramai lontana diecimila anni. Una meditazione continua sulla vita e sulla morte, sull’amore e sulla trascendenza.
Tra questi episodi, la vicenda di un amico che si era tolto la vita a Parigi soltanto tre anni prima, nel 1913. Si chiamava Moammed Sceab, così Ungaretti scrive il suo nome nascondendo il vero nome di Muḥammad Shihāb; aveva ventisei anni ed era un egiziano di nobile origine libanese. Era stato coinquilino di Ungaretti in un albergo fatiscente di Rue des Carmes, nel quinto Arrondissement, albergo nel quale si era suicidato. Un episodio, come tutti gli altri, che la guerra aveva certamente contribuito a ricordare, a suscitare; come se ricordare una vita facesse da contraltare alla morte che, in trincea, sempre stava dappresso.
E’ la storia di un senza radici, o di uno sradicato; una storia comune allora come adesso. Di una persona che, esule in un paese straniero, sente di non farne e di non poterne far parte allo stesso modo in cui, oramai, il suo stesso paese gli è diventato estraneo. Se, indubbiamente, è opportuno maneggiare la parola “identità” con molta attenzione, è altrettanto indubbio che la crisi di identità è una tragedia personale che, in parecchi casi, va ad aggiungersi alle altre tragedie che un esule, un profugo, un rifugiato deve subire sulle proprie spalle. Tra queste, la solitudine totale.
Una grande importanza nella storia della mia vita e nella storia della mia poesia deriva dall’incontro, ad un certo momento della mia giovinezza, con Enrico Pea ad Alessandria d’Egitto. Enrico Pea faceva ad Alessandria il commerciante di marmi e nello stesso tempo aveva messo su, sviluppando il laboratorio di falegnameria del suocero, una segheria meccanica. Sopra la segheria meccanica – era ingegnoso Pea -aveva pensato di starci di casa e di destinare uno stanzone, uno stanzone enorme, e altri stanzini accanto allo stanzone enorme, ai gruppi sovversivi che, in quel periodo erano numerosi ad Alessandria.
Tra i giovani sovversivi di Alessandria che si raccoglievano nella baracca del mio amico Pea, c’era un arabo – era forse l’unico arabo in quella baracca – e questo arabo era Moammed Sceab. Moammed Sceab era anche stato mio compagno di scuola. Quindi eravamo doppiamente uniti; eravamo uniti nelle speranze di un mondo organizzato con maggior giustizia, ed eravamo uniti dai ricordi di infanzia e dalle aspirazioni letterarie che avevamo l’uno e l’altro. Aspirazioni diverse: io credevo in una poesia dove il segreto dell’uomo (fin da allora) trovasse in qualche modo un’eco, credevo nella poesia dell’inesprimibile, e invece Sceab credeva – mente logica, arabo discendente da quelli che avevano inventato l’algebra – credeva invece in una poesia strettamente legata alla ragione.
Ecco. Ed avevamo, in fondo, in comune anche un altro dramma: l’uno e l’altro avevamo un’educazione europea, occidentale, francese. Anch’io. Io ero nato in un paese che non era il mio, ero nato ad Alessandria, lontano dalle mie tradizioni; ero lontano dai paesaggi, dalle immagini che avevano accompagnato la vita di tutti i miei. Eravamo l’uno e l’altro, per ragioni diverse, degli uomini che non erano avviati in un modo naturale a compiere il loro destino. E naturalmente queste cose non avvengono nell’uomo senza turbamenti e senza strazi a volte terribili. E la mia, la nostra gioventù, la nostra prima gioventù, quella mia e quella di Sceab, è cosparsa di giovani, di giovani compagni che nelle stesse circostanze delle nostre si troncarono la vita. E anche Sceab a un certo momento si troncò la vita. Sceab a Parigi, lontano dalla sua terra africana – o dalla sua terra araba perché in fondo viveva in Egitto ma non era africano, veniva dal Libano – essendo stato rilavorato da una cultura e da una tradizione diversa, non resisté al dissidio e anche lui si uccise. (Giuseppe Ungaretti)
sospesi tra una tradizione e una vita lasciate dietro di sé come in un gorgo che si richiude, ed una nuova condizione materiale e culturale che è pressoché impossibile interiorizzare. E’ la condizione usuale del déraciné che Ungaretti ben conosceva. Nato a Alessandria d’Egitto da genitori toscani (lucchesi), dall’Egitto Ungaretti si era trasferito in Francia dove si sentì sempre un senza patria.
Nelle prime edizioni del Porto sepolto, “In memoria” si trova quasi isolata, all’inizio, come se si trattasse di una dedica. Nella raccolta complessiva L’allegria, pubblicata molti anni dopo (nel 1931), il tema complessivo è quello della guerra; e la poesia dedicata all’emico egiziano suicida è ancora una volta lasciata a sé stante, legata indissolubilmente quanto indefinitamente alla guerra.
Tentare con tutte le proprie forze di adattarsi, o di “integrarsi” come si direbbe adesso. Arrivare a cambiare nome; quante volte, conoscendo per intenzione o per caso un attuale immigrato, al sentirsi domandare il proprio nome questi risponde declinando un nome locale, Pietro, Giuseppe, Maria, al posto del proprio nome vero? Qualche anno fa, all’Elba, arrivava sempre a casa un ragazzo del Ghana a vendere la sua mercanzia di quart’ordine; per tutti si chiamava “Alessandro”. Il proprio nome è la propria identità; è ciò per cui tutti ti riconoscono come appartenente ad una tradizione o ad un’altra. In questo il poeta Ungaretti, che pure nome non lo aveva cambiato, si riconosce appieno; l’amico Moammed Sceab è il suo alter ego. Una condizione che il poeta si trova a ricordare e a fissare in versi in una situazione terribile, lontanissima eppure vicina. Lo fa sconvolgendo totalmente una tradizione poetica intera: un linguaggio fatto di parole comunissime, secco, dalla sintassi elementare. Quasi dei piccoli gridi interiori che riescono, però, a coprire il frastuono dei combattimenti.
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse.
Sarebbe forse inutile, al giorno d’oggi, chiedere o addirittura esigere che di tutte queste cose si tenesse conto di fronte a un immigrato; eppure sono cose che molti, anche in questo paese, hanno vissuto. Sicuramente, essere in una trincea a costante e diretto contatto con la morte poteva aiutare a penetrare nel dramma vissuto da chi aveva lasciato il proprio paese per sempre; morendo, resterà una qualche traccia della nostra vita? La risposta del poeta è la poesia stessa, che è anche una risposta di umanità e di amicizia; una risposta attraverso la quale la vita torna a scorrere. Il nome di Moammed Sceab, quello autentico, è rimasto.
Non così quello, ad esempio, delle centinaia di migranti periti in fondo al mare Mediterraneo. Annegati due volte, nel mare e nella massa dei diseredati. Privati di tutto, anche della propria individualità di esseri umani. Ridotti a numeri di statistiche, e senza nessun poeta che si ricordi di loro nel momento estremo. A tutte queste persone vorrei dedicare questa poesia, scritta nell’infuriare di una guerra. [RV]
Nella pagina, la poesia di Giuseppe Ungaretti (che ha trovato una sua musica per opera di Aldo Bova nel 2014, viene presentata anche inparecchie traduzioni, tra le quali si segnala quella della poetessa austriaca Ingeborg Bachmann.
In memoria, la poesia che apre la raccolta Il porto sepolto, è dedicata a Moammed Sceab, amico di Ungaretti durante l’infanzia trascorsa ad Alessandria d’Egitto ed emigrato come lui a Parigi. Moammed, però, non riesce a sopportare la sua condizione di nomade senza patria e si suicida nel 1913 in una stanza dell’albergo di rue des Carmes dove alloggiava anche il poeta. In Vita di un uomo, Ungaretti definisce Moammed Sceab un ragazzo dalle idee chiare che – a differenza di lui, rimasto fedele a Mallarmé e Leopardi – prediligeva Baudelaire ed era addirittura soggiogato da Nietzsche, autori che spesso diventavano per i due amici occasione di discussioni interminabili.
IN MEMORIA.
Locvizza il 30 settembre 1916.
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse
La poesia consiste in una serie di informazioni scarne (Si chiamava, Fu Marcel), con riferimenti a luoghi ben precisi (Parigi/dal numero 5 della rue des Carmes; camposanto d’Ivry), espresse in strofe e versi spezzati che conferiscono alla narrazione un tono distaccato e doloroso ed un ritmo lento, simile a quello di una nenia funebre.
Le parole più significative (suicida, Patria, vivere, sciogliere, Riposa, sempre) stanno da sole, isolate nello spazio bianco del verso; fra queste, Patria, vivere e sciogliere sono precedute – potremmo dire sovrastate – dalla negazione non (non aveva più/Patria; non sapeva più/vivere; non sapeva sciogliere) che esprime l’impossibilità di ricostruire legami, di superare l’isolamento e la solitudine. La congiunzione e posta all’inizio del verso mette in evidenza lo spazio vuoto che la precede nella pagina (e mutò nome; e non sapeva più); quella in maiuscolo all’inizio delle strofe (E non sapeva; E forse io solo) sembra voler creare un faticoso e sofferto raccordo fra i versi separati dagli spazi bianchi, che creano pause cariche di silenzio.
Poesie di Gabriella Musetti, da “Un buon uso della vita”
Gabriella Musetti nata a Genova. Organizza “Residenze Estive” Incontri residenziali di poesia e letteratura. Dirige “Almanacco del Ramo d’Oro, Nuova serie”, semestrale di poesia e cultura. E’ socia della Società Italiana delle Letterate. Ha fondato, insieme ad altre, la casa editrice Vita Activa: www.vitaactivaeditoria.it.
Ha curato numerose pubblicazioni saggistiche tra cui: “Sconfinamenti. Confini passaggi soglie nella scrittura delle donne” (2008);“Dice Alice” (2015), “Oltre le parole. Scrittrici triestine del primo Novecento” (2016).
In poesia ha pubblicato: “Mie care” (2002), “Obliquo resta il tempo” (2005); “A chi di dovere” (2007), Premio Senigallia; “Beli Andjeo” (2009), “Le sorelle” (2013), “La manutenzione dei sentimenti” (2015).
Le storie sono all’inizio
tutte uguali
nasci da un ventre aperto
dal buio vedi la luce
ma subito la storia cambia
secondo il luogo lo status
il modo e l’accoglienza
non c’è una regola prescritta
uguale a tutti
ognuno trova a caso la sua stanza
chi bene – felice lui o lei – chi
con dolore
***
è morta questa mattina è morta
ma non si è accorta di morire
rideva come una bambina
su un prato in primavera
rideva anche di sera (e pure di mattina)
– s’è messa in salvo – qualcuno dice
volata via sopra una rondine
un po’ di soppiatto un po’ per avveduta
consolazione – la scelta unica rimasta
quasi sicura
***
era morta con la luna storta
era morta sopra un cuscino estraneo
di un vicino fuori della sua casa
come faceva a spiegare
a chi gliel’avesse chiesto
che era uscita in giardino
solo a fumare una sigaretta
scavalcata la finestra s’era trovata
nella casa buia decisa
a seguire il suo destino?
***
lei (invece) era morta di notte
tra le botte della sera e quelle del mattino
s’era sottratta all’impeto
alla colpa perfino alla desolazione
e la solitudine che la penetrava
non dava godimento alcuno
***
era morta mentre sedeva in classe
prima della lezione d’italiano
s’era spenta come una lampada
accasciata sullo sterno senza un sospiro
senza avvedersene
e anche i giovani entranti
la guardavano appena
come dormiente
***
era morta al supermercato tra la folla
da sola aveva attraversato il varco
senza avvertire famiglia o amici
senza permesso senza preparazione
come un balzo della mente
come improvvisa decisione
da attuare in fretta
e non tornare indietro
***
era morta davanti allo specchio
mentre si truccava per uscire
un occhio spalancato uno chiuso
a tirare la linea sulla palpebra
la traccia l’attesa la sorpresa
ciò che vide nell’orbita spenta
era denso e molle come placenta
***
lei era morta andando a riprendere
la figlia a danza
per errore aveva aperto
quella stanza e s’era trovata
ingarbugliata nella sua vita
senza trovare neppure una via
d’uscita
Latina-Spazio COMEL Arte Contemporanea –Personale di Giancarlo De Petris-
Latina-Torna l’arte pontina allo Spazio COMEL, che riprende le sue attività dopo la pausa estiva con la personale “Taccuini di Viaggio” di Giancarlo De Petris.
In un’epoca precedente ai telefoni cellulari, i viaggiatori erano soliti prendere appunti e disegnare ciò che colpiva la loro sensibilità, la loro curiosità, proprio nel momento in cui vivevano queste esperienze. Ed è proprio lo schizzo dal vero, la pittura en plein air che caratterizza il percorso di Giancarlo De Petris che, matite, penne e carta alla mano, racconta i suoi viaggi, le sue esperienze, le sue impressioni sul mondo che lo circonda.
“Taccuini di Viaggio” è una mostra antologica, a cura di Francesca Piovan, che permette di scoprire il percorso non solo fisico, ma anche interiore di un artista che ha fatto dell’acquerello, della china e del disegno dal vivo un suo tratto distintivo. Grazie alle opere in esposizione potremo visitare i luoghi più belli della nostra provincia e diverse località italiane e straniere che l’artista ha visitato e impresso su carta, il tutto filtrato dal suo sguardo e dal suo sentire.
La mostra sarà inaugurata sabato 14 settembre alle ore 18.00 e sarà aperta al pubblico tutti i giorni dalle 17 alle 20 fino al 29 settembre.
Cenni biografici: Giancarlo De Petris (Latina 1970) è grafico e disegnatore, ha iniziato la sua attività artistica come incisore pirografo, è stato allievo del maestro Stefan Cezar Badau. Ha sempre amato disegnare en plein air durante i suoi numerosi viaggi. Questa passione è stata alimentata dopo aver aderito nel 2010 al movimento dello Sketchcrawl Internazionale con il gruppo degli sketchers di Roma e Latina. Ha esposto in varie città italiane tra cui Firenze, Venezia, Siena, Messina e all’estero in Francia e Germania. Le sue opere sono raccolte in diverse pubblicazioni, tra le più recenti: “Il Gatto innamorato dei ponti di Venezia” Ed. El Squero, 2022; “Rome dans un carnet” Autoedito, 2023; “Les Carnets des Iles Pontines.” Autoedito, 2024.
INFO:Taccuini di Viaggio
Personale di Giancarlo De Petris
Evento promosso da Maria Gabriella e Adriano Mazzola
A cura di Francesca Piovan
Dal 14 al 29 settembre 2024
Tutti i giorni dalle 17.00 alle 20.00
Spazio COMEL Arte Contemporanea, Via Neghelli 68 – Latina
–Copia del manoscritto PREGHIERA ALLA POESIA-23 agosto 1934
Preghiera alla Poesia-Pasturo, 23 agosto 1934
Oh, tu bene mi pesi l’anima, poesia: tu sai se io manco e mi perdo, tu che allora ti neghi e taci.
Poesia, mi confesso con te che sei la mia voce profonda: tu lo sai, tu lo sai che ho tradito, ho camminato sul prato d’oro che fu mio cuore, ho rotto l’erba, rovinata la terra – poesia – quella terra dove tu mi dicesti il più dolce di tutti i tuoi canti, dove un mattino per la prima volta vidi volar nel sereno l’allodola e con gli occhi cercai di salire – Poesia, poesia che rimani il mio profondo rimorso, oh aiutami tu a ritrovare il mio alto paese abbandonato – Poesia che ti doni soltanto a chi con occhi di pianto si cerca – oh rifammi tu degna di te, poesia che mi guardi.
Pasturo, 23 agosto 1934
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)- Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita. Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia;
vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini.
Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica,
a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Nanni Cagnone-Poesie-Come colui che teme e chiama-
Editore Giometti & Antonello-Macerata
Protagonista di questo libro di Nanni Cagnone è la lingua, il suo viaggio all’interno del destino delle cose e degli uomini, il secolo andato e che viene, i drammi e la memoria come forma perduta o riconquistabile. Una neutra sequenza numerica, spoglia di titoli, ne scandisce l’andatura. Il rumore di questi ultimi anni s’incamera in forme stranianti, che dalla metastoria, come Cagnone dice sia l’intima natura della poesia, sanno dire la storia come complessiva trama, sanno dirci il mondo, non i fatti presi nel loro silente darsi. Tutto questo non si traduce in un’attitudine di rifiuto del presente. Tik Tok, Disneyland possono convivere naturalmente con la meraviglia di un frassino o un ricordo di viaggio, con parole domestiche o invettive sulla perdita di senso, su squarci di tempi più antichi, tra Pindaro e Hölderlin, senza alcuna ridicola ipoteca postmoderna o presunzione enciclopedica. Senza mai perdere cura, senza mai snaturare i propri termini e temi fondanti. La parola di Cagnone elude le maniere e gli stili, rifiuta la saggezza accondiscendente di chi si finge maestro di conventicola, abolendo un mito cardine della società letteraria: l’idea stessa che la letteratura vada raggiunta come una tecnica specifica, come fosse un esercizio atletico della mente, o una professione attestata. Questo poeta reclama solo il diritto di erranza, la gioia di un’oscurità non programmatica, non sviscerabile con sicumera per confondere ancor più il senso delle parole. La poesia allora come azione nelle parole e sulle parole, sondando l’ignoto: «prodiga scurità, / ignoto a ignoto / restituisci».
Biografia di Nanni Cagnone, nato in Liguria nel 1939, è poeta, narratore e saggista. Di grande rilievo la sua opera in versi che conta ventidue libri pubblicati dalla fine degli anni settanta ad oggi. Fondatore e direttore della casa editrice Coliseum, ha lavorato in precedenza per la casa editrice Lerici, contribuendo alla costruzione della rivista «Marcatré». È stato anche direttore creativo per agenzie di pubblicità (Lacoste, Philips, Adidas, Olivetti e altri) e docente d’estetica. Molteplici le collaborazioni a riviste e giornali italiani ed europei. Vasta e di grande pregio e audacia la sua opera traduttiva che comprende, fra gli altri, Eschilo, Parmenide, Gerard Manley Hopkins, questi due ultimi usciti in una nuova veste per la Giometti & Antonello.
Quarta
Finora, cos’ho detto?
Trascurando le ingiurie
del pensare, riguardo
le mie impronte:
si direbbe smarrito
lo scopo dell’andare,
o non c’era ambizione
d’una mèta.
Comprensione
per chi sinceramente
si perse a suo cammino,
come un Ḥasīd
finito in una chiesa
romanica – ammirevole
lo stile, ma questa non è
la terra dei miei pensieri,
il luogo in cui quel che amo
gentilmente mi stringe.
Karthika Naïr poetessa franco-indiana, è autrice di numerosi libri. L’ultimo è Until the Lions: Echoes from the Mahabharata (Archipelago Books, 2019). E’ anche coreografa.
La scelta e la traduzione dei testi inediti di Kathika Naïr è di Francesco Guazzo
Abitudini: Resti
Ascolta, parliamo ora chiaramente: non sei tu a mancarmi,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Pioggia tiepida — sono il suo odore ed il vapore della sua armonia a mancarmi,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
E neppure tutto quel jazz mi manca – la luna, le stelle, il vino, quella fiamma –
eri tu a chiamarli in causa
prima che fossero i nostri versi ad invecchiare. Era una promessa quella,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Un cielo, una terra, quest’aria, la tenda per il sole, la tua bocca,
la mia lingua, la traccia
pelle contro pelle — sono queste le cose che trattengo come un domicilio dell’amore,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
La scorsa settimana, alla lavanderia a gettoni, sono inciampata; una trapunta a quadri
mi ha afferrato il cuore
era una voce nuova a togliermi davvero il piede dall’abisso,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Sì, ho imparato ad apprezzare i semi di pino ed anche il caramello con il sale,
ad adorare Steve Reich.
Ma di sicuro questo è quello che qualcuno chiama osmosi,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Ti giuro: è con le pulizie di primavera che poi ti avrei voluto fuori dalla mente. Se trovo
qualche scheggia di risata, insomma,
o un bacio color cannella, faccio finta, è solo quello,
non tu, davvero, tu non c’entri niente.
Il passato invade il nostro adesso, ancora così imperfetto:
ininterrotto;
è ormai un mutante che canta da ogni intercapedine,
non-tu-davvero-tu-non-c’entri-niente.
Dalle Pleiadi, da questa luna d’argento vivo, io rinuncio
alle finte
del cuore, berrò da questo frutto del raccolto—
—e, in fondo, sei soltanto tu, dopotutto.
Abitudini: un ritorno
Doloroso da perdere, e lontano
eppure troppo facile da riportare indietro. Si guarda intorno,
ed anche questa volta, aspetta,
ad occhi fissi. Inevitabile, immanente,
quella cosa con cui vorresti andartene, ma è lì rimasta ferma
ed è per sempre, o quasi.
Quasi.
Quasi un pelo, meno di un labbro leporino?
Ci sono abitudini e abitudini.
Respirare è un’abitudine, son qui a cercare di farla mia.
Quello che cerco di perdere sei tu.
Abitudini: liberazione
È solo adesso che posso piangere davvero
il nostro noi come farebbe qualcuno,
qualcuno conosciuto, e amato un’era fa,
è solo ora che posso realizzare
sì, che è per davvero: se n’è andato.
È la stagione a farci piangere. Come
possiamo amare qualcuno oltre
il pensiero, la parola, la ragione; andare
avanti, poi, e tornare indietro mai;
ancora piangi? È solo in questo istante
che posso amare qualcuno, ed è forse
uno che farà presto ad invecchiare,
lo so, ma saprà darmi amore.
Habits: Remnants
Listen, let’s get this straight: it isn’t you I miss, not you at all.
Warm rain—its scent and smoky song are what I miss, not you at all.
Nor all that jazz – the moon, the stars, the wine, the flame – that you conjured
before our verses grew old. That was a promise, not you at all.
A sky, an earth, this air, the awning, your mouth, my tongue, the impress
of skin on skin—these I hold as love’s edifice, not you at all.
Last week at the laundrette I tripped; a block-printed quilt snagged the heart.
A new voice pulled away my feet from the abyss, not you at all.
Yes, I’ve grown to like pine seeds and salted caramel, to worship
Steve Reich. But, surely, that’s what they call osmosis, not you at all.
I swear I’d spring-cleaned you from the mind. So I feign, when I find
slivers of laughter, a cinnamon-coloured kiss, not you at all.
The past invades our present, still imperfect yet continuous;
becomes a mutant who sings from each interstice, not-you-at-all.
By the Pleiades, by the quicksilver moon, I renounce the heart’s
feints, I will drink from this harvest chalice—it’s all you, after all.
Habits: Return
Painful to lose, far
too easy to recover. Turn around,
and there once again, unblinking,
it waits. Inevitable, immanent,
that thing you would flee but seem stuck with forever, almost.
Almost.
Almost a lisp, less than a hare lip?
There are habits and there are habits. Breathing is a habit I try to acquire.
You are the one I try to shed.
Habits: Release
I can mourn us now like someone,
someone I knew, loved an age back,
and learn has gone. It’s the season
to mourn. How can we like someone
beyond thought and word and reason;
then, move on; and never backtrack,
yet mourn? I can now like someone,
one who’ll age, I know, but love back.
Karthika Naïr poetessa franco-indiana, è autrice di numerosi libri. L’ultimo è Until the Lions: Echoes from the Mahabharata (Archipelago Books, 2019). E’ anche coreografa.
La scelta e la traduzione dei testi inediti di Kathika Naïr è di Francesco Guazzo
Rinoceronte Editora | Avenida de Lugo, 15, 36940 Cangas do Morrazo (Pontevedra)
Lume branco escolma os poemas dos últimos anos de vida de Antonia Pozzi, escritos entre os anos 1935 e 1938. Unha poesía que dá conta da súa intelixencia, a súa sensibilidade e a súa bagaxe intelectual. Uns poemas poboados de natureza e montaña, de soidade e morte, nos que tamén destaca a súa fonda preocupación pola crise social e política que vivían Italia e mais o resto de Europa no período de entreguerras.
Biografia di Antonia Pozzi (Milán, 1912-1938)é unha das poetas italianas máis fascinantes do século xx, aínda que, tras a súa morte, a súa obra tardou décadas en ser debidamente recoñecida e estudada. De clase acomodada, Pozzi formou parte dos círculos intelectuais do Milán do momento, coñeceu en profundidade a cultura europea e amosou unha gran preocupación pola crise social e política que ameazaba o continente na década de 1930. Suicídase con só 26 anos, deixando tras de si unha obra poética asombrosa que se verte agora por primeira vez ao galego.
Figlia di Roberto Pozzi, importante avvocato originario di Laveno e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi,[1] Antonia scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel Regio Liceo – Ginnasio Alessandro Manzoni di Milano, dove intreccia una relazione con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, la quale verrà interrotta nel 1933 a causa delle forti ingerenze da parte dei suoi genitori.
Tiene un diario e scrive lettere che manifestano i suoi molteplici interessi culturali, coltiva la fotografia, ama le lunghe escursioni in bicicletta, progetta un romanzo storico sulla Lombardia, studia tedesco, francese e inglese. Viaggia, seppur brevemente, oltre che in Italia, in Francia, Austria, Germania e Inghilterra, ma il suo luogo prediletto è la settecentesca villa di famiglia, a Pasturo, ai piedi delle Grigne, nella provincia di Lecco, dove si trova la sua biblioteca e dove studia, scrive a contatto con la natura solitaria e severa della montagna. Di questi luoghi si trovano descrizioni, sfondi ed echi espliciti nelle sue poesie; mai invece descrizioni degli eleganti ambienti milanesi, che pure conosceva bene.
La grande italianista Maria Corti, che la conobbe all’università, disse che «il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili».
Avvertiva certamente il cupo clima politico italiano ed europeo: le leggi razziali del 1938 colpirono alcuni dei suoi amici più cari: «forse l’età delle parole è finita per sempre», scrisse quell’anno a Sereni.
A soli ventisei anni si tolse la vita[3] mediante ingestione di barbiturici in una sera nevosa di dicembre del 1938, nel prato antistante all’abbazia di Chiaravalle, dopo esservisi recata in bicicletta: nel suo biglietto di addio ai genitori parlò di «disperazione mortale»; la famiglia negò la circostanza «scandalosa» del suicidio, attribuendo la morte a polmonite. Il testamento della Pozzi fu distrutto dal padre, che manipolò anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite.
È sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo: il monumento funebre, un Cristo in bronzo, è opera dello scultore Giannino Castiglioni. Il comune di Milano le ha intitolato una via.
Antonia Pozzi nella cultura di massa
Antonia Pozzi è stata raccontata nel cine-documentario della regista milanese Marina Spada, Poesia che mi guardi, presentato fuori concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia, tenutasi nel 2009.[5] In occasione del centenario della nascita della poetessa, i registi lecchesi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno realizzato un film documentario prodotto da Emofilm intitolato “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa “, presentato in anteprima a Lecco e Pasturo nel marzo 2014.[6][7][8]
È citata in Chiamami col tuo nome, uscito nel 2017, dal personaggio di Marzia (Esther Garrel) che riceve un libro di sue poesie dal protagonista, Elio (Timothée Chalamet). Nel film, ambientato nell’estate del 1983, Elio dona a Marzia una copia dell’edizione Garzanti di Parole curata da Alessandra Cenni e Onorina Dino per la collana Poesia. Questa edizione nella realtà è comparsa per la prima volta nel 1989.
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