Da ragazza visse per un breve periodo nella casa della deceduta Edna St. Vincente Millay, dove aiutò la sorella di costei, Norma, nel riordino e nella conservazione delle carte di famiglia. Negli anni cinquanta ha frequentato sia l’Ohio State University che il Vassar College, ma senza conseguirvi diplomi. Ha abitato a Provincetown, Massachusetts, per più di quarant’anni. La sua partner, Molly Malone Cook, le ha fatto da agente letterario per tutta la vita.
Opera
Intensa e gioiosa osservatrice del mondo naturale, Mary Oliver viene spesso paragonata a Walt Whitman e Henry David Thoreau. Le sue poesie sono ricche di immagini quotidiane provenienti dalle paludi vicino a casa sua a Provincetown: pivieri, serpenti d’acqua, le fasi della luna e le megattere, sono gli elementi maggiormente rappresentati. Maxine Kumin chiama la Oliver “una pattugliatrice delle paludi” allo stesso modo in cui Thoreau era un esploratore delle “bufere di neve” e “una infaticabile guida al mondo naturale”.[1] La sua opera, infatti, rappresenta uno dei punti più elevati della poesia consacrata alla natura. Coi suoi lavori ha aperto molte strade per la presa di coscienza della crisi ambientale. Oliver usa uno stilelinguistico semplice e chiaro per far condividere ai lettori il suo amore per gli altri esseri viventi. La sua casa è la “Grande Madre” terra che onora nelle sue poesie.
No Voyage, and Other Poems (1963, prima edizione; 1965, (edizione ampliata)
The River Styx, Ohio, and Other Poems (1972)
The Night Traveler (1978)
Twelve Moons (1978)
Sleeping in the Forest (1979)
American Primitive (1983)
Dream Work (1986)
Provincetown (1987, edizione limitata con incisioni in legno di Barnard Taylor)
House of Light (1990)
New and Selected Poems (1992)
A Poetry Handbook (1994)
White Pine: Poems and Prose Poems (1994)
Blue Pastures (1995)
West Wind: Poems and Prose Poems (1997)
Rules for the Dance: A Handbook for Writing and Reading Metrical Verse (1998)
Winter Hours: Prose, Prose Poems, and Poems (1999)
The Leaf and the Cloud (2000, poema in prosa)
What Do We Know (2002)
Owls and Other Fantasies: poems and essays (2003)
Why I Wake Early: New Poems (2004)
Blue Iris: Poems and Essays (2004)
Long Life: Essays and Other Writings (2004)
New and Selected Poems, volume two (2005)
At Blackwater Pond: Mary Oliver Reads Mary Oliver (2006, audio cd)
Thirst: Poems (2006)
Our World (2007) con fotografie realizzate da Molly Malone Cook
Mary Oliver – Poetessa statunitense LE OCHE SELVATICHE
*
Non devi essere buono.
Non devi trascinarti ginocchioni,
pentito, per cento miglia attraverso il deserto.
Devi soltanto permettere a quel mite animale, al tuo corpo, di amare ciò che ama.
Parlami della tua disperazione, io ti racconterò la mia.
Intanto, il mondo va avanti.
Intanto, il sole e gli splendenti sassolini della pioggia
attraversano i paesaggi,
passano sopra le praterie e gli alberi dalle profonde radici,
sopra le montagne e i fiumi.
Intanto, le oche selvatiche, alte nel limpido azzurro,
fanno nuovamente ritorno a casa.
Chiunque tu sia, per quanto tu possa essere solo,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti manda il suo richiamo come le oche selvatiche, aspro ed eccitante:
annuncia incessantemente la tua appartenenza
alla famiglia delle cose.
—————————————————–
Mary Oliver – Tre inediti dalla Rivista ATELIER-(Traduzione di Giuseppe d’Abramo)
Il sole
Hai mai visto
niente
nella tua vita
di più prodigioso
del modo in cui il sole,
ogni sera,
ampio e disteso,
fluttua verso l’orizzonte
dentro nuvole e colline,
o nel mare spiegazzato,
per perdersi –
e come sbuchi ancora
fuori dall’oscurità,
ogni mattina,
dall’altra parte del mondo,
come un fiore rosso
galleggiando verso l’alto sui suoi oli celesti,
diciamo, un mattino di inizio estate,
alla sua perfetta suprema distanza –
e hai mai sentito per qualcosa
un tale amore selvaggio –
pensi che esista in qualche posto, in una qualsiasi lingua,
una parola che si gonfi abbastanza
per il piacere
che ti riempie,
mentre il sole
si allunga,
ti riscalda
quando sei lì in piedi
a mani vuote –
o anche tu ti sei allontanato
da questo mondo –
oppure
sei impazzito
per il potere,
per il possesso?
Alcune domande che potresti fare
L’anima è solida come il ferro?
O è tenera e fragile come le ali
di una falena nel becco di un gufo?
Chi ce l’ha, e chi no?
Continuo a guardarmi intorno.
La faccia dell’alce è triste
come la faccia di Gesù.
Il cigno apre lentamente le sue ali bianche.
In autunno, l’orso bruno trasporta le foglie nell’oscurità.
Una domanda segue l’altra.
Possiede una forma? Come un iceberg?
Come l’occhio di un colibrì?
Ha un polmone, come il serpente o il pettine di mare?
Perché dovrei averla io e non il formichiere
che ama i suoi cuccioli?
Perché io e non il cammello?
Pensaci bene, che dire degli alberi d’acero?
Cosa dell’iride blu?
Cosa dire di tutti i sassolini seduti soli al chiaro di luna?
Cosa dire delle rose, e dei limoni, e delle loro foglie lucenti?
Che dire dell’erba?
Dormendo nella foresta
Pensavo che la terra si ricordasse di me, che
mi riportasse indietro così teneramente, sistemandosi
la gonna scura, le tasche piene di semi
e di licheni. Dormivo come mai prima d’ora,
una pietra sul letto del fiume, nulla
tra me e il fuoco bianco delle stelle,
soltanto i miei pensieri che si libravano
agili come falene tra i rami
degli alberi perfetti. Per tutta la notte
sentivo attorno a me i piccoli regni
respirare, gli insetti e gli uccelli che svolgono
il loro lavoro nell’oscurità. Per tutta la notte
caddi e mi rialzai, come in acqua, lottando
con un destino luminoso. Al mattino
ero svanita almeno una dozzina di volte
in qualcosa di migliore.
Mary Oliver (1935-2019)-Poetessa statunitense, vincitrice del National Book Awards 1992 e del Premio Pulitzer 1984, è autrice di 32 raccolte poetiche e di quattro saggi sulla poesia. Il New York Times l’ha definita “Di gran lunga, la poetessa di questo paese che ha venduto di più”.
Giuseppe D’Abramo (1988), laureato in Lettere Moderne, vive a Milano. Ha pubblicato poesie e racconti sulle riviste Atelier, Gradiva, Inchiostro, Sagarana, Grado Zero, A4, Il Raccoglitore e su la Repubblica di Roma e Milano per Bottega di poesia.
– Matilde SERAO Le più belle pagine scelte da Alberto Consiglio -Treves Editore Milano1934-
Articolo di Giulio MARZOT scritto per la Rivista PAN n°12 del 1935-
Breve biografia di Matilde Serao nasce a Patrasso, in Grecia, il 7 marzo del 1856. Matilde Serao,Scrittrice di prestigio, tra le più prolifiche di sempre della letteratura italiana, con oltre settanta opere al suo attivo, è passata alla storia anche per essere stata la prima donna italiana a fondare e dirigere un giornale. Al suo nome infatti, si lega quell’intenso momento di rinnovamento del giornalismo italiano che segna il passaggio dall’Ottocento al Novecento, ossia da un modo di fare informazione ancora tutto sommato artigianale, ad un altro tipo più efficace e impegnato, oltre che tecnologicamente avanzato. La città nella quale lavorò più intensamente e con risultati migliori è Napoli, dopo l’iniziale esperienza romana. La rubrica “I mosconi”, prima chiamata “Api, vespe e mosconi”, inventata proprio da lei sul foglio di Edoardo Scarfoglio, “Il Mattino”, è senza ombra di dubbio una delle trovate più acute e di prestigio della storia del giornalismo italiano.
Trascorre i primi anni della sua vita in Grecia, assorbendo però la cultura italiana di suo padre, Francesco Serao, avvocato e giornalista antiborbonico mandato in esilio negli anni tumultuosi dell’Unificazione. Sua madre, Paolina Borely, è invece una nobile greca, appartenente però ad una famiglia ormai in declino .Con l’Unità d’Italia la famiglia Serao ritorna in patria, prima a Ventaroli, vicino Carinola, e poi a Napoli, dove Matild-e compie i propri studi, per quanto in modo del tutto singolare. Il rientro in patria in realtà è datato 1860: le voci di un’imminente vittoria contro i Borboni hanno raggiunto anche il padre della piccola Matilde, che dal 1848, anno del suo allontanamento forzato, si guadagna da vivere come insegnante in terra greca.
Dal 1861, Francesco Serao inizia la sua attività di giornalista per “Il Pungolo”, foglio d’ispirazione liberale e molto apprezzato dal popolo napoletano. Pur nelle ristrettezze economiche nelle quali si trovano a vivere, che impediscono alla futura scrittrice di compiere studi scolastici ordinari, la giovanissima Serao frequenta e apprezza sin dagli anni dell’infanzia e della prima adolescenza l’ambiente che più le sarà familiare: quello della redazione di un giornale.
All’età di quindici anni, dopo essersi data da fare negli studi soprattutto da autodidatta si presenta in qualità di semplice uditrice alla Scuola Normale “Eleonora Pimentel Fonseca”, in Piazza del Gesù, a Napoli. Sono anni di svolta per lei e l’anno dopo, infatti, nel 1872, Matilde abiura la confessione ortodossa, trasmessale dalla madre, e si converte al cattolicesimo. Nell’arco di poco tempo allora, ottiene anche il diploma di maestra, pur continuando ad aiutare le finanze della famiglia. Vince, infatti, un concorso come ausiliaria ai Telegrafi di Stato: professione che la impegna per ben quattro anni, nei quali però matura in lei definitivamente l’amore per la letteratura e per l’impegno giornalistico. Nel 1878, dopo aver scritto qualche articolo per il Giornale di Napoli, spesso con lo pseudonimo di “Tuffolina”, a ventidue anni porta a termine la sua prima novella, dal titolo “Opale”. Questa viene pubblicata dal Corriere del Mattino. Nel 1882 allora, si trasferisce a Roma, dove prende parte all’avventura editoriale del “Capitan Fracassa”, trattando con disinvoltura argomenti diversi, dalla cronaca rosa alla critica letteraria. In questo periodo, il suo pseudonimo è “Ciquita”.
Ad aprirle le porte della narrativa italiana a tutti gli effetti è “Fantasia”, pubblicato nel 1883 e, non a caso, aspramente criticato proprio dall’uomo che ben presto diventerà suo marito, Edoardo Scarfoglio. Il giornalista, animatore culturale e versato poeta, commenta in modo molto negativo l’opera della Serao, stroncando di fatto, sul giornale letterario “Il libro Don Chisciotte”, l’allora giovane scrittrice. Tuttavia, il loro incontro segna anche l’inizio di una delle vicende d’amore più tormentate e turbolente della storia della letteratura e del giornalismo italiano.
Già nel 1885 i due si sposano, forti dell’esperienza giornalistica che condividono in quei mesi al “Corriere di Roma”, altro foglio molto importante in questo periodo, fondato proprio dallo stesso Scarfoglio. Intanto la Serao non rinuncia né al suo ruolo di madre né a quello di scrittrice. Nascono Antonio, Carlo, Paolo e Michele, dall’unione con Scarfoglio, ma vedono la luce anche “Il ventre di Napoli”, nel 1884, “La conquista di Roma”, del 1885, “Il romanzo della fanciulla”, del 1886, e il libro che Benedetto Croce non esita a definire “il romanzo del giornalismo italiano”, ossia “Vita e avventure di Riccardo Joanna”, pubblicato nel 1887.
È un momento florido dal punto di vista letterario questo che vive la scrittrice, e la letteratura nazionale se ne avvarrà sempre, aumentando la sua fama nel corso degli anni e soprattutto dopo la sua morte.
Tra “Il paese di cuccagna” e “La virtù di Cecchina” però, datati rispettivamente 1891 e 1906, opere non meno importanti delle summenzionate per quanto minori, si colloca l’idillio e la fine tragica della relazione tra la Serao e suo marito. I due infatti, chiuso il foglio romano, si recano a Napoli, dove danno vita al “Corriere di Napoli”. Il foglio ha problemi economici ma segna una svolta nel panorama meridionale, almeno dal punto di vista della libertà di informazione. Sulle pagine dirette dalla scrittrice poi, quelle culturali, compaiono firme illustri, come quelle di Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio.
L’esperienza dura poco ma permette ai due compagni di vita e di lavoro di dare vita, nel 1891, al ben noto “Il Mattino”, che vede Scarfoglio come direttore e la Serao come co-direttrice. Da questo momento però, all’ascesa del foglio partenopeo fa da contraltare la caduta della coppia, soprattutto a causa del marito dell’autrice. Scarfoglio, infatti, è un uomo poco tranquillo sul piano sentimentale.
Nell’estate del 1892 conosce Gabrielle Bessard, una cantante di teatro. Tra loro nasce una relazione, per giunta agevolata dalla fuga, a causa di un litigio, della Serao, la quale si reca da sola in villeggiatura, presso una località della Val d’Aosta. Passano due anni e Gabrielle rimane incinta. Scarfoglio allora la abbandona, e torna dalla moglie. Ma il 29 agosto del 1894 la Bessard si presenta sulla porta della casa di Scarfoglio e della Serao e, dopo aver posato a terra la piccola figlioletta nata dalla loro unione, si spara un colpo mortale alla tempia.
Matilde Serao, nonostante il clamore suscitato dalla notizia comparsa su tutti i giornali, non esita a prendersi cura dalla piccola Paolina, decidendo di allevarla comunque. Tuttavia, esasperata dai comportamenti del marito, decide di lasciarlo e di lasciare, con lui, anche quella che è la sua vera creatura, il quotidiano “Il Mattino”.
Il giornale, come se non bastasse, rimane coinvolto anche nello scandalo dell’amministrazione Sulmonte che finisce per tirare dentro, tra polemiche e calunnie, anche la stessa scrittrice, accusata di aver goduto di certi privilegi economici in cambio di favori. Scarfoglio coglie la palla al balzo e se la difende, sua moglie, lo fa solo ed esclusivamente con il doppio fine di umiliarla e di salvare la propria reputazione. Tra il 1902 e il 1903, l’abbandono del giornale è ufficiale: la Serao è disoccupata a tutti gli effetti.
Nello stesso periodo però entra nella sua vita un altro giornalista, l’avvocato Giuseppe Natale. Con questi allora, senza perdersi d’animo, Matilde fonda e dirige, unica nella storia del giornalismo italiano, il giornale “Il Giorno”, diretta emanazione delle sue idee politiche e culturali. Dall’unione con Natale, Nasce anche Eleonora, di lì a poco, chiamata così dalla scrittrice per dimostrare il suo affetto per l’attrice Eleonora Duse. Il giornale, più pacato del concorrente “Mattino”, ottiene un buon successo di vendite.
Nel 1917, morto Scarfoglio, Matilde Serao sposa Giuseppe Natale, ufficializzando così la loro unione sotto ogni punto di vista, per giunta solo qualche anno prima della morte di lui. Nel 1926, l’autrice riceve la candidatura a premio Nobel per la Letteratura, che verrà poi assegnato a Grazia Deledda, altra grande voce della letteratura italiana al femminile.
Il 25 luglio del 1927, all’età di 71 anni, Matilde Serao muore a Napoli, sulla sua scrivania, durante l’ennesimo momento di scrittura della sua esistenza. Di lei si ricorda il carattere profondamente sanguigno, sottolineato da una grande napoletanità. Nella città di Napoli era considerata un personaggio tanto popolare che si dice che quando passava in carrozzella, i monelli gridavano a gran voce: “Sta panno a signurì!” (Sta passando la signora!). Sebbene non avesse basi culturali tali da raggiungere un’importante profondità linguistica fu senza dubbio una grande figura nel campo del giornalismo: va ricordata in tal senso la sua idea, creativa e precorritrice, di trovare nuovi abbonati ai suoi giornali attraverso concorsi e cadeaux di varia natura.
Articolo di Giulio MARZOT scritto per la Rivista PAN n°12 del 1935-
Biografia di Matilde Serao- Patrasso 1856 – Napoli 1927-
Matilde Serao nasce a Patrasso, in Grecia, il 7 marzo del 1856.Scrittrice di prestigio, tra le più prolifiche di sempre della letteratura italiana, con oltre settanta opere al suo attivo, è passata alla storia anche per essere stata la prima donna italiana a fondare e dirigere un giornale. Al suo nome infatti, si lega quell’intenso momento di rinnovamento del giornalismo italiano che segna il passaggio dall’Ottocento al Novecento, ossia da un modo di fare informazione ancora tutto sommato artigianale, ad un altro tipo più efficace e impegnato, oltre che tecnologicamente avanzato. La città nella quale lavorò più intensamente e con risultati migliori è Napoli, dopo l’iniziale esperienza romana. La rubrica “I mosconi”, prima chiamata “Api, vespe e mosconi”, inventata proprio da lei sul foglio di Edoardo Scarfoglio, “Il Mattino”, è senza ombra di dubbio una delle trovate più acute e di prestigio della storia del giornalismo italiano.
Trascorre i primi anni della sua vita in Grecia, assorbendo però la cultura italiana di suo padre, Francesco Serao, avvocato e giornalista antiborbonico mandato in esilio negli anni tumultuosi dell’Unificazione. Sua madre, Paolina Borely, è invece una nobile greca, appartenente però ad una famiglia ormai in declino .Con l’Unità d’Italia la famiglia Serao ritorna in patria, prima a Ventaroli, vicino Carinola, e poi a Napoli, dove Matild-e compie i propri studi, per quanto in modo del tutto singolare. Il rientro in patria in realtà è datato 1860: le voci di un’imminente vittoria contro i Borboni hanno raggiunto anche il padre della piccola Matilde, che dal 1848, anno del suo allontanamento forzato, si guadagna da vivere come insegnante in terra greca.
Dal 1861, Francesco Serao inizia la sua attività di giornalista per “Il Pungolo”, foglio d’ispirazione liberale e molto apprezzato dal popolo napoletano. Pur nelle ristrettezze economiche nelle quali si trovano a vivere, che impediscono alla futura scrittrice di compiere studi scolastici ordinari, la giovanissima Serao frequenta e apprezza sin dagli anni dell’infanzia e della prima adolescenza l’ambiente che più le sarà familiare: quello della redazione di un giornale.
All’età di quindici anni, dopo essersi data da fare negli studi soprattutto da autodidatta si presenta in qualità di semplice uditrice alla Scuola Normale “Eleonora Pimentel Fonseca”, in Piazza del Gesù, a Napoli. Sono anni di svolta per lei e l’anno dopo, infatti, nel 1872, Matilde abiura la confessione ortodossa, trasmessale dalla madre, e si converte al cattolicesimo. Nell’arco di poco tempo allora, ottiene anche il diploma di maestra, pur continuando ad aiutare le finanze della famiglia. Vince, infatti, un concorso come ausiliaria ai Telegrafi di Stato: professione che la impegna per ben quattro anni, nei quali però matura in lei definitivamente l’amore per la letteratura e per l’impegno giornalistico. Nel 1878, dopo aver scritto qualche articolo per il Giornale di Napoli, spesso con lo pseudonimo di “Tuffolina”, a ventidue anni porta a termine la sua prima novella, dal titolo “Opale”. Questa viene pubblicata dal Corriere del Mattino. Nel 1882 allora, si trasferisce a Roma, dove prende parte all’avventura editoriale del “Capitan Fracassa”, trattando con disinvoltura argomenti diversi, dalla cronaca rosa alla critica letteraria. In questo periodo, il suo pseudonimo è “Ciquita”.
Ad aprirle le porte della narrativa italiana a tutti gli effetti è “Fantasia”, pubblicato nel 1883 e, non a caso, aspramente criticato proprio dall’uomo che ben presto diventerà suo marito, Edoardo Scarfoglio. Il giornalista, animatore culturale e versato poeta, commenta in modo molto negativo l’opera della Serao, stroncando di fatto, sul giornale letterario “Il libro Don Chisciotte”, l’allora giovane scrittrice. Tuttavia, il loro incontro segna anche l’inizio di una delle vicende d’amore più tormentate e turbolente della storia della letteratura e del giornalismo italiano.
Già nel 1885 i due si sposano, forti dell’esperienza giornalistica che condividono in quei mesi al “Corriere di Roma”, altro foglio molto importante in questo periodo, fondato proprio dallo stesso Scarfoglio. Intanto la Serao non rinuncia né al suo ruolo di madre né a quello di scrittrice. Nascono Antonio, Carlo, Paolo e Michele, dall’unione con Scarfoglio, ma vedono la luce anche “Il ventre di Napoli”, nel 1884, “La conquista di Roma”, del 1885, “Il romanzo della fanciulla”, del 1886, e il libro che Benedetto Croce non esita a definire “il romanzo del giornalismo italiano”, ossia “Vita e avventure di Riccardo Joanna”, pubblicato nel 1887.
È un momento florido dal punto di vista letterario questo che vive la scrittrice, e la letteratura nazionale se ne avvarrà sempre, aumentando la sua fama nel corso degli anni e soprattutto dopo la sua morte.
Tra “Il paese di cuccagna” e “La virtù di Cecchina” però, datati rispettivamente 1891 e 1906, opere non meno importanti delle summenzionate per quanto minori, si colloca l’idillio e la fine tragica della relazione tra la Serao e suo marito. I due infatti, chiuso il foglio romano, si recano a Napoli, dove danno vita al “Corriere di Napoli”. Il foglio ha problemi economici ma segna una svolta nel panorama meridionale, almeno dal punto di vista della libertà di informazione. Sulle pagine dirette dalla scrittrice poi, quelle culturali, compaiono firme illustri, come quelle di Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio.
L’esperienza dura poco ma permette ai due compagni di vita e di lavoro di dare vita, nel 1891, al ben noto “Il Mattino”, che vede Scarfoglio come direttore e la Serao come co-direttrice. Da questo momento però, all’ascesa del foglio partenopeo fa da contraltare la caduta della coppia, soprattutto a causa del marito dell’autrice. Scarfoglio, infatti, è un uomo poco tranquillo sul piano sentimentale.
Nell’estate del 1892 conosce Gabrielle Bessard, una cantante di teatro. Tra loro nasce una relazione, per giunta agevolata dalla fuga, a causa di un litigio, della Serao, la quale si reca da sola in villeggiatura, presso una località della Val d’Aosta. Passano due anni e Gabrielle rimane incinta. Scarfoglio allora la abbandona, e torna dalla moglie. Ma il 29 agosto del 1894 la Bessard si presenta sulla porta della casa di Scarfoglio e della Serao e, dopo aver posato a terra la piccola figlioletta nata dalla loro unione, si spara un colpo mortale alla tempia.
Matilde Serao, nonostante il clamore suscitato dalla notizia comparsa su tutti i giornali, non esita a prendersi cura dalla piccola Paolina, decidendo di allevarla comunque. Tuttavia, esasperata dai comportamenti del marito, decide di lasciarlo e di lasciare, con lui, anche quella che è la sua vera creatura, il quotidiano “Il Mattino”.
Il giornale, come se non bastasse, rimane coinvolto anche nello scandalo dell’amministrazione Sulmonte che finisce per tirare dentro, tra polemiche e calunnie, anche la stessa scrittrice, accusata di aver goduto di certi privilegi economici in cambio di favori. Scarfoglio coglie la palla al balzo e se la difende, sua moglie, lo fa solo ed esclusivamente con il doppio fine di umiliarla e di salvare la propria reputazione. Tra il 1902 e il 1903, l’abbandono del giornale è ufficiale: la Serao è disoccupata a tutti gli effetti.
Nello stesso periodo però entra nella sua vita un altro giornalista, l’avvocato Giuseppe Natale. Con questi allora, senza perdersi d’animo, Matilde fonda e dirige, unica nella storia del giornalismo italiano, il giornale “Il Giorno”, diretta emanazione delle sue idee politiche e culturali. Dall’unione con Natale, Nasce anche Eleonora, di lì a poco, chiamata così dalla scrittrice per dimostrare il suo affetto per l’attrice Eleonora Duse. Il giornale, più pacato del concorrente “Mattino”, ottiene un buon successo di vendite.
Nel 1917, morto Scarfoglio, Matilde Serao sposa Giuseppe Natale, ufficializzando così la loro unione sotto ogni punto di vista, per giunta solo qualche anno prima della morte di lui. Nel 1926, l’autrice riceve la candidatura a premio Nobel per la Letteratura, che verrà poi assegnato a Grazia Deledda, altra grande voce della letteratura italiana al femminile.
Il 25 luglio del 1927, all’età di 71 anni, Matilde Serao muore a Napoli, sulla sua scrivania, durante l’ennesimo momento di scrittura della sua esistenza. Di lei si ricorda il carattere profondamente sanguigno, sottolineato da una grande napoletanità. Nella città di Napoli era considerata un personaggio tanto popolare che si dice che quando passava in carrozzella, i monelli gridavano a gran voce: “Sta panno a signurì!” (Sta passando la signora!). Sebbene non avesse basi culturali tali da raggiungere un’importante profondità linguistica fu senza dubbio una grande figura nel campo del giornalismo: va ricordata in tal senso la sua idea, creativa e precorritrice, di trovare nuovi abbonati ai suoi giornali attraverso concorsi e cadeaux di varia natura.
– Prof. GIUSEPPE LUGLI-Il Tempio di Venere genitrice nel Foro di Cesare
Copia anastatica dalla Rivista PAN –n° uno del 1934-diretta da UGO OJETTI
Editore RIZZOLI e C. Milano-Firenze-Roma.
Dalla Rivista PAN –n° uno del 1934- diretta da UGO OJETTI-Al centro del lato settentrionale della piazza del Foro di Cesare era inserito il Tempio di Venere Genitrice, eretto da Giulio Cesare nel 46 a. C. per celebrare la mitica antenata della sua famiglia: la dea Venere. Il Tempio, innalzato su un podio, era decorato sulla fronte da otto colonne scanalate in marmo bianco di Carrara. Esso divenne nel tempo un vero e proprio museo di sculture, dipinti e oggetti preziosi. La stessa statua di culto conservata nella cella e che raffigurava la dea Venere con un Amorino sulla spalla, era stata commissionata da Cesare allo scultore greco Arcesilao.
L’edificio fu completamente ricostruito da Traiano nel 113 d.C. nel quadro del più ampio intervento urbanistico legato alla realizzazione del suo Foro. In questa fase l’interno della cella di culto fu ornato con un doppio colonnato a parete separato da un fregio con Amorini, un frammento del quale è esposto nel Museo dei Fori Imperiali.
Nel 283 d.C. un violentissimo incendio danneggiò gravemente il Foro di Cesare e il Tempio di Venere Genitrice, che fu restaurato pochi anni dopo, nel primo decennio del IV secolo: per sostenere il timpano l’antico colonnato fu tamponato con un muro molto spesso, al centro del quale si apriva un solo accesso.
Del Tempio rimangono oggi tre colonne, rialzate con parte della trabeazione nel 1933.
IL FORO DI CESARE ED IL TEMPIO DI VENERE GENITRICE AI FORI IMPERIALI
La piazza del foro di Cesare è costruita sul modello architettonico dei portici greci con inserimento di un tempio al centro di uno dei suoi lati corti secondo la moda etrusco-italica. Il foro, a pianta rettangolare, era infatti circondato su tre lati da portici con negozi ed uffici, mentre al centro del quarto lato si ergeva il tempio di Venere Genitrice. A ridosso del tempio di Venere Genitrice esisteva un rilievo collinare che fu sbancato per la costruzione del foro di Traiano tra il 112 e il 113 d.C. questo intervento comportò importanti lavori anche nel foro di Cesare e la ricostruzione del tempio stesso.
n particolare, sul fianco occidentale del foro di Cesare, a ovest del tempio, fu costruito un edificio a due navate, la Basilica Argentaria, sulle cui pareti si leggono ancora numerosi graffiti. Sempre all’epoca di Traiano risale la grande latrina pubblica a pianta semicircolare, con ingresso dal Clivo Argentario. La demolizione del foro di Cesare per il recupero del materiale da costruzione fu avviata nei primi secoli del Medioevo: già nel X secolo infatti, la piazza era occupata da campi coltivati, vigneti e frutteti, con poche case ad un piano e dall’impianto molto semplice. Al centro del lato settentrionale della piazza del foro di Cesare era inserito il tempio di Venere Genitrice, eretto da Giulio Cesare nel 46 a.C. per celebrare la mitica antenata della sua famiglia: la dea Venere. Il tempio, innalzato su un podio, era decorato sulla fronte da otto colonne scanalate in marmo bianco di Carrara. Esso divenne nel tempo un vero e proprio museo di sculture, dipinti e oggetti preziosi. La stessa statua di culto conservata nella cella e che raffigurava la dea Venere con un Amorino sulla spalla, era stata commissionata da Cesare allo scultore greco Arcesilao. L’edificio fu completamente ricostruito da Traiano nel 113 d.C. nel quadro del più ampio intervento urbanistico legato alla realizzazione del suo foro. In questa fase l’interno della cella di culto fu ornato con un doppio colonnato a parete separato da un fregio con Amorini, un frammento del quale è esposto nel Museo dei fuori imperiali. Nel 283 d.C. un violentissimo incendio danneggiò gravemente il foro di Cesare e il tempio di Venere Genitrice, che fu restaurato pochi anni dopo, nel primo decennio del IV secolo: per sostenere il timpano l’antico colonnato fu tamponato con un muro molto spesso, al centro del quale si apriva un solo accesso. Del tempio rimangono oggi tre colonne rialzate con parte della trabeazione nel 1933
Prof. GIUSEPPE LUGLI e il Tempio di Venere genitrice nel Foro di Cesare– Archeologo italiano (Roma 1890 – ivi 1967); prof. di topografia romana nell’univ. di Roma (1933-61); socio nazionale dei Lincei (1946). Pubblicò, tra l’altro, un ampio manuale (I monumenti antichi di Roma e suburbio, 3 voll. e un Supplemento, 1930-40), e ricerche sulla tecnica costruttiva e sull’architettura (La tecnica edilizia romana con particolare riguardo a Roma e Lazio, 2 voll., 1957). Iniziò la pubblicazione sistematica dei Fontes ad topographiam veteris urbis Romae pertinentes/”>pertinentes e la collana della Forma Italiae.Fonte- Enciclopedia TRECCANI
Nota di Mary Liguori :”Dipinti ad olio dell’artista russo Georgy Kurasov : Cubismo e geometria del corpo, cubismo, l’arte mescolata con la scultura, . Georgy Kurasov è nato nel 1958 in URSS, in quella che era allora Leningrado. Vive e lavora nello stesso posto, . Gli americani vedono Georgy Kurasov come un artista russo, i russi come un artista americano, per i pittori lui è uno scultore, gli scultori sono sicuri che è un pittore, lui cerca solo di essere se stesso, di non essere come nessun altro”. Nota di Mary Liguori
L’artista russo Georgy Kurasov ha uno stile particolare nel realizzare i suoi dipinti di donne pieni di colore e movimento. Quasi tendente all’astrattismo e con qualche indiretta influenza cubista. Un risultato estetico frutto di un percorso artistico del tutto unico. Georgy infatti si forma dapprima come scultore, ma poi esplora il campo della pittura e lo fa aderendo alla filosofia ed estetica del neo-costruttivismo. Il movimento che enfatizza la geometria non ortodossa, linee libere di intersecarsi e dare vita a nuove situazioni di volta in volta. Un approccio che distorce i corpi dei suoi soggetti e li restituisce in modo frammentato. In proporzioni surreali, ma anche ricche di vita e colori.
Biography Georgy Kurasov was born in 1958 in the USSR, in what was then Leningrad. He still lives and works in the same place, but now the country is Russia and the city is called St Petersburg. Without any effort on his part whatsoever, Georgy seems to have emigrated from one surreal country to another.
His native city was irrational from the very moment of its foundation. Situated on the same latitude as the southern shores of Alaska, on the swampy delta of the River Neva where no one had ever settled before, this new capital city grew up on the very edge of a monstrous empire.
Here on the totally flat surface carved across by rivers, streams and canals, European architects laid out, like images on a canvas, straight avenues, streets and squares, they built Greco-Roman porticoes and Baroque palazzi, erected sculptures and fountains, amidst something akin to permafrost where half the year is dominated by ice and frost and the other half by damp and rain.
It is hard to find a more artificial – more artistic – city.
Georgy spent his childhood on the Petrograd Side, to the north of the city, in a tiny little flat with windows that looked out onto an even tinier courtyard. As far as he recalls, he modelled things in plasticine and drew resting on the vast wooden windowsills. Not so much aesthetic pastimes as compensations for the grey minimalism of everyday life, the absence of light and bright colours.
At thirteen years old his mother put him in the art school attached to the Academy of Arts. At the interview it was politely explained that there was nothing for Georgy in the painting department since he had a total lack of feeling for colour. So they suggested Georgy Kurasov join the sculpture class.
In some way he was pleased, since all the painted images they showed him seemed terribly boring, and Georgy had great interest in form.
That was when he began his professional training.
In 1977 Georgy Kurasov entered the sculpture department of the Academy of Arts.
He spent six years in the vast studio of a building erected during the time of Catherine the Great, in the late 18th century. Those gloomy, narrow, incredibly high vaulted corridors, the vast, cold, grimy studios, everything was inhabited by the ghosts of long dead masters of ages past, whose influence was far more real than the insignificant apologists of Socialist Realism and of Marxist-Leninist aesthetics. The Academy was a solid amalgamation of temple to and prison of the arts.
Yet those years in the Academy were the best years of his life. Nearly all Georgy’s friends and colleagues date from those years.
The circles he moved in were intellectual, talented, young – which meant free, with the exception of the one or two informers that were simply an obligatory element of life in those years and did little to alter the overall picture.
It was then that Georgy met his wonderful Zina, who was later to occupy nearly all his space, both physical, in his life, and creative, in his works.
Almost immediately after his diploma Georgy Kurasov was called up for army service, but even there he was armed not with a rifle but with paints, since he was lucky enough to be appointed Court Artist to his general.
In 1984 Georgy Kurasov was at last demobbed. He was free.
Over the next few years he took part in all kinds of exhibitions and competitions in order to score the Brownie points necessary to gain membership of the Union of Artists, since that was more or less the only way of being allocated a separate studio.
It was not the easiest of times. In order to take part in exhibitions you had to have something to display. And in order to create that something to display, you had to have a place in which to create it. Georgy had nowhere.
At last, however, he managed to join the happy ranks of members of the Union of Artists, was allocated his tiny studio, and thought he was at the very peak of happiness. All around him the country was in turmoil, at the very heights of Gorbachev’s ‘perestroika’, people passionately quenching their thirst for information whilst battling with a hunger of somewhat more concrete physical nature caused by food shortages.
Things were now rather difficult for artists, particularly as far as sculpture was concerned. Sculpture, as is well known, is an art form for either rich or totalitarian states. The totalitarian state had ceased to exist but it had not become rich.
Georgy Kurasov started to paint, but it soon became clear that selling his pictures for any acceptable price was going to be impossible, and so he had to feed his family by producing small pastels which Georgy sold through small galleries dealing mainly in souvenirs for foreign tourists.
In 1991 the Soviet Union collapsed. By that time Kurasov had put together a large body of paintings, but had absolutely no idea what he was going to do with them. The future looked bleak.
Then in 1993 his works were first exhibited in the USA. Since then, Georgy Kurasov have exhibited and sold his paintings exclusively in North America.
It is many years since he dropped out of the world of sculpture in Russia, and he never formed part of the world of painting there. Kurasov knows there are plenty of people who, noting the absence of his works at Russian exhibitions, think he has emigrated.
Americans see Georgy Kurasov as a Russian artist, Russians as an American artist. Painters think he is a sculptor. Sculptors are sure he is a painter.
And when Georgy Kurasov thinks of it, he rather like this borderline existence. Perhaps it what makes it possible to be himself, to be unlike anyone else.
GEORGY KURASOV 1958 URSS – ATTIVO a SAN PIETROBURGO
Fin da sempre si dedicò all’arte della pittura, dopo un’adolescenza burrascosa e difficile, per mantenere la sua famiglia iniziò a lavorare come artista. Fino a che nel 1993 ci fu la svolta vera e propria, perché le sue opere vennero esposte negli Stato Uniti, da quel momento in poi espose le sue opere solo ed esclusivamente nel Nord America.
All’interno dei suoi dipinti sono racchiusi diversi stili, tanto che lo fanno sembrare un artista russo, ma talvolta americano, taluni pensano sia uno scultore, altri che sia un pittore, a causa della sua formazione e dei suoi interessi per il mondo dell’arte e della cultura.
Il suo soggetto prediletto è la donna, il modo con cui le rappresenta è di totale rispetto, donando ad ognuna una sensualità elevata.
-Janet Skeslien Charles- La biblioteca di Parigi –
-Editore Garzanti-
Descrizione-Nessuno può far tacere i libri.Parigi,una storia unica in cui tre ingredienti si mescolano alla perfezione: la resistenza durante l’occupazione nazista, il fascino intramontabile di Parigi e la magia dei libri che devono essere sempre salvati e protetti da ogni male.
Parigi, 1940. I libri sono la luce. Odile non riesce a distogliere lo sguardo dalle parole che campeggiano sulla facciata della biblioteca e che racchiudono tutto quello in cui crede. Finalmente ha realizzato il suo sogno. Finalmente ha trovato lavoro in uno dei luoghi più antichi e prestigiosi del mondo. In quelle sale hanno camminato Edith Wharton ed Ernest Hemingway. Vi è custodita la letteratura mondiale. Quel motto, però, le suscita anche preoccupazione. Perché una nuova guerra è scoppiata. Perché l’invasione nazista non è più un timore, ma una certezza. Odile sa che nei momenti difficili i templi della cultura sono i primi a essere in pericolo: è lì che i nemici credono che si annidi la ribellione, la disobbedienza, la resistenza. Nei libri ci sono parole e concetti proibiti. E devono essere distrutti. Odile non può permettere che questo accada. Deve salvare quelle pagine, in modo che possano nutrire la mente di chi verrà dopo di lei, come già hanno fatto con la sua. E non solo. La biblioteca è il primo luogo in cui gli ebrei della città provano a nascondersi: cacciati dalle loro case, tra i libri si sentono al sicuro, e Odile vuole difenderli a ogni costo. Anche se questo significa macchiarsi di una colpa che le stritola il cuore. Una colpa che solo lei conosce. Un segreto che, dopo molto tempo, consegna nelle mani della giovane Lily, perché possa capire il peso delle sue scelte e non dimentichi mai il potere dei libri: luce nelle tenebre, spiraglio di speranza nelle avversità.
Bernardino MOLINARI in concerto al Teatro AUGUSTEO di ROMA- 9 marzo 1924
Programma di sala originale completo
Biografia di Bernardino MOLINARI– (Nacque a Roma l’11 apr. 1880 – ivi 1952)da Giovanni e Maria Stozzi.Dotato di precoce talento musicale – H. Wolf diede un giudizio lusinghiero su una fuga bachiana eseguita dal M. a soli dieci anni (Mucci, p. 17) –, entrò nel 1896 al liceo musicale di S. Cecilia, studiando armonia e organo con R. Renzi e composizione con S. Falchi. Si diplomò nel 1902, affrontando già durante gli studi i primi concerti.
Nel 1908 venne inaugurata a Roma la grande sala dell’Augusteo, destinata a diventare la sede storica dell’orchestra di S. Cecilia: quattro anni dopo, il trentaduenne M. – che si era rivelato prezioso elemento già dal 1909, preparando l’orchestra per l’attesissimo concerto che avrebbe diretto R. Strauss – ne divenne il direttore artistico e stabile. Prendeva così avvio una lunga stagione, destinata a durare fino al 1944, di fondamentale importanza per l’educazione musicale del pubblico romano: in perfetta intesa con il conte Enrico di San Martino, presidente dell’Accademia di S. Cecilia, il M. avviò un capillare lavoro di riappropriazione della cultura sinfonica, messa in disparte da un secolo di predominio operistico, da intendersi come altra grande tradizione musicale italiana, parallela a quella melodrammatica.
Grazie ai concerti da lui diretti, approdarono per la prima volta a Roma e in Italia molti nuovi capolavori di C. Debussy, I. Stravinskij, A. Honegger. Il M. si fece inoltre promotore di una nuova scuola sinfonica italiana: una fitta schiera di nomi dove spiccavano O. Respighi, R. Zandonai, G.F. Malipiero, A. Casella, il giovane G. Petrassi e, prima delle leggi razziali del 1938, M. Castelnuovo Tedesco.
Con tale repertorio non fu sempre facile conquistare il pubblico: burrascosa, per esempio, fu l’accoglienza del concerto (5 febbr. 1922) ove furono presentati i Tre canti d’amore di F. Mantica, le Impressioni pagane di V. Davico e il Concerto gregoriano di Respighi. Una correzione di rotta (dalle serate di sole novità italiane si passò ai concerti misti, ma sempre, se possibile, con una pagina di autore italiano contemporaneo) e importanti iniziative parallele all’attività concertistica (la costituzione, nel 1929, di una commissione di lettura per le partiture inedite) rinforzarono però il sogno del M. di una scuola sinfonica italiana.
D’altronde con gli anni la politica culturale di B. Mussolini tese a privilegiare il sinfonismo rispetto al vecchio mondo del melodramma, vedendo nell’orchestra sinfonica una metafora della compatta disciplina di massa; né il M. mancò di svolgere, quale membro del Direttorio del sindacato nazionale dei musicisti, un ruolo – del tutto informale – di consulente musicale del duce.
Non meno impegnato fu come rielaboratore di partiture. Tra le numerose trascrizioni sono da citare (incise anche in disco): L’isle joyeuse di Debussy (trascritta per pianoforte e orchestrata dal M.), Moto perpetuo di N. Paganini (esteso dal violino solista alla massa dei primi violini) e Le quattro stagioni di A. Vivaldi (riadattate per un’orchestra «allargata»). Il M. fu attivo anche sotto il profilo didattico: nel 1936 varò presso l’Accademia di S. Cecilia un corso di perfezionamento in direzione d’orchestra, destinato a trasformarsi tre anni dopo in cattedra ufficiale. Ne uscirono allievi come F. Molinari Pradelli, O. Ziino e G. Gavazzeni; ma già in precedenza il M. aveva dato il proprio contributo alla formazione delle nuove leve, utilizzando e valorizzando – quale suo maestro sostituto all’Augusteo – M. Rossi, destinato di lì a poco a un’importante carriera. Il M. fu un vero personaggio pubblico, noto per il suo carattere talvolta irascibile (si accaniva in un interminabile numero di prove, esasperando gli strumentisti) e animatore di riunioni – il mercoledì e la domenica, dopo i concerti all’Augusteo – che convogliavano grandi menti di ogni campo artistico.
Il 16 febbr. 1933, per il venticinquesimo anno dell’Augusteo, il M. diresse un trionfale concerto, dal programma identico a quello diretto da G. Martucci nel 1908 per l’inaugurazione.
Ma alla sala restavano solo tre anni di vita: costruita sulle rovine del mausoleo di Augusto, fu demolita – in ottemperanza alla visione urbanistica neoimperiale del regime – nel maggio 1936, per rendere più visibili le vestigia antiche e isolarle dagli edifici circostanti. Dalla stagione 1936-37, e fino al 1946, la sede sarebbe stata il teatro Adriano. Per ironia della sorte, solo nel 1937 l’orchestra di S. Cecilia fu formalizzata come «stabile»: l’unica orchestra sinfonica stabile italiana.
A fronte dei concerti romani non meno importanti furono le presenze del M. all’estero, sia con i complessi ceciliani sia con le orchestre del posto (reiterata la collaborazione con la Filarmonica Ceca a Praga). Importanti poi, nell’ambito dell’asse Roma-Berlino, i concerti in Germania nella stagione 1940-41.
All’indomani della liberazione di Roma, il M. venne duramente contestato nel corso di due serate all’Adriano. Il 9 luglio un suo concerto offrì «il destro […] di inscenare una manifestazione ostile […]. Il pubblico fischiava; alcuni ufficiali americani si fecero largo tra la folla inferocita ed andarono a stringere la mano al Maestro» (Il Tempo, 11 luglio 1944, p. 2). Peggio, però, le cose andarono nel concerto del 12 luglio: dalla galleria piovvero volantini intitolati «Fuori Molinari!», in cui si leggeva «come il fascista Molinari trattasse con rozzi metodi dittatoriali gli orchestrali» e che «si invita ogni spettatore di buon senso a manifestare energicamente il proprio dissenso». La prima parte del concerto fu portata a termine, ma la seconda – era prevista la sinfonia n. 9 di L. van Beethoven – non poté avere luogo perché il soprano solista, Liana Cortini, comunicò nell’intervallo la sua volontà di non cantare per «protesta contro il maltrattamento che il M° Molinari faceva agli interpreti» (Fiorda, p. 71). Alla fine «fischi ed urla lo costrinsero a ritirarsi» (Il Tempo, 13 luglio, p. 2). Il giorno dopo, sempre nel Tempo, apparve una lettera della Cortini, da molti ritenuta complice dei contestatori, dove il soprano ribadiva le proprie ragioni.
L’incidente all’Adriano segnò duramente il M., che si sarebbe riaffacciato su un podio romano solo con l’orchestra del teatro dell’Opera, con due edizioni di Norma di V. Bellini: prima nel gennaio 1946, poi nel luglio dello stesso anno, alle Terme di Caracalla. Furono le ultime apparizioni di una carriera ormai conclusa: incapace di farsi una ragione delle numerose epurazioni di quei mesi (che oltre al M. coinvolsero, per breve periodo, pure Enrico di San Martino), indifferente ai tentativi degli accademici di S. Cecilia di assicurargli una riabilitazione morale (venne eletto vicepresidente), sempre più chiuso in se stesso, il M. morì a Roma il 25 dic. 1952.
Se gli estimatori del M. furono molti, da Debussy (con cui ebbe un fitto scambio epistolare) a Stravinskij, non mancò chi scorse dei limiti nel concertatore: lo stesso altissimo numero di prove potrebbe essere indice di insicurezza, più che di scrupolo professionale (D’Amico). Il librettista e critico musicale E. Mucci, autore nel 1941 di una biografia del M., parlò anche di un’evoluzione del suo approccio interpretativo: più infuocato nella prima parte della carriera, più misurato poi. La documentazione discografica è comunque troppo sguarnita per una disamina della sua arte. Pesa pure, ai fini di un giudizio complessivo, la scarsa frequentazione del genere operistico: oltre a Norma, solo Aida di G. Verdi (di cui il M., sulla scia di A. Toscanini, recuperò la sinfonia disconosciuta dall’autore), Manon Lescaut di G. Puccini e, in ambito francese, Werther di J. Massenet e Romeo e Giulietta di Ch. Gounod, oltre a Oedipus rex (per il M. una logica coda delle frequentazioni con lo Stravinskij sinfonico).
Fonti e Bibl.: Necr., in M. Labroca, Ricordo di B. M., in Rassegna musicale, gennaio 1953, pp. 38 s.; E. Mucci, B. M., Lanciano 1941; Il Tempo, Roma, comunicati redazionali, 11, 13 e 14 luglio 1944, p. 2; G. Boni, B. M., in S. Cecilia, dicembre 1962, p. 5; R. Rossellini, B. M., ibid., pp. 6 s.; N. Fiorda, Arte beghe e bizze di Toscanini, Roma 1969, pp. 69-71; G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano 1984, p. 279; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, pp. 94, 139, 294 s., 300 s., 348, 351, 413; H. Sachs, Musica e regime, Milano 1995, pp. 42 s., 115 s., 128, 175, 202 s., 211 s., 216, 247, 310; F. D’Amico, Un ragazzino all’Augusteo, a cura di F. Serpa, Torino 1991, pp. 235 s.; S. Biguzzi, L’orchestra del duce, Torino 2003, p. 124; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, V, p. 134.
Fonte -Enciclopedia TRECCANI on line-
Biografia di Bernardino MOLINARI– (Nacque a Roma l’11 apr. 1880 – ivi 1952)da Giovanni e Maria Stozzi.Dotato di precoce talento musicale – H. Wolf diede un giudizio lusinghiero su una fuga bachiana eseguita dal M. a soli dieci anni (Mucci, p. 17) –, entrò nel 1896 al liceo musicale di S. Cecilia, studiando armonia e organo con R. Renzi e composizione con S. Falchi. Si diplomò nel 1902, affrontando già durante gli studi i primi concerti.
Nel 1908 venne inaugurata a Roma la grande sala dell’Augusteo, destinata a diventare la sede storica dell’orchestra di S. Cecilia: quattro anni dopo, il trentaduenne M. – che si era rivelato prezioso elemento già dal 1909, preparando l’orchestra per l’attesissimo concerto che avrebbe diretto R. Strauss – ne divenne il direttore artistico e stabile. Prendeva così avvio una lunga stagione, destinata a durare fino al 1944, di fondamentale importanza per l’educazione musicale del pubblico romano: in perfetta intesa con il conte Enrico di San Martino, presidente dell’Accademia di S. Cecilia, il M. avviò un capillare lavoro di riappropriazione della cultura sinfonica, messa in disparte da un secolo di predominio operistico, da intendersi come altra grande tradizione musicale italiana, parallela a quella melodrammatica.
Grazie ai concerti da lui diretti, approdarono per la prima volta a Roma e in Italia molti nuovi capolavori di C. Debussy, I. Stravinskij, A. Honegger. Il M. si fece inoltre promotore di una nuova scuola sinfonica italiana: una fitta schiera di nomi dove spiccavano O. Respighi, R. Zandonai, G.F. Malipiero, A. Casella, il giovane G. Petrassi e, prima delle leggi razziali del 1938, M. Castelnuovo Tedesco.
Con tale repertorio non fu sempre facile conquistare il pubblico: burrascosa, per esempio, fu l’accoglienza del concerto (5 febbr. 1922) ove furono presentati i Tre canti d’amore di F. Mantica, le Impressioni pagane di V. Davico e il Concerto gregoriano di Respighi. Una correzione di rotta (dalle serate di sole novità italiane si passò ai concerti misti, ma sempre, se possibile, con una pagina di autore italiano contemporaneo) e importanti iniziative parallele all’attività concertistica (la costituzione, nel 1929, di una commissione di lettura per le partiture inedite) rinforzarono però il sogno del M. di una scuola sinfonica italiana.
D’altronde con gli anni la politica culturale di B. Mussolini tese a privilegiare il sinfonismo rispetto al vecchio mondo del melodramma, vedendo nell’orchestra sinfonica una metafora della compatta disciplina di massa; né il M. mancò di svolgere, quale membro del Direttorio del sindacato nazionale dei musicisti, un ruolo – del tutto informale – di consulente musicale del duce.
Non meno impegnato fu come rielaboratore di partiture. Tra le numerose trascrizioni sono da citare (incise anche in disco): L’isle joyeuse di Debussy (trascritta per pianoforte e orchestrata dal M.), Moto perpetuo di N. Paganini (esteso dal violino solista alla massa dei primi violini) e Le quattro stagioni di A. Vivaldi (riadattate per un’orchestra «allargata»). Il M. fu attivo anche sotto il profilo didattico: nel 1936 varò presso l’Accademia di S. Cecilia un corso di perfezionamento in direzione d’orchestra, destinato a trasformarsi tre anni dopo in cattedra ufficiale. Ne uscirono allievi come F. Molinari Pradelli, O. Ziino e G. Gavazzeni; ma già in precedenza il M. aveva dato il proprio contributo alla formazione delle nuove leve, utilizzando e valorizzando – quale suo maestro sostituto all’Augusteo – M. Rossi, destinato di lì a poco a un’importante carriera. Il M. fu un vero personaggio pubblico, noto per il suo carattere talvolta irascibile (si accaniva in un interminabile numero di prove, esasperando gli strumentisti) e animatore di riunioni – il mercoledì e la domenica, dopo i concerti all’Augusteo – che convogliavano grandi menti di ogni campo artistico.
Il 16 febbr. 1933, per il venticinquesimo anno dell’Augusteo, il M. diresse un trionfale concerto, dal programma identico a quello diretto da G. Martucci nel 1908 per l’inaugurazione.
Ma alla sala restavano solo tre anni di vita: costruita sulle rovine del mausoleo di Augusto, fu demolita – in ottemperanza alla visione urbanistica neoimperiale del regime – nel maggio 1936, per rendere più visibili le vestigia antiche e isolarle dagli edifici circostanti. Dalla stagione 1936-37, e fino al 1946, la sede sarebbe stata il teatro Adriano. Per ironia della sorte, solo nel 1937 l’orchestra di S. Cecilia fu formalizzata come «stabile»: l’unica orchestra sinfonica stabile italiana.
A fronte dei concerti romani non meno importanti furono le presenze del M. all’estero, sia con i complessi ceciliani sia con le orchestre del posto (reiterata la collaborazione con la Filarmonica Ceca a Praga). Importanti poi, nell’ambito dell’asse Roma-Berlino, i concerti in Germania nella stagione 1940-41.
All’indomani della liberazione di Roma, il M. venne duramente contestato nel corso di due serate all’Adriano. Il 9 luglio un suo concerto offrì «il destro […] di inscenare una manifestazione ostile […]. Il pubblico fischiava; alcuni ufficiali americani si fecero largo tra la folla inferocita ed andarono a stringere la mano al Maestro» (Il Tempo, 11 luglio 1944, p. 2). Peggio, però, le cose andarono nel concerto del 12 luglio: dalla galleria piovvero volantini intitolati «Fuori Molinari!», in cui si leggeva «come il fascista Molinari trattasse con rozzi metodi dittatoriali gli orchestrali» e che «si invita ogni spettatore di buon senso a manifestare energicamente il proprio dissenso». La prima parte del concerto fu portata a termine, ma la seconda – era prevista la sinfonia n. 9 di L. van Beethoven – non poté avere luogo perché il soprano solista, Liana Cortini, comunicò nell’intervallo la sua volontà di non cantare per «protesta contro il maltrattamento che il M° Molinari faceva agli interpreti» (Fiorda, p. 71). Alla fine «fischi ed urla lo costrinsero a ritirarsi» (Il Tempo, 13 luglio, p. 2). Il giorno dopo, sempre nel Tempo, apparve una lettera della Cortini, da molti ritenuta complice dei contestatori, dove il soprano ribadiva le proprie ragioni.
L’incidente all’Adriano segnò duramente il M., che si sarebbe riaffacciato su un podio romano solo con l’orchestra del teatro dell’Opera, con due edizioni di Norma di V. Bellini: prima nel gennaio 1946, poi nel luglio dello stesso anno, alle Terme di Caracalla. Furono le ultime apparizioni di una carriera ormai conclusa: incapace di farsi una ragione delle numerose epurazioni di quei mesi (che oltre al M. coinvolsero, per breve periodo, pure Enrico di San Martino), indifferente ai tentativi degli accademici di S. Cecilia di assicurargli una riabilitazione morale (venne eletto vicepresidente), sempre più chiuso in se stesso, il M. morì a Roma il 25 dic. 1952.
Se gli estimatori del M. furono molti, da Debussy (con cui ebbe un fitto scambio epistolare) a Stravinskij, non mancò chi scorse dei limiti nel concertatore: lo stesso altissimo numero di prove potrebbe essere indice di insicurezza, più che di scrupolo professionale (D’Amico). Il librettista e critico musicale E. Mucci, autore nel 1941 di una biografia del M., parlò anche di un’evoluzione del suo approccio interpretativo: più infuocato nella prima parte della carriera, più misurato poi. La documentazione discografica è comunque troppo sguarnita per una disamina della sua arte. Pesa pure, ai fini di un giudizio complessivo, la scarsa frequentazione del genere operistico: oltre a Norma, solo Aida di G. Verdi (di cui il M., sulla scia di A. Toscanini, recuperò la sinfonia disconosciuta dall’autore), Manon Lescaut di G. Puccini e, in ambito francese, Werther di J. Massenet e Romeo e Giulietta di Ch. Gounod, oltre a Oedipus rex (per il M. una logica coda delle frequentazioni con lo Stravinskij sinfonico).
Fonti e Bibl.: Necr., in M. Labroca, Ricordo di B. M., in Rassegna musicale, gennaio 1953, pp. 38 s.; E. Mucci, B. M., Lanciano 1941; Il Tempo, Roma, comunicati redazionali, 11, 13 e 14 luglio 1944, p. 2; G. Boni, B. M., in S. Cecilia, dicembre 1962, p. 5; R. Rossellini, B. M., ibid., pp. 6 s.; N. Fiorda, Arte beghe e bizze di Toscanini, Roma 1969, pp. 69-71; G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano 1984, p. 279; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, pp. 94, 139, 294 s., 300 s., 348, 351, 413; H. Sachs, Musica e regime, Milano 1995, pp. 42 s., 115 s., 128, 175, 202 s., 211 s., 216, 247, 310; F. D’Amico, Un ragazzino all’Augusteo, a cura di F. Serpa, Torino 1991, pp. 235 s.; S. Biguzzi, L’orchestra del duce, Torino 2003, p. 124; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, V, p. 134.
MASSIMO MASTROGREGORI –L’infiltrata-Vita e opere di Emma Cantimori-
–Società editrice il Mulino-Bologna
La notizia del matrimonio di Emma Cantimori (nata Mezzomonti) colse quasi tutti di sorpresa. All’amico Cordiè, Delio scrisse l’11 febbraio 1936: «Ho anch’io questa volta la mia novità di carattere personale e privato, che servirà a giustificare il mio lungo silenzio: cioè, fra due settimane circa mi sposo: guarda un po’, il Gatto si sposa: che te lo saresti immaginato?».
Il nome di Emma Cantimori (nata Mezzomonti) suona familiare a quanti ne hanno apprezzato le qualità di traduttrice della classica e fortunata edizione italiana del Manifesto di Marx e Engels, pubblicata nel 1948 e tuttora in circolazione. Poco nota è invece la sua storia precedente a quell’impresa editoriale, al tempo del Ventennio e sotto l’occupazione tedesca a Roma. In quegli anni Emma ebbe una doppia vita, fu un’infiltrata del Partito comunista fra gli intellettuali fascisti, all’Enciclopedia italiana e all’Istituto di studi germanici, dove venne a contatto con personaggi come Giovanni Gentile e, soprattutto, Delio Cantimori, che sposò nel 1936. Nella vita di Emma e del marito il lavoro sull’edizione del Manifesto, tra il 1944 e il 1948, coincise con l’uscita allo scoperto dopo un lungo periodo di clandestinità. Il libro racconta per la prima volta la sua attività segreta protetta dalle rigide regole cospirative, ricostruendo così uno spaccato di storia della resistenza all’oppressivo regime fascista.
Massimo Mastrogregoriè uno storico e docente universitario. Tra i suoi libri ricordiamo: «Introduzione a Bloch» (Laterza, 2001); «I due prigionieri. Gramsci, Moro e la storia del Novecento italiano» (Marietti, 2008), «Breve storia dell’ideologia occidentale» (Marietti, 2011) e «Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica» (Salerno, 2016).
Presentazione. Le due vite di Emma, di Luciano Canfora
Prefazione
Introduzione
Da Bolzano a Roma
Villa Sciarra-Wurts
Una «piccola falange d’acciaio»
Un rapporto di Emilio Sereni
Questioni aperte per la polizia politica
Ricordi della clandestinità
Le missioni di Ambrogio Donini
La vita illegale di Emma
A Napoli
La grande retata del 1933
11 maggio 1933
Il matrimonio con Delio Cantimori
La «cellula Mezzomonti-Cantimori»
Cancellare i ricordi
Congiura e cospirazione
La traduzione del Manifesto per Einaudi
Da Togliatti a Berlusconi
Una foresta di note introduttive
Conclusioni
Appendice I. La struttura illegale del partito comunista d’Italia
Appendice II. Il gruppo romano Brandani-Grifone e gli arresti del 1933
L’Altrove -Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Uno dei giganti della poesia britannica del XX secolo è senza dubbio Ted Hughes
Ted Hughes nacque a Mytholmroyd, nello Yorkshire, nel 1930. Dopo aver prestato servizio nella Royal Air Force, frequentò Cambridge, dove studiò archeologia e antropologia, interessandosi in particolare di miti e leggende. Nel 1956 conobbe e sposò la poetessa americana Sylvia Plath, che lo incoraggiò a presentare il suo manoscritto a un primo concorso di libri organizzato dal The Poetry Center. Giudici dal calibro di Marianne Moore, WH Auden e Stephen Spender assegnarono il primo premio a TheHawk in the Rain (1957) cosa che assicurò a Hughes la reputazione come poeta di statura internazionale.
Secondo il poeta e critico Robert B. Shaw la poesia di Hughes ha segnato un drammatico allontanamento dalle modalità prevalenti del periodo. La poesia stereotipata dell’epoca era determinata a non rischiare troppo: educatamente domestica nell’argomento, sobria e leggermente ironica nello stile. Al contrario, Hughes ha schierato un linguaggio di risonanza quasi shakespeariana per esplorare temi che erano mitici ed elementari.
La lunga carriera di Hughes include volumi di successo senza precedenti come Lupercal (1960), Crow (1970), Selected Poems 1957-1981 (1982) e The Birthday Letters (1998), oltre a molti amati libri per bambini, tra cui The Iron Man (1968). Con Seamus Heaney curò due popolari antologie. Nominato esecutore testamentario del patrimonio letterario di Sylvia Plath, curò diversi volumi del suo lavoro. Fu anche traduttore di alcune opere di autori classici, tra cui Ovidio ed Eschilo.
Poeta, traduttore, editore e autore di libri per bambini incredibilmente prolifico, Ted Hughes venne nominato poeta laureato nel 1984, incarico che ha ricoperto fino alla sua morte. Tra i suoi numerosi riconoscimenti, la nomina all’Ordine al Merito, una delle più alte onorificenze britanniche.
Il paesaggio rurale della giovinezza di Hughes nello Yorkshire ha esercitato un’influenza duratura sul suo lavoro. Leggere la poesia di Hughes significa entrare in un mondo dominato dalla natura, soprattutto dagli animali. Questo vale per quasi tutti i suoi libri, da The Hawkin theRaina Wolfwatching (1989) e MoortownDiary (1989), due delle sue ultime raccolte. L’amore di Hughes per gli animali è stato uno dei catalizzatori nella sua decisione di diventare un poeta. Secondo il London Times, Hughes una volta ha confessato “di aver iniziato a scrivere poesie nell’adolescenza, quando si rese conto che la sua precedente passione per la caccia agli animali nel suo nativo Yorkshire si era conclusa con il possesso di un animale morto o, nel migliore dei casi, con una trappola. Voleva catturare non solo animali vivi, ma la vitalità degli animali nel loro stato naturale: la loro natura selvaggia, la loro quiddità, la volpe della volpe e il corvo del corvo. Tuttavia, l’interesse di Hughes per gli animali era generalmente meno naturalistico che simbolico. Utilizzando figure come “Crow” per approssimare un mitico uomo comune, il lavoro di Hughes parla della sua preoccupazione per i poteri vatici, persino sciamanici, della poesia. Lavorando in sequenze ed elenchi, Hughes ha spesso scoperto una sorta di lingua inglese autoctona, ma letteraria. Secondo Peter Davisonnel New York Times, “Mentre abita i corpi delle creature, per lo più maschi, Hughes si arrampica di nuovo lungo la catena evolutiva. Cerca in profondità anche negli enigmi del linguaggio, quelli che precedono ogni lingua data, lingua che puzza di foresta o addirittura di giungla. Tali poesie spesso contengono un tocco, o più di un tocco, di melodramma, delle brutali tragedie di Seneca che Hughes ha adattato per il palcoscenico moderno.
Le pubblicazioni postume di Hughes includono Selected Poems 1957-1994 (2002), una versione aggiornata e ampliata dell’edizione originale del 1982, e Letters of Ted Hughes (2008), che sono state curate da Christopher Reid e mostrano la voluminosa corrispondenza. Secondo David Orr le “lettere di Hughes sono immediatamente interessanti e accessibili a terzi a cui non sono indirizzate” , e le sue osservazioni disinvolte sulla poesia possono essere sorprendentemente perspicaci. La pubblicazione di Collected Poems (2003) ha fornito nuove intuizioni sul suo processo di scrittura. Sean O’Brien ha osservato: “Hughes ha condotto più di una vita come poeta”. Pubblicando entrambi i volumi singoli con Faber, Hughes ha anche pubblicato un’enorme quantità di lavoro attraverso piccole macchine da stampa e riviste. Queste poesie spesso non venivano raccolte e sembra che il poeta considerasse i suoi sforzi di piccola stampa come esperimenti per vedere se le poesie meritassero di essere collocate nelle raccolte. O’Brien ha continuato: “Chiaramente [Hughes] aveva bisogno di scrivere tutto il tempo, e molte delle poesie fino a quel momento non raccolte hanno l’aria provvisoria di riposare per un momento prima di essere portate a termine, tranne per il fatto che metà del tempo non è stato completato. e non era nemmeno il problema… per quanto riguarda l’intero corpus di lavoro, Hughes sembra essere stato più interessato al processo che al risultato”.
Sebbene Hughes sia oggi inequivocabilmente riconosciuto come uno dei più grandi poeti del XX secolo, la sua reputazione di poeta durante la sua vita fu forse ingiustamente incorniciata da due eventi: il suicidio di Sylvia Plath nel 1963 e, nel 1969, il suicidio della donna per la quale lasciò Sylvia, Assia Wevill, che a sua volta tolse la vita alla loro giovane figlia, Shura. In qualità di esecutore testamentario di Plath, la decisione di Hughes di distruggere il suo diario finale e il suo rifiuto dei diritti di pubblicazione delle sue poesie infastidirono molti nella comunità letteraria. Plath fu presa da alcuni come simbolo del genio femminile soppresso nel decennio successivo al suo suicidio, e in questo scenario Hughes fu spesso scelto come cattivo. Le sue letture furono interrotte da grida che lo indicavano come “assassino” e il suo cognome, che compare sulla lapide di Plath, fu ripetutamente deturpato. Le decisioni impopolari di Hughes riguardo agli scritti di Plath, su cui aveva il controllo totale dopo la sua morte, erano spesso al servizio della sua definizione di privacy; rifiutò perfino di discutere del suo matrimonio con Plath dopo la sua morte. Fu quindi con grande sorpresa che, nel 1998, il mondo letterario ricevette il ritratto piuttosto intimo di Plath di Hughes sotto forma di Birthday Letters, una raccolta di poesie in prosa che coprono ogni aspetto del suo rapporto con la sua prima moglie. La raccolta ricevette elogi e censure dalla critica; Il desiderio di Hughes di rompere il silenzio intorno alla morte della moglie venne accolto con favore, anche se le poesie stesse furono spesso esaminate. Tuttavia, nonostante le riserve, Hughes ricevette recensioni positive e in queste la raccolta venne definita come “emozionante e diretta”, le poesie più forti del libro come “tranquille, riflessive e colloquiali” e lo stesso poeta come “un vecchio marito che sfoglia un album di fotografie con un fantasma.”
Sebbene segnato da un periodo di dolore e polemiche negli anni ’60, la vita successiva di Hughes fu trascorsa scrivendo e coltivando la terra. Sposò Carol Orchard nel 1970 e con lei visse in una piccola fattoria nel Devon. Continuò a scrivere e pubblicare poesie fino alla sua morte, di cancro, il 28 ottobre 1998. Nel 2011 venne inaugurato un memoriale a Hughes nel famoso Poets Corner of Westminster Abbey.
TED HUGHES – 5 POESIE
TRATTE DA “PENSIERO-VOLPE E ALTRE POESIE” (MONDADORI – 1973)
DONNA CHE HA PERSO LA CONOSCENZA
Russia e America girano intorno l’una all’altra;
minacce dan di gomito a un atto che era senza dubbio
uno sciogliersi della matrice nella madre,
pietre in scioglimento intorno alla radice.
Spento il vivo della terra:
la fatica di tutte le nostre epoche una perdita
fino alla foglia e all’insetto. Tuttavia un pensiero fugace
(da non ritenersi ridicolo)
schiva il nero che cancella il mondo
nel gioco della sua ombra: ha imparato
che non vi sono date cui affidarsi (affidate alla fortuna)
quando è stabilito che il mondo brucerà;
che il futuro non è calamitoso mutamento
ma adesso un simulare malattia,
storie, città, volti che nessuna
malignità o disgrazia sconvolgono molto.
Sebbene bombe si contrappongono a bombe,
sebbene l’umanità intera spira e nulla sopravvive –
la terra finita in una vampata fulminea –
una minor morte giunse
sul bianco letto d’ospedale
dove una, stordita oltre i suoi ultimi sensi,
chiuse gli occhi sull’evidenza del mondo
ed affondò la testa nel guanciale
QUATTRO LUGLIO
Le calde secche e i mari da cui rechiamo il nostro sangue
scemarono adagio; raffreddate
in estuario d’acque di scolo, in laghetto vivaio di trote.
Persino il Rio delle Amazzoni è vessato e perlustrato
per stabilire leggi da parte di poche mascelle –
piranha e giaguaro.
Il fiato da venditore ambulante di Colombo
soffiò all’interno attraverso l’America del Nord
uccidendo l’ultimo dei mammut.
Le mappe giuste non hanno mostri.
Ora i vaneggianti spiriti della mente
scacciati dalle loro a detta di viaggiatori
irraggiungibili isole,
dai loro paradisi e dai loro brucianti inferi,
attendono ottusamente al semaforo,
o si curvano sui titoli, senza assimilare nulla.
LA PORTA
Fuori sotto il sole s’erge un corpo.
È crescita del mondo solido.
È parte del muro di terra del mondo.
Le piante della terra – quali i genitali
e l’ombelico infloreo
vivono nei suoi crepacci.
Pure alcun creature della terra – quali la bocca.
Sono tutte radicate nella terra, o mangiano terra, terrose,
ispessendo il muro.
Ma c’è un ingresso nel muro –
un nero ingresso:
la pupilla dell’occhio.
Per quell’ingresso giunse Corvo.
Volando da sole a sole, trovò questa dimora.
ESSERINO
O esserino, che ti nascondi dai monti tra i monti
ferito dalle stelle e che perdi ombra
che mangi la terra medicinale.
O esserino piccolo senz’ossi piccolo senza pelle
che ari con la carcassa di un fanello
che mieti il vento e trebbi le pietre.
O esserino, che tambureggi nel cranio di una mucca
che danzi con le zampette di un moscerino
col naso d’un elefante con la coda d’un coccodrillo.
Diventato così saggio diventato così terribile
suggendo i muffiti capezzoli della morte.
Siediti sul mio dito, cantami nell’orecchio, o esserino.
PENSIERO-VOLPE
Immagino la foresta di questo momento di mezzanotte:
altro è vivo
oltre la solitudine dell’orologio
e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita.
Attraverso la finestra non vedo stelle:
qualcosa più vicino
sebbene sia più profonda entro l’oscurità
sta penetrando la solitudine:
freddo, delicatamente come la neve scura,
il naso di una volpe tocca un ramoscello, una foglia;
due occhi servono un movimento che adesso
e ancora adesso e adesso e adesso
depone chiare tracce sulla neve
tra gli alberi, e cautamente un’ombra
storpia si trascina tra ceppi e nell’incavo
di un corpo che ha l’audacia di giungere
attraverso radure, un occhio,
un verde fondo e dilatato,
brillante e concentrato,
che se ne viene per i fatti suoi
sino a che, con improvviso acuto caldo puzzo di volpe
non penetri la buca nera della testa.
Ancora senza stelle è la finestra; batte l’orologio,
la pagina è tracciata.
5 poesie di Ted Hughes (Mytholmroyd, 17 agosto 1930 – Londra, 28 ottobre 1998)
tratte da “Pensiero-volpe e altre poesie”, a cura di Camillo Pennati (Mondadori, 1973).
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
-Traduzione di Giovanni Buttafava e Serena Vitale-
ADELPHI EDIZIONI – Milano
In una delle sue vite precedenti Iosif Brodskij fu sicuramente italiano. E quando l’esilio lo costrinse a lasciare la Russia, a cambiare continente e impero, il poeta si affrettò a tornare nel paese per cui aveva sempre nutrito una lancinante nostalgia, che aveva illuminato la sua memoria con squarci di luce anche nei plumbei anni dei soprusi e della persecuzione. Venne in Italia, e lo colse come una vertigine la gioia dell’agnizione: riconobbe volti, vie, piazze, calli, lungarni, luoghi di battaglie, antichissimi compagni di avventure e disastri. Riconobbe soprattutto il profumo del mare e per una volta ancora ammirò i prodigi dell’acqua, la pronuba che aveva per sempre apparentato le sue due patrie: quella reale e quella del ricordo, Pietroburgo e Venezia. In Italia, Brodskij entrava nel paesaggio come la figura del donatore in una pala d’altare. E quel panorama di rovine e smozzicate vestigia esaltava in lui la percezione del fondale necessario di ogni letteratura: il tempo.
Iosif Brodskij- Poeta russo (Leningrado 1940 – New York 1996)
In copertina-Illustrazione tratta dall’ Hypnerotomachia Poliphili, Aldo Manuzio, Venezia, 1499.
ADELPHI EDIZIONI S.p.A-
Via S. Giovanni sul Muro, 14
20121 – Milano
Tel. +39 02.725731 (r.a.)
Iosif Brodskij- Poeta russo (Leningrado 1940 – New York 1996).Di famiglia ebrea, autodidatta, avendo lasciato la scuola a 15 anni, cominciò a pubblicare le sue poesie nel 1958. Processato per “parassitismo”, subì un periodo di reclusione (1964-65). Espulso dal suo paese nel 1972, ha vissuto negli USA, dove sono apparse tutte le sue raccolte di versi: Stichotvorenija i poemy (“Poesie e poemi”, 1965); Ostanovka v pustyne (1970; trad. it. Fermata nel deserto, 1979); Konec prekrasnoj epochi (“Fine di una bellissima epoca”, 1977); Čast reči (“Parte del discorso”, 1977); Rimskie elegii (“Elegie romane”, 1982); Novye stansy k Auguste (“Nuove stanze ad Augusta”, 1983). Altra traduzione italiana: Poesie 1972-1985 (1986). Fedele a una tradizione che egli tuttavia rielabora in modi personali, arricchendola in particolare di suggestioni che provengono non solo dalla lezione di O. E. Mandel´štam e di B. L. Pasternak, ma anche da J. Donne, T. S. Eliot e W. H. Auden, e dalla conoscenza della Bibbia, B. è poeta intimo e speculativo, cantore di una memoria lucida e disincantata, lontano da tentazioni declamatorie. In inglese ha pubblicato una raccolta di saggi, ricordi e ritratti (Less than one, 1986, trad. it. in 2 voll.: Fuga da Bisanzio, 1987, e Il canto del pendolo, 1987), in italiano Fondamenta degli Incurabili (1989). Nel 1987 gli è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura. Negli anni Novanta ha continuato a risiedere negli Stati Uniti, dove ha svolto attività accademica e dove è stata pubblicata la sua ultima raccolta di saggi in inglese, On grief and reason (1995; trad. it. 1998), e una raccolta di poesie, in parte tradotte, in parte composte direttamente in inglese, dal titolo So forth (1996). In traduzione italiana è stata pubblicata la raccolta Poesie italiane (1996), voluta espressamente dal poeta. Nel 1989 era stato “riabilitato” nella sua patria, che negli anni Novanta manifestò un crescente interesse per il poeta. È stata pubblicata una prima raccolta di opere, Sočinenija Josifa Brodskogo (“Opere di Iosif Brodskij”, 4 voll., 1992-95), e dopo la sua morte si è dato inizio alla pubblicazione della sua opera completa. Inoltre sono apparsi alcuni volumi di versi, Bog sochranjaet vsë (“Dio conserva tutto”, 1992) e Pejsaž s navodneniem (“Paesaggio con inondazione”, 1995), e il volumetto dedicato alla poetessa M.I. Cvetaeva (O Cvetaevoj “Sulla Cvetaeva”, 1997). Per suo espresso desiderio è stato sepolto a Venezia.
Roma- SottoSopra Art Studio proroga la mostra:” Mediterraneo e Donna”-
Roma-SottoSopra Art Studio è lieto di annunciare la proroga della mostra “Mediterraneo e Donna”, che resterà aperta al pubblico fino al 5 ottobre 2024, dando così l’opportunità a un numero maggiore di visitatori di immergersi in questo emozionante viaggio artistico.
La mostra esplora le tradizioni mediterranee e la figura femminile attraverso l’opera di dodici artisti contemporanei di grande talento: Annamaria Iodice, Emiliano Esposto, Esme Sbragia, Federica Cipriani, Ganga Art (Daniele Gangarossa), Loli (Lobat Mirsadeghi), Marco Curatolo, MoniKart (Monica Roganti), Patrizia Barone, Pika (Yasnier Rivera Farrés), Rosanna Cerutti, SerGiotto (Sergio Viscardi)
L’esposizione è articolata in cinque aree tematiche che esplorano la cultura, la società, le esperienze quotidiane, la moda e l’ambiente mediterraneo, con un’attenzione speciale alla figura femminile e al suo ruolo storico e contemporaneo.
Ogni artista porta una visione unica, contribuendo a costruire un mosaico di storie e immagini che celebrano la ricchezza culturale e sociale del Mediterraneo e della donna.
Artisti in mostra:
– Annamaria Iodice: Materiali ecocompatibili incontrano la raffinatezza dell’arte orafa.
– Emiliano Esposto: Pennellate che evocano la fragilità dell’animo umano.
– Esme Sbragia: Innovativi collage digitali che trasportano in mondi futuristici.
– Federica Cipriani: Esplosione di colore e fantasia per celebrare la forza femminile.
– Ganga Art (Daniele Gangarossa): Innovazione attraverso pixel e codici.
– Loli (Lobat Mirsadeghi): Visioni simboliche che invitano alla riflessione.
– Marco Curatolo: Ritratti che narrano storie umane profonde.
– MoniKart (Monica Roganti): Opere che riflettono una visione personale e intensa della realtà
– Patrizia Barone: La tradizione sartoriale rivive nei suoi tessuti.
– Pika (Yasnier Rivera Farrés): Colori caraibici che danzano sulla tela.
– Rosanna Cerutti: Esplora le profondità dell’universo femminile.
– SerGiotto (Sergio Viscardi): Arte poliedrica che fonde pittura, cinema e musica.
Cogliete l’occasione per visitare “Mediterraneo e Donna” in questo periodo esteso, immergendovi nelle narrazioni visive che queste opere propongono.
Per ulteriori informazioni e dettagli sulla mostra, potete contattarci all’indirizzo
e-mail: sottosopraartstudio@hotmail.com o al numero 351 757 2311.
Informazioni, orari e prezzi
Mostra: “Mediterraneo e Donna”
Luogo: SottoSopra Art Studio, Via Ardea 10, Roma, Zona San Giovanni
Nuove Date: Dal 14 settembre al 5 ottobre 2024
Vernissage: 14 settembre 2024, ore 18:00
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