Ugo Mancini- Trilussa l’antifascista cerebrale -Biblioteca DEA SABINA
Infinito edizioni- Formigine (Modena)
Descrizione-Non è raro che si senta parlare di un Trilussa afascista, non fascista, mussoliniano, o di un Trilussa crepuscolare, perso nella Roma della sua gioventù e incapace di cogliere il senso delle novità introdotte dal regime.
Seguendo la sua produzione poetica, Trilussa si staglia sul suo tempo per il coraggio mostrato nel farsi paladino della pace, dell’uguaglianza e del libero pensiero e nel denunciare, con una satira sottile, i limiti dell’uomo e della politica, di qualunque colore; per essersi fatto interprete degli stati d’animo del popolo e delle sue tensioni più profonde, per quel non detto, quei puntini sospensivi che più che un’autocensura erano un rimando a ciò che tutti potevano capire senza doverselo sentir dire.
Trilussa non fu fascista e non fu mussoliniano. Tantomeno fu fascistizzabile, nonostante tra i suoi estimatori vi fossero diversi esponenti del regime. L’informatrice Elvira Gottardi lo definì un “antifascista cerebrale”. La Polizia politica creò un fascicolo a suo carico, mise sotto controllo il suo telefono e lo circondò di informatori. Il governo lo lasciò “libero” di pubblicare, perché non si poteva mettere la mordacchia a un intellettuale di fama mondiale e per non ledere gli interessi del fido Mondadori. Al tempo stesso non gli conferì alcun riconoscimento: non fu mai nominato accademico d’Italia e non gli furono mai concessi sussidi, di cui beneficiarono invece centinaia di intellettuali.
Biografia di Ugo Mancini è docente di Storia e Filosofia nei licei e studioso del fascismo.
Tra le sue pubblicazioni: Lotte contadine e avvento del fascismo nei Castelli Romani (2002); 1939-1940. La vigilia della seconda guerra mondiale e la crisi del fascismo a Roma e nei Castelli Romani, (2004); Il fascismo dallo Stato liberale al regime (2007); Classe industriale e costituzione economica. Il progetto liberista del “partito degli industriali”, in A. Buratti, M. Fioravanti, Costituenti Ombra (2010); La guerra nelle terre del papa (2011); Il fascismo a settant’anni dalla Liberazione, in Aa. Vv., Ruggero Zangrandi: un viaggio nel Novecento (2015). È autore inoltre del corso di storia per i licei Il mondo, i fatti, le idee (2007). Con Infinito edizioni ha pubblicato 1926-1939, l’Italia affonda (2015).
Infinito edizioni
-Chi siamo-
Infinito edizioni nasce come casa editrice specializzata in saggistica e reportage giornalistici, con grande attenzione verso Chi siamo
Infinito edizioni nasce come casa editrice specializzata in saggistica e reportage giornalistici, con grande attenzione verso i diritti umani e civili.
Fondata – dopo circa un anno di lavoro dietro le quinte – l’8 novembre 2004, Infinito edizioni vuole proporsi come un punto di riferimento culturale per chiunque voglia fare dell’impegno serio e della sensibilità l’humus da cui far germogliare l’albero delle proprie idee.
Ideatori del progetto, su cui quotidianamente sono impegnati insieme a fidati collaboratori, sono Maria Cecilia Castagna e Luca Leone, a cui potete inviare le vostre idee e i vostri progetti.
i diritti umani e civili.
Fondata – dopo circa un anno di lavoro dietro le quinte – l’8 novembre 2004, Infinito edizioni vuole proporsi come un punto di riferimento culturale per chiunque voglia fare dell’impegno serio e della sensibilità l’humus da cui far germogliare l’albero delle proprie idee.
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Biblioteca DEA SABINA-Sante RUFINA e SECONDA Martiri di SELVA CANDIDA-Diocesi di Porto e Santa Rufina–(Breve Storia)–
Sante RUFINA e SECONDA-Sono due celebri martiri romane ricordate in tutti i più antichi elenchi e in molti documenti storici. La loro morte avvenne durante la persecuzione di Valeriano e Gallieno, attorno al 260. Nel racconto del loro martirio sono presentate come sorelle, fidanzate con due giovani cristiani che per timore della morte avevano rinnegato la fede. A causa del rifiuto del matrimonio esse furono denunciate ed imprigionate mentre fuggivano da Roma. In seguito al loro diniego di sacrificare agli idoli le due giovani furono condotte in un bosco sulla via Cornelia, a dieci miglia da Roma in un terreno detto “Buxo”, dove vennero uccise e lasciate insepolte. Plautilla, matrona romana, che le aveva viste in sogno, provvide alla loro sepoltura in quello stesso luogo dove, già nel sec. IV, fu eretta una basilica, iniziata da Giulio 1 (336) e completata da papa Damaso, rinnovata con l’aggiunta del battistero da Adriano 1 (772-95) ed arricchita di doni da Leone IV (847–55). A questa chiesa si fa riferimento nei diplomi pontifici anche oltre l’ XI secolo, essendo divenuta Cattedrale della diocesi di Lorium, che presumibilmente ebbe un suo Vescovo proprio per provvedere alla quotidiana celebrazione dei sacri misteri nei tre santuari del territorio (sante Rufina e Seconda, san Mario e compagni e san Basilide) e per il decoro della vicina residenza imperiale. Il primo vescovo del quale si ha certezza storica è Pietro nell’anno 487. Attorno a quel luogo di culto, divenuto celebre meta di pellegrinaggio assieme alle catacombe di san Mario, era sorta gradualmente una città, che fu saccheggiata e distrutta dai Saraceni nell’847 e poi nell’870. Sergio III, nel 904, provvide alla riparazione della Chiesa, ma il centro abitato era oramai quasi del tutto abbandonato a causa dei pericoli delle incursioni barbariche e dello squallore del luogo. Papa Anastasio IV, nel 1153, fece trasportare il corpo delle due Sante nel dove venne loro dedicata una cappella che fu posta Sotto la giurisdizione del vescovo di Porto e Santa Rufina, come è provato dalla bolla di Gregorio IX del 1236. A Trastevere, in via della Lungaretta, esiste ancora un antico monastero loro intitolato e che si dice edificato nel luogo dove era la loro casa natale. Della chiesa adiacente, ornata con un campanile del XIII sec., si hanno notizie fin dal 1123, dato che in una bolla di Callisto Il è annoverata fra le filiali di santa Maria in Trastevere. I resti archeologici sulla via Boccea (loc. Porcareccina), gi–á individuati e descritti da Antonio Bosio (1632), furono di nuovo studiati nel nostro secolo.
Festa delle Sante Rufina e Seconda, patrone della Diocesi –
Preghiera di S.E.. Monsignor GINO REALI in onore della Sante Patrone della nostra Diocesi
Padre di misericordia, che hai chiamato alla gloria del martirio le sante sorelle Rufina e Seconda, congiunte in vita e in morte dall’amore per l’unico Sposo, e le hai donate alla nostra Chiesa come modello di fede e di fortezza, concedi a noi, per il loro esempio e la loro intercessione, di seguire il Signore Gesù con fede viva, speranza ferma e carità ardente. Questa terra, bagnata dal sangue dei Martiri, germogli ancora il frutto della santità e dell’amore. Per la loro comune intercessione, dona alle nostre famiglie unità e pace; per il loro esempio rafforza i nostri giovani nella lotta per la virtù ed il bene, e dona loro limpidezza di cuore e generosità d’impegno; per i loro meriti, sostieni i nostri passi nel cammino verso la patria eterna. A te, o Padre, affidiamo la nostra vita: liberaci da ogni pericolo dell’anima e del corpo, e donaci la grazia che ti chiediamo … Tu che vivi e regni, con Cristo tuo Figlio e lo Spirito Santo, nei secoli glorioso. Amen.
Monsignor Gino Reali Vescovo di Porto – Santa Rufina 7 giugno 2007
Salvatore Quasimodo “Acque e terre”-<Solaria>Firenze 1930
-Articolo scritto da Eugenio Montale per la Rivista PEGASO N°3 del 1931–
Affermare che Salvatore Quasimodo (1901 – 1968) è da considerarsi fra i “sommi” della poesia contemporanea potrebbe sembrare superfluo, tenuto conto dei prestigiosi riconoscimenti da lui ottenuti nel corso della sua carriera e dell’importanza che l’artista occupa tuttora nel panorama letterario europeo. Eppure, talvolta, nel confronto sempre aperto fra i protagonisti italiani del Novecento, egli sembra leggermente offuscato da nomi di eminenti colleghi, come, ad esempio, Montale e Ungaretti. Ciò, in verità, capita per diversi motivi, così riassumibili:
-la tendenza a considerare il poeta modicano come un allievo, un epigone dell’Ermetismo. È opinione di molti, infatti, che l’accostamento di Quasimodo ad Ungaretti e Montale sarebbe arbitrario, frutto cioè di un’esemplificazione, di uno schematismo scolastico, sia per il divario anagrafico esistente tra loro, sia per la tardiva adesione dell’artista siciliano alla nuova poesia.
-l’accentuarsi della divaricazione fra letterati e pubblico, prodottasi a partire dagli anni Trenta/Quaranta. È pur vero che, col palesarsi della poesia ermetica, il linguaggio si impreziosisce, assume significati indecifrabili, allontanandosi ulteriormente dalla massa e isolando ancor più gli autori in un mondo sui generis, aristocratico ed elitario. In effetti, Quasimodo si trova ad operare nella fase più acuta di tale divaricazione e ne diviene, incolpevolmente, uno dei maggiori “imputati”.
-l’abitudine a tenere ancora separate e indipendenti le produzioni quasimodiane, quella anteriore e posteriore alla guerra. Secondo alcuni (e questo è l’equivoco maggiore da chiarire) la produzione giovanile di Quasimodo mostrerebbe i “limiti” di un evidente ancoraggio alla poetica decadentista e ai suoi stilemi estetizzanti, mentre soltanto l’altra, quella più recente, per la sua forma esplicita e un aperto impegno civile, meriterebbe il riconoscimento che ha.
Effettivamente, in Acque e terre la prima raccolta di Quasimodo, che risale al 1930, non è difficile cogliere delle assonanze con la lirica pascoliana e dannunziana. I versi, sorretti da un’evidente impronta classica e da un “apparato” implicito e sottilmente allusivo (proprio della tendenza poetica del tempo) rappresentano una felice sintesi tra forme vecchie e nuove. Essi rivelano, per altro, la disposizione del poeta a trasfigurare persone, avvenimenti e luoghi lontani, sicché ogni cosa sembra sospesa in una singolare dimensione della memoria, che può essere facilmente confusa con la nostalgia personale. Ma questo modo di comporre, più che da vagheggiamenti meramente intimistici, deriva dalla constatazione del passare del tempo (e della “corrosione” che ciò produce negli uomini) e diviene perciò un dato obiettivo, realistico, che travalica i confini dell’esperienza privata.
Pure la successiva adesione di Quasimodo all’ermetismo [Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936)] è stata oggetto talvolta di rilievo critico. In ciò si è voluto ravvisare una sorta di operazione mimetica, un adeguamento linguistico esteriore, privo di una partecipazione autentica e convinta, funzionale soltanto alle suggestioni dell’epoca, che com’è noto era dominata dall’esigenza di una poesia essenziale, depurata dalle scorie del manierismo e della retorica nazionalistica. Secondo questa interpretazione, la produzione ermetica di Quasimodo parrebbe ridursi o a puro esercizio accademico o a desiderio di superare i grandi maestri, quali erano appunto Montale ed Ungaretti. A guardar bene, si tratta invece di un periodo di studio, di transizione, in cui l’artista ricerca una nuova fisionomia per la sua poesia, secondando così un naturale processo creativo, per cui un autore può volgersi al nuovo, soltanto dopo aver elaborato l’antico.
Il travaglio creativo è però definitivamente superato, non tanto nelle Nuove poesie (1936- 42) che segnano un felice ritorno ad una lirica accorata e sincera, quanto nelle opere Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949) che vengono editate nel dopoguerra ed in cui appaiono, inequivocabili, le tracce di un mutamento formale e contenutistico: la cruda realtà del conflitto ha segnato profondamente il poeta e nei suoi versi trovano ora posto le sofferenze e le speranze dei popoli. A questo periodo appartengono componimenti di esemplare nitore stilistico e di elevato contenuto sociale, come Alle fronde dei salici e Uomo del mio tempo. Da tale “svolta” nasce il cantore della solidarietà umana e dell’impegno civile. Dalla sua manifesta adesione alla vita concreta e dall’aperto schierarsi contro i mali del mondo, Quasimodo trae il suo maggior consenso.
Ma sarebbe un errore limitare il suo valore artistico alla produzione più matura, relativizzando quella precedente e ponendo entrambe in un inconciliabile dicotomia. Ad esaminare attentamente i temi svolti nelle prime raccolte, viene fuori un poeta sensibile, “a tutto tondo”, che si strugge per la propria terra natia, non tanto perché essa è fisicamente lontana, ma perché viene avvertita come Eden o paradiso perduto. Nelle Nuove Poesie, grazie anche ad una forma più distesa ed intelligibile, si capisce perfettamente che l’autore non allude ad un luogo suo esclusivo, ma ad una dimensione comune, a un “approdo” per tutti coloro che, oppressi da una realtà dura ed ostile, ambiscono a ritrovare l’equilibrio interiore e la quiete dell’anima. Ne deriva che la Sicilia cantata dal poeta non è quella reale, ma quella mitica, tutt’uno con la sfolgorante luce dell’antica isola greca, dove le visioni erano certamente più rassicuranti di quelle del presente.
L’autore considera l’uomo un essere imperfetto, un angelo caduto, e perciò vede la generosa sua terra del passato non tanto come entità geografica, ma come un rifugio dal male, dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla stessa solitudine. Per quanto la forma linguistica, oscillante fra classicismo e modernità, possa indurre ad equivoci, nelle Nuove poesie, Quasimodo precorre temi che svilupperà più compiutamente in seguito, nella raccolta: Giorno dopo giorno. Ecco, perché, anche in questa fase del suo itinerario compositivo, egli va considerato pensoso ed impegnato testimone della realtà.
Nemmeno dovrebbe lasciar dubbi sulla portata del suo contributo artistico la parentesi ermetica, che alcuni si affannano a definire “epidermica” e che lui stesso, a un certo punto, sembrò ripudiare. C’è, invece, in quei versi l’impronta dell’universalità, la stimmata dell’autentica arte, un’arte pura e genuina, qual era appunto il fine della nuova poesia. Basti l’esempio della celeberrima: Ed è subito sera (“Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed e’ subito sera“) breve quanto un epigramma greco, ma efficace come soltanto la grande poesia sa essere.
Non è una malinconia fine a se stessa, ovvero quella del poeta tardo-decadente o crepuscolare, né è l’intimo sfogo di un uomo inerte, che gioca ad autocommiserarsi. È invece un disperato richiamo alla solidarietà, alla comunione fra gli uomini (mai così necessaria) e compendia perciò, in un’originale e straordinaria sintesi lirica, le istanze più sentite di un intero secolo e le voci soavi di mille cantori.
Antonio Magliulo
…Un saggio critico:
Unità e valore della poesia di Salvatore Quasimodo –di Antonio Magliulo
Affermare che Salvatore Quasimodo (1901 – 1968) è da considerarsi fra i “sommi” della poesia contemporanea potrebbe sembrare superfluo, tenuto conto dei prestigiosi riconoscimenti da lui ottenuti nel corso della sua carriera e dell’importanza che l’artista occupa tuttora nel panorama letterario europeo. Eppure, talvolta, nel confronto sempre aperto fra i protagonisti italiani del Novecento, egli sembra leggermente offuscato da nomi di eminenti colleghi, come, ad esempio, Montale e Ungaretti. Ciò, in verità, capita per diversi motivi, così riassumibili:
-la tendenza a considerare il poeta modicano come un allievo, un epigone dell’Ermetismo. È opinione di molti, infatti, che l’accostamento di Quasimodo ad Ungaretti e Montale sarebbe arbitrario, frutto cioè di un’esemplificazione, di uno schematismo scolastico, sia per il divario anagrafico esistente tra loro, sia per la tardiva adesione dell’artista siciliano alla nuova poesia.
-l’accentuarsi della divaricazione fra letterati e pubblico, prodottasi a partire dagli anni Trenta/Quaranta. È pur vero che, col palesarsi della poesia ermetica, il linguaggio si impreziosisce, assume significati indecifrabili, allontanandosi ulteriormente dalla massa e isolando ancor più gli autori in un mondo sui generis, aristocratico ed elitario. In effetti, Quasimodo si trova ad operare nella fase più acuta di tale divaricazione e ne diviene, incolpevolmente, uno dei maggiori “imputati”.
-l’abitudine a tenere ancora separate e indipendenti le produzioni quasimodiane, quella anteriore e posteriore alla guerra. Secondo alcuni (e questo è l’equivoco maggiore da chiarire) la produzione giovanile di Quasimodo mostrerebbe i “limiti” di un evidente ancoraggio alla poetica decadentista e ai suoi stilemi estetizzanti, mentre soltanto l’altra, quella più recente, per la sua forma esplicita e un aperto impegno civile, meriterebbe il riconoscimento che ha.
Effettivamente, in Acque e terre la prima raccolta di Quasimodo, che risale al 1930, non è difficile cogliere delle assonanze con la lirica pascoliana e dannunziana. I versi, sorretti da un’evidente impronta classica e da un “apparato” implicito e sottilmente allusivo (proprio della tendenza poetica del tempo) rappresentano una felice sintesi tra forme vecchie e nuove. Essi rivelano, per altro, la disposizione del poeta a trasfigurare persone, avvenimenti e luoghi lontani, sicché ogni cosa sembra sospesa in una singolare dimensione della memoria, che può essere facilmente confusa con la nostalgia personale. Ma questo modo di comporre, più che da vagheggiamenti meramente intimistici, deriva dalla constatazione del passare del tempo (e della “corrosione” che ciò produce negli uomini) e diviene perciò un dato obiettivo, realistico, che travalica i confini dell’esperienza privata.
Pure la successiva adesione di Quasimodo all’ermetismo [Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936)] è stata oggetto talvolta di rilievo critico. In ciò si è voluto ravvisare una sorta di operazione mimetica, un adeguamento linguistico esteriore, privo di una partecipazione autentica e convinta, funzionale soltanto alle suggestioni dell’epoca, che com’è noto era dominata dall’esigenza di una poesia essenziale, depurata dalle scorie del manierismo e della retorica nazionalistica. Secondo questa interpretazione, la produzione ermetica di Quasimodo parrebbe ridursi o a puro esercizio accademico o a desiderio di superare i grandi maestri, quali erano appunto Montale ed Ungaretti. A guardar bene, si tratta invece di un periodo di studio, di transizione, in cui l’artista ricerca una nuova fisionomia per la sua poesia, secondando così un naturale processo creativo, per cui un autore può volgersi al nuovo, soltanto dopo aver elaborato l’antico.
Il travaglio creativo è però definitivamente superato, non tanto nelle Nuove poesie (1936- 42) che segnano un felice ritorno ad una lirica accorata e sincera, quanto nelle opere Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949) che vengono editate nel dopoguerra ed in cui appaiono, inequivocabili, le tracce di un mutamento formale e contenutistico: la cruda realtà del conflitto ha segnato profondamente il poeta e nei suoi versi trovano ora posto le sofferenze e le speranze dei popoli. A questo periodo appartengono componimenti di esemplare nitore stilistico e di elevato contenuto sociale, come Alle fronde dei salici e Uomo del mio tempo. Da tale “svolta” nasce il cantore della solidarietà umana e dell’impegno civile. Dalla sua manifesta adesione alla vita concreta e dall’aperto schierarsi contro i mali del mondo, Quasimodo trae il suo maggior consenso.
Ma sarebbe un errore limitare il suo valore artistico alla produzione più matura, relativizzando quella precedente e ponendo entrambe in un inconciliabile dicotomia. Ad esaminare attentamente i temi svolti nelle prime raccolte, viene fuori un poeta sensibile, “a tutto tondo”, che si strugge per la propria terra natia, non tanto perché essa è fisicamente lontana, ma perché viene avvertita come Eden o paradiso perduto. Nelle Nuove Poesie, grazie anche ad una forma più distesa ed intelligibile, si capisce perfettamente che l’autore non allude ad un luogo suo esclusivo, ma ad una dimensione comune, a un “approdo” per tutti coloro che, oppressi da una realtà dura ed ostile, ambiscono a ritrovare l’equilibrio interiore e la quiete dell’anima. Ne deriva che la Sicilia cantata dal poeta non è quella reale, ma quella mitica, tutt’uno con la sfolgorante luce dell’antica isola greca, dove le visioni erano certamente più rassicuranti di quelle del presente.
L’autore considera l’uomo un essere imperfetto, un angelo caduto, e perciò vede la generosa sua terra del passato non tanto come entità geografica, ma come un rifugio dal male, dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla stessa solitudine. Per quanto la forma linguistica, oscillante fra classicismo e modernità, possa indurre ad equivoci, nelle Nuove poesie, Quasimodo precorre temi che svilupperà più compiutamente in seguito, nella raccolta: Giorno dopo giorno. Ecco, perché, anche in questa fase del suo itinerario compositivo, egli va considerato pensoso ed impegnato testimone della realtà.
Nemmeno dovrebbe lasciar dubbi sulla portata del suo contributo artistico la parentesi ermetica, che alcuni si affannano a definire “epidermica” e che lui stesso, a un certo punto, sembrò ripudiare. C’è, invece, in quei versi l’impronta dell’universalità, la stimmata dell’autentica arte, un’arte pura e genuina, qual era appunto il fine della nuova poesia. Basti l’esempio della celeberrima: Ed è subito sera (“Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed e’ subito sera“) breve quanto un epigramma greco, ma efficace come soltanto la grande poesia sa essere.
Non è una malinconia fine a se stessa, ovvero quella del poeta tardo-decadente o crepuscolare, né è l’intimo sfogo di un uomo inerte, che gioca ad autocommiserarsi. È invece un disperato richiamo alla solidarietà, alla comunione fra gli uomini (mai così necessaria) e compendia perciò, in un’originale e straordinaria sintesi lirica, le istanze più sentite di un intero secolo e le voci soavi di mille cantori.
I disegni di Franz Kafka- A cura di Andreas Kilcher-
A cura di Andreas Kilcher-Traduzione di Ada Vigliani-Con una Nota di Roberto Calasso
ADELPHI EDIZIONI
Risvolto Com’è noto, poco prima della morte, Franz Kafka chiese all’amico Max Brod di distruggere tutti i suoi «scarabocchi». Alludeva non solo agli scritti, ma anche a quei disegni che, dando prova di autentico talento, aveva tracciato nel corso degli anni su fogli sparsi, pagine di diario e un intero quaderno. Max Brod non distrusse né gli uni né gli altri – e mai disobbedienza fu più provvidenziale. Rese tuttavia pubblico solo un numero ristretto di disegni: i restanti, la maggior parte, sono rimasti occultati per decenni in una cassetta di sicurezza, prima a Tel Aviv e poi a Zurigo. E solo quando, di recente, sono tornati alla luce, si è svelato pienamente il volto artistico di Kafka. Un volto che ora potremo conoscere grazie a questo libro, in cui è riprodotto – sul supporto originale, e quasi sempre a grandezza naturale – l’intero corpus dei disegni che si sono conservati. Pagina dopo pagina, incontreremo esili silhouette nere di omini curvilinei che ora camminano frettolosi, ora s’inerpicano chissà dove, ora sembrano danzare; figure angolose, dal volto appena accennato, talvolta comico; e ancora: esseri ibridi, spesso rappresentati con pochi tratti magistrali, immagini evanescenti, come in affannoso movimento, enigmatiche apparizioni. Ravviseremo così un artista imparentato con lo scrittore, ma che percorre un’autonoma strada parallela – una strada per Kafka non meno vitale, se a Felice Bauer poteva scrivere: «Una volta ero un grande disegnatore … a quel tempo, ormai anni fa, quei disegni mi hanno appagato più di qualsiasi altra cosa».
I disegni di Kafka, apparso in Germania nel 2021, è accompagnato in questa edizione italiana da una Nota di Roberto Calasso.
In copertina
Disegni di Franz Kafka (1901-1907). The Literary Estate of Max Brod, National Library of Israel, Jerusalem.
foto ardon bar hama
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
In Italia il canto costante è che il lavoro ‘non c’è’: però è lo stesso paese dove si chiede di lavorare gratis o senza tutele. Il tutto con spaventevoli ricadute culturali sul lavoro come merce degradata, una svalutazione umana e professionale che riguarda tutti.
Marta Fana ci racconta non solo i numeri del lavoro, già deprimenti, ma la sua perdita di qualità.
Non è un libro per economisti, questo combattivo pamphlet, ma un libro per lavoratori. Alessandro Robecchi, “il Fatto Quotidiano”
La precarizzazione ha reso il lavoro una risorsa povera, incapace di fornire alla maggior parte degli italiani quello che un tempo poteva dare: sicurezza economica, forza contrattuale, capacità progettuale. In Italia è stato un processo particolarmente rapido e violento, che ha aperto ferite difficili da rimarginare. Un libro militante e documentato. Giuliano Milani, “Internazionale”
Dicevano: meno diritti, più crescita. Abbiamo solo meno diritti. La modernità paga a cottimo. Così dilaga il lavoro povero, spesso gratuito, e la totale assenza di stabilità lavorativa.
Non è la rabbia di chi ha perso la partita,
ma quella di chi non ha nemmeno potuto giocarla.
Così passi dalla parte del torto (Zerocalcare)
A chi si deve, se dura l’oppressione? A noi.
A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà
fermare?
Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
e il mai diventa: oggi!
Lode della dialettica (Bertolt Brecht)
L’autore -Marta Fanaha conseguito un dottorato di ricerca in Economia presso l’Institut d’Études Politiques di SciencesPo a Parigi. Ha iniziato l’attività di ricerca studiando appalti e corruzione e oggi si occupa di political economy, in particolare di mercato del lavoro, organizzazione del lavoro e disuguaglianze economico-sociali. Per Laterza è autrice di Non è lavoro, è sfruttamento (2017).
Prologo. Di precariato si muore
«Io non ho tradito, io mi sento tradito» sono le parole di un ragazzo, appena trentenne, che decide di abbandonarsi al suicidio denunciando una condizione di precarietà, un sentimento di estrema frustrazione. Non è l’urlo di chi si ferma al primo ostacolo, di chi capricciosamente non vede riconosciuta la propria ‘specialità’. È l’urlo di chi è rimasto solo. Di precariato si muore.
Tutto questo ha a che fare con le trasformazioni della nostra società, a partire dai diritti universali, dal lavoro, dall’umanità e dalla solidarietà negate. Quelle cose che si è deciso di escludere dalle nostre vite, non potendogli dare un prezzo. C’è più di una generazione a cui avevano detto che sarebbe bastato il merito e l’impegno per essere felici. Quella di chi si è affacciato al mondo del lavoro cresciuto a pane e ipocrite promesse, e quella di chi si affaccia oggi, quando la promessa assume il volto di un’ipocrisia manifesta. Oggi ci si suicida perché derubati di possibilità, di diritti, di una vita libera e dignitosa. Qualcosa è andato storto e c’è chi continua a soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali, delle frustrazioni che la solitudine sociale produce.
Di precariato si muore. E non è un caso. Il precariato è la risposta feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di distruzione di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell’insaziabilità, dell’avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti quelli che contribuiscono a creare le fortune dei pochi che se le accaparrano.
Di precariato si muore quando al concetto di società si antepone quello di individuo.
Ed è esattamente ciò che è stato fatto dalla Thatcher e da Reagan in poi, quello che hanno fatto tutti i governi che hanno tradito i lavoratori, dalla fine degli anni Settanta fino alle più recenti riforme del mercato del lavoro. È stato un impegno quotidiano. Costanza e tenacia. Le hanno provate tutte e ci sono riusciti perché sono rimasti coerenti con la loro idea e ogni giorno e ogni notte hanno lottato per raggiungere quell’obiettivo. Uniti. Loro hanno vinto nel momento in cui sono rimasti uniti perseverando nel disaggregare i lavoratori in quanto corpo sociale. Per farlo hanno avuto bisogno di molta creatività, di imporre, con una buona dose di maquillage, un nuovo volto al lavoro: eliminando dall’immaginario i bassifondi, gli operai; escludendo dal racconto quotidiano la fatica dello sfruttamento; mascherando l’impoverimento dietro l’obbligo di un dress code.
Come scrive Owen Jones a proposito del ‘thatcherismo’: «L’obiettivo era quello di cancellare la classe operaia come forza politica ed economica della società, rimpiazzandola con una collezione di individui, o imprenditori, che competono gli uni contro gli altri per i propri interessi. […] Tutti avrebbero aspirato a rimontare la scala [sociale] e coloro che non l’avessero fatto sarebbero stati responsabili del loro stesso fallimento».
Né sulla Manica né sul Tirreno è bastata la poesia a fermare questa deriva. Nostalgicamente ascoltiamo ancora De André, capace come pochi di riflettere su un’umanità che sembra persa, spiegarci che esiste «ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore».
Così, negli ultimi decenni, è andata diffondendosi sempre più la figura del giovane con la partita Iva: libero di solcare i contratti a progetto, le prestazioni occasionali, di non arrivare a fine mese e di non avere diritto al reddito nei periodi di non lavoro. Non vincolato da un contratto, libero di esser pagato quanto e quando vuole l’azienda e di non avere alcun potere negoziale. Nel frattempo, il giovane precario poteva consolarsi e crogiolarsi del racconto della sua specificità, di essere unico, di non essere uguale a ‘quegli altri’, quelli impiegati da più di vent’anni con gravi lacune nell’utilizzo di Microsoft Office o, peggio ancora, quelli vestiti male, un po’ sporchi di polvere, di grasso e vernice. Nei cinque minuti tra il parcheggio e la porta d’ingresso, o tra la caffettiera e la piccola scrivania, separate dal lungo corridoio di una casa in affitto, il giovane precario pensa di essere indispensabile. Pensa che tutto andrà meglio, che questo contratto è solo l’inizio, potrà rivendicarlo al prossimo colloquio, quello che non esiste, perché il curriculum lo mandi a un indirizzo di posta elettronica. Lui è solo e a volte pensa che in fondo è l’unico uomo al comando. Di cosa non gli è ben chiaro. Però i sindacati mai.
E del resto, per molti anni, i sindacati non si sono accorti che questi avevano la partita Iva ma erano degli sfruttati e quando se ne sono accorti hanno procrastinato. Un circolo vizioso che ha portato alla sconfitta. Era in atto la trasformazione antropologica e culturale del lavoro subordinato, mascherato dalle collaborazioni. All’inizio degli anni Duemila chiunque poteva essere un lavoratore a termine. Una generazione in fin dei conti abituata dai tempi della scuola: le verifiche a crocette, i quiz ogni quindici giorni erano già l’emblema del ‘mordi e fuggi’. Al diavolo il diritto a una conoscenza lenta, approfondita, critica. Gratta e vinci. Usa e getta. Come quei gadget che, ora, soddisfano gli attacchi di consumismo bulimico, mentre un operaio muore sotto un camion durante un picchetto. È il momento in cui, controllando il codice a barre che traccia la spedizione, il giovane collaboratore inveisce contro Poste Italiane perché non ha consegnato il gadget in tempo. Ma Poste Italiane è stata privatizzata, i postini sono sempre meno e quelli che son rimasti lavorano dieci ore al giorno, le spedizioni sono state appaltate a un corriere esterno, gli sportelli chiudono perché i cittadini sono stati trasformati in clienti. E vanno su internet, le filiali non servono più.
Sono gli anni in cui molti più giovani potevano dirsi liberi dal lavoro subordinato, lo dicevano alla televisione, lo dicevano i giornali. Purtroppo continuano a dirlo. I costi del lavoro diminuiscono, le imprese non devono pagare i contributi, ma non devono pagare neppure la formazione ai propri collaboratori. E i giornali tornano a titolare che le imprese non trovano giovani adatti a ricoprire le mansioni cercate. La colpa della disoccupazione e della precarietà è stata accollata alla scuola, che non prepara al mercato del lavoro. Devono uscire precisi e perfetti per il prossimo annuncio. Ma guai a investire nella formazione: meglio pretendere che sia la scuola, e quindi lo Stato, a pagare, anche per far lavorare gratis nelle aziende i propri studenti.
È così che nasce l’alternanza scuola-lavoro, i cui protocolli d’intesa del Ministero del Lavoro e di quello dell’Istruzione e della Ricerca danno il diritto a grandi multinazionali di impiegare migliaia di studenti nei propri locali, per fare i commessi. Una velocità che lascia interdetti. È stato un attimo, dal susseguirsi di stage umilianti o inutili al dovere del lavoro gratuito. Sarà un’esperienza fantastica, recitavano le pubblicità dell’Expo 2015 a Milano. Vedrete cose, conoscerete gente, gratuitamente. Lavorerete gratis finché altri vorranno. Poi il nulla. Anzi no, poi Garanzia Giovani, il progetto europeo per l’inserimento lavorativo dei Neet (Not in Education, Employment, Training), cioè per coloro che non studiano, non lavorano e non sono coinvolti in programmi di formazione. Più di un milione di persone tra i 15 e i 29 anni si sono presentati ai centri per l’impiego o strutture convenzionate, con la speranza di trovare un lavoro. L’ha detto la pubblicità, il Ministero del Lavoro non fa che vantarsi di questo programma. E allora proviamoci, come in un reality, sia mai che ci dice bene. Altri ci sono arrivati celando l’umiliazione, mettendo da parte l’orgoglio della laurea, dei master da fuori sede. Tirocini come se non ci fosse un domani, per tutti!
Masse di lavoratori che la sera tornano a casa con le proprie storie personali, alcuni aprono un blog e si raccontano. Una questione privata. Nessuno ha inventato il sito di incontri per partite Iva, un mega raduno di chi ha partecipato al grande show di Garanzia Giovani. Lo sciopero generale dei tirocinanti. Ognuno a pregare che quella promessa di assunzione possa un giorno farsi realtà.
Loro, i potenti, gli avidi, gli sfruttatori, hanno vinto perché sono stati coerenti, uniti, perché sono stati più forti nel ‘tutti contro tutti’, dove i morti li abbiamo contati solo noi. Hanno vinto quando ci hanno chiamati «bamboccioni», imponendoci una partita Iva, e siamo stati educati, silenti, accondiscendenti. Hanno vinto quando ci hanno detto che eravamo «choosy» e abbiamo porto l’altra guancia. Hanno vinto quando abbiamo smesso di credere che, uniti, si vince anche noi.
Indagare sulle condizioni di lavoro e non lavoro in Italia è una vera e propria discesa agli inferi. Il dilagare del lavoro povero, spesso gratuito, la totale assenza di tutele e stabilità lavorativa sono fenomeni all’ordine del giorno, che si abbattono su più di una generazione, costretta a lavorare di più ma a guadagnare sempre di meno, nonostante viviamo in una società il cui potenziale produttivo già permetterebbe di ridurre e distribuire il tempo di lavoro mantenendo e/o raggiungendo un tenore di vita più che dignitoso. È la realtà contro cui si infrange la narrazione dominante sulla ‘generazione Erasmus’ e sui Millennials, la stessa che con facilità dichiara che coloro che sono nati negli anni Ottanta dovranno lavorare fino a 75 anni per avere una misera pensione. Come se fosse un fatto naturale, inevitabile, ma soprattutto irreversibile, e non invece il risultato di scelte politiche ben precise, che hanno precarizzato il lavoro, la possibilità di soddisfare bisogni che dovrebbero essere considerati universali, come l’istruzione, la sanità, la casa, il trasporto pubblico. Le stesse politiche che hanno provocato l’inasprirsi delle diseguaglianze sociali spostando reddito e ricchezza dai lavoratori, che li producono, alle imprese, che a loro volta hanno scelto di trasformarli in vere e proprie rendite. Il furto quotidiano operato a danno dei lavoratori, di oggi e domani, è stato sostenuto dall’ideologia del merito, imposta per mascherare un inevitabile conflitto tra chi sfrutta e chi è sfruttato. Ma soprattutto per negare la matrice collettiva dei rapporti di lavoro, dei rapporti di forza in gioco: è la retorica per cui ognuno è unico artefice del proprio destino.
Il risultato è l’avanzare di forme di sfruttamento sempre più rapaci che pervadono ogni settore economico, con labili differenze tra lavoro manuale e cognitivo: dai giornalisti pagati due euro ad articolo ai commessi con turni di dodici ore, dagli operai in somministrazione nelle fabbriche della Fca ai facchini di Amazon.
Sono questi gli argomenti trattati in questo libro in cui l’analisi delle trasformazioni economiche e sociali che hanno attraversato i diversi settori si intreccia con le storie di quanti vivono quei luoghi – e non luoghi – di lavoro. Per ragioni oggettive e soggettive, ho scelto di analizzare e descrivere solo alcuni settori economici e forme di lavoro, in particolare la logistica, la grande distribuzione e i servizi pubblici, ma anche i lavoretti dietro la gig economy, le forme di lavoro gratuito, il lavoro a chiamata e il sistema dei buoni lavoro (i voucher). È una scelta dettata da poche ragioni di fondo, tra loro collegate. Primo, essi costituiscono gli esempi più significativi della ristrutturazione del capitalismo, dove la frammentazione del lavoro segue la frammentazione del processo produttivo. Secondo, sono la più nitida rappresentazione di come la valorizzazione del capitale necessiti la creazione di vere e proprie avanguardie dello sfruttamento, che coinvolgono sia i lavoratori immigrati della logistica, sia quelli italiani della grande distribuzione o dei servizi pubblici. La matrice di classe che opera in questi settori è la medesima, nonostante la narrazione dominante tenda a separare e a diversificare una soggettività, quella del nuovo e trasversale proletariato, con espedienti retorici e di facciata. Terzo, il riemergere dei conflitti che popolano questi settori e le modalità con cui le lotte si affermano son spesso taciuti o relegati a meri fatti di cronaca locale quando, invece, sono espressione di un mondo nient’affatto pacificato. D’altra parte, frontiere del precariato come il lavoro a chiamata e il lavoro gratuito si configurano non soltanto come forme di totale estrazione del valore prodotto dai lavoratori che ingrassa solo gli utili d’impresa, ma agiscono come strumenti di estremo ricatto: la promessa di un futuro migliore se si è disposti a farsi sfruttare senza mai alzare la testa.
Mettere in luce la comunanza di interessi, palesando la natura di classe di questi conflitti, ha l’obiettivo di far convergere e amplificare le lotte e le pratiche in atto.
Infine, sebbene con estrema sintesi e in modo nient’affatto esaustivo, si è provato a descrivere il processo politico che ha portato all’impoverimento della classe lavoratrice e soprattutto di quelle generazioni che si affacciano oggi al mondo del lavoro. Per ribadire, in fin dei conti, che il divorzio tra la sfera economica e quella politica è solo un inganno: i processi economici non sono nient’altro che processi politici di potere, di riproduzione di rapporti di forza. In Italia come nel resto d’Europa, la scelta dei governi è stata quella di avallare il progressivo smantellamento dei diritti in modo da restituire forza e dominio alle imprese, a discapito del progresso sociale, cioè del miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza.
Mi preme specificare alcuni dettagli del modo in cui nasce e prende forma questo volume. Innanzitutto, esso è frutto di un lavoro collettivo per cui ringrazio i colleghi, gli amici ma soprattutto i compagni che, interrogandosi e stimolando il dibattito su questi temi, mi hanno, metaforicamente, costretta nel tempo ad approfondirli. È soprattutto grazie a loro che questa coscienza collettiva ha preso forma in uno scritto, preceduto da diversi interventi sui giornali, nei dibattiti, in piazza, nei picchetti e nelle assemblee. Gli incontri con lavoratori e disoccupati sono la fonte delle storie che a tratti compaiono nel libro. Storie che si ripetono e di cui il breve racconto che ne viene fuori non è che una sintesi di prassi molto più frequenti.
Con la speranza che questa presa di coscienza collettiva possa diffondersi e raggiungere i tanti, i molti, che hanno diritto a un riscatto, all’emancipazione negata dall’avidità del capitale e dall’ipocrisia del potere. A loro è dedicato questo libro.
Miserie e splendori del lavoro: un immaginario da ricostruire
Durante gli ultimi decenni, la rappresentazione del lavoro, della quotidianità dei lavoratori, è scomparsa dall’immaginario, dalla cultura. La creazione di vere e proprie periferie nel mondo del lavoro è stata inizialmente giustificata come l’unico strumento efficace per affrontare le difficoltà a trovare il primo impiego da parte di categorie poco partecipi, come le donne, o più vulnerabili, come i giovani e gli immigrati. Una volta create, tuttavia, queste periferie sono state utilizzate dalla narrazione dominante per giungere al fine ultimo: la precarizzazione di ogni forma di lavoro, anche quelle finora garantite da tutele, come i contratti a tempo indeterminato. Dal punto di vista della composizione sociale, lo scontro alimentato è stato quello generazionale: i padri garantiti stanno togliendo lavoro e possibilità di lavorare ai propri figli. La stessa identica narrazione assoldata per giustificare e imporre antidemocraticamente dosi massicce di austerità sul piano fiscale e dei conti pubblici.
Le condizioni di vita di milioni di persone sono usate solo ed esclusivamente per la costruzione di un’immagine funzionale a rappresentare altro: una volta un nemico da creare – come nel caso dei dipendenti pubblici o degli operai in lotta –, un’altra volta un’azienda da esaltare. Più recentemente quel che torna di moda è la costruzione del nemico esterno incarnato dagli immigrati. La retorica dominante, trasversale, sebbene con qualche eccezione nello spettro politico, indica l’immigrazione come causa ultima del crollo di diritti e salari, nonostante sia evidente che l’Italia – da molti più anni rispetto all’inizio dell’attuale ondata di immigrazione – vive un vero e proprio esodo verso l’estero. Secondo quanto riporta l’Istat nel rapporto Migrazioni Internazionali e interne della popolazione residente, «Negli ultimi cinque anni le immigrazioni si sono ridotte del 27%, passando da 386 mila nel 2011 a 280 mila nel 2015. Le emigrazioni, invece, sono aumentate in modo significativo, passando da 82 mila a 147 mila. Il saldo migratorio netto con l’estero, pari a 133 mila unità nel 2015, registra il valore più basso dal 2000 e non è più in grado di compensare il saldo naturale largamente negativo (-162 mila)». Andamento che si ripete nel 2016. Inoltre, il perdurare di fenomeni storici di immigrazione interna – da sud a nord Italia – viene accolta paternalisticamente come qualcosa di naturale. Ma anche nelle regioni del Meridione, dove lo sfruttamento è prassi mai messa in discussione, si agita lo spettro dell’immigrato che ruba il lavoro al giovane disoccupato, senza mai ricordare che già prima dell’arrivo dell’immigrato la disoccupazione giovanile raggiungeva tassi superiori al 50%. Briciole di realismo necessarie per ribaltare uno schema di analisi falso e deleterio. Ma, appunto, l’immagine dell’immigrato causa dei mali di questo paese è utile per nascondere ciò che realmente avviene quotidianamente contro lavoratori italiani e stranieri. Agitare la guerra tra poveri è il gioco prediletto da chi sullo sfruttamento dei molti, indipendentemente dalla nazionalità, mantiene il proprio potere. Tutto il resto è bene insabbiarlo. Dei conflitti sempre più intensi e frequenti che popolano le relazioni industriali del nostro paese, e che non distinguono tra italiani e stranieri, non deve sapere nessuno, è un’immagine che mostra le crepe di un sistema, un conflitto mai sopito e sempre più radicale, che si è scelto strategicamente di ignorare. Quel che quotidianamente viene raccontato, fino a diventare la lettura dominante di questa fase storica, è una realtà che non esiste, almeno non più, fatta di, seppur scarsa, mobilità sociale, di brevi periodi di precariato seguiti da carriere dignitose, possibilità di uscire da uno stato di bisogno attraverso il lavoro. L’unico scontro generazionale che si intravede è questo: la lettura della realtà nella sua dimensione storica. Più di una generazione vive oggi in un contesto di crisi permanente, di distruzione del patto sociale – scioltosi come neve al sole – del dopoguerra e degli anni del boom. Metabolizzare il lavaggio del cervello quotidiano operato a uso e consumo delle élites non fa che distogliere lo sguardo dalle vere cause e responsabilità e dai possibili rimedi. Secondo questa visione distorta continuano a trovare legittimazione non soltanto opinionisti d’accatto che provano a imporci un ribaltamento della realtà per continuare a garantirsi un posto nel mondo, nonché la loro posizione di potere, ma anche opzioni politiche superate dalla storia e ormai incompatibili con la tenuta politica e sociale del paese. Tra queste, ad esempio, le proposte di mantenere i vincoli di bilancio o le privatizzazioni del settore pubblico, il ripetere incessante del non c’è alternativa al costante impoverimento del mondo del lavoro e non lavoro. Convinzioni e prospettive politiche che scongiurano la necessità di abolire l’intero impianto del Jobs Act, fermandosi nel migliore dei casi a una revisione di facciata, come chi propone di ristabilire non già l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ma l’art. 17 e mezzo. Sono gli stessi che avallano l’aumento dell’età pensionabile e ritengono che sia possibile creare solidarietà tra le generazioni riducendo ancora le pensioni di oggi e assoggettando il diritto alla pensione di oggi e domani al pareggio di bilancio. Attraverso questa lente falsata quel che rimane del mondo del lavoro è un racconto ipocrita che si commuove per le proteste degli operai nelle fabbriche lager del Pakistan o per le stragi in quelle del Bangladesh, come fossero eventi esotici, slegati dall’incedere dell’ordine globalizzato, quello che antepone in ogni luogo gli interessi degli sfruttatori a quelli degli sfruttati.
Più ci si avvicina ai confini dell’Italia, più il conflitto, quando non ignorato, è ormai relegato a una questione di cronaca, di ordine pubblico. Nei fatti si tratta di repressione. Risalgono al 2014 le immagini dei lavoratori delle acciaierie di Terni manganellati durante un corteo a Roma, o le cariche durante gli scioperi all’aeroporto di Malpensa del 2013, quelle contro i lavoratori Alcoa. Lì dove regna la repressione, il titolo di apertura è Scontri! Lo stesso è avvenuto di fronte alla lunga primavera di manifestazioni e scioperi generali che hanno attraversato la Francia nel 2016 contro la Loi Travail. Uno sciopero generale ogni settimana, strade piene in molte città francesi, solidarietà tra operai e studenti, tra disoccupati e pensionati. Ai commentatori italiani non importò l’unità che si andava creando per quelle strade, così come nessuno degli habitués dei talk show di prima e seconda serata ebbe un sussulto di indignazione di fronte all’operazione antidemocratica con cui quella legge fu approvata.
La frantumazione del mondo del lavoro vive dentro e fuori i luoghi di lavoro, soprattutto fuori dalle coscienze di chi per vivere deve lavorare. Senza mezzi termini, l’oggetto della discussione è la coscienza di classe, motore della storia, la cui esistenza è negata nella retorica dominante per sgomberare il campo dalla resistenza a tutte le scelte politiche che in questi anni hanno decretato l’inasprirsi delle diseguaglianze economiche, politiche e sociali.
Ma il conflitto prima o poi emerge, in modi più o meno dirompenti. Non sempre la questione di classe si esprime con una direzione politica, ma quando accade è irresistibile. Fuori dai palcoscenici di una politica a-dialettica, l’esigenza di una ricomposizione di classe prende vita grazie a quella generazione di cui tutti parlano e che nessuno ascolta.
«Siamo quei ragazzi che neanche tu, tu che da noi sei stato servito, hai notato. Perché noi siamo invisibili, siamo fantasmi, siamo una rotella di un ingranaggio gigantesco. Invisibili, ma indispensabili perché senza di noi l’ingranaggio si incepperebbe… Senza di noi, tu non avresti la tua pizza, la tua assistenza telefonica, la tua visita guidata, i tuoi jeans… Siamo in tanti, tantissimi, neanche lo immagini quanti… tutti al servizio di chi sul nostro lavoro ci guadagna, assumendoci senza contratto o con contratti finti che bluffano sull’orario di lavoro, sempre più lungo, bluffano sulle mansioni, sempre di più, sempre troppe. E la paga è sempre più bassa, lontana anni luce da qualsiasi standard contrattuale… Dovrebbero riconoscerci dei diritti: ferie, malattia, permessi, maternità e invece… niente di niente… perché noi siamo invisibili, siamo fantasmi… non esistiamo eppure ci siamo, siamo qua…».
Questo coro agguerrito ha fatto irruzione per le strade assolate di Napoli invase dai turisti nel giorno della Festa internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici, il Primo Maggio 2017. Perché la storia non bussa, entra sicura. Con nitidezza, oltre ogni deformazione. Qui si uniscono le storie dei lavoratori della ristorazione, dei call center, del turismo (affidato al privato), del commercio. La trama è sempre la stessa: lavoro sfruttato, spesso a nero, non importa se con o senza la laurea, se si tratta di lavori ad alta o bassa qualifica. Lavoratori che parlano al resto della società, a tutti quelli a cui è negata quotidianamente la dignità, ai troppi giovani e meno giovani del Sud Italia, del Sud Europa.
Se non si tratta di vero e proprio lavoro nero, si parla comunque di lavoro povero. In particolare, si è di fronte a una vera e propria proletarizzazione della classe lavoratrice, dove i livelli di sfruttamento intensivo riguardano ampi settori dell’economia e coinvolgono sia il lavoro manuale sia quello intellettuale. Dai giovani fattorini delle consegne a domicilio gestite dalle piattaforme digitali, ai giovani avvocati, dai giornalisti precari, freelance e non, agli ultimi arrivati nelle grandi società di consulenza.
Non vi è dubbio che il lavoro povero si palesi con intensità e modalità differenti nei vari contesti, ma ciò non toglie che la tendenza in atto sia univoca.
Per questa ragione l’urlo dei lavoratori a nero coinvolge anche i tanti collaboratori e partite Iva che, per sfuggire alla solitudine, per anni uscivano di casa per andare a lavorare seduti al tavolino di un bar qualsiasi. Finché qualche illuminato non ha deciso che anche la solitudine può essere messa a valore. Il cameriere e la giovane partita Iva si incontrano sempre meno. Infatti, la solitudine di collaboratori e freelance diventa oggetto di innovazione sociale, in cui privati mettono a disposizione spazi a pagamento dove i lavoratori possono recarsi e sentirsi meno soli. Perché spesso i collaboratori non hanno neppure il diritto a una postazione in azienda: a volte, indipendentemente dagli spazi a disposizione, gli è proprio vietato andarci, perché semplicemente non sono coperti da assicurazione in casi di infortunio sul luogo di lavoro. Così il luogo di lavoro è altrove, anzi, non esiste. Ognuno si crei il suo.
Ed eccola, l’innovazione: l’emergere di spazi di ‘coworking’, dove apparentemente si lavora insieme, ma, molto più realisticamente, ognuno se ne sta per i fatti suoi. Mettere a disposizione uno spazio di coworking viene spesso raccontato come l’offrire un servizio che dà l’opportunità di incontrarsi, fare rete, scambiarsi idee e, perché no, crearne di altre tra una pausa e l’altra. A pagamento. Per sentirsi meno soli si spende intorno ai 15 euro al giorno, si affitta una postazione con una presa e se va bene si scambia qualche parola con quel collega fittizio e potenziale. Solitudine e frammentazione create dai processi di precarizzazione produttiva rimangono questioni private a cui il mercato risponde, trova soluzioni a carico dei lavoratori e su cui è sempre pronto a trarre un po’ di utili. Un cortocircuito che rende bene l’idea di come il concetto di condivisione venga messo a valore. In questo caso, infatti, la solitudine e la frantumazione del lavoro diventano ‘nuovi mercati’; la condivisione non ha un connotato sociale bensì di mercato: si paga per condividere qualcosa che non si detiene, a parte la frustrazione della solitudine. Mentre le aziende risparmiano sui costi relativi ai luoghi fisici del lavoro, i lavoratori pagano per dotarsi di uno spazio di lavoro in cui immaginarsi una vita non atomizzata. Si potrebbe ovviamente sostenere che è possibile riconquistare spazi pubblici dismessi, che il settore pubblico potrebbe impegnarsi a adibire a postazioni di lavoro. La riappropriazione degli spazi pubblici da parte della collettività è un obiettivo nobile che va costantemente rivendicato: tuttavia non si capisce perché, ancora una volta, sia il pubblico a dover pagare per il privato e la sua deresponsabilizzazione!
E quando non si deresponsabilizza per legge, si chiude un occhio, come di fronte al lavoro nero, di fronte al disinvestimento in manutenzione e sicurezza: vengono tagliati i controlli e le ispezioni sul lavoro mentre si spendono soldi pubblici, dei lavoratori, per i rastrellamenti degli immigrati. Così se un operaio muore mentre lavora, è distrazione. Un incidente.
Le morti bianche, cioè quelle sul lavoro, compaiono per poche ore sulle pagine dei giornali. Stando ai dati dell’Inail, nell’ultimo quadriennio sono morti sui luoghi di lavoro circa mille lavoratori ogni anno. Cifre che sottostimano il fenomeno, in quanto non tutti i lavoratori sono registrati presso l’Inail, come i liberi professionisti, i vigili del fuoco o proprio quei collaboratori che popolano i coworking o le camere in affitto in centro città. Ogni giorno, in Italia, più di tre persone muoiono sui luoghi di lavoro, a cui vanno aggiunti gli infortuni e tutte le malattie che si manifestano lentamente, quando ormai il lavoratore è andato in pensione. Secondo i dati ufficiali, nel 2016 le denunce per infortunio sul lavoro sono oltre seicentomila. Neanche fossimo in guerra!
Non si discute peraltro di come le scelte aziendali volte alla riduzione del costo del lavoro producano insicurezza sugli altri lavoratori. È un altro caso di come la tecnologia impatti in modo non neutro sulle condizioni di lavoro. Alcune aziende hanno scelto di sostituire le squadre di vigilanza con dei braccialetti elettronici indossati da un unico addetto alla sicurezza. Nel caso in cui dovesse succedere qualcosa, il braccialetto emette suoni allarmando la centrale operativa, che si trova fuori dallo stabilimento. Solo allora saranno attivati i soccorsi. Peccato però che il tempismo non può essere garantito come avveniva quando a vigilare si era almeno in due. La probabilità di incidenti è inoltre proporzionale all’inesperienza e inversamente correlata con la conoscenza dei luoghi di lavoro e dei suoi impianti. È allora inevitabile che più si precarizza il lavoro più gli incidenti aumentano, soprattutto lì dove i lavoratori temporanei non ricevono neppure la formazione sulla sicurezza.
Anche nel lavoro più strutturato si assiste a una inaccettabile deriva per cui la sicurezza sul lavoro, ma anche dei territori, si fa oggetto di ricatto. Capita che i premi aziendali siano ancorati alla riduzione degli incidenti sul lavoro, cioè i lavoratori possono percepirli – in teoria, dato che rimane una promessa – se in azienda diminuiscono gli incidenti sul lavoro. I lavoratori sono allora incentivati a non dichiarare infortuni altrimenti perdono la possibilità di ricevere il premio. Ma, oltre alla beffa, l’inganno: ai fini della retribuzione con i contratti integrativi contano anche le assenze per malattia. Più ci si ammala meno si guadagna. Al lavoratore non rimane che scegliere tra meno soldi a causa della dichiarata malattia, con la promessa di percepire il premio, o denunciare l’infortunio e non perdere i soldi trattenuti dal datore di lavoro in caso di malattia. Gallina oggi, uovo domani.
Recentemente, un esempio di ricatto tra lavoro e sicurezza si è manifestato durante il referendum sulle concessioni per le trivellazioni, quando si barattava il diritto a trivellare ed estrarre petrolio e profitto con il diritto al lavoro che la riduzione delle trivellazioni avrebbe messo a repentaglio. Ci si può tuttavia opporre a derive simili e rivendicare la priorità del rispetto dei diritti sui profitti, come ha fatto la Fiom-Cgil Basilicata nei confronti dell’Eni al Centro Oli di Viggiano, stabilimento le cui attività sono state sospese dalla giunta regionale della Basilicata dopo plurime richieste di intervento a riduzione degli eccessivi livelli di inquinamento provocati. Una storia mai risolta, quella della sicurezza sul lavoro, del conflitto tra diritti sociali e avidità del capitale, come dimostra magistralmente lo scrittore Alberto Prunetti nel suo libro Amianto. Una storia operaia.
Un atteggiamento paradossale, quello degli italiani di fronte al concetto di sicurezza. Prevale oggi nell’opinione comune un bisogno incondizionato nei confronti della propria sicurezza verso il prossimo, specie se più povero, se sta peggio di noi. Una costante richiesta di protezione della nostra non ricchezza, ma pur sempre proprietà di fronte all’indotto pericolo del ladro che invade le case o il garage o l’orto di casa. Si pretende addirittura il diritto di sparargli contro, di ucciderlo se necessario. Perché la proprietà non è più un furto e non può essere oggetto di furto. Sentimenti o risentimenti che sfociano il più delle volte in vere e proprie forme di razzismo e di odio verso il basso; posizioni che conquistano quotidianamente spazi di riflessione e azione politica. Ancora una volta, il racconto è strumentale a evitare che emerga e si consolidi la consapevolezza che il conflitto vive all’interno del processo di produzione e riproduzione sociale, ed è quello che contrappone sfruttati e sfruttatori, oppressi e oppressori.
Cedendo alla narrazione tossica che arriva dall’alto, di fronte al sopruso dei potenti si abbassa la testa, di fronte al furto quotidiano di diritti e salari ci si rivolge con remissività, con l’illusione che da quell’autorità, il capitale e chi lo governa, si può sempre ricevere qualcosa. Un atteggiamento di subalternità che quasi penetra a livello antropologico. Su questo terreno vanno concentrati gli sforzi di una resistenza attiva che rivendichi come sopruso lo stipendio che non arriva da mesi, gli straordinari mai pagati, il contratto a tempo determinato dopo più di tre anni di rinnovi, i contributi non versati, le molestie al lavoro. Rifiutando la guerra tra sfruttati di ogni genere, età, nazionalità.
Dal lavoro a chiamata ai voucher, andata e ritorno
Quando scoppiò la crisi del 2008, le massicce dosi di flessibilità, introdotte fino a quel momento nel mercato del lavoro, mostrarono in modo più eloquente il loro vero volto. La politica aveva però un compito: negare, negare sempre, negare soprattutto di fronte ai giovani: quelli maggiormente coinvolti dai lavori precari e che presto furono espulsi in massa dai processi produttivi insieme ai propri genitori; quelli che un lavoro non riuscivano proprio a trovarlo, indipendentemente dal titolo di studio. La disoccupazione nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 18,3% del 2009 al 30,3% del 2016 (37,8% se si considera la fascia 15-24 anni). Nell’ultimo trimestre del 2016 il tasso di occupazione dello stesso gruppo anagrafico rimane al 29,5%, contro il 39% del 2009.
Alle scelte politiche, ostinate sulla via delle riforme strutturali, serviva rafforzare la narrazione e trovare altri responsabili. Primi tra tutti i giovani stessi, quelli che non ce la fanno neppure a trovare un lavoro sottopagato, sottoinquadrato, quelli che non possono permettersi di lasciare casa dei genitori perché né loro né i genitori hanno i soldi per pagare una stanza in affitto altrove, quelli che si laureano in ritardo e a nessuno importa perché. Nel 2012 essere «bamboccioni», termine coniato dal fu ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, era ormai un complimento: stavano per arrivare gli «sfigati» e gli «schizzinosi». «Dobbiamo dire ai nostri giovani che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa»: parola di Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti (gennaio 2012). Rincara la dose la ministra Elsa Fornero (ottobre 2012): «Non bisogna mai essere troppo choosy [schizzinosi], meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro. Non aspettare il posto ideale. Bisogna entrare subito nel mercato del lavoro».
Così come ha fatto Chiara, che per due anni ha lavorato come cassiera a chiamata all’ipermercato Martinelli di Mantova. Alla cassa tutti i week-end da venerdì a domenica e poi anche un turno durante la settimana. Per gli infrasettimanali la chiamavano il giorno prima per darle conferma. No ferie, no malattia. Il turno era di dodici ore, con un’ora e mezza di pausa pranzo. La pausa pranzo era il solo momento in cui Chiara aveva diritto a bere. In cassa era vietato bere, ma anche sedersi. Così lei e le sue colleghe erano costrette a tenere nascoste le bottigliette e a scomparire sotto la cassa per qualche istante. Essere sorridenti sempre, anche quando ti arrivava un’infezione urinaria, perché pure se bevi poco al bagno devi andare, ma quando chiami il cambio la collega non arriva a tamburo battente. Aspetti, anche mezz’ora, quaranta minuti. A fine turno, nonostante nel contratto ci fosse scritto «cassiera», Chiara e le sue colleghe dovevano pulire i bagni, tutti.
Chiara è riuscita a trovare lavoro subito e a farsi sfruttare come si deve; le dichiarazioni della Fornero però rimangono non soltanto offensive ma anche fuorvianti. Per la legge della domanda e dell’offerta, se tre milioni di persone sono disoccupate e altrettante scoraggiate – cioè non lavorano e si sono stancate di cercare – significa che la prima offerta spesso neppure esiste. Lo dimostra il numero di posti vacanti, cioè disponibili rispetto al totale dei posti di lavoro esistenti (somma tra i posti vacanti e quelli occupati). Un indicatore che misura la domanda di lavoro da parte delle imprese, a ben vedere fanalino di coda europeo tra il 2009 e il 2016.
Ma perché i giovani? Perché se avessero preso coscienza di non essere sfigati – cioè di aver fatto tutto quello che veniva loro richiesto – avrebbero potuto rievocare uno spettro pericoloso: il conflitto. Così i giovani avevano bisogno di una dose, più massiccia, di distrazioni di massa, che dirottasse la frustrazione ed evitasse ad ogni costo che questa si tramutasse in voglia di riscatto. Andava alimentata una guerra tra poveri e diseredati, mascherata da guerra intergenerazionale: padri contro figli, prima di tutto. Poi è arrivato il tempo degli immigrati, che però nel frattempo erano costretti a lavorare gratis.
Senza girarci attorno, ciò che emerge dalle parole di chi è stato chiamato (dall’allora presidente Giorgio Napolitano, con la fiducia in primis del Pd) a governare il paese all’esplodere della crisi è un profondo disprezzo nei confronti dei lavoratori e dei disoccupati, chiamati solo a sacrificarsi sull’altare della competitività e dei profitti delle imprese finanziarie e non. Non a caso proprio la riforma Fornero, oltre a demolire l’art. 18, permise alle imprese di disporre in modo indiscriminato di un enorme esercito di riserva, sempre più giovane, dati i crescenti tassi di disoccupazione. Una specie di gioco delle tre carte: da un lato, venivano aumentati dell’1,4% i costi dei contratti a termine a carico dei datori di lavoro; dall’altro, si escludeva l’obbligo di comunicare la causa del ricorso al contratto a termine per i primi 12 mesi. Allo stesso tempo, con una mano si restringevano le possibilità di ricorrere al lavoro intermittente (o a chiamata) e con l’altra si liberalizzavano a tutti i settori produttivi i buoni lavoro (o voucher).
Ma la storia dei voucher e del lavoro a chiamata non nasce con la Fornero, che di per sé non ha dovuto inventare nulla, bensì con la riforma Biagi-Maroni del 2003. In principio, nel contratto a chiamata un lavoratore «si pone a disposizione del datore di lavoro per lo svolgimento di determinate prestazioni di carattere discontinuo o intermittente». È un contratto subordinato e può essere a tempo determinato o indeterminato, può coinvolgere tutti i lavoratori, ma nel caso di under 25 o over 45 è necessario che siano disoccupati o in mobilità. Ben presto, nel 2005, la condizione di disoccupato decade e la legge estende a tutti la possibilità di lavorare a chiamata. Oltre alla durata del rapporto di lavoro (a termine o permanente), fin dalla legge Biagi-Maroni il lavoro a chiamata può essere di due tipi: con o senza disponibilità garantita dal lavoratore. In pratica, quest’ultimo può concedere al datore di lavoro la propria disponibilità a essere chiamato (per questa sua disponibilità riceve addirittura un compenso!) e si accolla l’obbligo di rispondere alla chiamata. Oppure può non dare la propria disponibilità: se arriva la chiamata ed è libero bene, altrimenti il datore di lavoro dovrà cercare altrove.
Il lavoro intermittente esplose e, dopo alcuni tentativi, la riforma Fornero decise di limitarlo agli under 24 e agli over 55. Ironicamente potremmo dire che la riforma Fornero non volle privare i giovani del loro protagonismo nel lavoro a chiamata. Secondo quanto riporta il Rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie del 2013 (relativo ai dati 2012) del Ministero del Lavoro, i rapporti di lavoro intermittente coinvolgevano principalmente i giovani: «nel 2012 sono stati avviati 223.532 (il 32% del totale) lavoratori nella fascia di età 15-24 anni e 194.941 (ovvero 28% del totale) nella classe 25-34 anni». Si tratta principalmente di contratti a chiamata a tempo determinato, l’8% circa in entrambi i casi.
L’efficacia della riforma Fornero in termini di riduzione del lavoro a chiamata è registrata dai dati: l’incidenza degli avviamenti di contratti a chiamata sul totale dei contratti torna ai valori del 2010 (4%), la metà rispetto al picco massimo raggiunto a inizio 2012, circa l’8%, come riporta l’Isfol nel rapporto del 2015.
Solo una cosa non toccò la riforma del lavoro intermittente attuata dal governo Monti: i rapporti di forza tra datori di lavoro e lavoratori. E non è un caso, perché la flessibilità non è neutra: scarica il suo peso sulla parte più debole, il lavoratore, in balìa del ricatto della disoccupazione. Gioco facile per le aziende, a cui la Fornero dimenticò di apporre un limite massimo complessivo di lavoratori a chiamata: come abbiamo visto, la legge dispose infatti un tetto massimo per ciascun lavoratore, non più di 400 giornate lavorative in un triennio. Ma alle aziende fu accordato il diritto di usare le 400 giornate di ciascun lavoratore e poi cambiarlo con un altro sempre a chiamata. Quindi, i datori di lavoro non soltanto potevano assumere a volontà lavoratori a chiamata (a parte i casi esclusi dai contratti collettivi nazionali che, si sa, vivono ormai in costante difensiva), ma potevano e ancora oggi possono esercitare il proprio potere di ricatto usando i contratti intermittenti senza l’esercizio della messa in disponibilità, così da non dover neppure versare le somme dovute per il periodo di non lavoro. Il ricatto scaturisce sempre da quella tensione messa in atto dall’esercito di riserva, le masse di disoccupati alla disperata ricerca di un posto di lavoro. Non accettare quanto chiesto dal datore di lavoro espone direttamente alla perdita dello stesso, ma piegarsi al ricatto significa contestualmente cedere un diritto.
Un’offerta da non rifiutare, soprattutto se giovani e inesperti, così come suggerì il ministro!
Così è stato per Chiara che, dopo due anni, si è licenziata dall’ipermercato in cui faceva la cassiera. Ha lavorato 510 giornate in due anni, oltre il limite. Non ha prove e non può denunciare. Quando ci siamo incontrate non sapeva che l’essere a disposizione dell’azienda è qualcosa per cui le sarebbe spettato un compenso, che andava scritto nel contratto. L’azienda non gliel’ha mai detto e i sindacati non li ha mai visti. Ha accettato la prima offerta e l’hanno sfruttata.
Come si diceva, alle restrizioni all’uso del contratto a chiamata fu affiancata, sempre nel 2012, la totale liberalizzazione dei voucher. Nati nel 2003, i buoni lavoro erano rivolti a regolarizzare i lavori occasionali e accessori, di tipo domestico o in agricoltura. Bisognava fare qualcosa contro il lavoro nero, si diceva, anche a costo o supportando l’idea di un impoverimento di fasce crescenti della forza lavoro. Una questione di priorità o pura formalità, parafrasando i Cccp.
L’idea geniale, quasi fantascientifica, fu quella di creare e liberalizzare uno strumento incostituzionale per porre rimedio a un’attività irregolare. Uno strumento che si compra facilmente dal tabaccaio e sempre lì si riscuote. Ogni settimana, Giorgio si sveglia e va al tabacchi sotto casa. Ha con sé venti voucher: 150 euro. Gli habitués delle slot machine vivono con estrema invidia la riscossione di Giorgio, pensano sia una vincita ottenuta a quelle maledette macchinette in cui finisce quotidianamente la loro pensione. Vagli a spiegare che è uno stipendio! Vagli a spiegare che le bollette non le porta con sé perché o fa la spesa o paga luce e gas.
Secondo il principio di lucidità, la bulimia con cui il legislatore (nei fatti, sia i governi che i Parlamenti) si è scatenato nella deregolamentazione dei voucher rispecchia intenzioni ben più profonde: abbattere fortemente il costo del lavoro a scapito dei lavoratori.
Trent’anni dalla scomparsa del grande attore e sembra ieri…
Sembra ieri…«Eh! Si, ho chiamato. Ho chiamato perchè je vuleva sapè cumm’è stu fatto che a me mi stanno succerenno disgrazie una appriess’a n’ata! Je nun pozz’ campà ‘cchiù!», scriveva Massimo Troisi nel suoDialogo con Dio.
«[…]”Non fornicare”… che significa non fornicare? Tu saje ca je aggio fornicato senza sapè? No, je penzave ‘e furmiche! Eh! Penzave ‘e furmiche! […]».
Trent’anni fa ci lasciava Massimo Troisi, l’attore del sorriso e dei sentimenti. Nato a San Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli, il 19 febbraio 1953, cominciò la sua carriera con gli amici del gruppo «I Saraceni», divenuto poi «La Smorfia», Lello Arena ed Enzo Decaro.
Un successo inatteso che lanciò Troisi verso l’esordio al cinema con «Ricomincio da tre» (1981), che ne consacrò il suo successo da attore e regista, regalandogli subito due David di Donatello, tre nastri d’argento e due Globi d’oro. Fu da allora che si dedicò esclusivamente al cinema, interpretandone 12, cinque dei quali diretti da lui stesso.
Un artista, Troisi, capace di portare il dialetto napoletano fuori dai confini territoriali e di renderlo comprensibile a tutte e tutti, grazie alla sua mimica, alla sua ironia, alla sua arguzia, e alla sua infinita dolcezza. Che emerge con forza nel suo ultimo capolavoro, Il Postino.
Nelle rappresentazioni di Troisi abbondano anche i riferimenti del suo retroterra religioso. Come non ricordare della Smorfia: La Natività, La fine del mondo, Angelo e Diavolo, Il Dialogo Con Dio o San Gennaro…
«A casa nostra i santi son stati sempre presenze vive. Venivano rispettati come amici di famiglia. Massimo era colpito dal fatto che mia madre pregava in continuazione san Giuseppe. “Stava in buoni rapporti” con lui… Proprio come dice nello sketch di san Gennaro…», scrive Rosaria Troisi nel libro, Oltre il respiro (Iacobelli), sorella dell’attore.
I problemi cardiaci che hanno condizionato la vita, sin dall’infanzia, del piccolo Massimo non gli hanno impedito di vivere una vita appieno, di condividerla con una moltitudine di persone all’insegna del sarcasmo, ironico, foriero di una timida e spiccata empatia : «Quando tornammo dall’America io stessa non mi capacitavo di come Massimo fosse riuscito a superare l’intervento. E lui mi rispose: “È stata la mano di Dio”. Compresi allora quanto aveva pregato», scrisse ancora la sorella Rosaria nel libro.
Una mano, quella di Dio, condivisa con tanti amici artisti, giornalisti, calciatori. Da Pino Daniele a Renzo Arbore, da Gianni Minà al suo amico Maradona che capitanava la squadra vicina al suo fragile cuore.
Cosa ci resta oggi di Troisi? Non ci resta che piangere di nostalgia profonda, consapevoli dell’eredità che ci ha consegnato. Oggi le televisioni italiane renderanno omaggio, a un grande uomo, a un grande attore; al Pulcinella (se lo intendiamo come l’uomo che pur conscio dei problemi è sempre riuscito a venirne fuori con un sorriso) senza maschera e che, con semplicità, ironia, e tanta arguzia, ha saputo incantare e far emozionare l’Italia intera.
Chissà cosa si staranno dicendo ora lui e Dio? Beh… non lo sapremo mai, ma siamo in grado di immaginare la scena. Questa è già una preziosa eredità.
Articolo di di Gian Mario Gillio –Fonte Riforma.it, Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Principale esponente della nuova comicità napoletana nata agli albori degli anni 1970 e soprannominato «il comico dei sentimenti»[1] o il «Pulcinella senza maschera»,[2].
Formatosi sulle tavole del palcoscenico e naturale erede designato di Eduardo e Totò,[3][4] fu accostato anche a Buster Keaton e Woody Allen.[5][6] Cominciò la sua carriera assieme agli inossidabili amici del gruppo I Saraceni, divenuto La Smorfia,Lello Arena ed Enzo Decaro. Il successo del trio, inatteso e immediato, consentì al giovane Troisi di esordire al cinema con Ricomincio da tre (1981), il film che ne decretò il successo sia come attore che come regista. Dall’inizio degli anni ottanta si dedicò esclusivamente al cinema, interpretando 12 film, 5 dei quali diretti da lui stesso.[7]
Adoperò uno stile personale che esaltava una capacità espressiva verbale, mimica e gestuale con la quale combinava ruoli prettamente comici a quelli più riflessivi.
Troisi indicò al cinema italiano una via per un’escursione rivitalizzante con in più uno sguardo attento alla società italiana e alla Napoli successive al terremoto del 1980, alle nuove ideologie, al femminismo, all’autoironia crescente e all’affermazione della soggettività individualista. Con lui nacque il nuovo tipo napoletano dell’antieroe, vittima dei tempi moderni, personaggio fragile[8] che riflette tuttora i dubbi e le preoccupazioni delle nuove generazioni.[9][10]
Occasionalmente si distinse anche al di fuori della recitazione, lasciando altri contributi: scrisse infatti ‘O ssaje comme fa ‘o core, poesia messa in musica dall’amico Pino Daniele, un’allusione tanto alle patologie al cuore (comuni a Troisi e Daniele) quanto al romanticismo.[11]
traduzione e introduzione di Franco Fortini, Oscar Mondadori, Milano, 1985
Biografia di Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952), poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.
Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir, che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le devoir et l’inquiétude e i Poèmes pour la paix.
Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese, quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tzara.
Collabora intanto a diverse riviste d’avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des réves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels.
Nel 1923 il nascente surrealismo si contrappone al senescente dadaismo, ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e Breton, al nuovo movimento.
L’animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.
Nello stesso anno, colto da una crisi interiore, Paul abbandona improvvisamente Parigi e per sette mesi non dà notizie di sé, tanto da essere considerato morto. In realtà egli compie un lungo viaggio per mare da Marsiglia al Pacifico per fuggire alle contraddizioni che lo tormentavano. Ritorna a Parigi nell’ottobre del 1924 e presto riprende la sua attività nell’avanguardia. Continua a scrivere versi e nel 1925 pubblica 152 proverbes mis au goût du jour, in collaborazione con Péret e Au défaut du silence, con illustrazioni di Max Ernst; nel 1926 esce Capitale de la douleur e Les dessous d’une vie ou la pyramide humaine. Sempre nel 1926 aderisce al partito comunista e con la pubblicazione di Capitale de la douleur viene riconosciuto come “il più poetico rappresentante della scuola surrealista”. Da quel momento vive in modo appassionato la vita del gruppo con mostre, incontri, proteste, libri, riviste, riunioni surrealiste.
Nel 1929 esce Défense de savoir con un frontespizio di Giorgio De Chirico e L’amour la poésie.
Gli anni che vanno dal 1930 al 1938 vedono Éluard impegnato contro la repressione della società mentre si fa sempre più vicina la violenza della dittatura fascista che porta all’avvento di Hitler in Germania e alla vittoria di Franco in Spagna.
In questo periodo egli si allontana dal partito anche se non partecipa integralmente alle critiche che i surrealisti, ormai su una linea trotzkista, muovono all’Unione Sovietica, non sottoscrive il manifesto di protesta surrealista per il primo processo di epurazione politica di Mosca nel 1936 e non aderisce alla Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria fondata da Breton.
Pubblica in questi anni molti libri tra i quali A toute épreuve (1930), Le vie immédiate (1932), La rose publique (1934), Facile (1935), Les yeux fertiles (1936), Les mains libres (1937), Cours naturel (1938).
Nel settembre del 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Éluard viene richiamato come tenente per prestare servizio nell’intendenza, ma nel giugno del 1940, data che segna il crollo della Francia davanti a Hitler, egli viene smobilitato e può rientrare a Parigi.
Nel 1942 chiede nuovamente l’iscrizione al partito comunista francese (P.C.F.) e fa parte del movimento clandestino, contrassegnando il suo contributo alla resistenza con edizioni di libri di versi e di giornali alla macchia e trasmissioni radiofoniche clandestine. È del ’42 la sua famosa poesia Liberté.
Nel febbraio del 1944 Éluard rientra a Parigi ancora occupata dai tedeschi e il 25 agosto dello stesso anno avviene la liberazione.
Risalgono a questi anni Chanson complète e Mèdieuses (1939), Le livre ouvert, I e II (1940 e 1941), Poésie et vérité (1942), Au rendez-vous allemand (1942-1945), Le lit table (1944).
Dopo la liberazione e alla fine del conflitto, Éluard si impegna con il comunismo e compie numerosi viaggi nei paesi dell’Europa orientale, appoggia, in Grecia, la lotta per la liberazione e in Italia prende parte attivamente, nel 1946, alla campagna per l’avvento della Repubblica.
Nei primi giorni di settembre 1952, Éluard ha un attacco di angina pectoris e il 18 novembre dello stesso anno, in seguito ad un nuovo attacco, muore.
Sono degli ultimi anni di vita del poeta molte opere, tra le quali Poésie ininterrompue (1946) – la cui seconda parte viene pubblicata postuma, nel 1953 – Le dur désir de durer , sempre nel 1946, Poèmes politiques nel 1948, Une leçon de morale (1949), Tout dire e Le Phénix (1951).
Poesie di Paul ELUARD, Poeta francese
Novembre 1936
Guardateli al lavoro i costruttori di macerie
Sono ricchi pazienti neri ordinati idioti
Ma fanno quel che possono per esser soli al mondo
Sono agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco
Piegano fino a terra palazzi senza capo.
*
A tutto ci si abitua
Ma a questi uccelli di piombo no
Ma non al loro odio per tutto quel che luccica
Non a lasciarli passare.
*
Parlate del cielo e il cielo si vuota
Poco c’importa l’autunno
I nostri padroni hanno pestato i piedi
Noi l’abbiamo dimenticato l’autunno
Dimenticheremo i padroni.
*
Città in secca oceano d’una goccia scampata
Di un unico diamante coltivato alla luce
Madrid città fraterna a chi ha patito
Lo spaventoso bene che nega essere esempio
A chi ha patito
L’angoscia indispensabile perché splenda quel bene
*
E alla sua verità salga la bocca
Raro alito sorriso come rotta catena
E l’uomo liberato dal suo passato assurdo
Levi innanzi ai fratelli un volto uguale
E alla ragione dia vagabonde ali.
Da « Cours naturel » (1938)
La vittoria di Guernica
1
Bel mondo di tuguri
Di miniere e di campi
2
Visi buoni al fuoco visi buoni al freddo
Ai rifiuti alla notte agli insulti alla frusta
3
Visi buoni a tutto
Ecco il vuoto vi fissa
La vostra morte servirà d’esempio
4
Morte cuore rovescio
5
Vi han fatto pagare il pane
Il cielo la terra l’acqua il sonno
E la miseria
Della vostra vita
6
Dicevano di volere il buon accordo
Razionavano i forti giudicavano i pazzi
Facevano l’elemosina spartivano in due un soldo
Salutavano i cadaveri
Si colmavano di cortesie
7
Perseverano esagerano non sono del nostro mondo
8
Le donne e i bimbi hanno lo stesso tesoro
Di primavera verde e latte puro
E di durata
Nei loro occhi puri
9
Le donne e i bimbi hanno lo stesso tesoro
Negli occhi
Gli uomini come possono lo difendono
10
Le donne e i bimbi hanno negli occhi
Le stesse rose rosse
Mostra ognuno il suo sangue
11
La paura e il coraggio di vivere e morire
Tanto difficile la morte tanto facile
12
Uomini per cui questo tesoro fu cantato
Uomini per cui questo tesoro fu sprecato
13
Uomini reali cui la disperazione
Alimenta la fiamma divorante della speranza
Apriamo insieme l’ultima gemma dell’avvenire
14
Paria la morte la terra l’orrore
Dei nemici hanno il colore
Monotono della nostra notte
E noi li vinceremo.
Da « Cours naturel » (1938)
Dubitare del delitto
Una corda una torcia un sol uomo
Strangolò dieci uomini
Arse un villaggio
Avvilì un popolo
La dolce gatta acquattata nella vita
Come una perla nella sua conchiglia
La dolce gatta ha mangiato i gattini
Da « Poésie et vérité 1942 » (1942)
Far vivere
Erano pochi uomini che vivevano nella notte
Sognando del cielo materno
Erano pochi uomini che amavano la selva
Credendo al legno ardente
Fin da lontano beati al profumo dei fiori
La nudità dei desideri li velava
Il respiro ritmato univano nel cuore
All’ambizione minima di vita naturale
Che nell’estate cresce come estate più forte
Alla speranza del tempo venturo
E che pur da lontano altro tempo saluta
Univano nel cuore
Amori più ostinati del deserto
Pochissimo sonno bastava
Per renderli al sole futuro
Duravano sapevano che vivere fa eterni
Dal buio dei sogni generavano luce
*
Erano pochi uomini
Furono folla a un tratto
Sempre è stato così. Da « Au rendez-vous allemand » (1942-1945)
I
Tutte le donne felici hanno
Ritrovato il loro marito egli torna dal sole
Tanto è il calore che porta.
Ride e piano saluta
Prima di dare un bacio alla sua meraviglia.
II
Splendida, il seno teso leggermente,
Santa mia donna, sei mia più di quando
Con lui, e lui e lui e lui e lui,
Io reggevo un fucile, un bidone – la vita!
VII
Per molto tempo ho avuto un volto inutile
Ma ora
Ho un volto per essere amato
Un volto per essere felice.
X
Sogno di tutte le belle
Che di notte vanno in giro,
Lente e calme,
Con la luna che viaggia.
XI
Tutto il fiore dei frutti m’illumina il giardino,
Gli alberi di bellezza e gli alberi da frutta
E io lavoro e sono solo nel mio giardino,
E il Sole cupo fuoco arde sulle mie mani.
Da « Poèmes pour la paix » (1918)
Zampa
Il gatto nella notte si fissa per gridare,
Nell’aria libera, nella notte, il gatto grida.
E triste, a altezza d’uomo, l’uomo ode quel grido.
Da « Les animaux et leurs hommes » (1920)
L’innamorata
Mi sta dritta sulle palpebre
E i suoi capelli sono nei miei,
Di queste mie mani ha la forma,
Di questi miei occhi ha il colore,
Dentro l’ombra mia s’affonda
Come un sasso in cielo.
Tiene gli occhi sempre aperti
Né mi lascia mai dormire.
I suoi sogni in piena luce
Fanno evaporare i soli,
E io rido, piango e rido,
Parlo e non so che dire.
Senza rancore
Lacrime delle palpebre, dolori dei dolenti,
Dolori che non contano e lacrime incolori.
Non chiede nulla, lui, non è insensibile,
Triste nella prigione e triste quand’è libero.
È un tempo tetro, è una notte nera
Da non mandare in giro nemmeno un cieco. I forti
Siedono, il potere è in pugno ai deboli,
E in piedi è il re, vicino alla regina assisa.
Sorrisi e sospiri, insulti imputridiscono
Nella bocca dei muti e negli occhi dei vili.
Non toccar nulla! Qui brucia, là arde;
Codeste mani son per le tasche e le fronti.
*
Un’ombra…
Tutta la pena del mondo
E il mio amore addosso
Come una bestia nuda.
Da « Mourir de ne pas mourir » (1924)
Non smetto ma per così dire di parlare di te eppure l’essenziale è presto detto.
Quando l’alba leva gli artigli
E il primo versante di selva
Tra riflessi di brividi
L’abisso delle vette s’apre
Quando a picco ti s’apre la veste
E dà alla luce il corpo tenero
E offre il seno lustrato docile
Seno che mai ha lottato
Ranuncoli tigrati di piombo
Eclissi fatali a chi è forte
Gradi di ermellino immolato
O quando in volto ti turbi
Quel che mi piace del tuo volto è l’apparire
D’un lume ardente in pieno giorno.
Da « La rose publique » (1934)
Nessuno può conoscermi
Nessuno può conoscermi
Come tu mi conosci
Gli occhi tuoi dove dormiamo
Tutti e due
Alle mie luci d’uomo han dato sorte
Migliore che alle notti della terra
Gli occhi tuoi dove viaggio
Han dato ai gesti delle strade un senso
Separato dal mondo
Negli occhi tuoi coloro che ci svelano
La solitudine nostra infinita
Non sono più quel che credevan essere
Nessuno può conoscerti
Come io ti conosco.
Da « Les yeux fertiles » (1936)
Un lupo
La buona neve il cielo nero
Le rame morte lo squallore
Della selva piena d’insidie
Onta alla bestia inseguita
La fuga in freccia nel cuore
Tracce d’una atroce preda
Dàgli al lupo e quello è sempre
Il lupo più bello ed è sempre
L’ultimo vivo sotto la minaccia
Dell’assoluta massa di morte.
Da « Poésie et vérité 1942 » (1942)
Sorelle di speranza
Sorelle di speranza o donne coraggiose
Contro la morte avete stretto un patto
Quello di unir le virtù dell’amore
Sopravvissute sorelle
Vi giocate la vita
Perché la vita vinca
Vicino è il giorno o mie sorelle di grandezza
Che delle parole guerra e miseria noi rideremo
Di quanto fu amarezza nulla resisterà
Ogni viso avrà diritto alle carezze.
Da « Poèmes politiques » (1948)
Buona giustizia
È la calda legge d’uomini
Con le uve fanno vino
Col carbone fanno fuoco
Con i baci fanno uomini
È la dura legge d’uomini
Rimanere integri contro
E la guerra e la sciagura
Contro i rischi della morte
È la dolce legge d’uomini
Tramutare l’acqua in luce
Ed i sogni in realtà
E in fratelli i tuoi nemici
Una legge antica e nuova
che si va compiendo e va
Dal cuore infante che non sa
Fino alla ragion suprema.
Da « Tout dire » (1951)
AVVERTENZA:tutti i testi qui presentati sono tratti da:
Paul Éluard POESIE traduzione e introduzione di Franco Fortini Oscar Mondadori Milano, 1985
Pubblicato da Antonino Caponnetto venerdì 13 aprile 201
Biografia di Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952), poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.
Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir, che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le devoir et l’inquiétude e i Poèmes pour la paix.
Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese, quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tzara.
Collabora intanto a diverse riviste d’avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des réves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels.
Nel 1923 il nascente surrealismo si contrappone al senescente dadaismo, ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e Breton, al nuovo movimento.
L’animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.
Nello stesso anno, colto da una crisi interiore, Paul abbandona improvvisamente Parigi e per sette mesi non dà notizie di sé, tanto da essere considerato morto. In realtà egli compie un lungo viaggio per mare da Marsiglia al Pacifico per fuggire alle contraddizioni che lo tormentavano. Ritorna a Parigi nell’ottobre del 1924 e presto riprende la sua attività nell’avanguardia. Continua a scrivere versi e nel 1925 pubblica 152 proverbes mis au goût du jour, in collaborazione con Péret e Au défaut du silence, con illustrazioni di Max Ernst; nel 1926 esce Capitale de la douleur e Les dessous d’une vie ou la pyramide humaine. Sempre nel 1926 aderisce al partito comunista e con la pubblicazione di Capitale de la douleur viene riconosciuto come “il più poetico rappresentante della scuola surrealista”. Da quel momento vive in modo appassionato la vita del gruppo con mostre, incontri, proteste, libri, riviste, riunioni surrealiste.
Nel 1929 esce Défense de savoir con un frontespizio di Giorgio De Chirico e L’amour la poésie.
Gli anni che vanno dal 1930 al 1938 vedono Éluard impegnato contro la repressione della società mentre si fa sempre più vicina la violenza della dittatura fascista che porta all’avvento di Hitler in Germania e alla vittoria di Franco in Spagna.
In questo periodo egli si allontana dal partito anche se non partecipa integralmente alle critiche che i surrealisti, ormai su una linea trotzkista, muovono all’Unione Sovietica, non sottoscrive il manifesto di protesta surrealista per il primo processo di epurazione politica di Mosca nel 1936 e non aderisce alla Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria fondata da Breton.
Pubblica in questi anni molti libri tra i quali A toute épreuve (1930), Le vie immédiate (1932), La rose publique (1934), Facile (1935), Les yeux fertiles (1936), Les mains libres (1937), Cours naturel (1938).
Nel settembre del 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Éluard viene richiamato come tenente per prestare servizio nell’intendenza, ma nel giugno del 1940, data che segna il crollo della Francia davanti a Hitler, egli viene smobilitato e può rientrare a Parigi.
Nel 1942 chiede nuovamente l’iscrizione al partito comunista francese (P.C.F.) e fa parte del movimento clandestino, contrassegnando il suo contributo alla resistenza con edizioni di libri di versi e di giornali alla macchia e trasmissioni radiofoniche clandestine. È del ’42 la sua famosa poesia Liberté.
Nel febbraio del 1944 Éluard rientra a Parigi ancora occupata dai tedeschi e il 25 agosto dello stesso anno avviene la liberazione.
Risalgono a questi anni Chanson complète e Mèdieuses (1939), Le livre ouvert, I e II (1940 e 1941), Poésie et vérité (1942), Au rendez-vous allemand (1942-1945), Le lit table (1944).
Dopo la liberazione e alla fine del conflitto, Éluard si impegna con il comunismo e compie numerosi viaggi nei paesi dell’Europa orientale, appoggia, in Grecia, la lotta per la liberazione e in Italia prende parte attivamente, nel 1946, alla campagna per l’avvento della Repubblica.
Nei primi giorni di settembre 1952, Éluard ha un attacco di angina pectoris e il 18 novembre dello stesso anno, in seguito ad un nuovo attacco, muore.
Sono degli ultimi anni di vita del poeta molte opere, tra le quali Poésie ininterrompue (1946) – la cui seconda parte viene pubblicata postuma, nel 1953 – Le dur désir de durer , sempre nel 1946, Poèmes politiques nel 1948, Une leçon de morale (1949), Tout dire e Le Phénix (1951).
Coi miei piccoli occhi ho visto grandi folle applaudire un uomo, mascella prominente e pugni ai fianchi, che incitava alla guerra contro lontana gente dalla pelle scura, per conquistare un impero. Ho visto coi miei occhi ciurme cupe inquadrate dietro ferrigni mostri, sguainando i pugnali, giurare fedeltà a fasci e svastiche: invincibili si credevano, ai più parevano invincibili. E ho visto tutto questo sfarsi miseramente.
Danilo Dolci, che fu definito “il Gandhi italiano”. E’ stato una delle figure più luminose della nonviolenza, generosissimo militante per la pace, la giustizia, la solidarietà, un educatore e un poeta. Come tante altre persone anch’io molte cose ho imparato da lui, anch’io ho avuto il suo aiuto ogni volta che glielo chiesi, anch’io ne serbo una memoria grata che non si estingue. Era l’umanità come dovrebbe essere. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo si adoperi per farne conoscere ai giovani la figura, l’azione, le riflessioni, le opere. Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani”. Grazie a Roberta Covelli
Danilo Dolci, la lezione (da non dimenticare) del Gandhi italiano.
Fonte- Vita Società Editoriale S.p.A.
Sociologo, educatore, ancora oggi è riconosciuto tra le figure di massimo rilievo della nonviolenza a livello mondiale. Una biografia da rileggere, a partire da uno dei suoi fondamentali: nessun vero cambiamento possa prescindere dal coinvolgimento, dalla partecipazione diretta degli interessati.
Di seguito riportiamo una sintetica ma accurata nota biografica scritta da Giuseppe Barone (comparsa col titolo “Costruire il cambiamento” ad apertura del libricino di scritti di Danilo, Girando per case e botteghe, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2002)
Danilo Dolci nasce il 28 giugno 1924 a Sesana, in provincia di Trieste. Nel 1952, dopo aver lavorato per due anni nella Nomadelfia di don Zeno Saltini, si trasferisce a Trappeto, a meta’ strada tra Palermo e Trapani, in una delle terre piu’ povere e dimenticate del paese. Il 14 ottobre dello stesso anno da’ inizio al primo dei suoi numerosi digiuni, sul letto di un bambino morto per la denutrizione. La protesta viene interrotta solo quando le autorita’ si impegnano pubblicamente a eseguire alcuni interventi urgenti, come la costruzione di una fogna. Nel 1955 esce per i tipi di Laterza Banditi a Partinico, che fa conoscere all’opinione pubblica italiana e mondiale le disperate condizioni di vita nella Sicilia occidentale. Sono anni di lavoro intenso, talvolta frenetico: le iniziative si susseguono incalzanti. Il 2 febbraio 1956 ha luogo lo “sciopero alla rovescia”, con centinaia di disoccupati – subito fermati dalla polizia – impegnati a riattivare una strada comunale abbandonata. Con i soldi del Premio Lenin per la Pace (1958) si costituisce il “Centro studi e iniziative per la piena occupazione”. Centinaia e centinaia di volontari giungono in Sicilia per consolidare questo straordinario fronte civile, “continuazione della Resistenza, senza sparare”.
Si intensifica, intanto, l’attivita’ di studio e di denuncia del fenomeno mafioso e dei suoi rapporti col sistema politico, fino alle accuse – gravi e circostanziate – rivolte a esponenti di primo piano della vita politica siciliana e nazionale, incluso l’allora ministro Bernardo Mattarella (si veda la documentazione raccolta in Spreco, Einaudi, Torino 1960 e Chi gioca solo, Einaudi, Torino 1966). Ma mentre si moltiplicano gli attestati di stima e solidarieta’, in Italia e all’estero (da Norberto Bobbio a Aldo Capitini, da Italo Calvino a Carlo Levi, da Aldous Huxley a Jean Piaget, da Bertrand Russell a Erich Fromm), per tanti avversari Dolci e’ solo un pericoloso sovversivo, da ostacolare, denigrare, sottoporre a processo, incarcerare. Ma quello che e’ davvero rivoluzionario e’ il suo metodo di lavoro: Dolci non si atteggia a guru, non propina verita’ preconfezionate, non pretende di insegnare come e cosa pensare, fare. E’ convinto che nessun vero cambiamento possa prescindere dal coinvolgimento, dalla partecipazione diretta degli interessati.
La sua idea di progresso non nega, al contrario valorizza, la cultura e le competenze locali. Diversi libri documentano le riunioni di quegli anni, in cui ciascuno si interroga, impara a confrontarsi con gli altri, ad ascoltare e ascoltarsi, a scegliere e pianificare. La maieutica cessa di essere una parola dal sapore antico sepolta in polverosi tomi di filosofia e torna, rinnovata, a concretarsi nell’estremo angolo occidentale della Sicilia. E’ proprio nel corso di alcune riunioni con contadini e pescatori che prende corpo l’idea di costruire la diga sul fiume Jato, indispensabile per dare un futuro economico alla zona e per sottrarre un’arma importante alla mafia, che faceva del controllo delle modeste risorse idriche disponibili uno strumento di dominio sui cittadini. Ancora una volta, pero’, la richiesta di acqua per tutti, di “acqua democratica”, incontrera’ ostacoli d’ogni tipo: saranno necessarie lunghe battaglie, incisive mobilitazioni popolari, nuovi digiuni, per veder realizzato il progetto. Oggi la diga esiste (e altre ne sono sorte successivamente in tutta la Sicilia), e ha modificato la storia di decine di migliaia di persone: una terra prima aridissima e’ ora coltivabile; l’irrigazione ha consentito la nascita e lo sviluppo di numerose aziende e cooperative, divenendo occasione di cambiamento economico, sociale, civile.
Negli anni Settanta, naturale prosecuzione del lavoro precedente, cresce l’attenzione alla qualita’ dello sviluppo: il Centro promuove iniziative per valorizzare l’artigianato e l’espressione artistica locali. L’impegno educativo assume un ruolo centrale: viene approfondito lo studio, sempre connesso all’effettiva sperimentazione, della struttura maieutica, tentando di comprenderne appieno le potenzialita’. Col contributo di esperti internazionali si avvia l’esperienza del Centro Educativo di Mirto, frequentato da centinaia di bambini. Il lavoro di ricerca, condotto con numerosi collaboratori, si fa sempre piu’ intenso: muovendo dalla distinzione tra trasmettere e comunicare e tra potere e dominio, Dolci evidenzia i rischi di involuzione democratica delle nostre societa’ connessi al procedere della massificazione, all’emarginazione di ogni area di effettivo dissenso, al controllo sociale esercitato attraverso la diffusione capillare dei mass-media; attento al punto di vista della “scienza della complessita’” e alle nuove scoperte in campo biologico, propone “all’educatore che e’ in ognuno al mondo” una rifondazione dei rapporti, a tutti i livelli, basata sulla nonviolenza, sulla maieutica, sul “reciproco adattamento creativo” (tra i tanti titoli che raccolgono gli esiti piu’ recenti del pensiero di Dolci, mi limito qui a segnalare Nessi fra esperienza etica e politica, Lacaita, Manduria 1993; La struttura maieutica e l’evolverci, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1996; e Comunicare, legge della vita, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1997).
Quando la mattina del 30 dicembre 1997, al termine di una lunga e dolorosa malattia, un infarto lo spegne, Danilo Dolci e’ ancora impegnato, con tutte le energie residue, nel portare avanti un lavoro al quale ha dedicato ogni giorno della sua vita. Tra le molte opere di Danilo Dolci, per un percorso minimo di accostamento segnaliamo almeno le seguenti: una antologia degli scritti di intervento e di analisi e’ Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari 1974; tra i libri di poesia: Creatura di creature, Feltrinelli, Milano 1979; tra i libri di riflessione piu’ recenti: Dal trasmettere al comunicare, Sonda, Torino 1988; La struttura maieutica e l’evolverci, La Nuova Italia, Firenze 1996. Recente e’ il volume che pubblica il rilevante carteggio Aldo Capitini, Danilo Dolci, Lettere 1952-1968, Carocci, Roma 2008. Tra le opere su Danilo Dolci: Giuseppe Fontanelli, Dolci, La Nuova Italia, Firenze 1984; Adriana Chemello, La parola maieutica, Vallecchi, Firenze 1988 (sull’opera poetica di Dolci); Antonino Mangano, Danilo Dolci educatore, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1992; Giuseppe Barone, La forza della nonviolenza. Bibliografia e profilo critico di Danilo Dolci, Libreria Dante & Descartes, Napoli 2000, 2004 (un lavoro fondamentale); Lucio C. Giummo, Carlo Marchese (a cura di), Danilo Dolci e la via della nonviolenza, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2005; Raffaello Saffioti, Democrazia e comunicazione. Per una filosofia politica della rivoluzione nonviolenta, Palmi (Rc) 2007. Tra i materiali audiovisivi su Danilo Dolci cfr. i dvd di Alberto Castiglione: Danilo Dolci. Memoria e utopia, 2004, e Verso un mondo nuovo, 2006.
Il Museo Preistorico di Pofi è stato istituito nel 1961 dal sindaco Pietro Fedele dopo la scoperta di un’ulna umana fossile, associata a resti di faune estinte e manufatti litici, nelle sabbie vulcaniche della Cava Pompi, in quel tempo aperta nel territorio di Pofi. La sede attuale, aperta al pubblico dal marzo 2001, si trova nel fabbricato destinato ai servizi culturali, insieme alla Biblioteca, all’Archivio Storico e alla Sala conferenze. Il progetto scientifico e di allestimento è stato curato da Italo Biddittu, archeologo; il progetto tecnico è stato curato dall’ing. Francesco Chiarelli e dall’architetto Tommaso Brasiliano.
IL TERRITORIO
Il Museo presenta le testimonianze dell’uomo preistorico nel Lazio meridionale interno. Il percorso inizia (area 1) con una ricostruzione stratigrafica, un plastico del territorio, e con pannelli bilingue italiano-inglese, che riassumono le principali tappe dell’evoluzione del pianeta dalla Pangea fino agli aspetti della geologia regionale. Gli eventi più significativi del passato, che hanno contribuito alla morfologia del paesaggio e che hanno interferito con la presenza dell’uomo sono legati alla estensione di grandi bacini lacustri ora scomparsi e agli apparati del “Vulcanismo Ernico” con centri che sono stati attivi tra 700.000 e 110.000 anni. Tra questi viene dato particolare risalto nel museo all’apparato poligenico di Pofi, attivo tra 430.000 e 110.000 anni, del quale si possono osservare nella morfologia del paesaggio quattro o cinque crateri principali. Nel museo sono esposti, tra l’altro, una bomba lavica di notevoli dimensioni e di forma particolarmente interessante.
OMINIDI FOSSILI (Argil l’uomo di Ceprano)
Nelle aree 2 e 3 sono trattati i temi dell’origine ed evoluzione dell’uomo attraverso l’esposizione di calchi di ominidi dagli Australopiteci (Lucy, Australopithecus afarensis) ai primi uomini africani (Homo rudolfensis, Homo habilis, Homo ergaster), la diffusione in Asia (Homo georgicus, Homo erectus), l’arrivo in Europa. Questa sezione didattica del Museo si è arricchita recentemente con l’acquisizione di numerosi calchi (circa 180) tra fossili umani, manufatti e resti di fauna, che costituiscono un nucleo importante nelle collezioni didattiche e di confronto del Museo. L’esposizione del cranio dell’Uomo di Ceprano (500.000 anni, noto anche come Argil), tra i più antichi fossili umani europei, rappresenta una tappa importante nel percorso del Museo. Il riconoscimento che il fossile ha avuto in campo internazionale per la sua particolare morfologia,con tratti arcaici uniti ad altri più evoluti, tanto da suggerire la creazione di una nuova specie e la presenza di numerosi siti archeologici con manufatti e faune del Paleolitico inferiore, hanno dimostrato l’importanza del Lazio meridionale per le conoscenze sull’evoluzione biologica e tecnologica dell’umanità preistorica. Nel percorso, articolato in senso cronologico, sono esposti anche i resti fossili umani di ulna e tibia rinvenuti nella cava di “pozzolana” di Giovanni Pompi (area 6), in attività negli anni sessanta del secolo scorso a Pofi. Il record fossile della provincia di Frosinone è completato anche dai quattro denti umani rinvenuti nel giacimento di Fontana Ranuccio di Anagni, datato con il metodo K-Ar 458.000 anni (area 4).
PALEONTOLOGIA
La fauna pleistocenica esposta è rappresentata da numerosi esemplari di Elephas antiquus, il gigantesco elefante che viveva nel Lazio meridionale, contemporaneo degli ominidi che spesso utilizzavano porzioni delle diafisi per realizzare manufatti in osso, alcuni particolarmente elaborati. Di questa specie sono esposti nel museo due crani, uno di giovane ed uno di adulto, alcune mandibole, 5 difese, coxale e femore dello stesso individuo, le ossa di un piede in connessione anatomica; questi reperti sono stati rinvenuti a Pofi, Ceprano, Isoletta, S. Giovanni Incarico, Strangolagalli.
Il genere Mammuthus è rappresentato con le tre specie M. meridionalis (da Castro dei Volsci), M. trogontherii (da Isoletta) e M. primigenius (da Veroli S. Anna), (aree 4, 5, 6 e 7). Sono esposti anche notevoli resti di cervi, buoi, rinoceronti, ippopotami. Particolarmente interessanti sono i resti paleobotanici (strobili di conifere, semi, “ciottoli” di legno modellati dall’azione delle acque sulle rive del bacino Lirino e i resti di molluschi di acqua dolce provenienti dal giacimento di Isoletta (Arce). Manufatti in pietra realizzati con la tecnologia del Modo 1 sono stati rinvenuti nei livelli sottostanti a quelli in cui era il cranio dell’uomo di Ceprano, e sono presenti anche nei giacimenti di Arce, Fontana Liri, Castro dei Volsci.
Si tratta di una tecnologia molto antica, che unitamente ai dati stratigrafici ricavati dallo studio dei giacimenti ricordati, pone l’arrivo dell’uomo nel Lazio meridionale intorno ad un milione di anni fa (area 3). Non sappiamo ancora per quanto tempo siano sopravvissuti nell’Italia centrale gli ominidi di questa prima fase di esplorazione del nostro territorio. E’ comunque un dato di fatto che 600.000 anni fa si diffondono in Europa gruppi umani che conoscono una nuova tecnologia nella lavorazione della pietra, indicata come Modo 2, rappresentata soprattutto da un manufatto a simmetria bilaterale ottenuto con distacchi bifacciali, noto come “amigdala”.
La relativa diffusione di questo manufatto, in siti datati tra 458.000 anni (Anagni- Fontana Ranuccio) e 250.000 anni (Ceprano-Campogrande-Colle Avarone, Arce-Isoletta, S.Giovanni Incarico-Lademagne, Pontecorvo-Cava Panzini, Aquino-Cava Pelagalli, Casalvieri), associato naturalmente ad una varietà di strumenti su ciottolo e su scheggia, sembra indicare una maggiore adattabilità agli ambienti e alle variazioni climatiche degli artefici di questo aspetto culturale. (aree 4 e 5 ) Nel museo è possibile osservare una copia della splendida amigdala in osso rinvenuta nel giacimento di Anagni Fontana-Ranuccio, datato col metodo del Potassio-Argon 458.000 anni, ottenuta scheggiando una porzione di spesso osso di elefante.
I resti fossili umani attribuiti a questa umanità (quattro denti da Anagni-Fontana Ranuccio 458.000 anni; ulna, tibia e frammento di cranio da Pofi-Cava Pompi 400.000 anni, esposti nel Museo) vengono raggruppati, secondo la terminologia attuale, nella specie Homo heidelbergensis.
IL PALEOLITICO MEDIO
Come è stato notato in molte regioni europee anche nel Lazio meridionale appare sfuggente, per assenza di giacimenti ben datati, una fase di transizione tra il Paleolitico inferiore e il Paleolitico medio. Quello che appare invece evidente, per le testimonianze rappresentate da manufatti tipologicamente riferibili a questa fase presenti in giacimenti in grotta e all’aperto, è la diffusione delle tracce della presenza di gruppi umani di Homo neanderthalensis.
Nel Lazio meridionale interno sono importanti i giacimenti di Sora e Carnello nei quali sono stati rinvenuti manufatti del Paleolitico medio di tecnica levalloisiana associati ad abbondante fauna fossile con specie di habitat freddo. Altri siti con manufatti di questa epoca, esposti nel museo, sono quelli di Pofi, Ceprano, Vicalvi, Isola Liri, Cassino.
Nel Museo un insieme importante è rappresentato dai manufatti rinvenuti in superficie, per l’interessamento di Pietro Fedele, in varie zone del territorio comunale di Pofi (soprattutto da Mola Sterbini). Per l’illustrazione didattica dell’umanità neandertaliana nel Museo sono esposti i calchi del cranio Saccopastore 1 rinvenuto a Roma, e Guattari 1 rinvenuto al Monte Circeo (area 7).
IL PALEOLITICO SUPERIORE
La diffusione in Europa dell’uomo anatomicamente moderno (Homo sapiens) viene posta, anche se con cronologia differenziata da regione a regione, intorno ai 40.000 anni fa. Nel Lazio meridionale interno sono, per ora, scarse le testimonianze di questa nuova fase dell’Età della pietra, e sono in gran parte derivate da rinvenimenti in superficie. Le aree di provenienza dei manufatti esposti nel Museo sono soprattutto quelle di Pofi-Mola Sterbini mentre rari manufatti provengono da Ceprano-Colle Avarone e da Anagni-Paduni (area 8).
Nella regione sono noti i giacimenti in grotta di Collepardo (Peschio Ranaro) attribuito ad una fase dell’Epigravettiano finale datato 9.730 B.P. La fauna è rappresentata da stambecco più abbondante, capriolo, cinghiale, marmotta, ermellino, gatto selvatico. Altri reperti in grotta provengono da Trevi nel Lazio e da Anagni-Osteria della Fontana.
IL NEOLITICO E L’ETA’ DEI METALLI
Il percorso finale del Museo (area 8) illustra le ultime fasi della preistoria fino alle soglie della protostoria. Si tratta di una sezione per ora poco estesa che sintetizza, con i rari rinvenimenti neolitici di Sora, Canterno e Ceccano, la trasformazione del mondo dei cacciatori in quello degli agricoltori-pastori (passaggio da una economia di “prelievo” a quella di produzione). La rarità dei siti riferibili al Neolitico nel Lazio meridionale interno, imputabile probabilmente solo alla carenza delle ricerche, rappresenta un vuoto nella documentazione che si spera possa essere colmato con le future ricerche. Con l’Età del rame e del bronzo, alle quali sono destinati due espositori con materiali di Pofi, S.Giovanni Incarico e Ceprano, termina il percorso del Museo.
Sezione tattile per non vedenti e per bambini: Il percorso del Museo è stato progettato per offrire ai non vedenti e ai bambini la possibilità di manipolare sia oggetti originali sia modelli di peso equivalente dei più importanti reperti esposti. La maggior parte degli espositori è fornita di contenitori nei quali sono messi a disposizione dei visitatori modelli di reperti, calchi di crani umani fossili illustrati da testi in Braille per non vedenti. Su prenotazione si effettuano visite guidate e attività di laboratorio anche per non vedenti.
Informazioni utili
Indirizzo: Via S. Giorgio, 28, 03026 Pofi (Fr)
Tipologia di Museo: a Indirizzo: Via S. Giorgio, 28, 03026 Pofi FR
Giorni e orari di apertura: martedì, sabato e domenica: 09.30-13.00. Lunedì, mercoledì, giovedì e venerdì: aperti su prenotazione
Biglietto di ingresso:
Ingresso Gratuito fino a 5 anni e oltre 65 e diversamente abili
[Da 6 a 18 anni] Biglietto d’ingresso: 2,00 Euro – Visita guidata: 1,00 Euro – Laboratorio: 1,00 Euro – Scavo simulato: 1,00 Euro
[Da 19 a 64 anni] Biglietto d’ingresso: 2,50 Euro – Visita guidata individuale: 10,00 Euro – Visita guidata fino a 20 persone: 20,00 Euro
Memorie e Lettere-La fede come pietra angolare dell’amore –
Alcune settimane fa vi abbiamo presentato il volume “Memorie e lettere“, che raccoglie il diario di Emma Rochat e le lettere del marito pastore Carlo Gay, a cavallo dell’ultimo conflitto mondiale. Intense corrispondenze e appunti personali che ricostruiscono una storia d’amore e di ideali.
Qui di seguito vi proponiamo alcune riflessioni che una delle figlie della coppia, Livia, ha voluto condividere a seguito della presentazione del libro e dopo un dialogo con fratelli e sorelle.
La presentazione del libro è il risultato di un confronto fra di noi, i 5 figli di Emma e Carlo ancora in vita (Paolo, Marco, Giovanna, Erica e io, Livia); un’occasione per riflettere sulle nostre radici e interrogarci sulla eredità spirituale.
Per me la lettura di questi testi è stata di aiuto per capire meglio mio padre. Nostra madre ha avuto un ruolo più diretto, meno “misterioso”: era lei che si è occupava delle cose concrete dell’accudimento.
Questo libro presenta prima una memoria autobiografica di nostra madre (dalla sua nascita nel 1915 al 1964), poi le lettere di nostro padre, da lei ricopiate e da cui ha tolto le parti più intime e sentimentali; inviate dal 1936 al 1938 durante il fidanzamento, in cui si sono visti molto poco. Nel 1939 si sono sposati, a 21 e 23 anni.
Vi consiglio di iniziare la lettura dal primo capitolo delle Memorie di Emma, che arriva fino all’incontro con Carlo, poi passare alle lettere. Leggetele come un romanzo di formazione. Vi sono riportate le sue riflessioni, letture e studi e soprattutto descritte le esperienze di aiutopastore in varie comunità (nelle valli valdesi, ad Aosta, a Milano, in Sicilia e a Basilea in Svizzera).
Dopo la lettura delle lettere riprendete le Memorie: avrete così nell’insieme una specie di romanzo storico, sentimentale, esistenziale, di una coppia e poi di una famiglia.
Ecco alcune notizie sui due personaggi.
Emmina, alta atletica, l’ultima di 4 figli. Nasce a Firenze nel 1915. Il padre, medico di famiglia, è di origine svizzera, mentre i nonni materni sono l’una inglese e l’altro francese.
Scrive: “Mio padre era adatto a questo ruolo – di medico- ed era molto amato…. non tutti ricevevano il conto, naturalmente nè i pastori, nè le opere delle Chiesa Valdese”.
Per lei, nell’infanzia ed adolescenza, lezioni di pianoforte, ginnastica svedese, passeggiate e visite ai musei e alle chiese di Firenze. Si laurea in lettere nel 1938.
Ancora dalla memoria: “Quando mia sorella ebbe 18 anni -scrive- mi ricordo di aver sentito dire dai miei genitori: “Il faut aller aux le Valleès autrement cette fille epousera un catholique!…..” .
Scrive: “L’argomento di cui avevo maggiormente sentito parlare in casa era l’antifascismo, in nome della dignità, verità, autenticità dell’uomo.”
“…. in prima liceo ….ci trovammo di fronte a un professore ebreo bravissimo, che ci insegnò a ragionare e a non accontentarsi delle soluzioni facili.”
Carlo, nato a Perosa Argentina (Torino) nel 1913, famiglia valdese, la madre originaria dalla valle di Massello, secondo di sei figli, perde presto il padre. Nel 1934 si laurea in Giurisprudenza e nel 1938 in Teologia e poi in Scienze Politiche. Si consacra pastore nel ’38 e insieme vanno a Riesi dove lui ha la sua prima sede pastorale. Ai 23 anni conosce bene tre lingue.
Cosa si dicono sulla coppia basata, oltre che sull’amore, sulla fede e sulla vocazione di Carlo al pastorato?
Carlo. Dalle lettere. “Sento che la mia vita per essere limpida deve essere personale e al fatto di sentirmi come imbalsamato in un cilindro di acciaio nella posizione ufficiale di pastore mi fa dubitare di trovarmi nella posizione di quei profeti che profetizzano “benché io non li abbia mandati e non abbia dato loro alcun ordine” (Geremia. 23).”
Visite ai parenti anziani: “ ….Infine il vecchio mi disse “Toi etudie Theologie? Bravo!” e mi batte le mani sulla schiena; e la vecchia “vous avez la foi de pasteur?“. A tali scene e parole tremavo in me stesso come sotto l’impressione di una generazione passata, che mi giudicasse e non potevo dar loro risposte precise.”
“Hai ragione di sentirti sicura della nostra unione; io ti prometto fedeltà dinanzi a Dio e davanti a Lui ti scelgo come compagna di viaggio su questa terra, e con Dio non si scherza.”
“Emmina, ricordami sempre di non tradire per nessuna ragione la mia coscienza, perché tante volte si è stufi di tutto e si vorrebbe considerare ogni ideale superiore …… come un ostacolo a una vita senza turbamenti e senza noie così gravose.”
Emma. Nel ricordare la sua vita a Firenze, prima di incontrare Carlo, Emma racconta: “Mi piaceva di tanto in tanto andare nello studio di mio padre. ……oltre ai libri di scienza c’erano in uno scaffale raccolti alcuni libri religiosi”. Aprendo uno di quei libri: “…ebbi la rivelazione che la ragione (la scienza) aveva un limite e che bisognava lanciarsi oltre quel limite, nel mondo della fede per incontrare la Verità e l’Eternità; bisognava affidarsi oltre le nostre capacità.”.
“Avevo avuto qualche attrazione e simpatia per compagni di scuola…. ma ero molto timorosa in quel campo; decisa a non lasciarmi andare se non per una completa adesione intellettuale e spirituale.”
Da una sua risposta ad una lettera di nostro padre:
“…siamo in acque difficili, ma sai che ti voglio seguire sempre e confido che le supereremo; in ogni caso so che la via da seguire è quella della Croce.”
“Che sia facile nel pastorato, quale è ora, cadere nel borghesismo e compromesso lo vedo anch’io, ma mi domando se sia la colpa degli individui più che del pastorato in sè. Lotta, lotta pure con tutto che sarò sempre con te.”
Carlo. “ Ricordati che un compito di amore e umiltà ci aspetta domani. “
“Il rischio della vita del pastore sai qual è? …….è soprattutto il pericolo di diventare “possidenti” e buffoni, diffusori di tutti i più scemi ideali umani, che forse oggi disprezziamo e che domani, fiaccati forse dalla vita, cominceremo a lisciare; odiosa fine degna di essere calpestata dagli uomini! Ma spero che Dio rinsalderà il nostro appello, che Egli rimarrà l’ospite disturbatore e acquietante di casa nostra; se un giorno, dimenticassi la serietà, sarai tu, che sarai la mia più prossima compagna, che dovrai energicamente e senza pietà (falsa pietà e falso amore) additarmi il possibile fallimento.”
“Non credo che sarebbe o sia una cristianizzazione in sé e per sé la parificazione dei diritti dell’ uomo e di quelli della donna: relatività delle leggi umane! Ci è però imposta anche qui un’obbedienza a Dio; quindi fedeltà reciproca e più ancora della semplice morale umana, elevazione del matrimonio ad ambiente in cui Dio è centro e ragione prima e ultima dell’esistenza; quindi compito di educazione dei figli nella Parola.. …..Intenderei perciò il matrimonio oltreché nel suo carattere di continuità (che può anche essere banale) nel suo svolgersi di continue, rinnovate e fedeli decisioni dei 2 coniugi.”
“…….qualsiasi posizione si accetti non è di per sé cristiana, se è statica e generale e non attuale e personale.”
Qualche nostra osservazione.
Quanto di “verticalità”, trascendenza, è contenuto nel progetto della coppia come descritta dal testo!! Possiamo immaginare una base come questa, condivisa per 59 anni, in cui nascono e crescono sei figli!!? Non è facile! La quotidianità l’ha messa a dura prova. Ma non mi sembra l’abbia smentita. Hanno attraversato la condizione del fascismo, la guerra, la lotta partigiana, i lutti in famiglia.
Una coppia che si presenta unita, non solo nella Fede; che poco si presta ai “giochetti” dei figli per dividere i genitori. Per chiedere attenzione i figli dovevano affermarsi con forza nello sviluppo della loro personalità.
L’uomo è quello che propone, la donna sceglie di aderire e partecipare, seguace e garante con profonda sintonia. Due progetti un pò diversi, sempre in linea con la cultura del loro tempo: uno, quello maschile, basato sulla guida della comunità valdese, l’altro sulla relazionalità d’amore e l’accudimento dei figli. Partecipazione e divisione dei compiti.
Mamma ha sacrificato la sua realizzazione professionale? Ci facciamo delle domande, ma è giusto leggere la situazione di allora con la visione che abbiamo oggi?
Possiamo pensare al dispositivo del battesimo in cui i genitori si impegnano, di fronte a Dio, di trasmettere, insegnare, la Parola. Intensità emotiva, ben di più di un “ruolo” genitoriale; un impegno nel formare qualcosa di sostanziale e fondante nei figli; non parziale, ma totale per l’insieme della loro personalità. Base della famiglia cristiana.
Data questa intensità emotiva, quali le scelte pedagogiche? Ci soffermiamo su alcune differenze: quello calvinista/svizzero e quello valligiano. Per lei per esempio era una scelta precisa non dare peso alle “cose”. Nella famiglia di nostro padre non si disdegnavano affatto i piaceri, la cura del cibo e altri aspetti “materiali”.
Pensiamo ad un aspetto ambivalente della pedagogia: un “pedagogismo” più vicino ad un insieme di regole e al concetto di “morale”. Un approccio diverso quello di nostro padre: piuttosto una sequenza di enigmi offerto ai figli che inducono a pensare, lasciando il campo aperto a risposte diverse e incerte. Meno “sicurezze” , ma anche stimoli ad un pensiero personale e ad una ricerca di senso, profonda e autonoma.
Certo che siamo nati e cresciuti in una famiglia non comune!
Il padre-papà pastore sostanzialmente mite viene vissuto molto indaffarato con la comunità, ma anche dal punto di vista intellettuale. Il mantra ai figli è così ispirato: “Lo spirito soffia come e quando vuole”. Questo messaggio viene vissuto come espressione di libertà e tolleranza, altre volte viene sospettata una delega di responsabilità paterna a un altrove non ben determinato.
I sermoni del padre generalmente piacciono ai figli, per lo meno nella dimensione poetica-umanizzata piuttosto che nell’assertività teologica.
La madre-mamma viene vissuta come presente, accudente, per lo più ‘ragionevole’, a volte quasi troppo.
È in lei presente una purezza ritrosa, con uno sfondo passionale. Protettiva come una leonessa. Madre coraggio nella vita dei figli.
Purezza e tratto virginale si impongono nella relazione con l’adolescenza delle ragazze, spalleggiata dal padre fin troppo complice ed elegante. Il suo atteggiamento incute paura e rispetto, ma anche severità e giudizio. Nello sfondo si muove una passione mai doma in una fisicità potente.
In nostra madre ricordiamo la diversità dal tradizionale approccio italiano: un insegnamento della gestione del corpo indirizzato verso la libertà di espressione, nel movimento e nel vestito, al di là delle differenze di genere e delle convenzioni, un’attenzione moderna alla salute e alla cura del corpo. Amore verso la natura, anche selvaggia ed incontaminata, amore per la libertà e l’armonia nella consapevolezza del movimento del corpo.
La ricordo quando da sola esce dall’acqua al mare……..a ottanta anni, senza bisogno di aiuto.
La relazione educativa era uguale verso i maschi e verso le femmine? No.
Al riguardo si impone il tema della sessualità. Forse coerente con gli aspetti sessuofobici dell’epoca? O conta l’influenza pietista? Il padre si teneva in seconda linea, in ombra, su questi aspetti. La relazione tra la madre e le figlie è stata anche carica di problemi, difficoltà di comprensione, delusioni vicendevoli. Dobbiamo tenere conto che si tratta dell’epoca in cui i sistemi di contraccezione non sono diffusi, in cui di sessualità si parla a fatica, prima della legge sull’aborto e dell’istituzione del divorzio….
Possiamo solo ora accennare alla diversa concezione della sessualità tra il pensiero cattolico e quello protestante; più preciso nell’elenco di cosa è “peccato” il primo, più “psicologico”, che invita ad una responsabilità personale più individuale, in ambito protestante.
Il tema della responsabilità personale è stato importante e abbiamo avuto la sensazione che a volte l’ideale, la tensione verso l’alto, abbia dato ombra alla considerazione per l’orizzontalità; lo sguardo verso il “basso” delle emozioni leggermente offuscato (“… o troppo vicini o troppo lontani”, senza armonia”, viene detto).
Ancora due concetti che voglio mettere in evidenza come eredità che chiamo spirituale: l’abitudine a non evitare l’impegno nello studio e nel lavoro, anzi una dedizione quasi appassionata, e un’attenzione al mondo degli altri e della politica in senso generale che fa scrivere a nostro padre: “L’unica sia pure pericolosa soluzione della nostra naturale attitudine a ripiegarsi su noi stessi è quella di aprirci alle gioie e ai dolori degli altri…”.
Fonte- Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
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