ROMA -Al Museo Storico della Fanteria di Roma il Pittore, ceramista, scultore, il catalano Joan Miró, riconosciuto tra gli artisti più rivoluzionari del XX secolo, sarà protagonista della mostra intitolata Miró – Il costruttore di sogni, al Museo Storico della Fanteria di Roma dal 14 settembre al 23 febbraio 2025. Il progetto, dal carattere antologico, prodotto da Navigare Srl con il patrocinio di Ambasciata di Spagna in Italia; Instituto Cervantes di Roma; Regione Lazio e di Città di Roma, e a cura di Achille Bonito Oliva, Maïthé Vallès-Bled e Vincenzo Sanfo, si compone di una selezione di 140 opere rappresentative dell’arte di Miró, del suo rivoluzionario linguaggio e delle sperimentazioni che hanno caratterizzato circa 60 anni della sua lunga esistenza (1893-1983), lasciando una impronta indelebile nell’arte e nella cultura del nostro tempo. Con una raccolta di opere realizzate tra il 1924 e il 1981, la mostra renderà omaggio alla singolarità del grande artista e alla sua straordinaria attitudine alla libertà, alla sperimentazione e all’ indipendenza da ogni dogma artistico, sociale e culturale. Poco conosciute al grande pubblico, poiché appartenenti a collezionisti privati italiani e francesi, le opere in esposizione saranno presentate in un percorso diviso in 8 aree tematiche: Litografie; Manifesti; Poesia; Ceramiche; Derrière le Miroir; Pittura; Musica; Miró e i suoi amici, ognuna delle quali riferita alle passioni e agli attraversamenti dell’arte di Miró. In particolare, tra le opere che saranno esposte, spiccano numerose litografie curate da stampatori e incisori di eccellenza come Fernand Mourlot, al quale si deve la perfetta e ineguagliabile resa di colore nel procedimento di stampa delle preziose opere grafiche. Saranno presenti, inoltre, anche alcuni esemplari di ceramiche dipinte a mano e le tavole litografiche disegnate per accompagnare i versi di Parler Seul del poeta dadaista Tristan Tzara (1950), oltre ai bellissimi bozzetti per la messa in scena di L’Uccello Luce (1981) di Silvano Bussotti, realizzati in occasione della Biennale di Venezia. L’esposizione sarà arricchita anche da una piccola sezione intitolata Miró e i suoi amici comprendente una decina di opere di Man Ray, Picasso, Dalí, e fotografie di Cohen e Bertrand, oltre che libri e documenti dei poeti Breton, Éluard, Chair, Tzara per evidenziare le diverse connessioni di Miró con il mondo dell’arte e della cultura del tempo. La mostra intende porre all’attenzione del visitatore, in particolare, tre aspetti della creatività artistica del genio catalano nato a Barcellona: la rivoluzione del linguaggio artistico ‒ portato da uno spazio introspettivo a un equilibrio tra astratto e figurativo, tale da realizzare un principio di impossibilità, in cui l’arte supera ogni tipo di confine; la dimensione onirica e lirica ‒ permeata dalla sfrenata libertà di una sensibilità tradotta in colore, materia e segni laddove la razionalità, in un contesto storico in cui le dittature politiche segneranno alcuni dei momenti più bui per la Spagna e per il resto del mondo, tace; e, infine, la tenace capacità di resistenza, in cui la joie de vivre e il fervore espressivo si realizzano in un linguaggio a sé stante, nella dimensione inafferrabile e primitiva dell’io più profondo. Miró – Il costruttore di sogni è una iniziativa culturale di Difesa Servizi S.p.A., co-prodotta da Art Book Web e Diffusione Cultura Srl.
Dal 14 Settembre 2024 al 23 Febbraio 2025
Roma
Luogo: Museo storico della Fanteria
Indirizzo: P.zza Santa Croce in Gerusalemme 7
Orari: dal lunedì al venerdì dalle ore 9:30 alle ore 19:30 Sabato, domenica e festivi dalle ore 9:30 alle ore 20:30 Ultimo ingresso 30 minuti prima dell’orario di chiusura
Costo del biglietto: Intero: 15,00€ – Weekend e festivi Intero: 13,00€ – Feriali Ridotto in biglietteria: 10,00€ – Tutti i giorni: giovani fino ai 14 anni, giornalisti con tesserino, gruppi oltre 10 pax, universitari, convenzioni, over 65, diversamente abili e accompagnatori, personale delle Forze Armate Ridotto scuole: 5,00€ Biglietto Open: 16,00€ – Salta la fila Gratuito: bambini fino ai 5 anni L’audioguida ufficiale è Navibook ed è inclusa nel costo del biglietto
Biografia di Joan Miró -(Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983) è stato uno degli autori più importanti di tutto il Novecento e ha dedicato la sua carriera a una continua sperimentazione artistica. La sua vicenda è stata spesso accostata all’avanguardia surrealista, di cui fece parte dal 1924 al 1929. Tuttavia, Miró si distaccò dal movimento dopo pochi anni, a causa del rigido schematismo imposto dal teorico più importante del sodalizio: André Robert Breton (Tinchebray, 1896 – Parigi, 1966). L’imposizione di uno stile era in netta contrapposizione con la continua sperimentazione sia in ambito tecnico che stilistico di Joan.
L’immaginario artistico di Joan Miró è stato alimentato da influenze di vario genere, a partire da quelle più antiche, per esempio le pitture rupestri primitive, le opere africane e quelle cattoliche catalane. Tra i suoi modelli compaiono anche le pitture dei grandi maestri nordici del XV secolo, come Hieronymus Bosch (’s-Hertogenbosch, 1453 – 1516) e le opere più moderne dell’espressionista Edvard Munch (Løten, 1863 – Oslo, 1944). Eppure, le sue due più grandi fonti di ispirazione furono le opere e le teorie dei suoi compagni surrealisti e quelle del grande maestro Pablo Picasso(Malaga, 1881 – Mougins, 1973). Joan utilizzò questi modelli per creare il suo stile, caratterizzato da un forte spiritualismo e un’incessante ricerca di un linguaggio universalmente comprensibile.
La vita di Joan Miró
Joan Miró i Ferrà nacque a Barcellona dal matrimonio tra l’orefice Miquel Miró Adzerias e Dolores Ferrà i Oromí. Dopo una breve parantesi come impiegato di un ufficio, Miró si iscrisse all’Accademia privata di Francisco Galí (Barcellona, 1880 – 1965) a Barcellona. Quest’ultimo era un maestro innovativo, che aiutò Miró a elaborare i principi base della sua pittura, quali la percezione intuitiva delle forme e una straordinaria sensibilità.
In seguito, Joan si iscrisse alla Libera Accademia di Disegno del Cercle Artístic de Sant Lluc di Barcellona. Nella città catalana, Miró ebbe modo di conoscere altri giovani artisti e le opere di alcuni dei più grandi maestri europei. Una delle occasioni più importanti fu la mostra organizzata a Barcellona nel 1916 dal gallerista francese Ambroise Vollard (Saint-Denis, 1866 – Versailles, 1939), dove furono esposti alcuni dei capolavori di Vincent van Gogh (Zundert, 1853 – Auvers-sur-Oise, 1890) e dell’avanguardia espressionista dei Fauves. Durante la mostra, Il giovane Joan rimase impressionato dall’accentuata espressività delle opere. Sempre in questi anni, Miró entrò in contatto con l’avanguardia artistica Dada, della quale ammirava la volontà di rompere con la tradizione e di avviare una ricerca artistica in continuo mutamento.
Nel 1919 Joan Miró si trasferì per la prima volta a Parigi, dove scoprì un ambiente a metà tra l’innovazione e la tradizione. Infatti, nella capitale francese il giovane catalano passava le giornate a discutere con Pablo Picasso e a studiare i capolavori antichi del Louvre.
L’incontro più importante del soggiorno parigino fu quello con l’avanguardia surrealista e i suoi esponenti. Il rapporto tra il surrealismo e Miró fu molto particolare, perché l’artista catalano non aderì mai completamente al movimento, ma vi rimase sempre affiancato e in parte autonomo. Tra i capisaldi del movimento Joan si appropriò di quello dell’automatismo psichico, ovvero la trascrizione in pittura dei propri pensieri, senza il filtro della ragione. Nel 1925 Joan Miró partecipò alla sua prima mostra surrealista alla Galleria Pierra, che riscontrò un notevole successo.
Tuttavia, a seguito di una serie di scontri ideologici, nel 1929 Miró decise di uscire dal movimento surrealista, anche se non se ne distaccò mai completamente almeno dal punto di vista ideologico.
Il 12 ottobre 1929 Joan Miró sposò Pilar Juncosa a Palma de Maiorca e i due si stabilirono a Parigi, dove l’artista avviò un’importante fase di sperimentazione tecnica. Infatti, in questi anni Joan diede vita a numerosi collage e costruzioni, con le quali avviò l’“assassinio della pittura”, come segno di ribellione nei confronti delle tecniche pittoriche tradizionali. Per “assassinio della pittura” Miró intendeva la volontà di andare oltre la tecnica tradizionale della pittura a olio, per ricerca nuovi metodi di ricerca, in risposta alle esigenze contemporanee.
I primi anni Trenta furono molto fortunati per l’artista catalano, dato che diede alla luce sua figlia María Dolores ed espose in varie gallerie di tutto il mondo, ottenendo un riconoscimento internazionale.
Questo periodo rigoglioso della pittura di Miró venne acquetato dalla situazione storico-politico degli ultimi anni Trenta. In questo periodo, Joan presagiva la sensazione che qualcosa di terribile stesse per accadere e le sue paure si realizzarono nel 1929, quando si instaurò la dittatura di Francisco Franco (Ferrol, 1892 – Madrid, 1975). Il forte turbamento influenzò anche la sua arte, che si vestì di un crudo realismo dai toni acidi, definito dai critici “tragico”, dal quale scaturirono opere inquietanti e cupe.
La guerra lo portò sempre più lontano dalla realtà, spingendolo verso un’evasione dalla quotidianità. Questo senso di estraniazione e il suo continuo sperimentalismo confluirono nella serie delle Costellazioni, che il pittore e storico Roland Algernon Penrose (Londra, 1900 – Chiddingly, 1984) definì “uno degli episodi più brillanti della sua carriera”. Durante la realizzazione di queste composizioni Miró ritornò in Spagna nel 1941, a Montroig, dove poté affinare il suo stile, improntato alla creazione di un linguaggio universale e comune.
A partire dal 1944 Joan Miró iniziò ad approcciarsi a una nuova tecnica artistica, la ceramica, con la quale realizzò le prime in sculture nel 1946. Il catalano aveva già eseguito le costruzioni, ma con questo nuovo materiale ebbe modo di realizzare delle sculture monumentali, caratterizzata da una semplicità formale tipica delle opere primitiviste.
Tra il 1947 e il 1948 Miró si recò per la prima volta negli Stati Uniti dove conobbe il celebre pittore Paul Jackson Pollock (Cody, 1912 – Long Island, 1956), inventore del dripping, e il mercante d’arte Aimé Maeght (Hazebrouck, 1906 – 1981, Saint-Laurent-du-Var), che si iniziò a occupare della vendita delle opere di Miró in Europa.
Tra il 1956 e il 1958 Joan realizzò i due murales in ceramica per la sede centrale dell’Unesco a Parigi, rappresentanti uno il sole, l’altro la luna. Per le due pareti Miró trasse ispirazione dal Park Güell di Antoni Gaudí i Cornet (Reus, 1852 – Barcellona, 1926) a Barcellona e le pitture rupestri della Grotta di Altamira. Per la realizzazione dei murales, dopo un primo progetto fallimentare con delle piastrelle di maiolica, l’artista catalano scelse di adagiare delle piastrelle irregolari per creare uno sfondo, sul quale dipingere le immagini con una scopa di foglie di palma. L’operazione fu molto complicata, ma il risultato finale venne acclamato sia dal grande pubblico che dalle istituzioni, al punto che Miró ricevette il Guggenheim International Award.
Nell’ultima parte della sua vita Joan Miró continuò a dedicarsi alla sperimentazione, passando da una tecnica artistica all’altra. Per esempio, a partire dal 1966 si dedicò alla realizzazione di sculture in bronzo, per le quali ricavava i materiali da fondere da oggetti di scarto, così da poter unire una delle tecniche artistiche più antiche e nobili con l’umiltà di oggetti inutili.
Oltre alle sculture bronzee, l’artista si confrontò con materiali insoliti e iniziò a bruciare o lacerare le tele prime di dipingerle, dimostrando una grande tenacia anche a settantatré anni.
Nel 1968 Joan ricevette la laurea honoris causa dall’Harvard University di Cambridge e furono organizzate numerose mostre per omaggiarlo. Infine, nel 1975 venne inaugurata la Fundació Joan Miró a Barcellona, dove furono raccolti oltre diecimila pezzi. L’artista catalano morì nel 1983 a Palma de Mallorca.
Stile e capolavori di Joan Miró
La formazione di Joan Miró fu caratterizzata dallo studio delle opere d’arte della sua terra d’origine, di quelle dei primitivi, ma anche dei grandi capolavori degli artisti contemporanei.
Durante una prima fase compresa tra il 1917 e il 1923, Joan si dedicò alla realizzazione di opere dal carattere descrittivo e ingenuo. In queste tele è presente il forte rapporto tra l’artista e la storia della sua terra natia, la Catalogna, che da secoli rivendicava l’indipendenza nei confronti della Spagna. I paesaggi catalani e i suoi abitanti diventano i protagonisti delle sue opere e la dimensione popolare si fonde con quella poetica e politica. Lo stile è calligrafico, a tratti perfino descrittivo, come nel caso dell’opera L’Orto e l’asino (1918). In questo dipinto Miró rappresenta un paesaggio tipico delle campagne catalane, in cui i colori caldi e familiari della sua patria si fondono con un immaginario cubista. Infatti, il cielo viene scomposto in varie fasce cromatiche e la disposizione geometrica dei campi dà vita a un mosaico composito e innaturale. Inoltre, Miró sembra preannunciare il mondo favolistico e onirico che poi si scatenerà con l’adesione all’avanguardia surrealista.
Intorno al 1924 Joan Miró si avvicinò all’avanguardia surrealista, che condizionò per sempre il suo stile. Da questo momento le sue opere si colorarono di immagini policrome e fantasiose, in cui i soggetti catalani vennero sostituiti da creature carnevalesche e vivaci. Il manifesto artistico di questa fase è riscontrabile nel dipinto Il Carnevale di Arlecchino (1924). La tela fu realizzata in una fase di estrema povertà della vita di Miró, che lo costrinse a soffrire la fame. Stando ai racconti del pittore la fame e l’isolamento nel suo studio gli causarono numerose allucinazioni, che il pittore cercava di immortalare nelle sue opere, come nel caso del Carnevale di Arlecchino. Nell’opera è rappresentato un interno in cui sono raffigurati numerosissime creature polimorfe, con l’accompagnamento di alcune note musicali. Tra i vari elementi compare anche la scala, uno dei soggetti più ricorrenti nell’immaginario di Miró, che simboleggia la continua sperimentazione artistica. Il protagonista dell’opera è Arlecchino, un personaggio comico tappezzato di colori diversi, che ama fare scherzi. In realtà si tratta dell’autoritratto metaforico dell’autore, che si raffigura come un giocoso padrone di casa pronto ad andarsene dalla festa da lui stesso organizzata, perché annoiato da un’invenzione ormai priva di nuovi spunti creativi.
Nella fase successiva alla parziale adesione al movimento surrealista, Miró studiò delle nuove forme di rappresentazione, per andare oltre i modelli consolidati. La pittura di questa fase si svuotò dell’elemento figurativo, lasciando ampio spazio a sfondi monocromatici e a figure stilizzate, talvolta accompagnate da scritte. Uno dei più grandi capolavori di questo periodo fu il Ritratto di Madame K. (1924), in cui il dato figurativo sembra scomporsi e stilizzarsi.
Il periodo seguente la scomposizione dei soggetti pittorici fu quello della sperimentazione delle opere polimateriche, composte di materiali inusuali. Si trattava di composizioni realizzate con oggetti in grado di riecheggiare un determinato soggetto mediante una serie di allusioni sensoriali o metaforiche. Per esempio, nella serie delle Ballerine spagnole non compaiono mai figure o silhouette che richiamano le danzatrici. Tuttavia, l’essenza delle ballerine è suggerita da elementi delle composizioni, come la piccola immagine di una scarpetta ricavata da un giornale o una leggerissima piuma.
Dopo una prima fase di turbamento, dovuta alle vicende belliche che scossero tutta Europa, Joan Miró riuscì a ritrovare uno stato di quiete, che lo portò all’esecuzione della serie delle Costellazioni. Si tratta di ventitré tempere su carta, realizzate tra il 1940 e il 1941, in cui l’artista dialoga con i corpi celesti, che fin da bambino lo appassionarono. In mezzo alle rappresentazioni varie costellazioni compaiono alcuni dei soggetti tipici dell’immaginario di Miró, come gli arabeschi, le donne, le note musicali, gli uccelli e le scale. Tra le ventitré opere è degna di nota una delle ultime tempere eseguite da Joan: L’Uccello meraviglioso rivela l’ignoto a una coppia di amanti. In questo capolavoro l’artista collega le varie figure tramite una linea sottilissima, che accentua il collegamento intrinseco tra ogni immagine, comprese quelle all’apparenza meno importanti.
Alla fine della sua carriera, Miró rimase affascinato dalla cultura giapponese, che conobbe mediante delle mostre realizzate a Tokyo e a Kyoto. In particolare, ciò che impressionò Joan fu la scoperta dell’estrema vicinanza tra la sua poetica e l’haiku (dei brevi componimenti giapponesi dal significato molto profondo). Un parallelismo tra queste poesie e la sua arte è riscontrabile nel dipinto L’oro dell’azzurro (1967), in cui una grande macchia blu viene equilibrata da altre nere più piccole, su un luminoso sfondo dorato. In questa opera la scoperta della cultura giapponese si fonde con alcuni dei simboli tipici dell’arte di Miró, come le costellazioni e la sua passione per la musica.
Joan Miró fu uno degli artisti europei più importanti del Novecento e dedicò la sua vita alla sperimentazione di nuove tecniche e alla ricerca di un linguaggio universale, immediatamente comprensibile da tutti.
Fonte della Biografia Finestre sull’Arte è una testata giornalistica che si occupa di arte antica e contemporanea. Il giornale, nato nel 2017, ha origine dall’omonimo progetto divulgativo che nel 2015 ha ricevuto il Premio Silvia Dell’Orso come miglior progetto italiano di divulgazione storico-artistica. Oggi, Finestre sull’Arte è una delle riviste più seguite del settore, e alla versione online abbina, dal 2019, anche un trimestrale cartaceo. Finestre sull’Arte è edita da Danae Project S.R.L.. Per scrivere alla redazione: posta AT finestresullarte.info.
Per le nozze del sig. avv. Giuseppe Bongiovanni di Reggio nell’Emilia colla signora Fanny Bolasco Pintor-Pasella di Cagliari. Versi, Reggio-Emilia, Tipi di S. Calderini e figlio, 1881.
Studio su Gian Vincenzo Gravina, prefazione di Giosuè Carducci, Bologna, Zanichelli, 1885.
Dell’ode alla musa di Giuseppe Parini, Firenze, Sansoni, 1889.
Il canto XIX dell’Inferno letto da Alfonso Bertoldi nella Sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, G. C. Sansoni, 1900.
Prose critiche di storia e d’arte, Firenze, Sansoni, 1900.
La bella donna del Paradiso terrestre, Firenze, Ufficio della Rassegna nazionale, 1901.
Il canto XI del Paradiso letto da Alfonso Bertoldi nella Sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, G. C. Sansoni, 1903?
Il canto XII del Paradiso letto da Alfonso Bertoldi nella Sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, G. C. Sansoni, 1912?
Nostra maggior musa, Firenze, G. C. Sansoni, 1921.
Curatele
Antonio Canova, Sei lettere autografe di Antonio Canova tratte dal Museo civico e raccolta Correr di Venezia da A. Bertoldi, Venezia, Tip. del commercio di M. Visentini, 1879.
Giuseppe Parini, Le odi illustrate e commentate da Alfonso Bertoldi, Firenze, Sansoni, 1890.
Vincenzo Monti. Poesie, scelte, illustrate e commentate da Alfonso Bertoldi, Firenze, Sansoni, 1891.
Alessandro Manzoni, Poesie liriche con note storiche e dichiarative di Alfonso Bertoldi, Firenze, G. C. Sansoni, 1892.
Vincenzo Monti, Lettere inedite e sparse di Vincenzo Monti raccolte, ordinate e illustrate da Alfonso Bertoldi e Giuseppe Mazzatinti, Torino-Roma, L. Roux e c., 1893-1896.
Pietro Giordani, Venti lettere inedite di Pietro Giordani con un discorso di Alfonso Bertoldi, Reggio nell’Emilia, Stab. degli Artigianelli, 1895.
Alessandro Manzoni, Prose minori. Lettere inedite e sparse. Pensieri e sentenze con note di Alfonso Bertoldi, Firenze, G. C. Sansoni, 1896.
Ugo Foscolo, Tre lettere inedite di Ugo Foscolo, a cura di Alfonso Bertoldi, Prato, Tip. Giachetti, figlio e C., 1903.
Biografia di Vincenzo Monti nacque ad Alfonsine, borgo romagnolo facente parte dei dominii dello Stato Pontificio (attualmente in provincia di Ravenna), il 19 febbraio del 1754, figlio di Fedele Maria Monti, un perito agrimensore, e Domenica Maria Mazzari, entrambi proprietari d’un podere nei pressi della zona. Aveva tre fratelli maggiori, Cesare, che fu prete, Giovan Battista, frate cappuccino, e Francesc’Antonio, oltre che cinque sorelle, tre delle quali, Lucia Dorotea, Rosa Geltrude e Maria Maddalena, diventeranno monache. Narrano i biografi che all’età di cinque anni cadde nel fosso del mulino della proprietà, salvandosi miracolosamente.[1]
Ad otto anni fu condotto nella vicina Fusignano, dove ebbe come maestro don Pietro Santoni (1736-1823), che era anche un rinomato poeta dialettale. Nel 1766 entrò nel seminario di Faenza, studiando latino con il famoso Francesco Contoli.[2] Vi rimase dai dodici ai diciassette anni (a tredici prese la tonsura) e nel 1771 manifestò l’intenzione di entrare nell’Ordine Francescano. Privo però di una vera vocazione, accantonò presto l’idea, trasferendosi con il fratello Francesc’Antonio a Ferrara, dove studiò diritto e medicina presso l’Università degli Studi. Dovette lottare per abbandonare definitivamente il borgo natìo, dove la famiglia, totalmente insensibile alla letteratura, voleva trattenerlo. Molto interessante al proposito appare la lettera che il giovane Monti scrisse, nel 1773, all’abate longianeseGirolamo Ferri, suo professore nel seminario faentino:
«La dittatura è passata ai miei fratelli, che hanno intenzione risoluta di levarmi da Ferrara…
Signor Maestro, … se ella scopre per accidente un nicchio, io sono in caso d’entrarvi dentro
a piè pari, e in qualità di quel che si vuole, e presso chiunque.»
(Lettera a Girolamo Ferri, 1773)
Si intravedono subito alcuni elementi chiave della sua personalità, fra cui la tendenza ad accomodarsi a diversi fini a seconda delle esigenze personali. Soprattutto per questo approfondì gli studi biblici, emergenti nella prima parte della sua produzione.
Dimostrò comunque un talento sorprendente e precoce per le lettere e già nel luglio 1775 venne ammesso all’Accademia dell’Arcadia con il soprannome di Antonide Saturniano, ingraziandosi, bello d’aspetto,[3] le prime protettrici, l’anziana marchesa Trotti Bevilacqua[4] e la contessa Cicognini. Cominciò a scrivere versi latini di argomento sacro per farsi notare dagli ambienti ecclesiastici (non si dimentichi poi che a Ferrara spopolavano gli apprezzatissimi e pii poeti Alfonso Varano e Onofrio Minzoni), ma sin d’ora vi si mescolò il profano, come si evince dal Nuovo amore, canzonetta in quartine dello stesso 1775, in cui con un finto pathos unito a distacco si fa riferimento all’amore per una “bella toscanella” conosciuta nel collegio di Santa Trinita di Firenze, dov’era compagna della sorella.[5] Questa infatuazione giovanile evidentemente non fu gran cosa e, quando arriveranno le pene vere d’amore, più avanti, si noterà la differenza.[6]
Esordì con componimenti di vario tipo, tra cui si possono ricordare i sonetti Il matrimonio alla moda e Il ratto di Orizia, debitori di Parini il primo, di Giuliano Cassiani (e del suo Ratto di Proserpina) il secondo, in conformità ai fermenti arcadici del periodo. Copiosa fu ai primordi anche la produzione latina, che delizierà Niccolò Tommaseo.
Poté pubblicare l’anno successivo il suo primo libro, La visione di Ezechiello (in onore di don Francesco Filippo Giannotti, arcivescovo di Minerbio, che aveva visto predicare a Ferrara), impostato sul modello varaniano delle Visioni sacre e morali, che godeva di molta fortuna all’epoca, specialmente nell’entourage arcadico.[7] Di stesso stampo sono altre due Visioni coeve, dedicate ancora ad alti prelati.
Sin dall’inizio si manifesta una tendenza spesso ricorrente nel Monti: la rielaborazione di modelli precedenti. Il poeta non inventa nulla di nuovo, ma nuovo è il modo in cui fonde assieme le fonti, creando così uno stile affatto peculiare. Qui ovviamente è l’Arcadia a dominare (e il suo stile non abbandonerà mai l’ala dell’Accademia) e non si può tacere l’ammirazione nutrita in questo momento per Frugoni, ma evidenti, come si può intuire già dal titolo, sono anche le citazioni bibliche, come fin dall’inizio Dante (soprattutto) e Petrarca sono nomi imprescindibili del suo repertorio.
Il 26 maggio 1778, al seguito del legato pontificio a Ferrara – il cardinale Scipione Borghese – si recò a Roma, per cercare gloria e fuggire l’angustia di un mondo divenutogli troppo stretto, e vi ottenne l’appoggio del celebre archeologoEnnio Quirino Visconti, cui dedicò l’anno seguente un saggio di poesie dall’influsso metastasiano (si consideri solo il titolo dell’ultimo componimento, Giunone placata, che ricorda la Didone abbandonata). Vide la luce, nello stesso anno del Saggio, anche la Prosopopea di Pericle, poema d’occasione suggerito a Monti da Visconti, in seguito al ritrovamento in marzo, in una villa di Tivoli, di un’erma del condottiero ateniese. Tutto ciò funse da pretesto per glorificare l’età presente, considerata superiore a quella classica.
Le opere di questo periodo sono fortemente influenzate dalla necessità di emanciparsi economicamente dalla famiglia ed è quindi naturale che in esse prevalga il tono adulatorio, all’interno, tuttavia, di una cornice stilistica armoniosa e cristallina, in cui gli stilemi neoclassici predominano, anche se non mancano contaminazioni provenienti dalla letteratura sepolcrale e dall’incipiente gusto romantico. In ogni caso, come già a Ferrara, l’intento è quello di sfruttare le occasioni contingenti per accattivarsi la protezione dei potenti.
Per qualche mese, tuttavia, la produzione poetica fu trascurabile e Monti si diede alla lettura di alcuni filosofi, tra i quali Locke, Leibniz, Condillac ed Helvetius.[9]
L’ingresso nella corte papale
Nel 1781 il papa romagnolo Pio VI, al secolo Giannangelo Braschi, mecenate e poeta dilettante, aveva chiamato a Roma il nipote Luigi Onesti, unendolo in matrimonio con la quindicenne Costanza Falconieri, che possedeva una ricca dote. L’evento suscitò un profluvio di componimenti arcadici, tra i quali quello del Monti, il poemetto in terzine La bellezza dell’universo, che incantò la platea del Bosco Parrasio e meritò la stima del pontefice, che lo nominò segretario del nipote principe Luigi Onesti (cui era ora stato associato il cognome Braschi), facendolo entrare nelle grazie dell’ambiente papalino.
Un cardinale francese, nel frattempo, gli commissionò, dietro lauta ricompensa, l’ennesima prestazione d’occasione; si tratta di due cantate in onore del Delfino di Francia (una delle quali musicata dal Cimarosa) che era appena venuto alla luce, Luigi Giuseppe.
Infausto nelle intenzioni e nell’esito fu Il Pellegrino Apostolico (1782), in cui con tono enfatico, in due canti, celebrò il successo della visita papale a Vienna, dove Pio VI incontrò l’ostile Giuseppe II, nella speranza di giungere ad una conciliazione. Il poema celebra il successo della spedizione, ma in realtà ben presto la visita si rivelò un fallimento e valse anche molte critiche al vescovo di Roma.
I Pensieri d’amore, un’apertura romantica?
Il suo stile abbandonò la fredda adulazione con gli endecasillabi sciolti Al principe Sigismondo Chigi e ancor più con i celebri Pensieri d’Amore, dove freme di passione disperata per una giovinetta che la critica ha identificato nell’educanda Carlotta Stewart, che Monti aveva conosciuto tra settembre e ottobre a Firenze nella casa della livornese Fortunata Sulgher Fantastici[10] e che aveva pensato di sposare, salvo incontrare il diniego dei parenti di lei, ricchi assai più del poeta, che a Roma viveva ancora miseramente. Fortunata e il principe Sigismondo Chigi furono confidenti delle pene amorose del poeta. Il Chigi (Roma 1736 – Padova 1793), Custode del Conclave, ebbe fama di liberale e molto amava la poesia, che praticò con successo, ricevendo anche i complimenti del Visconti. Spirito libero e aperto, si sposò due volte e dovette subire l’accusa, falsa, di aver avvelenato un cardinale per gelosia.[11]
Il modello delle due opere è da ricercare senz’altro nel Werther, che Monti lesse nell’anonima traduzione francese, e con cui condivideva il nome della protagonista femminile. I Pensieri d’amore adottano uno stile più malinconico e sincero e costituiscono le prime avvisaglie di un avvicinamento, forse non emotivo ma certamente formale, alla poetica romantica, tanto che lo stesso Leopardi ne trarrà ispirazione per alcuni dei suoi componimenti più famosi,[12] come si evince da questi versi:
«Alta è la notte, ed in profonda calma
dorme il mondo sepolto,
…Io balzo fuori dalle piume, e guardo;
e traverso alle nubi, che del vento
squarcia e sospinge l’iracondo soffio,
veggo del ciel per gl’interrotti campi
qua e là deserte scintillar le stelle.
Oh vaghe stelle!…»
(Pensieri d’amore, VIII, 124-132)
Ritorno al neoclassicismo
Tuttavia è ancora presto, la sua poesia rimane nel solco della tradizione arcadica e in sintonia con la lezione degli illuministi. Monti continua a frequentare l’Accademia e qui recita le due opere successive, il sonetto Sopra la morte (alla fine saranno quattro, e vedranno la luce nel 1788), molto popolare all’epoca, e l’ode Al signor di Montgolfier, scritta in quartine. Essa trasse spunto dal secondo volo aerostatico della storia con equipaggio, avvenuto a Parigi il 1º dicembre 1783. In una comunione stupita col popolo, Monti ne trae un’opera sincera, non commissionata, imbastita sul paragone tra le imprese della nave Argo e quelle della mongolfiera, in un parallelo volto ad esaltare, come nella Prosopopea, la modernità, e, in un afflato del tutto illuminista, il progresso umano. Benché l’opera sia intitolata ai fratelli Montgolfier, che avevano svolto esperimenti analoghi nei mesi precedenti suscitando grande entusiasmo (tra cui il primo volo umano del 21 novembre su Parigi), il volo descritto da Monti nell’opera non fu realizzato dai Montgolfier bensì dal loro rivale Jacques Alexandre César Charles, assieme a Nicolas-Louis Robert, citati espressamente nel testo assieme a Montgolfier.
Nel 1784 cominciò a metter mano a un testo sul quale sarebbe ritornato per tutta la vita, senza mai riuscire a completarlo. Si tratta della Feroniade, il cui titolo rimanda alla ninfa amata da Zeus e perseguitata da Giunone. Anche qui non manca il pretesto: questa volta si vuole glorificare l’intenzione di Pio VI di bonificare le paludi dell’Agro Pontino, opera che non ebbe lieto esito ma suscitò grande risonanza e anticipò la famosa bonifica mussoliniana. L’opera che ci è stata tramandata conta ben 2000 versi sciolti. L’idea per il tema venne al Monti nel corso delle battute di caccia che conduceva assieme al principe Braschi Onesti nella zona di Terracina, dove vide la fontana Feronia citata da Orazio e si lavò anch’egli ora manusque[13] (le mani e il volto, perché qui ora è naturalmente da intendersi come sineddoche). La critica ha ravvisato gli innumerevoli rimandi stilistici e tematici a Virgilio, mentre Carducci ha parlato di influenza omerica.[14] In ogni caso, sono testimonianze che ben rilevano il gusto neoclassico dell’opera.
La parentesi tragica
Tra il maggio del 1781 e quello del 1783Vittorio Alfieri trascorse il suo secondo soggiorno romano e nell’Urbe fece conoscere alcune delle sue tragedie (sono in particolare gli anni della composizione del Saul, recitato in Arcadia il 3 giugno 1783 alla presenza anche di Monti). Monti, che per Alfieri nutriva un’ammirazione mista a invidia,[15] pensò di virare verso il genere tragico, cercando di soddisfare il pubblico che per opere di questo tipo chiedeva, come ebbe a rilevare Francesco De Sanctis, uno stile che fosse una via di mezzo tra la durezza alfieriana e l’espressività metastasiana.
In questo modo nacque l’Aristodemo, storia dei tormenti di un padre che ha ucciso la figlia per ambizione. La fonte è classica: ci narra la storia in poche righe il greco Pausania, e l’argomento era già stato messo in tragedia nel secolo precedente da Carlo de’ Dottori in un’opera che offre alcuni spunti ravvisabili nel testo montiano.[16] L’opera, rappresentata il 16 gennaio 1787 al Teatro Valle (la prima assoluta risale all’anno precedente, a Parma), riscosse un ampio successo, per quanto non siano poi mancate, in un secondo momento, delle voci critiche. In ogni caso Monti era sempre più protagonista indiscusso della vita letteraria romana. A Parma, inoltre, l’opera fu pubblicata per i tipi di Giambattista Bodoni, editore di prestigio nella città che veniva definita “Atene d’Italia”.
Nell’Aristodemo il rimorso è il vero protagonista del testo, in un’atmosfera a metà strada tra il Racconto d’inverno e Delitto e castigo (seppur non allo stesso livello di pathos e di introspezione psicologica, perché Monti è sempre più leggero, anche quando è solenne) e nella compresenza di varie fonti ispiratrici; oltre a Dante, Petrarca o lo stesso Alfieri, sono ravvisabili le sirene del Nord, tali da giustificare la definizione, per l’opera, di “tragedia sepolcrale”.[17]
Fu durante una rappresentazione privata dell’opera, nel 1786, che il poeta si invaghì della sedicenne Teresa Pichler, che aveva recitato assieme a lui. Questo fu il preludio alle nozze di cinque anni più tardi.[18]
Sull’onda del successo scrisse ancora due tragedie, una modesta, Galeotto Manfredi (1787), e una di maggior spessore, Caio Gracco, che ebbe una gestazione più lunga (1788-1800). La commissione del Galeotto fu assegnata al poeta da Costanza Falconieri, che desiderava una vicenda “domestica”. La trama è tratta dalle Istorie Fiorentine del Machiavelli, dove si narra di come la moglie di Galeotto, signore di Faenza, e figlia di Bentivoglio, signore di Bologna – corrispondente nella realtà a Francesca Bentivoglio e portata sulla scena con il nome di Matilde -, avesse ordito e portato a compimento nel 1488 un complotto per uccidere il consorte, «o per gelosia, o per essere male dal marito trattata, o per sua cattiva natura».[19] Monti, nell’Avvertimento anteposto al testo, dichiara di aver scelto la prima ipotesi, vista la libertà in cui lo lasciavano le varie teorie di Machiavelli.[20]
In una tessitura che richiama un po’ troppo da vicino l’Otelloshakespeariano, Monti non manca di fare polemica, nascondendosi nel personaggio del fido Ubaldo, cui fa da contraltare il traditore Zambrino, sotto le cui spoglie si cela Lattanzi, rivale del poeta. Nonostante ci siano quindi accenti veritieri, l’opera non riscosse successo e il poeta stesso la definì mediocre.[21]
Il Caio Gracco, di cui Plutarco è la fonte principale, riscosse grandi apprezzamenti nella prima milanese del 1802, ma già nel 1788 mostrò i primi fermenti giacobini del poeta, poi temporaneamente rinnegati, mentre la Rivoluzione francese era nell’aria. Si notano però anche tendenze patriottiche, nel riconoscimento della comune origine italica, in un anticipo risorgimentale.
L’ode introduttiva all’Aminta
Nell’aprile 1788 ci fu una nuova collaborazione con Bodoni, che voleva ristampare l’Aminta di Torquato Tasso in occasione delle nozze della figlia ultimogenita della marchesa Anna Malaspina della Bastia, Giuseppa Amalia, con il conte Artaserse Bajardi di Parma (av. 1765-1812). Bodoni chiese al Monti alcuni versi di dedica dell’opera. Nacque così l’ode Alla marchesa Anna Malaspina della Bastia, dove, oltre alle virtù di bellezza e ingegno della nobildonna, si celebrano i meriti della famiglia Malaspina, che ospitò l’esule Dante nel 1306 e che come tale è rimasta protettrice della poesia, tanto che la marchesa prese sotto la sua ala Carlo Innocenzo Frugoni. Questi è qui paragonato a Pindaro e Orazio, nei consueti toni spropositati che in questo caso, nella denuncia degli imitatori del Frugoni, pare volessero colpire in particolare il poeta Angelo Mazza, che aveva stroncato l’Aristodemo.[22] L’ode, composta in endecasillabi sciolti e pubblicata anonima nel 1789, sovrabbonda di riferimenti mitologici ed eleva l’opera tassesca a emblema dell’amore stesso.
Monti reazionario, la Bassvilliana
«Libertà che stolta
in Dio medesmo l’empie mani adopra.»
(Bassvilliana, vv. 116-117)
Il 3 luglio 1791 sposò Teresa Pikler (Roma, 3 giugno 1769 – Milano, 19 maggio 1834), o meglio Pichler[23] figlia di Giovanni Pichler (1734–1791) famoso intagliatore di gemme della città, ma oriundo tirolese, e di Antonia Selli, romana. La celebrazione fu sobria, lontana dai clamori della ribalta, e si tenne nella chiesa di san Lorenzo in Lucina. Dal matrimonio nacquero due figli, Costanza[24], che poi sposerà il conte Giulio Perticari e coltiverà le lettere entrando anche in Arcadia,[25] e Giovan Francesco (1794-1796), ma quest’ultimo morirà in tenera età. Alla moglie rimase profondamente fedele per il resto dei suoi giorni.
Nel 1793 due artisti lionesi furono arrestati a Roma e rilasciati dal Pontefice. Da Napoli furono inviati due diplomatici francesi quali rappresentanti in missione, Nicolas Hugon detto Bassville (noto come Hugo Basseville), e La Flotte, per ringraziare il Papa. Tuttavia il 14 gennaio 1793 uno di loro, il Basseville, già inviso alla popolazione cattolica, uscì nella pubblica via esibendo il simbolo dei rivoluzionari francesi, la coccarda, stimolando la reazione della folla e subendo il linciaggio. Le guardie pontificie misero La Flotte in salvo, mentre Bassville, colpito alla gola e sottratto alla folla, morì poche ore dopo, pentendosi e confessandosi. L’episodio esaltò gli impulsi antirivoluzionari che si agitavano in Italia e in particolar modo a Roma. Una miriade di opere fu composta per sottolineare la divina punizione cui la sacrilega Francia era andata incontro. La voce più alta la leva Monti nella celebre Cantica in morte di Ugo di Basseville (1793), più comunemente nota come Bassvilliana, composta tra il gennaio e l’agosto di quell’anno. Senza contraddire le proprie basi arcadiche, il poeta traspone i ghiribizzi del suo stile elevato ed etereo in un componimento che ha una portata certamente maggiore rispetto a quelli precedenti. Il successo è immediato, tanto da portare a 18 edizioni nel giro di sei mesi.
Il modello della Bassvilliana, scritta in terzine e in terza rima, è certamente dantesco, ma non manca l’influenza, a livello schematico, della Messiade di Klopstock, che in quegli anni aveva anche pensato di tradurre dal francese (essendo privo di conoscenze del tedesco).[26] Nel nostro «lungo e sproporzionato poema»,[27] un angelo preleva a Roma l’anima del Bassville appena spirato e la porta in terra di Francia, mostrandole i disastri causati dalla Rivoluzione, e provocandone un pianto dirotto alla vista dell’uccisione di Luigi XVI (21 gennaio 1793).
Vengono attaccati gli illuministi più famosi, le cui ombre appaiono come avversari (Voltaire, Diderot, Rousseau, d’Holbach, Bayle…) mentre il re, raffigurato come un santo martire, concede il perdono a Basseville. Il poema piacque al mondo cattolico reazionario e controrivoluzionario. Monti tuttavia, probabilmente già dubbioso e incline a cambiare il proprio pensiero (come avrebbe fatto appena due anni dopo), si fermò al quarto Canto, e passò alla composizione di un’opera più incline ai suoi favoleggiamenti mitici, La Musogonia (1793-1797, in ottave), lasciata anch’essa a metà e foriera di spunti per le opere non lontane di Manzoni (Urania) e Foscolo (Le Grazie).
Indicativa è la chiusa del poema, modificata più volte, indirizzata prima a Francesco II d’Austria e poi a Napoleone, cui si chiede di intercedere per l’Italia. Monti non ebbe mai tentennamenti nel proprio attaccamento alla patria, anche se si volse a diversi “protettori” a seconda dei momenti storici.
Già in odore di simpatie rivoluzionarie, in procinto di aderire alle idee illuministe e giacobine che poco prima deprecava, cercò di trovare pace nel completamento di un’ode già iniziata nel 1792, Invito di un solitario ad un cittadino, chiaramente debitrice della commedia shakespeariana Come vi piace.[28] Questo componimento montiano segue lo schema dell’ode saffica, variandone leggermente le caratteristiche; manca infatti la cesura di quinta negli endecasillabi, mentre il verso conclusivo delle strofe è un settenario e non un quinario. Nell’ode un imprecisato abitatore delle campagne invita un altrettanto anonimo cittadino a fuggire dalle preoccupazioni della corte e dei suoi intrighi, per rifugiarsi in un mondo bucolico dove regna la pace e dove i soli timori sono quelli causati dal cambiamento delle stagioni. In questa ricerca di pace, forse, è ravvisabile il vero Monti.
Inizialmente quindi su posizioni contrarie alla rivoluzione francese, che trovarono spazio anche ne La Feroniade e ne La Musogonia (nello stesso Invito Napoleone è avvertito come minaccia), Monti diede tuttavia presto spazio nuovamente allo spirito che spesso lo contraddistinse: appoggiare il più forte per salvare la pelle. Gli sconvolgimenti politici e l’ormai evidente affermazione di Napoleone (1796) lo portarono a schierarsi dalla sua parte e ad accogliere nella sua casa romana il maresciallo Marmont, che era giunto nell’Urbe per ratificare i patti di Tolentino con cui si umiliava la figura del pontefice. Scrisse anche in questo periodo un sonetto anonimo, Contro la Chiesa dei Papi, in cui preconizza la giusta punizione per una Istituzione che si era allontanata dal proprio spirito originario.
Il Monti, che pure nel frattempo continuava a tenere il piede in due staffe (era ancora stipendiato dalla corte del Papa e cercava di mantenerne i favori fino alla fine), si vide costretto ad abbandonare Roma, dove troppi ormai sarebbero stati i rischi. Fu così che nella notte del 3 marzo 1797 fuggì nella carrozza di Marmont alla volta di Firenze.
Il periodo milanese
L’ardore giacobino: Il Prometeo
«Dolce dell’alme universal sospiro,
Libertà, santa dea.»
(Il fanatismo, vv. 1-2)
Dopo un breve soggiorno fiorentino, dove fu bene accolto e recitò con gran clamore il primo canto del Prometeo nel salotto della marchesa Venturi,[29] e dopo essere passato per Bologna (dove conobbe Foscolo, con cui fu legato da profonda amicizia, e dove lo raggiunsero la moglie e la figlia) e Venezia, il 18 luglio 1797, solo pochi giorni dopo la proclamazione della costituzione della Repubblica Cisalpina, egli giunse a Milano. Il momento è opportuno per un voltafaccia: in modo da cancellare il ricordo della Bassvilliana scrisse tre poemetti in terzine dantesche per rinnegarla (Il Fanatismo, La Superstizione e Il Pericolo, dove divinizza Napoleone ma ancor più si scaglia contro i suoi antichi protettori) e soprattutto il Prometeo, dedicato a Napoleone e rimasto incompiuto all’inizio del quarto canto. Queste opere sono strettamente contemporanee alla lettera inviata da Bologna il 18 giugno 1797 a Francesco Saverio Salfi, in cui Monti cercava di giustificare le proprie scelte passate dicendo di non aver avuto libertà d’opinione. L’autoumiliazione arrivò fino a definire la propria Bassvilliana “miserabile rapsodia”.[30]
Il Prometeo fu il primo testo di un grande ciclo di opere volte a celebrare l’epopea napoleonica, quasi quindi un’introduzione della medesima.[31] Si tratta forse dell’opera montiana più famosa, e il Còrso vi viene esaltato anche oltre i consueti eccessi del poeta romagnolo. Il personaggio del mito viene paragonato, nella dedica, al Bonaparte; come quello si ribellò a Giove e portò il fuoco agli uomini, così questi si rivoltò contro i potenti della terra per dispensare libertà. Si immagina, nel testo, che Prometeo, accompagnato dal fratello Epimeteo, vada tra i popoli profetizzando la venuta di Napoleone, e scenda fin nell’Erebo ad annunciare la notizia.
La consueta felicità artistica non si coniuga, in quest’opera, come nelle altre, con una coerenza strutturale, e soprattutto il protagonista pare inconsistente e privato della drammaticità che ci aveva restituito Eschilo.[32]
L’arrivo del Bonaparte è visto da Monti in questa fase come unica speranza perché l’Italia trovi coesione interna e libertà. Napoleone diviene pari a un Dio dell’Antichità, senza rivali degni in terra. Così anche senza pietà il Monti trasforma gli elogi di cui aveva ricoperto il Papa e il re in altrettanto forti vituperi (rispettivamente in un sonetto e in un inno). Elogi senza freno emergono dalla canzone Per il congresso di Udine, sempre del 1797, dove Napoleone è il “Prometeo nuovo”, ancora una volta. Persino l’onta di Campoformio, che tanto indignò Foscolo, lo porta, in una canzonetta metastasiana dal titolo La pace di Campoformio, a scusare il tradimento in quanto, almeno, è giunta la pace.
In questo periodo Monti subì attacchi da più parti. Il 13 febbraio 1798Giuseppe Lattanzi, poeta romano e suo nemico giurato da tempo, aveva sottoposto al Gran Consiglio una legge secondo cui non avrebbe potuto ricoprire cariche pubbliche chi avesse pubblicato opere antirivoluzionarie dopo il settembre 1792, il che avrebbe precluso ogni carriera diplomatica all’autore della Bassvilliana. La legge fu approvata, ma per fortuna del Monti rimase lettera morta, e questi poté quindi diventare addetto alla Segreteria del Direttorio al dipartimento dell’Estero e dell’Interno della Cisalpina.[34] Siccome le invettive contro Monti continuavano, intervenne nella diatriba Foscolo, con uno scritto in sua difesa.[35] Anche per opera dell’Appiani e di altri, la contesa si sedò infine nel giro di qualche mese.
Per tutta la vita il carattere di Monti fu assai bilioso, ed egli si impegnò in innumerevoli contese letterarie, salvo spesso riconciliarsi con i suoi avversari, secondo il suo ormai ben noto carattere, e secondo l’autodefinizione di Irasci celerem, tamen ut placabilis essem (cioè “Veloce all’ira, altrettanto alla riconciliazione”) contenuta nella Proposta descritta più sotto.
Tra tutti, il bersaglio preferito fu Francesco Gianni, ma non si dimentichino Saverio Bettinelli e altri il cui nome resiste oggi solo grazie a queste beghe di basso livello. Sarebbe stato assai più saggio, disse Pietro Giordani, tacere, lasciando così cadere nell’oblio avversari che tentavano solo di godere di una fama altrimenti impossibile. Ma Monti era «un idrofobo — bofonchiava, il 7 agosto 1816, un Angelo Anelli da Desenzano — bisogna compiangerlo, stargli lontano, e quando si accosta per mordere, difendersi, per non essere offesi, a spada tratta»,[36] e più di tutti lo stroncò Vincenzo Cuoco, che, nel suo Platone in Italia, lo definì divorato dalla bile.[37]
Anche il rapporto con Foscolo andò deteriorando, a partire dal momento in cui questi criticò aspramente la Palingenesi politica (vedere sotto) nelle lettere a Isabella Teotochi Albrizzi. L’anno successivo, nel 1810, litigarono per futili motivi in casa del ministro Antonio Veneri, e anche dall’Inghilterra il poeta zacintio si fece sentire, collaborando a un Essay di John Cam Hobhouse, dove il Monti è condannato come adulatore spudorato e senza principi. Probabilmente giocò un ruolo anche la possibile relazione sentimentale che si diceva esserci tra il giovane Foscolo e la moglie di Monti, Teresa.[38]
La fuga in Francia
Tornati gli austriaci a Milano nel corso della campagna d’Egitto, si aprì la serie delle vendette contro i promotori della Rivoluzione. Coloro che non furono deportati scapparono. Fra questi era Monti, che intraprese un’avventurosa fuga, con pochi denari in tasca, attraverso il Piemonte per giungere a Chambéry, dove condivise le ultime cinque lire con un povero, dimostrando sostanziale bontà d’animo.[39] Qui lo raggiunsero la moglie e la figlia, e insieme arrivarono a Parigi. Nella capitale francese il poeta soffrì per l’oblio nel quale era caduto, e rimpianse la patria lontana. Rese l’esilio meno duro l’amicizia con alcuni valenti uomini di cultura.
Al periodo parigino risale la Mascheroniana, opera in cinque canti in terzine sulla falsariga della Bassvilliana, rimasta incompleta e scritta in occasione della morte dell’amico scrittore, sacerdote e naturalista illuminista Lorenzo Mascheroni, avvenuta il 14 luglio 1800. Il poema svela un Monti moderato, quindi più autentico, deluso sia dai primi che dai secondi entusiasmi, ossia la corte papale e Napoleone, per quanto non manchi la lode a quest’ultimo, dispensatore di pace. Tuttavia l’ispirazione non raggiunge le vette dell’opera-modello, e nelle vicende post mortem di Mascheroni, in un Paradiso immobile abitato da alcune anime a lui culturalmente affini (quali Pietro Verri, Parini, Spallanzani, Beccaria), si avverte uno stridore con il contesto storico che mal si adattava a vagheggiamenti astratti. Ci si duole delle sorti italiche, ma in una situazione astratta, cui a torto si è paragonata l’opera dantesca, perché qui non vi è nulla di soprannaturale. Non mancano tuttavia belle pagine, come quelle dedicate a Parini.[40]
In ogni caso, in una lettera Stendhal raccontò come molti anni dopo, a Milano, durante un pranzo in casa di Ludovico di BremeByron fosse rimasto estasiato nell’ascolto dei versi montiani, segno che la pulizia delle immagini e lo stile classicheggiante continuavano a sostenere il poeta, frutto di un’innata vena lirica.[41]
Il ritorno in patria
Quando Napoleone riprese il controllo della Cisalpina, Monti si lasciò andare ad una canzonetta entusiasta, preludio a un prossimo ritorno in Italia e sincero giubilo per le sorti dell’amata patria: si tratta di Per la liberazione dell’Italia, uno dei suoi componimenti più popolari.
Dopo la battaglia di Marengo, del 14 giugno 1800 Monti si vide infine premiato, e Napoleone ne fece il proprio aedo, il proprio poeta di corte, assegnandogli anche la cattedra di Eloquenza presso l’Università degli Studi di Pavia, che il 25 giugno 1800 fece riaprire dopo la chiusura imposta dagli Austro-Russi. Monti inizierà l’insegnamento solo nel 1802, in quanto decise di rimanere ancora qualche mese in Francia, dove completò l’ultima tragedia, il Caio Gracco, e dove terminò la traduzione de La pucelle d’Orléans di Voltaire.
All’Università di Pavia
Nel 1802 Monti si insedia all’Università degli Studi di Pavia con la prolusione del 24 marzo, e vi tiene lezioni tra il 1802 e il novembre 1804, ricevendo in seguito la nomina di poeta del governo italico. In questo periodo delle lezioni pavesi Monti si discosta nettamente dai giovanili ardori per i moderni di marca illuminista. Nelle sue lezioni la capacità di “invenzione”, in pratica l’originalità, è accordata solo agli antichi. Il “progresso” concerne le sole scienze; nella poesia non si ha progresso, semmai “regresso” poiché i suoi elementi furono già interamente scoperti dagli antichi.
Di questo magistero pavese ben poco ci è giunto: Monti ricevette numerose censure, oltre all’impedimento della stampa degli ultimi due capitoli della Mascheroniana, pubblicati solo postumi. Questo Monti censurato ci appare distante da quello voluto da De Sanctis, “segretario dell’opinione dominante”; se il governo dovette ripetutamente impedirne gli scritti, è palmare che Monti non ne promuoveva gli interessi. Dunque neanche esatto è definire Monti come “poeta del consenso”.
Delle lezioni pavesi ne sono pervenute solo nove e il frammento di una decima. La lezione VI è consacrata a Socrate (anche la V gli era stata dedicata) e risponde all’obiettivo di promuovere modelli ideologico-letterari “convenienti”. Monti scarta Demostene, nonostante sia un classico giudicato come “modello di eloquenza”: ciò perché lo ritiene inadatto ad essere proposto alla meditazione degli allievi. La sua eloquenza gli appare quasi tutta deliberativa e politica, “pericolosa” per l’attuale forma di stato: non più una “turbolenta democrazia” ma una “tranquilla e temperata repubblica”. “Non più di Demosteni c’è bisogno, ma di Socrati”.[42]
Nel 1804 fu sostituito da Luigi Ferretti, cui non risparmiò polemiche, e sulla cattedra nel 1808 si insediò Ugo Foscolo, che fu subito allontanato per le sue posizioni anti-napoleoniche.
L’aedo di Napoleone
Alla fine del 1804 il Nostro fece una nuova importante conoscenza. Il 30 dicembre giunse a Milano Madame de Staël, accompagnata dai tre figli e dal loro precettore, Friedrich Schlegel. Mandato un invito a Monti, si conobbero il giorno dopo: si legarono subito di una forte amicizia, testimoniata dalla fitta corrispondenza del periodo successivo[43], e dalla visita che il poeta farà alla donna a Coppet nel novembre 1805.[44]
Dopo che Napoleone s’incoronò Re d’Italia nel 1805 Monti divenne Istoriografo del Regno e poeta ufficiale di corte, percependo 6000 zecchini annui. Fu anche insignito della Legion d’Onore.[45] Compose molte opere inneggianti a Bonaparte, alle sue vittorie e alla sua politica. L’incoronazione fu il motivo de Il beneficio (1805), commissionato dal governo e sorta di investitura a poeta cortigiano, in cui richiama dall’oltretomba lo spirito di alcuni grandi italiani (tra questi Dante) che individuano nel nuovo re l’unica salvezza. Bodoni ne curò quattro edizioni a spese del governo, fra cui una in folio.
Sopra tutti famoso è il poema Il Bardo della Selva nera (1806), scritto di ritorno da un viaggio in Germania dove aveva fatto parte della delegazione congratulatasi con Napoleone per i recenti successi. Monti tenne fede alla tradizione di lasciare le opere incompiute, e anche qui si fermò, stavolta al principio del canto ottavo. L’opera si ispirò a un testo del poeta sepolcrale inglese Thomas Gray, intitolata appunto Il Bardo.[46]
Gli otto canti (dei quali i primi quattro in versi sciolti e i rimanenti in ottave) volevano cominciare un’opera di elogio totale a Napoleone, di cui si dovevano celebrare tutte le gesta. In questo senso si può leggere la fatica di cui Monti ci dà notizia al principio dell’anno: “[..]un lungo e grande lavoro che mi tiene occupato giorno e notte e Dio sa quando potrò terminarlo [..] ho intrapreso un poema, il cui piano abbraccia tutte le imprese di questo grand’uomo. Ora vedete se ne ho per un pezzo”.[47]
La storia si apre sulla discesa del Bardo Ullino, assieme alla figlia Malvina (sono tutti nomi ossianeschi), verso i resti del campo di battaglia di Albeck, dove il combattimento è appena finito. Qui salvano un giovane ferito, Terigi, e gli danno rifugio. Terigi e Malvina si innamorano, e il soldato comincia a narrare le proprie vicende celebrando il Bonaparte. Tuttavia fa solo in tempo a riportare il successo di Albeck e ad accennare a quello di Austerlitz, perché poi l’opera si interrompe.
Il poema rimane un abbozzo, e sembra quasi un’accozzaglia di cose che gravitano attorno ad un intreccio amoroso che poco aveva a che spartire con l’intenzione dell’opera.[48] Tuttavia, come sempre, si possono cogliere pregi in singoli passaggi, e la variazione di metro dimostra una volta di più come Monti fosse “davvero il Signore d’ogni metro e d’ogni forma”.[48] Del resto, l’opera piacque a Napoleone, che solo si dolse di non comprendere appieno la lingua italiana per gustarne le meraviglie poetiche.[49]
Nel 1782 fu iniziato in Massoneria nella Loggia “La Sincera” di Forlì. Divenne poi membro della Loggia Reale Amalia Augusta di Brescia, la stessa loggia di Ugo Foscolo[50], il 5 ottobre 1806, giorno in cui è ufficialmente costituita la loggia massonica Reale Eugenio a Milano, Vincenzo Monti vi recita la cantata L’Asilo della Verità.[51]
Quando Napoleone vendicò in Prussia le sconfitte contro Federico II, il poeta diede alla luce il breve componimento La spada di Federico II, dove, nel rispetto del vinto sovrano ma sempre nell’adulazione esagerata di Napoleone, il Còrso impugna la spada del nemico e la porta in patria per consegnarla al Palazzo degli Invalidi.
L’ode In occasione del parto della vice-regina d’Italia risale al marzo del 1807 e celebra la nascita di Giuseppina, figlia primogenita di Eugenio di Beauharnais (che Napoleone adottò come figlio e fece viceré) e della sua sposa Augusta Amalia, bavarese. Si intrecciano, al solito, riferimenti mitologici e storici, in una struttura che piacque ad Alessandro Manzoni[52] ma fu implicitamente derisa da Ugo Foscolo.[53]
C’è ancora spazio per La Palingenesi politica, poemetto nel quale Foscolo ha visto una derivazione dalla Pronea di Melchiorre Cesarotti, e che non ha mancato di definire “delirio”.[54] Qui, come Dio ha dato ordine alle cose, così dal caos politico si giunge, per merito dell’imperatore, all’unità delle nazioni (esattamente come avviene nel testo cesarottiano).
Non c’è più freno all’adulazione né capacità di sganciarsi dalle trite apparizioni o dalle ritrite immagini mitologiche. Monti sembra aver smarrito la vena fantastica, forse anche per la difficoltà a sostenere un idolo al quale non sapeva più bene cosa dire. Le propaggini epigonali dell’epopea sono del 1810, La Ierogamia in Creta (in occasione delle nozze viennesi di Napoleone con Maria Luisa), e del 1811, l’anacreontica (barbara come l’Invito descritto sopra) Le api panacridi in Alvisopoli, scritta su commissione del senatore del regno Alvise Mocenigo per celebrare la nascita di Napoleone Francesco, definito “re di Roma”, che, pur piacendo a Pietro Giordani,[55] confermò una stanchezza che sembrava irreversibile, ma che ben presto mostrò altri risvolti, non appena Monti si affrancò dal posticcio ruolo di poeta cesareo.
Il traduttore
«Questi è Monti poeta e cavaliero,
Gran traduttor dei traduttor d’Omero.»
I migliori risultati poetici del Monti sono in realtà costituiti dalle traduzioni, laddove non è frenato dall’esigenza di celebrare o adulare smodatamente, sicché può liberamente mettere in mostra il suo talento dialettico e formale, la sua eleganza compositiva: tra il 1798 e 1799, in una fase di profondo distacco dal suo passato papalino, cura la traduzione in ottave dell’irriverente poema satirico di VoltaireLa Pucelle d’Orléans, sulle vicende di Giovanna d’Arco, in chiave sorprendentemente comica e piena di ritmo (il lavoro sarà poi pubblicato postumo nel 1878).
Un’altra prova di virtuosismo è costituita dalla versione delle Satire di Persio (1803), ma è la traduzione dell’Iliade in endecasillabi sciolti, terminata e pubblicata nel 1810, il suo vero capolavoro.
Sin dai primi anni il testo fu per Monti un’ossessione, e già molto tempo addietro, tra il 1788 e il 1790, aveva fatto una traduzione di alcuni canti.[57] Originariamente, aveva adottato l’ottava, che utilizzò per recitare i canti I e VIII in Arcadia,[58] ma nel 1806 optò definitivamente per l’endecasillabo sciolto,[59] in cui, come detto, fu eseguita la traduzione completa.
Essa non offre sempre un’immagine fedele del testo omerico, ma un suo travestimento in equilibrate forme neoclassiche. Il mondo eroico è rappresentato con continui effetti trionfali, i sentimenti dei personaggi si arricchiscono di sfumature intimiste e malinconiche. Una traduzione che pare costruita sulla misura dell’Italia napoleonica, tra gli echi delle guerre europee e lo spirito militare che penetrava anche nell’Italia prerisorgimentale. Monti, pur conoscendo relativamente il greco, non lo padroneggiava di certo al punto da intendere l’originale. Per questo è ancor più sorprendente il risultato ottenuto; Monti ebbe la capacità di cogliere lo spirito originario dell’opera, e così poté mirabilmente restituirlo. Essendo un’opera di diletto, lontana da scadenze temporali o esigenze encomiastiche, il poeta seppe sguazzarvici, forte di un animo molto a proprio agio quando ha a che fare con le vicende mitologiche, a tal punto che la poesia omerica si illumina per mezzo dell’arte montiana.[60] Celeberrimo è il proemio:
«Cantami o Diva, del Pelide Achille,
l’ira funesta, che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio s’adempia), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atrìde e il divo Achille.»
Dopo la sconfitta di Napoleone, Monti non si fece scrupoli nel dedicare pari lodi al nuovo sovrano, l’imperatore d’Austria e Re del Lombardo-VenetoFrancesco I, e ne fu ricompensato conservando il ruolo di poeta di corte, anche se gli zecchini annui si ridussero a 1200. Ci fu tuttavia minore entusiasmo, e tutto ciò che partorì furono due azioni drammatiche rappresentate alla Scala, rispettivamente il 15 maggio 1815 e il 6 gennaio 1816, intitolate Il mistico omaggio e Il ritorno di Astrea.
Il Monti di questi anni rivendica il merito di una “riforma” letteraria intervenuta nel ventennio tra la Bassvilliana e la sua traduzione dell’Iliade, passando per la Mascheroniana; una ripresa dello studio dei classici, e di Dante. Lo afferma in una lettera del 1815, rispondendo all’invito di scrivere lui una prefazione alla Biblioteca Italiana, periodico voluto dall’Austria.
Nella lettera dice anche che due ostacoli lo disturbano: la parte scientifica, per la quale ha bisogno che “altri gli forniscano il materiale”, e il suo riconoscersi come personaggio fondamentale per la letteratura di allora, e quindi la prospettiva di ritrovarsi a parlare di sé stesso nella prefazione (non volendosi dare meriti altrui ma nemmeno omettere ciò di cui si crede meritevole). Importante è la parola “Riforma”, che veniva utilizzata in origine per il Neoclassicismo; ma Monti fa partire questa riforma dal 1793 (il Neoclassicismo nasce secondo Carducci con la pace di Aquisgrana nel 1748 e per gli studiosi più recenti con le scoperte di Pompei e gli scritti di Winckelmann) e la fa concludere al più tardi nel 1812; la descrive come riforma esclusivamente letteraria e quindi in niente debitrice a Winckelmann, alle arti, all’archeologia.
“Riforma” è una parola d’autore. Questo convalida le tesi di Carducci, sul fatto che quello che noi chiamiamo Neoclassicismo si occupasse non della vecchia letteratura (De Sanctis) ma della nuova letteratura. Monti vede il futuro nel passato: per lui il poeta più attuale è Dante. Spezza così il primato petrarchesco di allora in favore di Dante che era considerato duro, aspro, talvolta sgradevole, affiancandovi Omero, “il più grande dei poeti”.
Ancora nel 1815 Monti rifiutò di assumere la direzione della Biblioteca Italiana, e questa fu assunta dall’Acerbi.
Quattro anni più tardi compose un inno a lode di Francesco, Invito a Pallade.
Nel 1822 morì il genero Giulio Perticari, che il poeta considerava come un figlio nonostante un precedente litigio, e a questo dolore si unì la diffamazione cui la figlia Costanza andò incontro, accusata di aver trascurato il marito o addirittura di averlo ucciso. Alcune voci pretesero addirittura l’esistenza di una complicità del padre nel presunto complotto. Addolorata, Costanza tornò a vivere con i genitori.
Nel 1825 la “tenera amica”[64]Antonietta Costa, marchesa genovese, chiese a Monti un componimento in occasione delle nozze del figlio Bartolomeo con la marchesa Maria Francesca Durazzo. Da ciò nacque il Sermone sulla mitologia, poemetto in sciolti, feroce invettiva contro le manifestazioni orride e macabre del romanticismo nordico, colpevole di aver scalzato gli dèi dalla poesia. In particolare depreca la traduzione della Lenore di Gottfried August Bürger fatta da Giovanni Berchet e il ritorno in auge dei temi ossianico–cimiteriali di gusto lugubre preromantico. Evidenti paiono i richiami ad alcune opere critiche di Voltaire[65] ma anche all’ode Gli Dèi della Grecia che Friedrich Schiller aveva pubblicato nel 1788. Ad avvalorare tale tesi è il poeta stesso, definendo Schiller secondo solo a Shakespeare nella gerarchia delle sue preferenze letterarie.[66] Vanno ravvisati anche rimandi all’inno Alla Primavera di Leopardi (1824).[67] Monti prende così posizione classicista nella polemica anti-romantica suscitata da Madame de Staël.
Come si può facilmente immaginare, l’opera non lasciò indifferenti, e in parecchi, ritenendo un simile gusto neoclassico ormai fuori dal tempo, scrissero opere polemiche in risposta al Sermone: la più famosa è quella di Niccolò Tommaseo[68]. Può apparire quindi sorprendente che il vecchio Monti si dimostri ancora così chiuso al gusto romantico, dopo certe virate del passato e della stessa senilità, ma intelligentemente Cesare Cantù dimostrò come fossero qui colpite solo le manifestazioni macabre del Romanticismo (nonostante il montiano Aristodemo che ricordava direttamente Edward Young), antitetiche alla concezione “diurna e solare” della poesia montiana.
Nello stesso anno vibrò di sincera gioia nel celebrare le nozze delle due ultime figlie di Gian Giacomo Trivulzio, Elena e Vittoria, cui dedicò l’idillio Le nozze di Cadmo ed Ermione, dove, alla presenza degli Dèi, esclusa Giunone, si esaltano i protagonisti e con essi la scrittura, di cui Cadmo, il mitico fondatore di Tebe, si dice fosse stato l’inventore.
Contemporaneamente, Monti scriveva anche canzoni più intime e familiari, come il dolcissimo sonetto Per un dipinto dell’Agricola, dedicato alla figlia Costanza, che era stata ritratta dal pittore, o come la canzone liberaPel giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler, composta tra il settembre e l’ottobre del 1826. Qui, la moglie e la figlia vengono definite solo conforto alla vecchiaia del poeta, e solo motivo di dispiacere per il prossimo abbandono di un mondo che riserva solo sofferenze. Era come se “la vecchiezza, non che inaridisse la vena dell’affetto, anzi le fece più abbondante. Così, negli ultimi anni del suo vivere, egli era l’aquila che, stanca di tanti arditissimi voli, stanca di alzar le penne fino al sole o di mescersi coi nembi e le procelle, ritornava al nido per riposarvisi, chiudendo le grandi ali sul capo dei suoi cari”. Nell’opera Monti ripercorre anche la propria vicenda letteraria e umana.[69]
Si schierò quindi in difesa dell’uso in letteratura della mitologia e della tradizione classica, ma al tempo stesso mantenne buoni rapporti con gli esponenti delle nuove tendenze romantiche e nel 1827 espresse giudizi entusiastici sulla lettura dei Promessi Sposi. Si inserì nella disputa sulla questione della lingua, ponendosi su posizioni fortemente avverse al padre Antonio Cesari e ai puristi, sminuendo il Trecento per passare in rassegna tutti gli uomini di cultura del Settecento.[70] In questa linea si situano i sette volumi della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, in cui, variando con maestria i toni del discorso, attacca i cruscanti mostrando molti errori da loro commessi in merito a singoli vocaboli.
Negli ultimi anni di vita, a partire dal 1816 e fino alla morte, ritornò sul poema in tre canti in endecasillabi sciolti La Feroniade, iniziato già nel periodo romano per esaltare i progetti di bonifica delle paludi pontine, e ora ripreso con ossessiva cura formale, ma comunque non concluso e stampato postumo nel 1832. La Feroniade è anche un modo di affermare una sua estraneità alla storia e al presente, proprio da parte di uno scrittore che aveva costruito la sua carriera sulla partecipazione della letteratura alle trasformazioni politiche.
Monti perse gradualmente l’uso della vista e dell’udito, e nell’aprile del 1826 subì un attacco di ictus con emiplegia che paralizzò la parte sinistra della sua persona. L’attacco si ripeté nel maggio 1827, e l’agonia dell’ultimo anno fu alleviata, oltre che dai cari, anche dalle visite di Alessandro Manzoni.[71]
Chiesti i sacramenti, morì in pace. Così Paride Zajotti ci narra il suo ultimo momento di vita, il 13 ottobre 1828, a Milano:
«La mattina del 13 a sette ore e qualche minuto il Monti mandò senz’affanno un facile sospiro, e chinò lievemente la testa; tutti stavano immoti e tacevano: un grido della figlia ruppe quel tetro silenzio. Vincenzo Monti era passato.»
Vincenzo Monti è stato molto criticato per i continui cambiamenti di credo politico (su tutti valga il giudizio espresso dal De Sanctis che lo bolla come «il segretario dell’opinione dominante»)[74]. Cesare Cantù ha voluto definire la famosa lettera al Salfi “inescusabile documento”.[75] Tuttavia le posizioni sono state discordi e si è spesso riconosciuta una coerenza nell’attaccamento alla patria, cui sacrificò le sue opinioni di facciata.[76] Ancora, un paladino della critica fascista come Vittorio Cian ha addossato tutta la responsabilità alla sete mondana della moglie Teresa Pikler, che avrebbe indirizzato il succube marito verso il potente di turno.[77]
I suoi repentini mutamenti di posizione non furono ben visti da Giacomo Leopardi, che lo definì «poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo», anche se certamente le basi della formazione giovanile leopardiana, neoclassica, non possono essere disgiunte dalla lezione montiana. Nello stesso Zibaldone, in fondo si parla per lui anche di “volubilità armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa o dignitosa grazia del verso”, specialmente “nelle Cantiche”.
Del Nostro fu più volte criticata l’ispirazione poetica, dovuta per lo più al bisogno di denaro, ma gli si riconoscevano grandi doti di poeta. Su una posizione abbastanza critica fu Ugo Foscolo, che ironizzò su Monti chiamandolo “gran traduttor dei traduttor d’Omero”, in quanto aveva tradotto l’Iliade senza sapere il greco, ma rielaborando semplicemente in maniera poetica le traduzioni precedenti, soprattutto latine. Tra loro, nonostante tutto, si era stabilita qualche affinità di pensiero. Foscolo difese spesso Monti all’interno di polemiche letterarie, e ammirò sopra tutte le opere montiane La Feroniade.[78] Questo poema fu unanimemente apprezzato, e il Giordani arrivò a dire: “Oh quanto è maggiore d’ogni altra sua cosa! Veramente questa lo manifesterebbe il primo de’ poeti viventi in Europa”.[79]
Foscolo ebbe spesso, come visto, opinioni contrarie al Monti, in specie laddove questi elogiava Bonaparte, né si dimentichi il ruolo profondamente diverso esercitato dai due nella storia della letteratura italiana. Foscolo infatti, più inquieto e ribelle, tese a una forma di intellettuale nuovo, cui era estraneo Monti, ancora legato alla vecchia immagine dell’uomo di cultura e meno percorso da spiriti anticonformisti, che non facevano parte della sua natura.
Tra i contemporanei, Monti godette di particolare favore presso Stendhal, che in merito alla produzione tragica ebbe l’ardire di definirlo “Racine d’Italie”.[80] Vanno ricordati anche gli elogi di Vittorio Alfieri e Giuseppe Parini in merito alla Bassvilliana. Il primo fu “entusiasta appassionato” del poema mentre l’abate disse: “Costui minaccia di cader sempre colla repentina sublimità de’ suoi voli, ma non cade mai”.[81] Alfieri apprezzò anche le tragedie montiane, in particolare l’Aristodemo, quella che più si avvicina al suo spirito per profondità drammatica.
Secondo Giuseppe Mazzini, Monti rappresenta l’ultimo esponente della corrente neoclassica, ormai soppiantata da quella romantica. Il poeta romagnolo avrebbe avuto, sempre secondo Mazzini, solo epigoni che non vale la pena ricordare, eccezion fatta per il brescianoCesare Arici.[82]
In seguito, all’interno di una critica spesso discorde, si sono levate, a lode convinta del poeta, le voci di Tommaseo (che definì “immortali” i Pensieri d’amore[83] ) e di Giosuè Carducci, che apprezzò in particolar modo i temi classicheggianti e il linguaggio arcadico. Carducci curò, tra il 1858 e il 1885, varie edizioni delle poesie montiane, e sul suo esempio lo studioso reggiano Alfonso Bertoldi, allievo di Carducci all’Ateneo bolognese, diede alla luce, anche in collaborazione con Giuseppe Mazzatinti, due edizioni delle poesie e una, monumentale e completa, dell’Epistolario, comprendente lettere scritte tra il 1771 e il 1828.[84] Bertoldi fu il primo a restituirci nella loro interezza i carteggi del poeta. Inoltre, con la cura propria della critica positivista, diede notizie molto precise sulle varie opere, anteponendo a ciascuna un cappello introduttivo in cui, oltre all’occasione che aveva generato il componimento specifico, forniva un breve quadro della situazione storica.[85] Il lavoro bertoldiano è stato il modello degli studi del secolo successivo.[86] Si è vista una particolare fioritura delle opere critiche negli anni a cavallo del 1930, per celebrare il centenario della morte di Monti.
1788 – Sulla morte di Giuda (sonetti), Alla marchesa Malaspina della Bastia (ode)
1793 – Bassvilliana (poema incompiuto), Invito di un solitario a un cittadino
1797 – La Musogonia (poema incompiuto, iniziato nel 1793), Prometeo (poema incompiuto), Il fanatismo, La superstizione, Il pericolo (poemetti), Per il congresso di Udine (canzone)
1799 – Nell’anniversario del supplizio di Luigi XVI (inno)
1800 – Per la liberazione dell’Italia (canzonetta), Dopo la battaglia di Marengo, traduzione dell’opera di VoltaireLa Pucelle d’Orléans → La pulcella d’Orleans
^Alfonso Bertoldi (a cura di) in Vincenzo Monti, Poesie, Firenze, Sansoni, 1957, pp.28 e segg., cfr. anche E.Q.Visconti, Due discorsi inediti, Milano, Resnati, 1841
^Rodolfo Renier, in Fanfulla della domenica, n. del 15 novembre 1903
^Così chiamata in onore della protettrice montiana
^Con il nome di Telesilla Meonia; di grande ingegno e cultura, scrisse anche un poemetto in ottava rima, L’origine della rosa, che tanto rese fiero il padre, come si evince dalle lettere al Perticari e al Lampredi
^Veneri, pp.87 e segg.; cfr anche l’opinione di Arturo Graf e di Carlo Steiner
^Introduzione al Canto I della Bassvilliana in: Vincenzo Monti. Poesie, scelte, illustrate e commentate da Alfonso Bertoldi. A cura di Alfonso Bertoldi. Firenze, Sansoni, 1891.
^Bevilacqua, p.163; è L’Esame su le accuse contro Vincenzo Monti, in cui, oltre a difendere il cantore, si scaglia aspramente contro i detrattori
^Cesare Cantù, Biografia di Vincenzo Monti, Torino, Utet, 1861, p.120
^L’intero brano del Cuoco contro Nicorio [i.e. V. Monti], contenuto solo in alcuni esemplari dell’opera, è riportato in: Guido Bustico, Bibliografia di Vincenzo Monti, Firenze, Olschki, 1924, p.133.
^Per le tappe della diatriba con Foscolo vedere Bevilacqua, pp.163-168
^Tutte le lezioni pavesi che ci sono pervenute si possono leggere in Vincenzo Monti, Prose scelte. Lezioni d’Eloquenza e Lettere (prefazione di Lodovico Corio), Milano, Sonzogno, 1891
^I. Morosini, Lettres inédites de M.me de Staël a V. Monti, 1805, in Giornale storico della letteratura italiana, vol. XLVI, 1905, pp. 1-64
^M. Borgese, Costanza Perticari nei tempi di Vincenzo Monti, Firenze 1941, pp. 51-55
^Nel 1807 scrisse l’epigramma Te deum; Gamelie Dee, per deridere coloro che avevano celebrato la nascita di Giuseppina. L’ode montiana cominciava con le parole “Fra le Gamelie vergini”
^Giordani a Monti, 6 maggio 1811, in Lettere inedite del Foscolo, del Giordani e della signora de Stael a V.M. (a cura di Giovanni e Achille Monti) Livorno, Vigo, p.168
^Si trascrive il testo stabilito nell’Edizione nazionale, vol. II, U. Foscolo, Tragedie e poesie minori, a cura di Guido Bezzola, Firenze, F. Le Monnier, 1961, p. 446: Epigramma IX. Contro Vincenzo Monti. La prima attestazione dell’epigramma foscoliano, tanto elegante quanto sferzante, si trova in una lettera di Camillo Ugoni a Giovita Scalvini del 1812, riferita in: C. Cantù, Monti e l’età che fu sua, Milano, f.lli Treves, 1879, pp. 185-186: «Monti ignora il greco, lo sai. Foscolo ha scritto sotto al suo ritratto: “Questi è Monti poeta e cavaliero, / Gran traduttor dei traduttor d’Omero.”.
^Leone Vicchi, Vincenzo Monti. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830. (Decennio 1781-1790), Faenza, P. Conti, 1883, p. 506.
^Veneri p.102; per Cunich cfr. Lettera di V.M. a U.Foscolo del 15 aprile 1807. Nello stesso anno M. inviava a Foscolo la traduzione del Canto I, che quest’ultimo unì alla propria nel celebre Esperimento di traduzione dell’Iliade (1807)
^Per l’opera di Pyrker si valse della collaborazione di Andrea Maffei, suo estimatore e imitatore nei versi che scrisse.
^La Casa Museo di Vincenzo Monti, su casemuseoromagna.it, Coordinamento Case Museo dei Poeti e degli Scrittori di Romagna. URL consultato il 1º agosto 2024 (archiviato il 21 giugno 2023).
^Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Rizzoli, Milano 2013, p. 936.
^Giuseppe Mazzini, Moto letterario in Italia (1837), in Scritti editi ed inediti, Imola, 1910, VIII, pp.350-5
^Niccolò Tommaseo, Dizionario Estetico, Firenze, Le Monnier, p.692; «I brevi sciolti, amorosi, di dodici o venti versi, che nel fervore della passione sfuggirono al Monti, resteranno, io credo, immortali»
^Alfonso Bertoldi e Giuseppe Mazzatinti (a cura di), Lettere inedite e sparse di Vincenzo Monti, Vol I: 1771-1807, L. Roux e c., Torino – Roma 1893; Vol. II: 1808-1828, Roux Frassati e c., Torino 1896; Alfonso Bertoldi (a cura di), Epistolario di Vincenzo Monti, Firenze, Sansoni, sei volumi tra 1928 e 1931
^Vedere la presentazione di Bruno Maier in Vincenzo Monti, Poesie (a cura di A.Bertoldi), Firenze, Sansoni, 1957
Angelo Romano, Vincenzo Monti a Roma, Manziana, Vecchiarelli, 2001.
Angelo Romano, Le polemiche romane di Vincenzo Monti (1778-1797), Manziana, Vecchiarelli, 2005.
Angelo Romano, Bibliografia di Vincenzo Monti (1924-2004), Milano, Cisalpino, 2009.
Alberto Scrocca, Studi sul Monti e sul Manzoni, Napoli, L. Pierro, 1905.
Carlo Steiner, La vita e le opere di Vincenzo Monti, Livorno, Giusti, 1915.
Giorgio Trenta, Delle benemerenze di Vincenzo Monti verso gli studi danteschi e verso la letteratura moderna. Studio comparativo della «Bassvilliana» colla «Divina Commedia», Pisa, Tipografia Editrice Galileiana, 1891.
Quinto Veneri, Vincenzo Monti (1754-1828), Torino, Paravia, 1941.
Leone Vicchi, Della vita e degli scritti di Vincenzo Monti, Cesena, C. Bisazia, 1867.
Leone Vicchi, Vincenzo Monti. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830, 4 voll., Faenza , P. Conti (poi Fusignano, E. Morandi), 1879-87.
Vincenzo Monti nella cultura italiana, a cura di Gennaro Barbarisi, 3 voll., Milano, Cisalpino, 2005-06.
Bonaventura Zumbini, Sulle poesie di Vincenzo Monti. Studi, Firenze, succ. Le Monnier, 1886.
Nuova edizione integrale aggiornata al nuovo esame di Stato
SCHEDA DEL LIBRO Perché leggere la Commedia, a più di settecento anni dalla sua composizione? Il capolavoro dantesco può ancora parlare a noi uomini del terzo millennio? La nuova edizione della Principato cerca di valorizzare la bellezza dell’avventura del viaggio di Dante nella Commedia, opera che parla non solo dell’aldilà, ma anche dell’al di qua, della vita, dell’uomo, della sua esigenza di amore, di felicità e di salvezza, e lo fa con la potenza e la capacità di comunicazione del genio proprio del poeta fiorentino. Se tutti sono colpiti dalle parole cortesi di Francesca, dalla forza d’animo di Farinata e dal suo desiderio di «ben far», dall’ardore di conoscenza di Ulisse è perché il poeta racconta storie che testimoniano l’animo dell’uomo di ogni tempo. La Commedia ci spalanca una finestra sulla vita e sull’uomo di oggi, come del passato. Nella lettura dei versi avvertiamo una comunione universale tra noi moderni e gli antichi, tra la nostra e la loro aspirazione alla salvezza, alla felicità e all’eternità. Centrale nell’edizione è anche non perdere mai di vista il fine del viaggio e del capolavoro di Dante cioè quello di «allontanare gli uomini dalla condizione di miseria/peccato/infelicità e accompagnarli alla situazione di felicità/beatitudine», come il poeta scrive nella lettera a Cangrande della Scala cui dedica la terza cantica. La scelta di proporre in modo integrale i cento canti, affiancati dalla parafrasi e da un apparato in note (distinte tra quelle di carattere storico e quelle di tipo stilistico) intende sottolineare l’importanza di proseguire nello studio della Commedia dantesca fino al quinto anno, fino al termine del viaggio, fino al Paradiso, cantica bellissima che conduce Dante nel luogo in cui il desiderio di felicità e di salvezza di ogni uomo si compie. Nella luce di Dio tutto è ricomposto e redento. Il grido cosmico della sofferenza innocente, che così tanto ferisce e scandalizza l’uomo, finalmente è placato nell’abbraccio amorevole di un Padre che ci ha voluto salvi e, nel contempo, liberi. Nella terza cantica Dante si cimenta nel tentativo di creare una nuova lingua che permetta di esprimere l’inesprimibile: il motivo conduttore è il sorriso di Dio, sempre presente in ogni verso, trasmesso anche attraverso la letizia dei santi e il loro ardore caritatevole. Il Paradiso presenta grandi personaggi, affascinanti e per nulla inferiori a quelli tragici dell’Inferno, figure che hanno segnato la storia dell’Occidente e della cristianità: a titolo di esempio, San Francesco, san Domenico, san Benedetto, san Bernardo, san Tommaso, san Bonaventura da Bagnoregio, san Pietro, san Giacomo, san Giovanni. Anche nel Paradiso non manca certo l’avventura. Dante incontra difficoltà, conosce storie belle e drammatiche, deve addirittura superare tre esami per procedere nel viaggio fino a giungere alla visione di Dio. Il testo vuole accompagnare gradualmente lo studente all’acquisizione degli strumenti di lettura di un testo poetico proponendo la rubrica Dante maestro di retorica che ha il fine di far acquisire canto dopo canto i mezzi retorici che permettano di cogliere la specificità del fatto letterario e l’abilità versificatoria di Dante. Lo studente apprende, però, nel percorso non solo le più significative figure retoriche, ma anche generi letterari e modalità oratorie (come la tenzone, l’invettiva, la preghiera, l’orazione, ecc.) di cui si avvale Dante nel corso dell’opera. La rubrica Altre pagine altri percorsi (o altro titolo) mostra l’universalità dei versi danteschi, mostra i grandi capolavori che hanno ispirato l’opera dantesca o le opere che successivamente (dal Trecento ad oggi) si sono ispirate alla Commedia o ancora apre una finestra su temi e immagini danteschi che ricorrono anche altrove nella letteratura. La nuova edizione ha prestato un’attenzione particolare alla trasmissione dei contenuti in modo semplice e chiaro per tutti attraverso l’utilizzo di mappe concettuali per i canti più significativi che accompagnano l’analisi e il commento. Dodici canti selezionati tra le tre cantiche sono presentati dall’autore del testo in un breve filmato nella convinzione che la parola viva sia centrale nell’esperienza didattica. La nuova edizione intende poi rispondere anche all’esigenza del mondo della scuola (avvertita sia dagli insegnanti che dagli studenti) di essere accompagnati nelle grandi novità che sono state introdotte negli ultimi anni nelle prove degli esami di Stato e nelle prove Invalsi che gli alunni devono sostenere in quinta. Per questo già dalla prima cantica compaiono proposte di prima prova dell’Esame di Stato (con tipologia A, B, C) e prove Invalsi (per ogni canto commentato e sottoposto ad analisi) con il fine di valutare l’acquisizione dei contenuti e di preparare in vista delle prove del quinto anno. La tipologia B ha anche il pregio di sottoporre agli studenti utili pagine di critica letteraria di saggisti famosi o contemporanei che facilitino la comprensione del canto. La tipologia C, invece, offre l’opportunità di far riflettere i giovani su importanti questioni attuali e pertinenti il mondo giovanile a partire dai versi danteschi, mostrando la contemporaneità e l’attualità dell’opera dantesca.
L’AUTORE.-Proessor Giovanni Fighera,laureato in Lettere moderne con specializzazione in letteratura e in linguistica, giornalista, scrittore e blogger, insegna Italiano e Latino nei licei e collabora con il dipartimento di Filologia moderna dell’Università degli Studi di Milano. Ha pubblicato: Che cos’è, dunque, la felicità, mio caro amico? (2008), La Bellezza salverà il mondo (2009), «Amor che move il sole e l’altre stelle». L’amore, l’uomo, l’Infinito (2010), Che cos’è mai l’uomo perché di lui ti ricordi? L’io, la crisi, la speranza (2012, Premio Capri San Michele 2013 sezione giovani), tutti letti integralmente su Radio Vaticana. E inoltre Il matrimonio di Renzo e Lucia (2015), Tre giorni all’Inferno. In viaggio con Dante (2016), Purgatorio: ritorno all’Eden perduto (2017). Per quanto riguarda gli studi sulla Commedia oltre a scrivere su Studi danteschi ha partecipato, tra l’altro, al Censimento dei commenti danteschi (2014), al Convegno internazionale di Varsavia Il Dante dei moderni (2015) e al Congresso Dantesco Internazionale di Ravenna (2017). Su Radio Maria ha condotto la rubrica In viaggio con Dante verso le stelle. Attualmente conduce la trasmissione I promessi sposi e il sugo della storia. Su Radio 5.9 conduce trasmissioni di sua ideazione con cadenza settimanale.
pubblicate dalla Rivista «Atelier»-Nota di Pietro Barbera
Ilaria Palomba, scrittrice, poetessa, studiosa di filosofia, ha pubblicato i romanzi Fatti male (Gaffi; tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag), Homo homini virus (Meridiano Zero; Premio Carver 2015), Una volta l’estate (Meridiano Zero), Disturbi di luminosità (Gaffi), Brama (Perrone), Vuoto (Les Flâneurs; presentato al premio Strega 2023 e vincitore del premio Oscar del Libro 2023); le sillogi Mancanza (Augh!), Deserto (premio Profumi di poesia 2018), Città metafisiche (Ensemble), Microcosmi (Ensemble; premio Semeria casinò di Sanremo 2021; premio Virginia Woolf al premio Nabokov 2022), Scisma (Les Flâneurs, settembre 2024), ; il saggio Io Sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal Sud). Ha scritto per La Gazzetta del Mezzogiorno, Minima et Moralia, Pangea, Il Foglio, Succedeoggi. Ha fondato il blog letterario Suite italiana, collabora con le riviste La Fionda, Le città delle donne, Inverso, Versolibero.
«Io sono l’onorata e la disprezzata». Sulla poesia di Ilaria Palomba-Nota di Pietro Barbera
Avendo avuto l’opportunità di leggere in anteprima la nuova silloge della poetessa Ilaria Palomba, mi consento qualche osservazione, spunto critico, trasalimento, in piena libertà.
Il poemetto è abbagliante: le immagini si susseguono di giorno in giorno, di stanza in stanza, in piena terribile nudità, senza simbolismi eccessivi, né orpelli, né caricature. Non si ravvisa maniera qui. Si trafigge (e ci si trafigge) dritto per dritto, e ciò nonostante mantenendo sempre un’ammirevole compostezza formale, scevra da sbavature.
“Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno”, scrive Palomba. Scisma certo parla (anche) di suicidio, ma non è, a mio parere, un diario poetico di un’esperienza personale. Questo è un punto di tema, di contenuto, che considero assai dirimente: NON è il diario poetico di un’esperienza suicidaria che si dipana secondo il classico mitologema Morte/Rinascita. Infatti la poetessa non è “rinata”, ma è stata “restituita”, quasi suo malgrado. Perché non è stata lasciata andare via? Dio, il Caso? “Devi restare, creatura infelice/nella bolgia della mente/nella frattura del mondo/del tuo mondo/nell’avversione al corpo/al nulla caduco /al nulla vacuo/all’immobilita/alla paralisi”. Palomba attraversa la suprema seduzione della Caduta che la consegnerebbe alla sottrazione radicale, alla dissoluzione dell’ego ed estinzione d’ogni conflitto (“essere cielo”), ed invece si trova restituita, ma smembrata, lacerata, nell’angusta immobilità di un letto d’ospedale, per tanti mesi, dove protagoniste sono la stanza, le infermiere, le pareti con le loro voci, i persecutori interni mai sazi. E il cielo sì riappare, ma scorto, perlopiù immaginato, dalla finestra di quella stanza. E sono tutti i cieli del mondo, condensati dalla colpa e dalla nostalgia: “cosa ho fatto al mio corpo?”. Domanda che la attanaglia senza tregua. E allora Scisma, ma anche crepa, crepaccio, ferita, frattura, lacerazione: tutti sostantivi che rimandano ad un’irredimibile separazione (dal sé di prima, “Non avrai più nome. Rinuncia al tuo nome”, dall’amato, dalla vita di prima). Ma il”volo”; non è pieno, è cavo, appartiene al regno dell’indicibile. E la Poetessa si ritrova non già corpo vivo e animato, ma Korpen, “nuda materia plasmabile”; per usare le sue parole, a guardare le “enormi fauci dell’ospedale”; che “masticano i corpi”; dei convenuti a giudizio. Ma il suicidio si rivela ancora epifenomeno: il più profondo tema sotteso a tutta la silloge é la lettera”s”. Si, proprio una singola lettera: quella s anteposta che porta Oltre sempre (sconfinare, smarginare, sbordare, sradicare, sgretolare), e l’estremo pericolo insito in questo cammino, la necessità di praticarlo con un controllo, con una funzione coscienziale liminale che permetta di “dissipare senza dissiparsi”, citando ancora l’Autrice. Tutto questo ha presentato un conto salatissimo (“Il volo cavo/il prezzo della furia”): la necessità di affrontare quotidianamente il non accettato, il corpo, i nuovi limiti imposti. Prezzo della Colpa: esito paradossale, feroce nemesi per chi avrebbe voluto sempre “slimitare”;. Palomba infatti prova struggente nostalgia per il corpo e la vita che precede lo Scisma, ma anche per l’ospedale e financo per la “pazzia”, per la libertà dell’infinito sbordare: costretta a vivere nell’ “altrimenti”; sorto dalla restituzione, indossando nuove maschere che rendano praticabile una vita in sé sempre impossibile. L’Appello si palesa a Dio e al mondo alla fine del giorno 73: “alta marea è vicina e forte è la buriana/Ancorate la nave!”. Il rischio supremo é avviluppato al proprio destino di sconfinatrice ed esploratrice di abissi (i propri in primis): ma parrebbe profilarsi anche un’altra via all’agognata dissoluzione, forse la rinuncia al mondo (che resta senza possibilità di Verità), forse l’estatica contemplazione del muto mistero che tutto sovrasta. Riuscirà Ilaria Palomba a “rinunciare al suo nome”? E, soprattutto, veramente lo vorrà? Leggere “Scisma” significa farsi attraversare dal “Pericolo” di artaudiana memoria, sondare (senza per forza abbracciare) costituenti antropologiche annidate nell’interiorità di ciascuno; parallelamente però richiede al lettore un’ineludibile disponibilità, un abbandono, un eclissarsi di difese in una temporanea epochè.
Pietro Barbera-
Pietro Barbera, quarantaseienne libero di stato, privo di precedenti letterari e di altra natura, vive a Novara e vi lavora svolgendo la professione di assistente a-sociale. Ha alle spalle studi sociologici e la frequenza del Master in “Death Studies; the End of Life” presso l’Università degli Studi di Padova, nel cui contesto la poetessa e indologa Laura Liberale, durante un seminario, l’ha sollecitato a dedicarsi con maggiore impegno alla scrittura. Burocrazie del Dolore, edito da Giuliano Ladolfi Editore 2024, ne è l’opera prima.
Poesie di Ilaria Palomba
Da “Scisma” (Les Flâneurs, 2024)
Giorno 11
Le infermiere aprono la finestra
il mattino trabocca di lacrime
violaceo azzurrato l’albore tuona –
Schubert copre la nudità dei corpi
avvizziti gremiti di piaghe.
Al mattino il Colosseo Quadrato
sporge nel tramestio di nubi.
Al mattino penso al mio corpo
alla fine del sogno
alla fine dei giochi
un corpo disabitato – l’anima
anela prega piange –
tentativo di uscirne.
Devi restare, creatura infelice,
nella bolgia della mente
nella frattura del mondo
del tuo mondo
nell’avversione al corpo
al nulla caduco
al nulla vacuo
all’immobilità
alla paralisi.
*
Giorno 17
Valium. Litio. Clozapina. Lyrica. Polveri mefitiche lassative. Più di dieci farmaci. La pillola per il fegato: in rianimazione avevo il fegato perforato, l’arteria epatica pronta a deflagrare. Ventotto trasfusioni. È abbastanza come anestesia? Tornati nelle stanze dormiamo tutto il giorno per vivere una vita che non sia questa, per dimenticare il dolore, per inventare un fuori. Dimentica la successione del ricordo, cancella la persona, non esiste il prima. Infettate le pareti; sporche di merda le lenzuola. Cos’è la dignità? Sono rimasta nel mezzo – immobile – nella vastità di nessuno.
*
Giorno 26
Qui è la ghiera del persecutore interno,
non hai rivali fuori da te stessa.
L’uomo illuminato dal demonio
parla la lingua delle bestie:
Qui si smarrisce la coscienza.
Qui si aprono i multipli.
Vuoi vivere o morire?
Rinuncia al tuo nome, o la vita o il tuo nome.
Guarda, guardalo. Anche lui è qui.
Sono tutti qui. Aspettano.
Siamo qui per pulire.
*
Giorno 29
Non voglio essere salva
per restare nell’ombra.
Adesso, sai, non ricordo
il volo cavo,
il prezzo della furia.
Nuda materia plasmabile.
Proteggi le ossa,
allontana la bestia.
Si schiude la ferita, sangue e buio
giacere sgraziata all’esistenza,
crebbe in te la ferita, restò nuda,
avrebbe martellato l’osso sacro,
avrei guardato tutto l’angelico
suppurare in infero, smarginare.
*
Giorno 49
La vecchia nella mia stanza ha un mieloma, è peggiorata. Siamo una moltitudine di solitudini. Li ho guardati qualche volta negli occhi. Erano i restituiti. Veniva l’uomo della stanza accanto a portarmi il cornetto. Lo chiamo F. Diceva: Come sei finita dentro il tumulto? L’ospedale aveva enormi fauci e masticava i nostri corpi. Trovare la forza di portare a termine il pensiero.
Come sei finita?
Un pensiero fecondo mentre muovo la gamba cattiva. Dovrò occuparmi di tutto ciò che ho lasciato. Nulla si può sospendere se non l’attesa. Dovrò occuparmi dell’ottusità.
*
Giorno 54
È rimasto qualcosa di umano in te?
Quanto ancora dovrai attendere?
E la tua smania, chi saprà estirparla?
Una pietà maldestra ti apre all’ascolto
ma un giudizio feroce ti ottunde il pensiero.
Non puoi più seguire i desideri,
Imparerai ogni cosa di nuovo
e sarà un po’ diversa.
Avrai un altro nome.
*
Giorno 73
Nella lontananza dell’idrogeno
il cloro si annoia. Tu con me
aderendo fino alla fine, foglia,
non ti annoi, se l’albero si
scuote e ti strappa via. Io
foglia non mi arrendo se
tu vita mi strappi via. Io,
nella lontananza di questo
reparto, dopo aver gettato
la spugna, risalgo alla vita
stessa. Che sia il barbaglio
di questo sole, sradicamento,
il suicidio non conosce
retrovie, non ho visto il
mio corpo cadere ma
ho sentito cantare un
coro soave. Dove siete,
sorelle? Io vi chiamo
dal letto diciotto, della
stanza numero quattro
dell’unità spinale. Venite,
nel giardino, dove possiamo
camminare, zoppicando.
Era l’alta marea in me
a gettare scompiglio,
era l’altra, colei che
non voglio, e non sono.
Ognuno nel fondo è
un altro. Riprendere
il timone, ancorare la
nave. Dentro un tormento
cui non sono pronta,
l’alta marea è vicina
e forte è la buriana.
Ancorate la nave!
*
Inediti
Se io non fossi l’acerbo sventrato
ma il verbo dell’oltre,
se non avessi macchiate le vesti
di sangue,
se io non portassi in grembo i segni
del mare,
se fossi limpida come il mare
che bagna i tormenti,
se fossi limpida come il mare
che bagna i suoi campi,
se conoscessi il preludio e il perdono,
se una pietà abitasse il corpo,
se una pietà venisse a strapparmi dal
gesto,
se avessi occhi di madre e non sguardo
furioso di figlia,
se io fossi foglia e non magnolia,
se io potessi scombuiare e svanire,
se io potessi smarrire il senno e svenire,
se solo potessi annientarmi e obliare,
se non vedessi gli occhi e gli sguardi,
se non fossero forbici le mani
e gli occhi pugnali,
se non scimitarre le bocche
o gherigli,
e se potessi non rispondere
all’ingiuria col pianto,
ma con l’incanto di chi conosce la fine,
ma con la voce che risale il perdono,
ma con la voce del perdono accolto,
ma con l’avvento di una pietà smarrita,
ma con la memoria di una vita arresa,
non patirei le mani, gli occhi, gl’inganni.
La mente vacilla, il suono del ricordo
annerisce i palmi, oscura le mani.
Io mi rivolsi al cielo e lui mi vinse,
mi rivolsi al mare e l’abisso mi tagliò
in porzioni sottili più e più volte.
alla città fantasma
*
Se tu tornassi io ti accoglierei
nelle mie braccia, ti accoglierei
viva e morta, ti accoglierei,
tu nemesi, tu cieco, tu traudito,
sei il seme dell’uomo e della donna,
il sangue e il giogo e la caduta,
il cervello raccolto dalle membra,
sei la via verso il vuoto,
l’aspersione del fianco,
anima mundi e anima immundi,
sei sangue del mio sangue,
sei cuore del mio cuore,
sei ventre sventrato,
sei la parola smembrata nel vizio,
sei il santo cui votai il crollo,
l’unico biancore del precipizio,
sei tenebra e luce,
accecato e ritornante,
sei l’immondo amante,
sei catena di ruggine rappresa,
sei la mia intera discesa
tra i palazzi crepati della terra,
qui batte il sole e ragliano i cani,
qui siamo all’ora dell’orizzonte vermiglio,
e le case bucate hanno finestre di occhi,
e io fui tua moglie e tu mio figlio,
e fosti il padre e la madre e la conchiglia,
fioritura nera di crisalide estinta,
io sono la tua nemesi spuria,
impara il tempo del mio tempo,
l’arte feroce dello smembramento,
– io sono l’onorata e la disprezzata
io sono la prostituta e la santa
io sono la sposa e la vergine
io sono la prima e l’ultima –
Iside cieca sul fondo
della tua stirpe brunita,
sono la menade e il sacrificio,
e tutte le guerre furono arrese
alla grazia della tua immensa sparizione.
a Iside
*
La notte prima della crocifissione
guardammo le frane e la terra,
guardammo l’algore dell’uomo,
nessuno seppe chiedere perdono.
Perché sono tornata a te adesso?
Per sconquassare la ruggine
nelle mani o per non sapere,
non ho coscienza delle piaghe,
nell’altissimo cercare l’uomo,
la via baluginante nella gioia,
alla ferita succede l’abbandono.
a Gesù Cristo
La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttore editoriale: Giovanni Ibello Caporedattrice: Valentina Furlotti Redazione: Giovanna Rosadini, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Piero Toto, Emanuele Canzaniello, Giovanni Di Benedetto. Collaboratori ed ex collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Antonio Fiori, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola, Mario Famularo, Paola Mancinelli
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani, Eleonora Rimolo.
Irena Sendler: Eroina della Resistenza ai nazisti in Europa
Irena Sendler, nata nel 1910 e morta nel 2008, è stata una delle più grandi eroine della Resistenza ai nazisti in Europa. Donna libera, socialista, ha salvato più di 2.500 bambini ebrei durante l’occupazione tedesca della Polonia.
“La ragazza dei fiori di vetro” è la sua biografia di Tilar J. Mazzeo (Piemme) che racconta la sua straordinaria vita. Il libro è ricco di dettagli anche sulla Polonia in quegli anni. Sendler è il cognome assunto col matrimonio. Lei si chiamava Krzyzanowska, nata a Otwock , cittadina polacca abitata da moltissimi ebrei. Suo padre, medico, morì di tifo, e le locali comunità ebraiche che consideravano il dottore un loro benefattore, le offrirono le spese dell’Università.
Irena nel periodo tra le due guerre mondiali combattè l’antisemitismo che regnava nelle università polacche. Si innamorò di due uomini: il primo Mieczyslaw Sendler che sposò, il secondo Adam Celniker che amò, sposò successivamente e che venne rinchiuso nel ghetto di Varsavia perché ebreo.
Come assistente sociale riuscì a lavorare nel ghetto relazionando ai tedeschi che temevano l’epidemia di tifo e le insurrezioni. Quando diventò palese che nel 1942 i nazisti volevano deportare l’intera popolazione del ghetto nel campo di sterminio di Treblinka, Irena decise di far uscire dal campo almeno i bambini nascondendoli in sacchi di iuta, nelle cassette di attrezzi… Non era sola in questa operazione. Oltre all’organizzazione Zegota, guidata dal socialista Jan Grobelny, personaggi di destra, cattolici, persone che con “scopo salvifico” pensavano di salvare i bambini, battezzarli, e sottrarli al “perfido giudaismo”. Fu grazie a Sendler, che annotò scrupolosamente i nomi dei piccoli che alla fine della guerra vennero restituiti alla loro identità.
Dopo la guerra divorziò dal marito e sposò Adam tornato dalla prigionia. Morto Adam nel 1961, risposò il suo primo marito Mieczyslaw. Il che è anche una risposta a chi si chiede se è possibile amare due uomini contemporaneamente e durante il corso della propria vita se si riesca a tenerli legati a sé.
Nel 1965 le fu conferita dagli israeliani la medaglia di Giusta tra le nazioni.
Piero Barbareschi-L’ULTIMA COPIA–Un viaggio musicale nell’Europa del Settecento-
Zecchini Editore-Varese
Descrizione- Un viaggio musicale nell’Europa del Settecento-Autunno 1772. Un anziano copista musicale, Agostino Busetto, è costretto a fermarsi in una locanda di montagna durante il viaggio di ritorno verso Venezia, sua città natale. In un lungo dialogo con il proprietario ripercorre le tappe della sua vita e della sua carriera, consentendo al lettore di scoprire ed immergersi nell’affascinante mondo musicale dell’Europa del XVIII secolo.
Escludendo il protagonista tutti i personaggi sono reali e le vicende realmente avvenute nella cronologia descritta nella narrazione. Oltre a nomi celeberrimi come Bach, Haendel, Vivaldi, Porpora, Galuppi, Goldoni, Farinelli, che insieme a molti altri Busetto avrà la fortuna di incontrare, un altro personaggio realmente esistito compare inaspettato durante la narrazione condizionando la vita e le azioni del copista: Jan Dismas Zelenka. Autore ancor oggi troppo poco valorizzato, rappresenta con la sua musica straordinaria e la vita ammantata da un alone di mistero un tipico esempio di un musicista geniale che non riuscì a dominare e contrastare gli spietati meccanismi che, allora come oggi, regolavano e condizionavano la carriera e la fama degli artisti, nel suo caso esasperati a tal punto da provocare un totale ed ancora oggi inspiegabile oblio per quasi duecento anni.
Zecchini Editore
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Roma Municipio XIII-Fotoreportage di Franco Leggeri-
“-Neve a Castel di Guido e Residenza Aurelia-“
Roma Municipio XIII-Castel di Guido e Residenza Aurelia–26 febbraio 2018 – E, alla fine, anche i più prudenti sono stati smentiti e la neve è arrivata. Poco dopo l’una di questa notte i primi fiocchi di neve hanno iniziato ad imbiancare Castel di Guido e la Residenza Aurelia. La neve , per l’intera notte, ha accarezzato la Capitale. Entrata da nord, dopo aver imbiancato tutta la Provincia di Viterbo , la perturbazione nevosa ha coinvolto la nostra Città e Castel di Guido. Alleghiamo al post un fotoreportage sulla nevicata che ha interessato la Residenza Aurelia.
PIANO NEVE DEL CAMPIDOGLIO-
Scuole chiuse
Ieri pomeriggio il Comune di Roma ha emanato un’ordinanza che prevede la chiusura delle scuole: “Preso atto dell’ultimo aggiornamento delle previsioni fornite dalla Protezione Civile regionale, che confermano i rischi di neve e forti gelate, è stata firmata ordinanza sindacale che dispone la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, compresi gli asili nido, sul territorio di Roma per lunedì 26 febbraio”. Provvedimenti analoghi sono stati presi da tutti i Sindaci della Città Metropolitana , sono sospese anche le lezioni e gli esami nelle Università della Capitale.
Chiusi parchi, cimiteri e ville storiche
Una seconda ordinanza, firmata sempre dalla sindaca Raggi, è quella relativa a parchi, cimiteri e ville storiche che resteranno chiusi fino a cessata allerta.
Piano neve di Atac
Anche Atac è “in trincea”. Varato il piano neve: in servizio saranno solo le linee di bus che garantiranno gli spostamenti lungo le direttrici principali della città con vetture dotate di gomme termiche. L’intera rete metro-ferroviaria (metro A, B e C, ferrovie Termini- Centocelle, Roma-Lido e Roma-Viterbo) sarà regolarmente in servizio.
La costruzione della via Aurelia assunse subito una grande importanza. La sottomissione dei popoli del sud est della Gallia permise di accorciare il tragitto e di conseguenza il tempo di percorrenza tra Roma e la Spagna. Grazie alla via Aurelia, Giulio Cesare giunse ad Arles partendo da Roma in otto giorni, per poi giungere in soli 27 giorni in Spagna, accompagnato dal suo esercito. Il cursus publicus, il servizio di posta romano, giungeva in Spagna percorrendo 70 chilometri al giorno, con quattro cambi di cavallo durante l’arco della giornata.
Itinerario
Il tracciato della via romana, poi detto via Aurelia Vetus (ancora oggi via Aurelia antica), partiva dal Foro Boario oltrepassando le Mura serviane e il Tevere sul pons Sublicius, poi sostituito dal ponte Emilio (attuale ponte Rotto) e attraversava la zona paludosa di Trastevere (in parte su viadotto ancora visibile nelle cantine di via della Lungaretta), salendo quindi sul Gianicolo (via della Paglia, vicolo della Frusta, via di Porta San Pancrazio) e superando le Mura aureliane a porta Aurelia (oggi porta San Pancrazio).
A Pisa la viabilità consolare lungo la costa tirrenica si interrompeva a causa di due componenti fondamentali che ne impedivano la prosecuzione: da una parte, la presenza dell’ampia zona paludosa detta Fossae Papirianae (riportate nella Tabula Peutingeriana) nell’attuale costa della Versilia (da Migliarino Pisano fino a Luni, poco lontano dall’odierna Sarzana); dall’altra, la presenza degli scomodi e bellicosi Apuani, detti anche Liguri Montani o Sengauni.
Segmentum IV; Rappresentazione delle zone Apuane con indicate le colonie di Pisa, Lucca, Luni ed il nome “Sengauni”; il tratto Pisa-Luni non è ancora collegato
Cosicché il percorso della via Aurelia dopo Pisa andava verso Lucca, attraverso la deviazione di Corliano, Rigoli e Ripafratta (San Giuliano Terme) e, incuneandosi poi nel Forum Clodii (Garfagnana), entrava in Lunigiana attraverso la valle del Serchio (Auser) e la val d’Aulella (Audena) per ricongiungersi con la viabilità di Luni.
Il brevissimo tratto paludoso da Pisa a Luni (solo poche miglia terrestri) interruppe così la viabilità costiera fino al 56 a.C., quando Giulio Cesare ebbe la necessità impellente di sveltire i collegamenti viari in vista della conquista della Gallia. Per tale ragione strategica egli diede incarico al figlio di Marco Emilio Scauro (di nome anch’esso Marco Emilio Scauro) di costruire una sorta di “scorciatoia” che potesse collegare Pisa con Luni (Luna). Questa seguì un percorso collinare, sempre però con deviazione su Lucca, diventando quella che oggi è la strada provinciale Sarzanese, che effettivamente collega Lucca con Camaiore (Campus Major) e con Massa (Tabernae Frigidae), proseguendo infine verso Sarzana sempre con percorso collinare.
Intorno al 13 a.C. Augusto fece costruire la via Julia Augusta verso Marsiglia (antica Massalia) insieme all’edificazione del Trofeo di Augusto a La Turbie (sopra l’attuale Principato di Monaco), per celebrare la sottomissione di tutte le popolazioni alpine. A Nîmes (Colonia Augusta Nemausensis), la Julia Augusta si raccordava con la via Domizia, la più antica costruita in Gallia dai Romani, lunga circa 620 km, da Segusium (Susa) ai Pirenei.
Nei tempi successivi, mediante la riunione di ulteriori tratti di viabilità nell’entroterra ligure di levante e di ponente e con l’aggiunta di migliorie nella Sarzanese, la via Aurelia andò componendo nei secoli quel “puzzle” che è l’attuale via Aurelia da Roma fino a Ventimiglia (confine di Stato) e prosegue verso Nizza, Tolone e Marsiglia fino ad Arles, portando così la lunghezza totale del sistema Aurelia/Julia-Augusta a 962 chilometri.
L’itinerario in Francia
All’ingresso in Francia, prende il nome di Via Julia Augusta e copre tutta la Costa Azzurra passando per diverse stazioni. Proprio grazie ad esse è stato possibile individuare il reale percorso della Via Aurelia.
La prima stazione è quella di Cap Martin dove sono stati ritrovati i resti di un mausoleo romano. Da qui, nasce un’altra via minore che conduce a Porto d’Ercole, nel principato di Monaco. A seguire, si giunge al colle di Turbia. Qui, nel 6 a.C., il senato romano decise di costruire il Trofeo delle Alpi, per commemorare la vittoria dell’imperatore Augusto sulle popolazioni ribelli delle Alpi. Si trattava di un monumento di grandi dimensioni per l’epoca con i suoi circa 50 metri di altezza che culminavano nella statua di Augusto, posta in cima alla costruzione. Dopo l’abbandono temporaneo a causa della caduta dell’Impero Romano, fu parzialmente distrutto per essere poi utilizzato come fortezza durante il Medioevo e infine, nei primi anni del Settecento, scavato per necessità minerarie. Insieme alla costruzione, fu attuato un rafforzamento della strada che passava proprio ai piedi della collina.
Nel 14 a.C., Augusto scelse la città di Cemenelum, situata sulle alture dell’attuale Nizza e oggi quartiere della città nizzarda sotto il nome di Cimiez, come capoluogo dell’antica provincia romana delle Alpi Marittime. Attualmente sono presenti i resti di un sito gallo romano composto da tre terme, un quartiere abitato, un anfiteatro e una cattedrale dotata di battistero paleocristiano.
La via attraversa il comune di La Gaude, in un tratto lungo il quale è presente un cenotafio romano contenente un’urna funebre di un legionario imperiale, Cremonius Albucus. Inoltre, la presenza di un ponte romano in pietra attesta l’interesse archeologico della Via Aurelia in questo settore. Segue poi un passaggio da Antibes, una città greca annessa nel 43 a.C. a Roma, in cui vengono costruiti un municipio, un teatro, un arco di trionfo e vari acquedotti.
La città successiva è Forum Julii, oggi Fréjus, all’epoca abitata da più di 6000 persone ed estesa su una trentina di ettari. Fondata da Giulio Cesare nel 49 a.C., vi nacquero personalità illustri come Publio Cornelio Tacito e Gneo Giulio Agricola. Da città commerciale, divenne un porto di guerra tra i più importanti del Mediterraneo in cui si instaurarono i soldati dell’Ottava Legione. Con la diffusione del cristianesimo, divenne sede episcopale. Anche a Fréjus sono numerosi i resti della civiltà romana, tra cui acquedotti, un teatro, un anfiteatro, le terme, la porta di Gaules e un faro noto come lanterna di Augusto. La via Aurelia seguiva da qui il corso dell’Argens tracciando in parte l’attuale strada nazionale da Muy a Vidauban per arrivare a Luc. Raggiunge poi Cabasse e Brignoles, dove è situata una stazione di posta. Uno snodo chiave è quello di Tourves, punto strategico per l’esercito romano, cui segue la città di Saint-Maximin-la-Sainte-Baume che anticipa i resti del Trofeo di Mario presso Pourrières, eretto nel 102 a.C. dopo la vittoria del console Mario sui Teutoni.
La via Aurelia arriva a Acquae Sextiae, l’attuale Aix-en-Provence, la cui storia è legata a quella dell’Oppidum di Entremont. I Romani distrussero l’oppidum nel 123 a.C. per eliminare un punto nevralgico dei Liguri. Il proconsole Sextius costruì una fortezza nei pressi di sorgenti termali e le diede il nome di “acque di Sextius”. Dalla fortezza si sviluppò un villaggio che divenne definitivamente colonia nel 15 a.C. e vide la propria economia crescere fino a permetterle di diventare capitale amministrativa della Gallia Narbonense. Nell’invasione del IV secolo, la città fu parzialmente distrutta.
Da Aix, la strada si divide verso Marsiglia, Vitrolles, Fos e Arles.
La via Aurelia passa dal nord di Eguilles diretta verso il sud di Salon-de-Provence, sede della stazione di Pisavis. Questa stazione è oggi distrutta e le sue mura sono conservate in una proprietà privata. Da qui raggiunge Mouriès, la piana di La Crau, il mas d’Archimbaud, il mas Chabran, Le Paradou e Estoublon. Qui partiva la strada verso Arles, città gallo romana per eccellenza, che aveva un ruolo strategico e economico. Inoltre, qui si instaurò la quinta legione. L’espansione fu interrotta dalle invasioni del III secolo ma presto ripristinata quando l’imperatore Costantino I vi si stabilì. Arles era un capoluogo di provincia, prefettura delle Gallie e sede di un’importante zecca monetaria. Inoltre, è sede di numerosi monumenti di epoca romana: oltre all’anfiteatro, al teatro e al circo, vi si trovano le terme di Costantino, il foro e la necropoli di Alyscamps.
Nella località di Ernaginum è situato l’odierno sito di Saint-Gabriel sede del più grande nodo stradale tra via Aurelia, via Domizia e via d’Agrippa. Da qui, la via Aurelia confluisce nella via Domizia e si dirige in Spagna.
Sviluppo della via Aurelia
Di seguito vengono riportati alcuni dei luoghi toccati o sfiorati dal percorso dell’antica via Aurelia (fra parentesi sono riportati i chilometri), degli avvenimenti e degli argomenti correlati.
Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano-
Articolo scritto Antonio Panella per la Rivista PEGASO n°6 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Biografia di Nello ROSSELLI-Storico e uomo politico (Firenze 1900 – Bagnoles de l’Orne 1937); fratello di Carlo, sentì al pari di questo l’influsso di G. Salvemini e fu deciso antifascista; svolse attività politica clandestina nel gruppo torinese di Giustizia e Libertà, subendo la prigione e il confino. Fu uno dei primi, in Italia, a indagare storicamente lo sviluppo del movimento operaio: Mazzini e Bakunin (1927); Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932) e varî saggi raccolti nel volume postumo Saggi del Risorgimento ed altri scritti (1946). Un’altra opera di R., interrotta dal suo assassinio in Francia, è apparsa postuma (1954) con il titolo Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847.
Biografia Sabatino Enrico Rosselli nacque a Roma il 29 novembre 1900 da un’agiata famiglia ebraica, ultimo dei tre figli del livornese Giuseppe Emanuele “Joe” Rosselli (1867-1911) e della venezianaAmelia Pincherle (1870-1954), sorella di Carlo Pincherle, architetto e pittore, oltreché padre dello scrittore Alberto Moravia. Sia la famiglia paterna che quella materna, fermamente legate agli ideali repubblicani e mazziniani, erano state politicamente attive, avendo partecipato alle vicende del Risorgimento italiano: Pellegrino Rosselli, tra l’altro zio della futura moglie di Ernesto Nathan (Sindaco di Roma dal novembre del 1907 al dicembre del 1913), fu un seguace e stretto collaboratore di Giuseppe Mazzini nei suoi ultimi anni di vita (morì difatti in clandestinità nella sua casa pisana) ed un Pincherle fu nominato ministro durante la breve esperienza della Repubblica di San Marco, instauratasi nel Triveneto a seguito d’una massiccia insurrezione anti-asburgica guidata da Daniele Manin e Niccolò Tommaseo.
Nello sposò Maria Todesco (1905-1998) nel 1926 ed ebbero quattro figli: Silvia, Paola, Aldo e Alberto.
Gli studi
Nel 1917 diresse, con l’amico Gualtiero Cividalli il mensile Noi giovani[1]. Nel 1923 discusse con Gaetano Salvemini la tesi di laurea su Mazzini e il movimento operaio dal 1861 al 1872. Tra il 1923 e il 1927 pubblicò numerosi articoli su riviste storiche italiane e il saggio Mazzini e Bakunin. Nel 1932 pubblicò il saggio Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano. La raccolta dei suoi Saggi sul Risorgimento italiano e altri scritti fu pubblicata postuma da Einaudi nel 1946.
L’attività politica
Iniziò giovane a far politica nel 1917 e fu col fratello tra i fondatori del giornale per studenti “Noi giovani”. Nel 1920, col fratello e con Piero Calamandrei, e col patrocinio di Gaetano Salvemini, fondò il Circolo di Cultura, chiuso dai fascisti nel 1925. Fece parte dei fondatori del gruppo fiorentino di Italia libera, fra cui, oltre al fratello, Enrico Bocci, Luigi Rochat, Dino Vannucci, Nello Traquandi. Nel 1924 aderì alla fondazione dell’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche promossa da Giovanni Amendola, e nel 1925 partecipò alla fondazione del primo giornale antifascista clandestino Non Mollare. Il 3 giugno 1927 venne arrestato e condannato a 5 anni di confino[2] a Ustica; rilasciato il 31 gennaio 1928[3], venne nuovamente arrestato e condannato a 5 anni di confino a Ustica e Ponza, nell’estate del 1929, dopo la fuga da Lipari del fratello.
Nel maggio 1937 ottenne, su intercessione di Gioacchino Volpe (probabilmente in buona fede)[4] il passaporto, con una sollecitudine che ad alcuni amici, tra cui Piero Calamandrei, parve sospetta e motivata dal fine di arrivare attraverso Nello al rifugio di Carlo[5], insieme al quale, il 9 giugno 1937, venne assassinato a Bagnoles-de-l’Orne da una squadra di “cagoulards”, miliziani della “Cagoule“, formazione eversiva di destra francese, su mandato, forse, dei servizi segreti fascisti e di Galeazzo Ciano; con un pretesto vengono fatti scendere dall’automobile, poi colpiti da raffiche di pistola: Carlo muore sul colpo, Nello (colpito per primo) viene finito con un’arma da taglio.[6][7]. I corpi vengono trovati due giorni dopo, l’11 giugno; i colpevoli, dopo numerosi processi, riusciranno quasi tutti ad essere prosciolti.[7]
Opere
Saggi sul Risorgimento e altri scritti, Prefazione di Gaetano Salvemini, Collana Biblioteca di cultura storica n.21, Torino, Einaudi, 1946. Introduzione di Alessandro Galante Garrone, Collana Piccola Biblioteca n.400, Einaudi, 1980.
Inghilterra e regno di Sardegna dal 1815 al 1847, a cura di Paolo Treves, introduzione di Walter Maturi, Collana Biblioteca di cultura storica n.50, Torino, Einaudi, 1954.
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), Collana Piccola Biblioteca n.89, Torino, Einaudi, 1967, ISBN978-88-06-04853-2.
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Con un saggio di Walter Maturi, Collana Piccola Biblioteca n.313, Torino, Einaudi, 1977.
^Commissione di Firenze, ordinanza del 3.6.1927 contro Nello Rosselli (“Attività antifascista”). In: Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L’Italia al confino 1926-1943. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, Milano 1983 (ANPPIA/La Pietra), vol. III, p. 1051
Simone Visciola, Nello Rosselli alla Scuola di storia moderna e contemporanea. La prima fase della ricerca di storia diplomatica, in Politica, valori e idealità. Carlo e Nello Rosselli maestri dell’Italia civile, a cura di Lauro Rossi, Roma, Carocci, 2003, pp. 111–122.
Simone Visciola, Nello Rosselli e i suoi “maestri”. Il rinnovamento della storiografia italiana fra le due guerre, in I Rosselli: eresia creativa eredità originale, a cura di Simone Visciola e Giuseppe Limone, Guida, Napoli, 2005, pp. 113–139.
Simone Visciola, Nello Rosselli: uno storico alla ricerca della libertà in tempi difficili. Appunti sparsi per una biografia complessiva ancora da scrivere, in I fratelli Rosselli. L’antifascismo e l’esilio, a cura di A. Giacone ed E. Vial, Prefazione di Oscar Luigi Scalfaro, Roma, Carocci, 2011, pp. 26–42.
Giuseppe Tramarollo, Nello Rosselli tra mazzinianesimo e socialismo, pp. 79–84.
Giovanni Belardelli, Nello Rosselli. Uno storico antifascista, prefazione di Norberto Bobbio, introduzione di Paolo Alatri, con un ricordo di Ezio Tagliacozzo, Passigli, Firenze, 1982, pp. 221 («Il filo rosso»).
Il carteggio di Carlo e Nello Rosselli con Carlo Silvestri (1928-1934), a cura di Gloria Gabrielli, «Storia Contemporanea», a. XXII, n. 5, ottobre 1991, pp. 875–916.
Mimmo Franzinelli, Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico, Mondadori, Milano 2007.
Nello ROSSELLI -Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano-
Articolo scritto Antonio Panella per la Rivista PEGASO n°6 del 1933
diretta da Ugo Ojetti
Biografia di Nello ROSSELLI-Storico e uomo politico (Firenze 1900 – Bagnoles de l’Orne 1937); fratello di Carlo, sentì al pari di questo l’influsso di G. Salvemini e fu deciso antifascista; svolse attività politica clandestina nel gruppo torinese di Giustizia e Libertà, subendo la prigione e il confino. Fu uno dei primi, in Italia, a indagare storicamente lo sviluppo del movimento operaio: Mazzini e Bakunin (1927); Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932) e varî saggi raccolti nel volume postumo Saggi del Risorgimento ed altri scritti (1946). Un’altra opera di R., interrotta dal suo assassinio in Francia, è apparsa postuma (1954) con il titolo Inghilterra e Regno di Sardegna dal 1815 al 1847.
Scritti di Nello Rosselli
Mazzini e Bakounine: 12 anni di movimento operaio in Italia (1860-1872)
F.lli Bocca, Torino 1927
Michail Bakounine, a cura di Nello Rosselli, V volume dell’Enciclopedia Italiana diretta da Gioacchino Volpe, 1930.
1930
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano
F.lli Bocca, Torino 1932
Leo Ferrero, Società anonima editrice Dante Alighieri
Milano 1933
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, E. degli Orfini
Genova 1936
Saggi sul Risorgimento e altri scritti, prefazione di Gaetano Salvemini, Einaudi
Torino 1946
Inghilterra e il regno di Sardegna. Dal 1815 al 1847, a cura di Paolo Treves, introduzione di Walter Maturi
Einaudi, Torino 1954
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, [introduzione di Walter Maturi], C.M. Lerici
Milano 1958
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), prefazione di Leo Valiani
G. Einaudi, Torino 1967
Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, con un saggio di Walter Maturi
G. Einaudi, Torino 1977
Saggi sul Risorgimento, prefazione di Gaetano Salvemini, introduzione di Alessandro Galante Garrone
Einaudi, Torino 1980
Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia (1860-1872), prefazione di Leo Valiani
Einaudi, Torino 1982
Ebraismo e italianità
Intervento di Nello Rosselli del 1924 al congresso della gioventù ebraica, tratto da “Nello Rosselli. “Uno sotto il fascismo. Lettere e scritti vari (1924-1937)” a cura di Z. Ciuffoletti, La Nuova Italia pp. 1-5.
La Nuova Italia
Informazioni tratte dal sito:
http://www.archiviorosselli.it/User.it/index.php?PAGE=Sito_it/NRosselli
Descrizione del film del regista Petr Vaclav- Il film ripercorre la vita e l’opera del prolifico compositore nato a Praga dove visse gli anni della fine dell’adolescenza durante il periodo della Guerra dei 7 anni, quello di Barry Lindon per intenderci, e che come molti altri prima e dopo di lui, scelsero la penisola come indispensabile punto di approdo per seguire il proprio sogno di una carriera dedicata alla musica e al teatro, quando la penisola era ancora, a quei tempi, il centro assoluto del mondo operistico e quindi meta obbligatoria per gli aspiranti compositori. Costretto in un primo tempo a occuparsi degli affari paterni, il mulino di famiglia, ma amante della musica, riesce a partire per Venezia all’età di 25 anni grazie all’aiuto finanziario del conte Vincent von Waldstein. Qui si perfeziona in composizione con Giovanni Battista Pescetti ma sbarca miserabilmente il lunario in attesa di un’occasione favorevole, già a quel tempo legata a contatti – per non dire «raccomandazioni», usando un bell’anacronismo – personali che si presenta sotto forma di un contratto al prestigioso Teatro San Carlo di Napoli che gli aprirà le porte di una sfolgorante carriera.
Compositore italiano, dunque, Mysliveček, visto che comporrà esclusivamente su libretti italiani, in particolare di Metastasio, in tutto una trentina di opere, e morirà poi a Roma, certamente di sifilide, oggi sepolto nella basilica di San Lorenzo in Lucina. Avendo un cognome impronunciabile per gli italiani, Mysliveček si firmava “Il Boemo”, da cui il titolo azzeccatissimo di questa coproduzione ceco-slovacco-italiana, con regia e sceneggiatura di Petr Václav, fotografia di Diego Romero, e nei ruoli principali Vojtěch Dyk (Josef Mysliveček), Barbara Ronchi (la cantante Caterina Gabrielli), Elena Radonicich (la marchesa), Philip Hahn (il giovane Mozart), Lana Vlady (Anna Fracassatti).
Va subito detto che si tratta di un film musicale di altissimo livello, come se ne sono visti pochissimi sul grande schermo, una vera e propria eccezione nel panorama cinematografico mondiale del XXI secolo, che presenta numerose scene di opere del compositore, tra cui Il Bellerofonte (Napoli 1767), L’Olimpiade (Napoli 1778), Romolo ed Ersilia (Napoli 1773 e 1779), e Il Demetrio (Pavia 1773) registrate dall’orchestra barocca di Praga Collegium 1704 diretta da Václav Luks, godibilissime dallo spettatore per l’eccellente qualità del suono e degli interpreti, tra i quali solisti di fama internazionale come Philippe Jaroussky e tanti altri. Nei confronti di Mysliveček c’è stato negli ultimi anni un tentativo di riscoperta, con la messa in scena dell’Olimpiade nel 2013 e 2014 e con un grande convegno organizzato a Praga ( vedi QUI ).
Con un procedimento che potrebbe ricordare il preludio della Traviata ma, forse, ancor di più, il romanzo breve di Lev Tolstoj, La morte di Ivan I’lič, il film comincia dalla fine, cioè dall’ultimo periodo della vita del compositore, e ripercorre a ritroso la sua vita e la sua carriera nella penisola italiana per concludersi, nelle scene finali, con il ritorno alla scena inaugurale del film, richiudendo dunque il cerchio proprio come si fa in un’opera lirica “classica”.
Tra le tante qualità del film, che sono davvero numerose, mi sento di elencarne alcune in particolare. Il minuzioso lavoro di ricostruzione filologica di questo biopic consente allo spettatore, italiano in particolare, forse per la prima volta, di penetrare nel mondo operistico della penisola della seconda metà del 700 e di mettere a fuoco i meccanismi che vigevano nel mondo teatrale e musicale degli Stati italiani.
Altra qualità è quella della lingua, l’italiano, in cui il film è girato nella sua quasi integralità, e scusate se è poco per un film di questo genere, italiano che viene declinato in modo direi veristico con molte sfumature di accenti, pronunce, varianti regionali, il che rende ancor più “veri” i personaggi: penso, ad esempio, alla bellissima pronuncia del protagonista che assume così, alle orecchie di chi ascolta, un colore “esotico”, o agli interventi in napoletano del re di Napoli dal forte carattere realistico perché, come si sa, a corte si parlava forse più in napoletano, all’epoca, che non in italiano.
Che dire poi delle scene musicali girate a teatro che con grande forza visiva e musicale si sforzano, e ci riescono dal mio punto di vista, a rendere palpabile l’atmosfera elettrica scatenata dalle performance degli artisti – la bravissima Barbara Ronchi che interpreta “La” Gabrielli – contrariamente a quanto accadeva, tanti anni fa, nel brutto Farinelli (1994) di Gérard Corbiau.
Nel Boemo la vita e la carriera del compositore scorrono su binari paralleli e il film non indugia a raccontare un Mysliveček più intimo, attraverso le sue numerose relazioni amorose, ad esempio, o i rapporti tesi con il suo fratello gemello, rimasto in patria, che ha ripreso gli affari del padre. Ne esce fuori un ritratto completo in cui l’uomo e l’artista, un “immigrato” (per dirla con un vocabolario attuale) dei Paesi cechi, non dimentichiamolo, sceglie la penisola come luogo definitivo di approdo perché quella è, idealmente, la sua terra promessa, la terra della musica e dell’arte. Cosa che, purtroppo, l’Italia non è più, come più volte ha ricordato il maestro Riccardo Muti in pubbliche interviste riguardo allo stato della musica in Italia, e come la distribuzione minimalista del film prevista nel Bel Paese non fa che confermare. Ma in Italia, si sa, la musica del 700, Mozart escluso, non interessa nessuno e tanto meno i teatri dell’Opera, e quindi è tanto più importante l’uscita di questo film che non deve essere riservato solo a coloro che amano questo tipo di musica e/o questo periodo specifico ma è un film per tutti e per coloro che vogliono o possono addentrarsi in questo periodo storico come, ad esempio, anche attraverso Barry Lindon di Kubrick.
Il film di Petr Vaclav, grazie alla precisa ricostruzione storico-filologica, ci accompagna dentro il vero spirito dell’epoca e musica, suono, voci dei cantanti e immagini si fondono in una perfetta armonia, come accade molto raramente quando si assiste a un’eccellente rappresentazione operistica dotata di un’ottima regia.
Il Boemo è un film prezioso e raro, in lingua italiana, come forse non ne sono mai stati fatti in Italia, che riporta alla luce e all’attenzione del grande pubblico un grande compositore del passato ingiustamente dimenticato e, solo per questo, andrebbe reso omaggio al regista e sceneggiatore. Inoltre, il film è servito da ottimi attori, con fotografia, scenografie, costumi di livello eccellente e grandissima attenzione estetica ai dettagli storici, il tutto condotto con rigore filologico e, trattandosi di un film musicale, con una qualità musicale e sonora eccezionale che sposa a meraviglia le scene e le immagini e inchioda letteralmente lo spettatore alla poltrona. Un film da non perdere quando uscirà nel prossimo mese di giugno nei cinema francesi.
Walter Zidarič
IL BOEMO (2022) Regia e sceneggiatura Petr Vaclav Direzione musicale Vaclav Luks, Orchestra Collegium 1704 Cantanti: Raffaella Milanesi, Simona Saturova, Emöke Barath, Sophie Harmsen, Philippe Jaroussky, Krystian Adam, Juan Sancho, Ben Schachtner, Giulia Semenzato Casting: Vojtech Dyk, Barbara Ronchi, Elena Radonicich, Lana Vlady, Alberto Cracco, Mirko Ciccariello
Fotografia: Diego Romero; costumi: Andrea Cavalletto; scenografie: Irena Hradecka, Luca Servino; trucco: Andrea McDonald; suono: Daniel Nemec, Edro Groot, Francesco Liotard.
Uscita prevista in Francia: 21 giugno 2023 Biopic storico (2h20) Coproduzione: Ceca, Italia, Slovacchia
Walter Zidarič è professore ordinario di Letteratura e Civiltà italiana all’Università di Nantes. Ha pubblicato varie monografie, tra cui ‘L’univers dramatique d’Amilcare Ponchielli’ (Parigi 2010) e ‘Fonti e influenze italiane per libretti d’opera del ’900 e oltre’ (Lucca 2013), ha curato tutte le opere di E.L. Morselli in due volumi, ‘Tutto il teatro di Ercole Luigi Morselli’ (Roma 2017) e ‘E.L. Morselli, Opere in prosa’ (Torino 2021) ed è autore del dramma ‘Io, da qui, non me ne vado’ (2019). È anche librettista con ‘Lars Cleen: lo straniero’, per la musica di Paolo Rosato (Helsinki 2015), tratto dalla novella ‘Lontano’ di Luigi Pirandello e con ‘Orione’ (2019) tratto dall’omonimo dramma di E.L. Morselli, e ‘L’ambasciatore’ (2022) tratto dalla ‘Morte di Ivan Il’ič ‘ di Tolstoj, per la musica di Simone Fermani.
Serena Romano- La basilica di San Francesco ad Assisi-
-Pittori, botteghe, strategie narrative-
-Viella Libreria Editrice Roma-
Sinossi del libro di Serena Romano-La basilica di San Francesco ad Assisi–I sette saggi di cui si compone il libro, nella maggior parte inediti, hanno per tema la decorazione pittorica della chiesa di S. Francesco ad Assisi, a partire dalla prima fase di affrescatura della basilica inferiore fino al ciclo francescano nella navata di quella superiore. Nel loro insieme costituiscono il frutto di più di venti anni di ricerche dell’autrice, e studiano la veste pittorica della basilica secondo due approcci diversi ma non indipendenti l’uno dall’altro.
Il primo è l’analisi della maniera di pittori e botteghe, del mestiere dell’artista e del funzionamento del cantiere: un problema sempre complesso e sempre sfuggente, per la difficoltà dell’indagine e la scarsezza di fonti e di informazioni. Ad Assisi ogni tranche della decorazione pittorica ha proprie caratteristiche tecniche, proprie modalità di funzionamento, propri sistemi di organizzazione del lavoro, e il libro ne studia le ricadute sul risultato pittorico finale.
Il secondo approccio, o metodo, è l’analisi iconografica. Essa schiude le porte della storia, e ad Assisi più che altrove. Non si tratta di cercare il significato delle “figure” in un episodio storico, o in una fonte letteraria: quelle figure sono il testo, sono la storia, la fanno e la svelano senza subordinazioni, l’immagine ha una natura complessa che si annida all’interno della storia organica del monumento, preso in una rete di relazioni di cui la figuratività è un aspetto.
INDICE
Introduzione
1. Le storie parallele di Assisi: il Maestro di S. Francesco
Note Aggiornamento bibliografico.
2. L’inizio dei lavori di decorazione nella chiesa superiore. Pittori nordici e pittori romani fra Cimabue e Jacopo Torriti
Note
3. La doppia Crocifissione e il programma “nascosto” di Cimabue
Note
4. Assisi e Roma. Cimabue, il ritratto di città, e il senso della storia
Note
5. La Morte di Francesco
Note
6. Come si inventa una nuova iconografia: l’Estasi di S. Francesco
Note
7. La redazione del programma e lo svolgimento del cantiere della navata
Note
Appendice: A proposito de Il cantiere di Giotto
Schemi
Antologia di documenti
Abbreviazioni
Bibliografia
Referenze fotografiche
AUTORE-Serena Romano è professore di Storia dell’arte medievale presso l’Università di Losanna. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La O di Giotto (Electa, 2008); Il Duecento e la cultura gotica (Jaca Book, 2012); Modernamente antichi (Viella, 2014). Nel 2015 è stata curatrice delle mostre, con i relativi cataloghi, “Arte lombarda dai Visconti agli Sforza” e “Giotto, l’Italia”, ambedue a Milano, Palazzo Reale.
Serena Romano is Professor of Medieval art at the University of Lausanne. Her publications include Il Duecento e la cultura gotica (Jaca Book, 2012), L’histoire de Rome par la peinture (avec I. Foletti, Citadelle & Mazenod 2010), and La Basilica di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie narrative (Viella, 2001). In 2015 she has been the curator of the exhibitions “Arte lombarda dai Visconti agli Sforza” and “Giotto, l’Italia” both held in Milan, Palazzo Reale.
Viella Libreria Editrice
Via delle Alpi 32 – 00198 Roma
Tel. 06.8417758 – Fax 06.85353960
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