Sujata Bhatt nasce a Ahmedabad, in India, nel 1956. Attualmente vive in Germania, a Brema. Sujata Bhatt ha pubblicato cinque raccolte di versi, per le quali ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Commonwealth Poetry Prize (Asia) e l’Alice Hunt Bartlett Award: Brunizem (1988), Monkey Shadows (1991), The Stinking Rose (1995), Augatora (2000) e A Colour for Solitude (2002). Questa antologia è la prima traduzione italiana delle sue poesie. Ha curato The Pentuin Anthology of Contemporary Indian Women Poets
Biografia-Sujata Bhatt (Ahmedabad, 6 maggio1956) è una poetessa e traduttriceindiana.-Sujata Bhatt è nata ad Ahmedabad e ha trascorso l’infanzia a Pune prima di trasferirsi a New Orleans con la famiglia nel 1968. Qui si è laureata all’Università dell’Iowa e nel 1987 ha esordito con la raccolta Brunizem, che le è valso il Alice Hunt Bartlett Prize e il Commonwealth Poetry Prize.[1] Da allora ha pubblicato una decina di raccolte poetiche, oltre a tradurre diverse poesie dal gujarati all’inglese per un’antologie di poetessie indiane pubblicata dalla Penguin Books.
Vive a Brema con il marito, lo scrittore Michael Augustin, e la figlia.[2]
Opere (parziale)
Brunizem (1988)
The One Who Goes Away (1989)
Monkey Shadows (1991)
The Stinking Rose (1995)
Point No Point (1997)
Augatora (2000)
The Colour of Solitude (2002)
Pure Lizard (2008)
Poesie di Sujata Bhatt -Poetessa indiana-
Anche l’acqua scarseggia
I
Anche l’acqua scarseggia E c’è una bambina Che regge una brocca nera sulla testa, Vende acqua alla stazione. Riempita d’acqua la sua tazza d’ottone Me la porge sollevando le braccia al finestrino, Su su fino a me che mi sporgo dal treno. Ma non riesco a pensare a lei in inglese.
II
Mi chiedi che cosa intendo dire Quando affermo che ho perso la mia lingua. Ti chiedo, che cosa faresti Se avessi due lingue in bocca E perdessi la prima, la lingua madre, E non riuscissi a sapere davvero la seconda, Quella straniera. Non potresti usarle insieme Anche se quando pensi finisce che fai così. Se poi ti capitasse di stare in un paese Dove si parla un’altra lingua ancora, La tua lingua madre marcirebbe, Marcirebbe e ti morirebbe in bocca.
Un’altra storia
Il grande Pan non è morto; è solo emigrato in India. Qui gli dèi girano indisturbati, travestiti da serpenti o da scimmie; ed è peccato trattare male un libro. È peccato spingere un libro da una parte con il piede, è peccato sbatterlo forte contro un tavolo, è peccato buttarne uno sbadatamente dall’altra parte della stanza. Devi imparare a girare le pagine con garbo, senza disturbare Sarasvati, senza offendere l’albero dal cui legno è stata fatta la carta.
Quella che va via
Ci sono sempre, in ciascuno di noi, queste due persone: quella che resta, e quella che se ne va. Eleanor Wilner Ma io sono quella che va via, sempre la prima volta fu la più – fu la più silenziosa.
Non parlai, né risposi a coloro che immobili mi salutavano con il lieve fruscio dei sari mossi dal vento.
Io sono quella che va via sempre. Talvolta mi chiedono se sto cercando un posto in cui l’anima smetterà di vagare. Un posto in cui fermarmi senza più desiderio di partire.
Chissà.
La gioia è forse potere sempre partire.
Eppure non ho mai lasciato la mia casa. Me la sono portata via con me – qui, nell’oscurità del mio essere. Se tornassi indietro, non troverei in nessun luogo quella prima casa, là fuori in quella terra-madre.
Non ci permisero di prendere molto ma riuscii a nascondere la mia casa dietro al cuore.
Guarda la spiaggia vuota ora al crepuscolo – non c’è sole a indorare le onde, non c’è luna ad avvolgerle in riflessi d’argento – guarda l’oscurità che si insinua quando il mare è senza maschera non è più così bello.
Ora il vento cessa di soffiare a vuoto – mentre la terra chiama la casa chiama torna, torna – sono quella che va via, sempre. Perché devo – con la mia casa intatta che sempre cambia così che le finestre non si intonano più con le porte – i colori si scontrano in giardino – e l’oceano abita in camera da letto.
Sono quella che va via, sempre via con la sua casa che può solo restarmi dentro il sangue – la mia casa che non trova posto in nessuna geografia.
Femminilità
Ho pensato a lungo a quella ragazza che raccoglieva sterco di vacca in un’ampia cesta rotonda lungo la strada principale che passava da casa nostra e dal tempio Radhavallabh a Maninagar. Ho pensato a lungo al modo in cui lei muoveva le mani e i fianchi e all’odore di sterco e di polvere di strada e di gigli di canna umidi, l’odore di fiato di scimmia e di abiti appena lavati e la polvere dalle ali dei corvi che ha un odore diverso ed ancora l’odore di sterco mentre la ragazza lo raccoglie tutti questi odori che mi circondavano separatamente e simultaneamente. L’ho pensata a lungo, ma non volevo usarla per una metafora, per una bella immagine, ma soprattutto non volevo dimenticarla o spiegare a chiunque la grandezza e la forza che rilucevano dai suoi zigomi ogni volta che trovava un mucchio di sterco particolarmente promettente.
Muliebrity
I have thought so much about the girl
who gathered cow-dung in a wide, round basket
along the main road passing by our house
and the Radhavallabh temple in Maninagar.
I have thought so much about the way she
moved her hands and her waist
and the smell of cow-dung and road-dust and wet canna lilies,
the smell of monkey breath and freshly washed clothes
and the dust from crows’ wings which smells different-
and again the smell of cow-dung as the girl scoops
it up, all these smells surrounding me separately
and simultaneously – I have thought so much
but have been unwilling to use her for a metaphor,
for a nice image – but most of all unwilling
to forget her or to explain to anyone the greatness
and the power glistening through her cheekbones
each time she found a particularly promising
mound of dung –
Il pavone
Il suo forte richiamo stridulo sembra arrivare dal nulla. Poi, un lampo di turchese nel fico sacro.
Il collo snello inarcato lontano da te mentre discende, e mentre sfreccia via, uno scorcio della punta della coda.
Mi dicevano che devi stare seduta in veranda a leggere un libro, se possibile uno dei tuoi preferiti con grande concentrazione. L’istante in cui inizi a vivere dentro al libro ti cadrà sopra un’ombra blu. Il vento cambierà direzione, il ronzio fisso delle api nei cespugli vicini cesserà. Il gatto si sveglierà e si allungherà. Qualcosa ha spezzato la tua attenzione; e se alzi lo sguardo in tempo potresti vedere il pavone girarsi mentre si raccoglie nella coda per chiudere quegli occhi scuri brillanti, viola con frange di ambra dorata. È la coda che deve battere le ciglia per occhi che stanno sempre aperti.
The Peacock
His loud sharp call
seems to come from nowhere.
Then, a flash of turquoise
in the pipal tree.
The slender neck arched away from you
as he descends,
and as he darts away, a glimpse
of the very end of his tail.
I was told
that you have to sit in the veranda
and read a book,
preferably one of your favourites
with great concentration.
The moment you begin to live
inside the book
a blue shadow will fall over you.
The wind will change direction,
the steady hum of bees
in the bushes nearby
will stop.
The cat will awaken and stretch.
Something has broken your attention;
and if you look up in time
you might see the peacock
turning away as he gathers in his tail
to shut those dark glowing eyes,
violet fringed with golden amber.
It is the tail that has to blink
for eyes that are always open.
da Brunizem (Carcanet Press 1988), traduzione in italiano di Stefania Zampiga
Biography
Sujata Bhatt (b. 1956) grew up in Pune but emigrated with her family to the United States in 1968. She studied in the States receiving an MFA from the University of Iowa and went on to be writer-in-residence at the University of Victoria, Canada. More recently she was visiting fellow at Dickinson College, Pennsylvania. She currently lives with her husband and daughter in Bremen, Germany. Her first collection, Brunizem, won the Commonwealth Poetry Prize (Asia) and the Alice Hunt Bartlett Award. Subsequent collections have been awarded a Poetry Book Society Recommendation and in 1991 she received a Cholmondeley Award.
For Bhatt, language is synonymous with the tongue, the physical act of speaking. She has described Gujarati and the Indian childhood it connects her to as “the deepest layer of my identity”. However, English has become the language she speaks every day and which she, largely, chooses to write in. The repercussions of this divided heritage are explored in her work, most explicitly in ‘Search for My Tongue’ which alternates between the two languages. The complex status of English – its beauties and colonial implications – are also conveyed in the moving ironies of ‘A Different History’ and ‘Nanabhai Bhatt in Prison’ about her grandfather who read Tennyson to comfort himself during his incarceration by the British authorities. Such division finds geographical expression in poems which explore ideas of home (‘The One Who Goes Away’) and question our mental mapping of the world (‘How Far East is it Still East?’). It’s present too in her voice, with its musical melding of Indian and American inflections.
However, it’s in the non-verbal world of animals and plants that Bhatt finds a source of unity denied to humans except for the very young, as in her poem ‘The Stare’ in which the ‘monkey child’ and the ‘human child’ experience a moment of tender connection. Perhaps it is this longing for unity which makes Bhatt’s writing so sensual; her poems are rich with the smell of garlic, the touch of bodies, the vibrant plumage of parrots. An intense colourist like the women artists who inspire some of these poems, Bhatt acknowledges that language splits us from experience but through the physical intensity of her writing brings us closer to it so that “the word/is the thing itself”.
A Roma la galleria d’Arte Contemporanea di Francesca Antonini festeggia 60 anni.
L’evento a Palazzo delle Esposizioni
Articolo di Valentina Muzi per Artribune-Un traguardo importante che il polo espositivo romano ha deciso di celebrare organizzando un incontro con curatori, collezionisti e artisti che hanno contribuito al successo della storica galleria Maggiormente orientata verso la giovane arte emergente e i linguaggi sperimentali, la galleria d’arte Francesca Antonini si racconta, a sessant’anni dalla sua fondazione, tra aneddoti, testimonianze e racconti a Palazzo delle Esposizioni, oggi 2 ottobre 2024, in compagnia di collezionisti, curatori e artisti che hanno segnato la carriera della galleria.
La galleria Francesca Antonini Arte Contemporanea a Roma: la storia
Fondata da Angelica Savinio, figlia del grande artista Alberto Savinio, nel 1964 sotto il nome di Il Segno, la galleria d’arte contemporanea di Via di Capo le Case a Roma ha avviato un importante percorso di collaborazioni con alcuni dei maggiori artisti internazionali dell’epoca. Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Alberto Burri, Fausto Melotti e Lucio Fontana sono solo alcuni degli artisti che hanno contribuito al successo della galleria, rendendola una delle realtà protagoniste del panorama culturale italiano.
Da “Il Segno” a “Francesca Antonini Arte Contemporanea”
Nel 2014, in concomitanza con il cinquantesimo anniversario della fondazione, la galleria cambia il proprio nome in Francesca Antonini Arte Contemporanea, marcando l’avvio di un nuovo percorso espositivo e il rinnovamento del proprio ambito di ricerca, con la scelta di concentrarsi sulla giovane arte italiana, seguendo artisti come Guglielmo Castelli, Simone Cametti, Marco Eusepi e Francesco Casati, per citarne solo alcuni.
I festeggiamenti a Palazzo delle Esposizioni a Roma
Per celebrare il sessantesimo compleanno della galleria d’arte romana, Palazzo delle Esposizioni ospiterà un incontro il 2 ottobre 2024 alle ore 17 invitando curatori, collezionisti e artisti che hanno contribuito al successo della storica galleria, raccontando ricordi e aneddoti personali. Tra i partecipanti ricordiamo il collezionista Franco Bernabé, gli Gregorio Botta e Simone Cametti, i curatori Ludovico Pratesi e Paola Ugolini e molti altri ancora.
Valentina Muzi (Roma, 1991)è diplomata in lingue presso il liceo G.V. Catullo, matura esperienze all’estero e si specializza in lingua francese e spagnola con corsi di approfondimento DELF e DELE. La passione per l’arte l’ha portata a iscriversi alla Facoltà di Studi Storico-Artistici dell’Università di Roma La Sapienza, laureandosi in Storia dell’Arte Contemporanea e svolgendo il tirocinio formativo presso il MLAC – Museo e Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Ateneo, parallelamente ha frequentato un Executive Master in Management dei Beni Culturali presso la Business School del Sole24Ore di Roma. Dal 2016 svolge attività di PR, traduzione di cataloghi, stesura di testi critici e curatela indipendente. Dal 2017 svolge l’attività di giornalista di taglio critico e finanziario per riviste di settore. Attualmente è membro del Board Strategico presso l’Associazione culturale Arteprima noprofit, nella stessa ha svolto il ruolo di Social Media Manager ed è Responsabile organizzativa della piattaforma Arteprima Academy.
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a Roma inaugura la mostra dal titolo :“Verso il Cielo”-
Roma-Mercoledì 2 ottobre 2024 alle ore 18:30 inaugura la mostra personale di Giulia Napoleone (Pescara, 1936) dal titolo Verso Cielo a cura di Roberto Lacarbonara nello spazio espositivo ETworks Studio a Roma, via dei Marsi 41 (quartiere San Lorenzo). L’esposizione – la prima interamente dedicata a un’artista ospite, a seguito dei dialoghi e delle collettive intraprese con l’opera di Tamburi – è realizzata con la collaborazione di Sergio Pandolfini delle Edizioni Il Bulino.
Il “verso” che compare nel titolo della mostra lega insieme una direzione e una composizione: rivolgere lo sguardo al cielo e ad esso dedicare la poesia e l’immagine, la forma che emerge da una ricerca perenne.
Le opere di Giulia Napoleone nascono dall’esigenza di definire una scrittura differente, scevra di parole eppure organizzata per sequenze, ordini, misure, ritmi, partiture. Al colore affida il compito di registrare ogni minima variazione del sentimento; un colore che l’artista predilige per le sue assonanze al cielo: il blu che, ereditando le esperienze secolari della pittura, qui si declina nelle infinite modulazioni della sfumatura oppure si concentra, raggrumandosi, nelle molteplici linee della stesura orizzontale.
L’atto di dipingere – calibrato e reiterato, aderendo a regole non scritte, come un rito – consegna alla carta e alla tela le sue tracce quasi architettoniche, strutture, sequenze organizzate. Nei quadrati che tagliano e modulano campiture dilavate, nell’estensione dei celebri “paesaggi di puntini”, o nelle geometrie sedotte da graduali variazioni della luce, l’artista si esercita nello spazio indistinto del colore per giungere a un ordine, a un registro formale: è come domare l’infinito, arare il cielo, trascendere il dato sensibile per mezzo del controllo, dell’analisi, di una paziente e meditata disciplina.
“Tutta la comprensione delle cose avviene attraverso la poesia, a tutto corrisponde un verso”, sostiene Napoleone. Così come la comprensione è un guadagno di chiarezza, un desiderio di ragione, ugualmente la pittura è questo scorgere un sentiero nella nebbia, nella polvere, nella luce crepuscolare del mattino. Per lei, la materia del dipingere ha una plasticità minima e sensibile, si addensa e si dirada, si concentra in punti e segmenti, oppure sfuma nella complicità della carta, dei margini, dello spazio circostante, fondendosi con la realtà. Dai decenni trascorsi nella pratica del bulino, deriva questo equilibrio tra la profondità del segno e la superficie dei supporti e delle matrici. E nella trama fitta di linee e campi cromatici, lo sguardo indaga e riconosce il mutamento del tempo, di una stagione, di un perpetuo rinnovarsi delle prime luci che annunciano un cielo nuovo.
Note biografiche
Giulia Napoleone (Pescara, 1936, vive e lavora tra Roma e la Tuscia Viterbese), in seguito a una formazione definita attorno ai linguaggi della poesia, della musica classica e della fotografia, si dedica alla pittura e, prevalentemente, alla grafica. Dal 1965 è ricercatrice, poi docente (1974-76) alla Calcografia Nazionale di Roma, stringendo un sodalizio di studio con Guido Strazza. Nel 1967 perfeziona i suoi studi nelle tecniche grafiche presso il Rijksmuseum di Amsterdam.
L’incisione e le altre tecniche dirette (bulino, maniera nera, puntasecca) rappresentano un mezzo espressivo privilegiato e congeniale, accanto all’acquerello e al disegno a pastello e a inchiostro. Nelle prime opere emerge l’uso di segni o unità minimali, impaginati in tessiture astratte o ispirate a forme vegetali e paesaggi immaginari; in seguito, rivolge i suoi interessi alle ricerche sulla luce, ai passaggi cromatici e al ritmo compositivo della linea e del segno, ma anche ai noti “paesaggi di puntini” realizzati con inchiostro, acquerello o matita. Attraverso un approccio meticoloso e sobrio, le sue opere su carta invitano a un esame ravvicinato, rivelando i loro lievi effetti percettivi.
Sue opere sono state esposte in importanti gallerie e istituzioni tra cui: Galleria Numero, Firenze, 1963; Galleria dell’Obelisco, Roma, 1973; La Quadriennale Nazionale d’Arte Roma, 1986 e 1999; Musée des Beaux-Arts de la Ville, Le Locle, Svizzera, 1990; Palazzo Martinengo, Brescia, 1995; Museo di Villa dei Cedri, Bellinzona, Svizzera, 2001; Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi Firenze, 2011. Del 2018 l’importante retrospettiva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel 2020 la personale alla galleria Il Ponte di Firenze a cura di Bruno Corà e nel 2023, la personale nella sede romana della galleria Richard Saulton.
Giulia Napoleone
Verso Cielo
a cura di Roberto Lacarbonara
ETworks Studio via dei Marsi 41 Roma
Opening: Mercoledì 2 Ottobre 2024, ore 18.30
Apertura: dal 2 Ottobre all’11 Dicembre 2024. Ingresso gratuito
Orari: venerdì e sabato, 16.00-19.00. Gli altri giorni su appuntamento
Nota di Luigi Capano-Fu l’incisore Guido Strazza a fare per la prima volta il nome di Giulia Napoleone (Pescara, 1936). Sull’onda dei ricordi Strazza rivisse gli anni trascorsi alla Calcografia a sperimentare nuove tecniche e a cercare nuovi segni insieme ad un gruppo di appassionati sodali: tra questi, l’artista pescarese, che espone in questi giorni nella sede romana della galleria londinese Richard Saltoun, in Via Margutta.
La sua formazione artistica avvenne a Roma – sullo scorcio degli anni Cinquanta – dove, all’Accademia di Belle Arti, fu allieva di Mino Maccari e di Lino Bianchi Barriviera che la iniziarono alle tecniche incisorie; e dove seppe coltivare fruttuose amicizie formative: basti citare i nomi di Morandi, Flaiano, Scheiwiller, Dorazio, Sinisgalli, Guido Strazza. Si appassionò alla musica e alla poesia. E qualcosa di queste arti risuona, sinesteticamente, nella sua visione plastica. Una trentina i dipinti in mostra, tra opere su carta e oli. Unico il soggetto: il colore blu, osservato, analizzato, inseguito nelle sue continue vibrazioni, nei suoi rapidi neumi giocati su una effimera trama di luce. Ed infine, imbrigliato ed esibito, con consumata perizia, in eleganti geometrie predatorie. Ci lasciamo volentieri avvolgere da questa algida e fluttuante effusione monocromatica che dissimula, fra i diletti del godimento retinico, un’ancestrale nostalgia dell’ineffabile.
LIETTA TORNABUONI giornalista e critica cinematografica.
Lietta Tornabuoni-Nata a Pisa da un’antica famiglia aristocratica, iniziò la carriera giornalistica nel 1949 al settimanale “Noi Donne”. Nel 1956 collaborò con Novella ed in seguito con L’espresso, L’Europeo, La Stampa e Il Corriere della Sera. Oltre che cronista e critica cinematografica, pubblicò libri sul cinema e la televisione. Si legò in particolare a Torino, come inviata del quotidiano torinese La Stampa, il Torino Film Festival e le numerose iniziative del Museo nazionale del Cinema e le principali attività cinematografiche della città. Era sorella del pittore Lorenzo Tornabuoni
Aveva cominciato la professione nel 1949 a «Noi Donne», il settimanale dell’Udi, passando nel 1956 a «Novella», poi all’«Espresso»e all’«Europeo». Alla Stampa era arrivata nel 1970, dove ha continuato a lavorare fino a oggi, tranne un breve intervallo dal 1975 al 1978 al «Corriere della sera». Tra i suoi libri: «Sorelle d’Italia», «Album di famiglia della tv», «Era Cinecittà», dove raccontava la “grande famiglia” del cinema, e l’annuale appuntamento di «Al cinema», il volume che periodicamente raccoglieva le sue recensioni.
Raffaella Silipo di lei disse “Era critico cinematografico del nostro giornale: le sue recensioni asciutte e puntuali coglievano sempre il senso profondo dei film. Non si faceva problemi ad alternare il mestiere del critico a quello del cronista, guardava la realtà con curiosità inesausta e affettuoso disincanto, senso dell’umorismo tutto toscano e severo rigore sabaudo, prima di tutto con se stessa. Una gran signora del giornalismo italiano.”
Completa il suo ritratto Donata Righetti: “Lietta con il suo volto da madonna toscana, l’antica bellezza appesantita e l’instancabile presenza era una figura inconfondibile ai grandi eventi di cronaca e ai festival del cinema. Ammirata e anche temuta dai colleghi come concorrente imbattibile. Nei suoi articoli assente quel “colore” che capi e capetti delle redazioni esigevano per pigrizia dalle inviate, niente merletti di parole ma una prosa limpida, necessaria, elegante. Ogni fatto, ogni particolare, ogni nome controllati con implacabile precisione.” (Donata Righetti)
Nel mese di dicembre del 2010 Lietta fu ricoverata al Policlinico Umberto I di Roma per una caduta, muore l’11 gennaio a 79 anni.
Storia dei resoconti del 25 aprile di quell’anno nella stampa quotidiana.
Roma,La Storia del 25 aprile – Anche se già dal 1947 il 25 aprile era stato proclamato Festa nazionale, è solo nel 1950 che per la prima volta l’anniversario viene celebrato con una cerimonia ufficiale ed unitaria, come ci dice il manifesto affisso a cura del Comitato organizzatore:
“Aderendo all’invito di tutte le forze della resistenza, sotto gli auspici del Parlamento, le rappresentanze del Senato e della Camera e del Governo, le formazioni volontarie della lotta per la Liberazione, le Direzioni dei partiti che parteciparono alla riscossa, le organizzazioni dei combattenti e dei mutilati hanno deciso di celebrare con una solenne unica cerimonia in Roma la data del 25 aprile.”
Il significato della celebrazione unitaria, che trova insieme schierati autorità e popolo, è evidente.
A cinque anni di distanza dall’evento che è certamente tra i più grandi e decisivi della nostra storia, gli italiani non ingrati e non immemori desiderano elevare in concordia il loro pensiero di reverenda gratitudine alla memoria dei Martiri, dei Morti gloriosi, dei partigiani della libertà. Ma ora e al disopra del rito commemorativo, l’Italia rinnovata intende riaffermare la perenne validità del patrimonio ideale che si identifica nel movimento della Resistenza.
La Resistenza si riallaccia con i suoi valori etici e politici ai moti del nostro Risorgimento; lo completa attraverso la sempre maggiore partecipazione attiva e consapevole fatta di sacrifici e di sangue del popolo ai destini della Patria.
La celebrazione del 25 aprile nella unità degli animi e degli intenti di tutte le forze vive che vi parteciparono ha pertanto un valore di altissimo insegnamento. Per tutti gli italiani il patrimonio ideale della Resistenza è sacro e inattaccabile. Appartiene indissolubilmente – ora e sempre – alla storia del nostro Paese.”
1)
Prima del 1950
Negli anni precedenti diverse manifestazioni erano state organizzate da associazioni, prima fra tutte l’Anpi, e da partiti, né erano mancate alcune iniziative del Governo. Così il 25 aprile 1946 il Ministro Gasparotto aveva pubblicato una relazione nella quale forniva i dati del contributo italiano alla Liberazione: l’esercito italiano il 1 gennaio 1946 aveva una forza di 385.156 uomini, secondo le aliquote fissate dagli alleati; le perdite furono di 128.506 morti; 29.398 furono i feriti.
2)
Nello stesso anno il Luogotenente generale del Regno, Umberto II di Savoia, aveva diretto un proclama alle Forze Armate ed aveva concesso medaglie d’oro al valor militare a partigiani e a famiglie di caduti, come farà anche l’anno successivo.
Alle manifestazioni in genere avevano partecipato autorità civili e militari, a volte lo stesso Primo ministro. Di solito si era trattato di Messe di suffragio, deposizione di corone d’alloro o di fiori, comizi. Al pomeriggio si erano aggiunte esibizioni di bande, feste, balli, pesche di beneficenza, la gara ciclistica “Gran Premio della Liberazione” sul circuito della Passeggiata Archeologica, che continuerà per alcuni anni, competizioni pugilistiche, proiezione di film e trattenimenti vari.
Nel 1946 “l’Unità” scrive: “Durante tutto il pomeriggio e la sera […] a Campo dei Fiori, a piazza Borghese, a piazza Testaccio, a piazza Ragusa, a Via Alberto da Giussano, a Porta Cavalleggeri, a Monte Sacro, sui vecchi selciati del centro, nei lontani quartieri della periferia i festoni e le stelle luminose issate su improvvisati spacci di bibite e vino si agitavano nel vento della sera.
I padri, le madri, i giovani, i bambini, le ragazze, gli uomini semplici si muovevano tra la musica che suonava per loro, liberi e felici nelle strade percorse ogni mattina per recarsi al lavoro. Due anni fa per quelle strade gli invasori e i nemici del popolo circolavano nelle
automobili mimetizzate. Due anni fa a giugno per quelle strade e per quelle piazze il popolo passò esterrefatto e delirante per la Liberazione.
[…] Quando il popolo balla nelle strade e nelle piazze, sotto il cielo, vicino alle sue case è un brutto giorno per tutti i suoi nemici. Quei balli e quei canti significano forza, perché sono espressione di amore, di solidarietà e di fratellanza.
Il popolo italiano ha ritrovato la solidarietà e la fratellanza combattendo e distruggendo il fascismo suo nemico. Ogni anno come quest’anno il popolo romano ricorderà quell’impresa, ritroverà il senso della sua forza e del suo amore ballando per le strade.”
3 )
Anche la Rai nel 1947 aveva trasmesso un programma di canti partigiani.
Numerosi erano stati anche i proclami e gli appelli pubblicati per il 25 aprile. Tra questi merita di essere ricordato quello che, nel 1949, l’Alleanza femminile ha diretto alle donne del Fronte, appello nel quale si dice:
“Nel giorno che ricorda la Liberazione del nostro Paese e la grandiosa epopea della lotta partigiana inviamo il nostro saluto a voi tutte, donne d’Italia, che avete or ora sostenuta una così dura battaglia per la democrazia, non come allora, aperta e leale, contro un nemico ben individuato, ma una battaglia sorda contro le calunnie e le perfidie e le insidie di coloro che non conoscono lotta onesta e sincerità d’intenti”
4)
L’appello si conclude con l’invito alle donne a restare unite con chi difende i valori della libertà, del lavoro, della pace.
Solo nel 1948 le manifestazioni erano state vietate. Quell’anno la lotta per le elezioni politiche era stata durissima. La Democrazia Cristiana aveva mobilitato tutte le sue forze, in primo luogo i parroci, contro il pericolo rosso; padre Lombardi, “il microfono di Dio”, tuonava dalla Rai; agli operai si ricordava che Nel segreto della cabina Dio ti vede, Stalin no. Gli animi erano esasperati e i disordini non erano e non sarebbero mancati. La Dc aveva vinto, ma i timori non erano placati e le manifestazioni, anche quelle per il 25 aprile, erano state vietate.
“L’Unità”, commentando il provvedimento, deplora il ministro Scelba che “ha assurdamente esteso anche alle manifestazioni indette per ricordare questa data solenne della storia d’Italia il provvedimento che vieta di tenere fino a nuove disposizioni manifestazioni e riunioni pubbliche. A tutti i prefetti ha diramato disposizioni in tal senso. Solo alla Dc il ministro Scelba, quest’uomo la cui faziosità si accentua ogni giorno che passa, consente di tenere comizi e cortei per le città d’Italia. E proprio in occasione del 25 aprile vien data notizia di manifestazioni che i democristiani – essi soli – si apprestano a tenere a Firenze con la partecipazione dei loro leaders politici per dare anche a questa giornata un carattere di parte.
Tuttavia il ministro Scelba si illude se pensa di poter impedire, con un suo decreto, che i lavoratori e i partigiani rievochino degnamente la lotta antifascista, che i caduti abbiano i loro fiori, che in tutte le città d’Italia i partigiani rivivano il 25 aprile col loro vecchio, genuino entusiasmo e che con essi tutta la popolazione democratica lo riviva.”
5)
Il 25, in realtà, la ricorrenza fu ricordata quasi ovunque. A Milano, però, si registrarono scontri e ferimenti.
Quanto ai temi trattati, nel corso degli anni essi si sono strettamente connessi agli avvenimenti in corso. Così, ad esempio, nel 1949, e negli anni immediatamente successivi, la celebrazione per la sinistra è legata alla propaganda per i Comitati per la pace che si oppongono ai blocchi militari, “bellicisti”, ed in particolare all’ingresso dell’Italia nella Nato, appena costituita. Si ricordano perciò innanzi tutto i 72.000 morti, le centinaia di migliaia di feriti, i 40.000 mutilati.
Un appello in tal senso è anche indirizzato dall’Udi alle donne perché rinnovino il giuramento di lottare per gli ideali che animarono la guerra di Liberazione:
«Mentre si minaccia il nostro Paese con patti bellici ricordiamo e facciamo ricordare a chi non vuole, che il nostro popolo avrebbe perduto l’indipendenza e la libertà se le eroiche armate partigiane non avessero riscattato, con l’onore, anche il diritto ad un maggior rispetto da parte dei vincitori: salutiamo nei partigiani d’Italia i primi ed i più degni difensori della pace del nostro Paese.»
6)
La prima celebrazione unitaria
Quando nel 1950 si decide la manifestazione ufficiale, fanno parte del Comitato che la organizza i Presidenti del Senato e della Camera, Bonomi e Gronchi, il Presidente del Consiglio De Gasperi, il primo Presidente della Repubblica De Nicola, gli ex Presidenti del Consiglio Orlando e Nitti, il senatore Croce, i membri del Cln dell’Italia centro- meridionale Casati, Lussu, Nenni, Reale e Scoccimarro, i membri del Cln dell’Alta Italia Marasca, Merzagora, Morandi e Pertini, i comandanti del Corpo Volontari della Libertà Parri, Longo e Cadorna, i segretari dei Partiti che parteciparono alla Resistenza Togliatti, Mondolfo, Reale, Saragat, Gonella e Villabruna, i Presidenti dell’ANPI, dell’Acnr e dell’Anmi Boldrini, Viola e Ricci, i dirigenti della Resistenza e i deputati e senatori Amendola, Bauer, Bergamini, Brosio, Calamandrei, Carandini, Cevalotto, Cianca, Della Torretta, Fancello, Gasparotto, La Malfa, Lombardi, Mattei, Molè, Ponti, Porzio, Quarella, Romita e Taviani e i dirigenti delle associazioni combattentistiche di Roma Bruno, Cirenei e Garzoni.
Per la ricorrenza, l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di guerra, l’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci e l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia hanno rivolto a tutti gli italiani il seguente messaggio:
“ITALIANI: ex partigiani, ex combattenti di tutte le guerre!
Ritorna con l’aprile l’anniversario del nostro riscatto.
Misconoscimenti ed oltraggi, che già seguirono al Primo Risorgimento, non possono né potranno mai diminuire la grandezza popolare e nazionale del Secondo Risorgimento d’Italia.
Da Cefalonia, da Napoli delle ‘quattro giornate’, dai campi di concentramento e dalle camere di tortura, dalle Fosse Ardeatine come da Marzabotto e da Vinca, dai paesi montani non piegati dalle rappresaglie, dalle città insorte e liberate parecchi giorni prima che arrivassero gli Alleati, dalle fabbriche e dai porti salvati, ritornano a noi in un vento di epopea i 72.500 Caduti per la Libertà. Essi ci ammoniscono, e ammoniscono il mondo, a ricordare la tragica esperienza della guerra e del fascismo, e l’eroica prova di capacità data dal popolo italiano risollevando dalla catastrofe la bandiera della Patria.
L’esempio che danno le Associazioni dei Combattenti e reduci, dei Mutilati e Invalidi di guerra e Anpi nel celebrare insieme il 25 aprile, come una delle grandi date patriottiche in cui si esaltano gli ideali comuni di libertà, di indipendenza e di pace, sia seguito dall’intera Nazione.
Erano di tutte le regioni d’Italia e di tutti i ceti i Martiri della Resistenza. Ed è stata la loro unità e l’unità attorno ad essi di tutto il popolo che ha salvato allora l’Italia.
Nella difficile situazione attuale sappia l’Italia trarre dall’anniversario della Liberazione motivo di concordia e di fierezza nazionale, luce per un avvenire di pace e di progresso, insegnamento generoso per le giovani generazioni.
Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra – Associazione Nazionale Combattenti e Reduci – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.”
7)
I commenti sui mezzi di informazione
Il richiamo al Risorgimento e la definizione della Resistenza come secondo Risorgimento e completamento del primo erano già stati molto frequenti negli anni precedenti e ritornano nel 1950. Anche l’articolo di Mario Vinciguerra sul “Messaggero” del 25 aprile accosta Resistenza e Risorgimento e considera la situazione dell’Italia nei due momenti. Ma la situazione d’oggi, egli dice, “è certo assai più difficile di quella degli anni che seguirono immediatamente le guerre d’indipendenza e che pure appariva così fosca ai patrioti di allora. Per essi il terreno della patria comune era più facile a ritrovare ed un’atmosfera di più elevata moralità permetteva cavalleresche rinunzie che oggi purtroppo appaiono inconcepibili. […] quello che rattrista e dà giustificate ragioni di preoccupazione è che in mezzo all’elemento fattivo del mondo politico non siano stati superati lo spirito e la pratica di parte. […] guardando la situazione quale è non m’illudo che la celebrazione di oggi riuscirà a portare una parte non trascurabile di italiani su un fondamentale piano di intesa nazionale. Si può dire che essa è ancora una truppa accampata e con le armi al piede. Non voglio discutere le ragioni e anche gli ideali per i quali essa intende combattere ancora. Non sono i miei; ma li comprendo. Però sul
terreno politico bisogna regolare le proprie azioni non su disquisizioni dottrinarie, sibbene sui risultati derivanti dal formarsi o dal rompersi di un certo equilibrio di forze.
L’intesa coi partiti rivoluzionari – malgrado l’intima contraddizione – sarebbe stata ancora possibile, se essi l’avessero voluta mantenere quale fu al tempo della Resistenza. Perché fosse mantenuta, era necessaria una garanzia di pace interna e di sicurezza nazionale. Questo non è stato possibile perché la contraddizione era troppo forte. In verità si tacque di fronte al tremendo pericolo comune; ma quando si cominciò a parlare, ci si accorse che mai come questa volta si parlavano due linguaggi, Per essi la Resistenza significava la difesa della rivoluzione; per noi significò e significherà sempre la difesa della Patria.”
Non molto diverso è il tono delle parole dell’on. Taviani a Genova, dove ricorda il pericolo del bolscevismo e l’impossibilità di schierarsi con i comunisti che hanno dimostrato “di essere altrettanto totalitari e altrettanto pericolosi dei nazisti.”
9)
Nell’editoriale del “Giornale d’Italia” del 26 aprile si dice: “Nello spirito del Risorgimento […] oggi si celebra più che la Liberazione dai tedeschi la caduta di una dittatura e la fine di una guerra infausta che trovò gli italiani divisi e avversi, si celebra […] il ripristino del reggimento democratico nell’aureola splendente della santa Libertà. […] oggi alcuni partiti intendono distinguere, travisare, sopraffare, nel chiaro intento di conquistare posizioni di privilegio che contrastano non solo con lo spirito di quella unione, ma con la volontà liberamente espressa dal popolo in libere elezioni. […] mettere la Resistenza a servizio di un partito che si dice democratico, anche se aggiunge progressivo, quando è notorio che si tratta di una dittatura che tiranneggia le stesse classi sulle quali si regge, è un errore grossolano nel quale solo gli ingenui in buona fede e i falliti in cerca di una favola di salvezza possono cadere.”
10)
Anche il Pci fa riferimento al Risorgimento, ma con toni assai diversi, perché come aveva detto Secchia nel 1946: “i combattenti del nostro Risorgimento non hanno impugnato le armi per essere considerati, dopo un anno appena, dei briganti, per essere messi da parte come lo fu già Garibaldi dopo il 1860, a Caprera. La loro opera non è finita. I partigiani, i patrioti, tutti gli italiani insorti contro la barbarie tedesca e fascista hanno combattuto non solo per liberare l’Italia dalle orde teutoniche, ma per ripulirla dal marciume fascista, per liberarla dall’istituto monarchico causa di tante rovine, per fare dello Stato italiano una repubblica democratica e progressiva.
Il 25 aprile 1945 ha aperto la strada al 2 giugno 1946. Due date, un solo obiettivo: Repubblica, Pace, Lavoro.”
11)
Costante del resto è il richiamo alla pace e alla concordia da parte delle forze di centro e di destra, mentre la sinistra tende a porre l’accento sempre più spesso sulle speranze e gli ideali traditi. Nell’articolo di Arturo Colombi su “l’Unità” del 25 aprile 1950 si dice: “Il ricordo dei nostri morti, delle battaglie combattute in unità d’intenti, delle ansie e delle speranza comuni a tutti coloro che avevano scelto un’altra via che non fosse quella del fascismo e della guerra, è più che mai necessario oggi che taluni uomini e partiti, i quali pur combatterono, in un modo o nell’altro, a fianco della classe operaia e della sua avanguardia comunista e socialista, hanno abbandonato e tradito gli ideali della Resistenza e perseguitano i migliori combattenti della libertà e fanno causa comune con i ceti che costituirono la base e furono i profittatori della dittatura mussoliniana […]. Mentre il paese si apprestava a celebrare la data gloriosa di Aprile ed era lecito attendersi da chi dirige il governo una parola ispirata all’unità e alla concordia del popolo, abbiamo udito invece nuove parole di odio contro i partiti popolari ed espressioni invece di invitante rammarico verso i fascisti. […] come potrebbero gli italiani non essere angosciati dallo spettro della guerra, quando il governo è legato mani e piedi ai forsennati guerrafondai d’oltre oceano e sbarcano sul nostro suolo le armi di quegli imperialisti che non esitano a provocare incidenti di frontiera a diecimila chilometri dal loro territorio?
Non si ricostruisce il Paese asservendolo all’imperialismo del dollaro, né vi può essere ripresa economica, nella pace e nella libertà, finché si conta solo sulle elemosine interessate dello straniero e quando si perseguitano la classe operaia, i lavoratori e i partigiani, proprio perché essi sono rimasti fedeli agli ideali di rinnovamento sociale, di libertà e di pace che animarono la Resistenza.
Per ricostruire e rinnovare l’Italia non occorre tanto l’aiuto americano e ancor meno quello dei rigurgiti fascisti. Occorre aver fiducia nelle virtù del nostro popolo […].
Come negli anni della guerra di Liberazione, così oggi noi abbiamo fiducia nel nostro popolo, è nel nostro popolo e nella sua unità antifascista che noi dobbiamo ricercare le forze e i mezzi per risorgere come popolo libero che costruisce il suo avvenire, che assicura il lavoro e il pane a tutti i suoi figli per risorgere come nazione grande, pacifica e rispettata nel mondo.
Il convegno su Resistenza e cultura
Ci sembra che questo sia lo spirito nel quale si realizza quell’unità antifascista, la quale ha trovato in questi giorni una espressione così alta al Convegno sulla Resistenza e sulla Cultura.”
12)
Questo Convegno, organizzato a Venezia, al quale hanno partecipato numerosi ed importanti intellettuali, si conclude con l’approvazione della seguente, importante mozione:
“Il Convegno ‘La Resistenza e la Cultura italiana’ tenutosi a Venezia i giorni 22, 23 e 24 aprile 1950, nella diversità e varietà di origini e di idee dei convenuti, dichiara che le sofferenze ed il martirio di tutto il popolo, nei lunghi anni della dominazione fascista e nazista, la lotta e la Liberazione che la cultura italiana, nello spirito delle sue tradizioni, suscitò e condusse con tutti gli italiani contro la tirannide fascista e per la Liberazione del Paese, sono patrimonio comune ed intangibile di tutta la nazione. Denuncia la insidia e la protervia delle forze ostili alle libertà nazionali che, male interpretando come debolezza il generoso sforzo di riconciliazione della democrazia, si riorganizzano nella sistematica denigrazione di ogni aspetto e fase della lotta per la libertà, in una azione consapevole volta a rendere inoperante la Costituzione, giovandosi dell’appoggio di elementi dirigenti fascisti reintegrati nell’apparato statale, nella scuola, nella stampa e tra l’inerte disinteresse dei pubblici poteri.
E richiama l’attenzione del Paese sui pericoli interni e internazionali del rifiorire delle forze che condussero l’Italia alla catastrofe.
Ricorda agli immemori che, se un Italia democratica e pacifica può oggi rivendicare il diritto dell’unità e dell’integrità nazionale, questo si deve al sacrificio dei partigiani e dell’esercito di Liberazione. Impegna tutte le forze della cultura e della politica democratica italiana a fermamente difendere i perenni valori di libertà politica, civile, religiosa, intellettuale che ispirò la lotta di Liberazione in Italia e nel mondo.”
13)
Il giorno della Liberazione vengono lanciato vari messaggi: il sindaco di Trieste, ing. Gianni Bartoli, indirizza un messaggio a tutti i sindaci d’Italia; la Federazione Italiana Volontari per la Libertà esorta la nazione a difendere i valori della libertà e della pace contro ogni nostalgico tentativo di ritorno o di sovversione.
Il messaggio dell’Anpi è invece diretto alle Forze Armate e dice:
“Nel quinto anniversario della Liberazione salutiamo fraternamente gli Ufficiali ed i Soldati delle Forze armate alla cui storia gloriosa la vittoria del 25 aprile appartiene. Gloria ai reparti di tutte le Armi che l’8 settembre in Italia e all’estero, trovandosi nella tragica situazione di cui non essi, ma il fascismo era responsabile, seppero resistere a Roma come a Cefalonia, a Torino come nei Balcani, e per il riscatto d’Italia trasformarsi in partigiani. Onore agli Ufficiali e Soldati dell’eroico Corpo Italiano di Liberazione. E onore al popolo italiano che prendendo la iniziativa della guerra partigiana e costituendo il Corpo Volontari della Libertà, ha voluto ridare all’Italia e al suo Esercito indipendenza e dignità. La vittoria conquistata insieme ha permesso all’Italia di risorgere, ha acceso nel cuore dei suoi figli una nuova speranza.
Col nostro saluto, esprimiamo l’augurio che sia messa a frutto nelle Forze Armate della Repubblica, l’eredità preziosa della Resistenza e che sia rafforzata l’unione delle Forze Armate con gli ex partigiani, gli ex combattenti di ogni guerra e tutto il popolo per garantire insieme che la nostra Patria viva e prosperi nella pace, sia libera e indipendente come l’abbiamo voluta noi combattenti, come l’hanno sognata i nostri Morti, come la Costituzione dichiara.
Evviva il 25 aprile!
Evviva le Forze Armate della Repubblica!
Evviva l’Italia
L’Esecutivo dell’Anpi”
14)
La Camera del lavoro ha inviato all’Anpi un saluto e l’auspicio della intensificazione della lotta per l’affermazione dei valori della Costituzione e della pace contro ogni tentativo di riportare il Paese al fascismo e alla guerra.
Il messaggio del Presidente della Repubblica
Infine il messaggio che il Presidente della Repubblica ha diretto al Comitato organizzatore dice:
“Nell’alta parola che le forze della Resistenza hanno dedicato al 25 aprile il Paese riconosce i sentimenti onde la sua anima è commossa al ricorrere di questa data. Per ogni italiano è soprattutto motivo di compiacimento il carattere unitario del richiamo a quei comuni ideali che, nel solco della gloriosa tradizione del Risorgimento, il nostro popolo ancora una volta volle e seppe tradurre in momenti segnati da martirii e sacrifici. Nella fedeltà di ognuno a quegli ideali, nel sapere in essi ritrovarsi di quanti li servirono e nel perpetuarsi in ogni cuore della memoria di coloro che ad essi fecero olocausto della vita, la Patria risorta ravvisa l’auspicio di un migliore avvenire garantito dal costante rafforzamento delle sue istituzioni democratiche e dalla perenne incolumità da ogni tirannide.”
15)
La cerimonia ufficiale, che viene trasmessa per radio, si tiene la mattina del 25 al Teatro Adriano, dove sono presenti i rappresentanti di tutti i partiti. Accanto all’oratore, on. Bonomi, Presidente del Senato, ci sono gli onorevoli Orlando, Togliatti e Gronchi. “L’Unità” sottolinea “la significativa assenza di De Gasperi dalla manifestazione unitaria”. La sala e la piazza Cavour sono affollatissime. Il comizio di Bonomi viene perciò diffuso da altoparlanti anche all’esterno, dove si accalca molta gente che non ha trovato posto nel teatro. L’on. Bonomi, presentato da Molè, ricorda come proprio a Roma dopo l’8 settembre i capi dei movimenti antifascisti si erano riuniti in un modesto appartamento di via Adda. C’erano i democristiani De Gasperi e Ruini, il comunista Scoccimarro, il liberale Casati, il socialista Nenni, il Leader del Partito d’Azione La Malfa. Lo stesso Bonomi li presiedeva. Egli rilegge il testo dell’ordine del giorno che fece allora votare: “Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta ed alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni.”
16)
Bonomi ricorda poi i partigiani del Nord e le quattro divisioni dell’esercito (la “Cremona”, operante nei pressi della laguna di Comacchio, la “Friuli”, sull’Appennino, la “Folgore” e la “Legnano”, in Emilia Romagna) che dopo la Liberazione di Roma si posero al loro fianco, oltrepassando la linea gotica, per sconfiggere le ultime postazioni tedesche. Il contributo dato dall’Italia alla vittoria della democrazia, dice Bonomi non è stato adeguatamente apprezzato dagli alleati che hanno confuso le responsabilità di pochi con quelle di un popolo intero. “Ricordo […] i tristi giorni per la conferenza per la pace dell’estate 1946 a Parigi. Io fui dei tre Cirenei (gli altri erano gli on.li De Gasperi residente del Consiglio, e Saragat Presidente dell’Assemblea Costituente). […] L’Italia vi fu accolta come un reo che deve sedersi sul banco dei vinti […]. Nonostante tutto, molto cammino è stato fatto da allora nella faticosa opera di risollevare l’Italia nell’estimazione del mondo e specialmente dei vincitori, ma molto resta ancora da fare.”
Passando alla situazione interna dell’Italia l’oratore ricorda la necessità di mantenersi uniti, nonostante le diversità dei programmi di partito, nella difesa della libertà e della democrazia e per la difesa del patrimonio ideale per il quale si è combattuto e tanti martiri sono caduti. “Contro questo patrimonio […] si appuntano oggi accuse e rancori. Non si può negare che quel quadro luminoso possa aver avuto qualche ombra, perché tale è il destino di tutti i grandi eventi storici, ma non sono ammissibili recriminazioni da parte di coloro che in quelle circostanze si schierarono dalla parte del tedesco invasore.”
17)
Bonomi dice anche che: “Non possiamo tollerare oblio e ignominia contro il secondo Risorgimento”.
Altre manifestazioni
Accanto a quella unitaria si tengono a Roma anche altre manifestazioni. Tra quelle ufficiali ricordiamo che la mattina alle 10, il capo si Stato Maggiore generale, accompagnato dai segretari generali delle Forze Armate, ha deposto una corona sulla tomba del Milite Ignoto, mentre un reggimento rendeva gli onori militari e la banda dei Carabinieri intonava l’inno di Mameli. Lapidi in onore di caduti vengono scoperte a Cavalleggeri e al Salario.
Né sono mancate le manifestazioni popolari. Ne ricordiamo qualcuna, come i comizi che si sono conclusi con balli e trattenimenti tenutisi a cura dell’Anpi nelle sue varie sezioni. Quella dell’Esquilino, in particolare, ha offerto un pranzo nella trattoria Osvaldo a 50 bambini poveri con il contributo degli abbacchiari di Piazza Vittorio.
Anche i giovani organizzano manifestazioni: quelli della Fgci (la federazione giovanile comunista) di Val Melaina una conferenza e una serata danzante pro “Pattuglia”, quelli del quartiere Latino-Metronio fanno festa in sezione, mentre la Fgci del Prenestino va in gita a Tivoli.
A cura di Franco Leggeri-
– Ricerca Storica Campi profughi in Sabina-
A cura di Franco Leggeri- Isa Folliero
per ANPI Sabina/-a bibliografica –
NOTE
Unica celebrazione nazionale dell’anniversario della Liberazione, “Il Messaggero”, 23 aprile 1950, p.1.
128.506 morti 29.398 feriti: “Il Messaggero”, 25 aprile 1946, p.1
A. R., Quando il popolo balla per le strade, “l’Unità” 27 aprile 1946, p.2.
25 aprile ’45 – 25 aprile ’49, l’“Unità”, 25 aprile 1949, p.1.
Popolo e partigiani rivivranno domani lo spirito dell’eroica insurrezione d’aprile, “l’Unità”, 24 aprile 1948, p.4.
25 aprile ’45 – 25 aprile ’49, “l’Unità”, 25 aprile 1949, p.1.
Solenne celebrazione unitaria della gloriosa insurrezione d’aprile, “l’ Unità”, 23 aprile 1950, p. 1.
Mario Vinciguerra, 25 aprile, “Il Messaggero”, 25 aprile 1950, p.1.
Oggi solenne rievocazione del V anniversario della Liberazione, “Il Messaggero”, 25 aprile 1950, p.1.
Sav., Rivendichiamo la nostra parte col rosso vivo del sangue versato dai partigiani e dai soldati, “Il Giornale d’Italia”, 26 aprile 1950, p. 1.
Pietro Secchia: Vittoria di popolo, 25 aprile, p.1
Arturo Colombi, L’Italia esalta il patrimonio della Resistenza fondamento e garanzia della Repubblica Democratica, “l’Unità”, 25 aprile 1950, p. 1.
Con un solenne impegno unitario si è chiuso il Convegno di Venezia, “l’ Unità”, 25 aprile 1950, p. 1.
La celebrazione ufficiale a Roma, “l’Unità”, 25 aprile 1950, p. 1.
Oggi solenne rievocazione, cit., 25 aprile 1950, p.1.
L’annuale della Liberazione celebrato solennemente in tutta Italia, “Il Messaggero”, 26 aprile 1950, p.1.
La poesia matura di Kiki Dimoulà (1931-2020) ha aggiunto una dimensione completamente nuova alla poesia greca moderna.
Avendo sperimentato il dramma della dissoluzione esistenziale dell’umanità del dopoguerra e, allo stesso tempo, il vicolo cieco di un mondo che ha perso il dono della fede, la sua poesia ha mappato un mondo che è allo stesso tempo “senza casa” e insicuro; un mondo in cui la poeta, per sopravvivere, ha dovuto immergersi nelle dinamiche fondamentali del processo creativo e interferire in modo decisivo con la loro logica. La sua scrittura rivoltava la grammatica della lingua greca contro il significato delle parole, tentando così di rafforzare la forza emotiva del verso attraverso lo stupore e la sorpresa. Tutti i suoi versi suggeriscono la stabilità di un mondo che gli occhi non possono vedere, ma che diventa intero attraverso la sua ricostruzione immaginaria all’interno della poesia come un tutto organico. Questa dimensione di stupore e sorpresa è diventata un fattore emotivo attivo nella poesia greca contemporanea.
La poesia di Dimoulà tratta i temi dell’assenza e dell’oblio come in un caleidoscopio, dove colori e forme si dissolvono e si mescolano per essere ricostruiti in un’armonia e un ordine nascosti. Questa poesia trasforma la fluidità in un processo transustanziante: l’universo ridiventa mondo, l’agonia diventa nostalgia, l’assenza appare come redenzione del tempo. Il linguaggio della poeta rompe le consuetudini e nega le certezze di una tradizione romantica che non vede il tempo perduto come una presenza continua e attiva. Attraverso le sue linee il tempo personale rinasce e si compie per sempre come esperienza collettiva e immagine prismatica. La sua poesia, attraverso le analisi e gli studi di Eraclito, presenta il mondo migliore di un’ontologia personale e lo stabilisce come materiale sensoriale e fenomeno estetico.
Per Dimoulà il silenzio, la migrazione e la minimizzazione entrano nel linguaggio per dissolvere la coerenza di una logica incapace di decifrarne il messaggio. In essi la poeta scopre dimensioni esistenziali che errano nell’esperienza ma che il cervello, ottenebrato com’è dalla vertigine razionalistica, rifiuta di accettarle. È proprio questo lo scopo della poesia di Dimoulà: creare lo spazio per la realizzazione del mondo migliore. Ognuna delle sue poesie individua e registra le dimensioni di questo mondo multidimensionale e ordinato previsto.
La “o” disgiuntiva
Mi ha chiuso in casa la pioggia e ora dipendo dalle gocce.
Ma come sapere se è pioggia o lacrime dal cielo profondo di un ricordo? Sono troppo cresciuta per dare senza riserve un nome ai fenomeni: questa è pioggia e queste sono lacrime.
Rimango asciutta tra due possibilità: pioggia o lacrime, e tra tante ambigue realtà: pioggia o lacrime, amore o modo di crescere, tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta. Ogni ultima cosa, la chiamo ultima senza riserve.
Sono troppo cresciuta perché questo sia motivo di lacrime. Lacrime o pioggia, come saperlo? E continuo a dipendere dalle gocce. E sono troppo cresciuta per aspettare una misura quando piove e un’altra quando non piove. Gocce per tutto. Gocce di pioggia o lacrime.
Dagli occhi di un ricordo o dai miei. Io o il ricordo, chi lo sa. Sono troppo cresciuta per distinguere i tempi. Pioggia o lacrime. Tu o piccola oscillante ombra dell’ultima foglia che saluta.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, Crocetti Editore.
È per questo che ogni sua poesia mina il dominio del silenzio, ogni parola abolisce il potere dell’oscurità e dell’oscurità. La poeta vuole far luce su quelle forze mobilitanti della psiche – non il subconscio freudiano dei desideri repressi, ma l’area dell’Es, l’oscura Persefone che appartiene a ciascuno dei mortali e regna nel nostro Ade personale: una sorgente personale, una via verso la molteplicità. Ciascuna poesia di Dimoula è quindi un rito funebre omerico, una rievocazione dei morti attraverso la sottomissione del senso assente che hanno lasciato; e ciascuna sottomissione dona essenza alle sue linee, plasma essenza ed energia, corpo, linguaggio e calore umano.
Per Dimoula tutto vive di una simultaneità a più livelli, nel tempo della memoria dove non c’è distinzione tra istanti e tutto è identificato in modo assoluto e viene liberato alla salvezza attraverso lo stupore della memoria. Perché questa emozione iniziale domina nel suo lavoro: stupore per la perdita e la dissoluzione, per il tempo e la distanza, stupore per il potere del linguaggio che resuscita e sostituisce integralmente tutte quelle cose che sono scomparse e sono state dimenticate. Il poetare di Dimoulà illustra il ristabilimento di analogie simmetriche tra memoria e realtà, tra l’uomo e il suo spazio; infine, vede la possibilità della transustanziazione dalla decadenza, la resistenza concessa al caos e alla confusione della storia dalla potenza del linguaggio.
Cravatta nera
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere. Scrivi però le ragioni, forse devo altro dolore. Voglio avere la coscienza in pace di avere sofferto per tutto.
Scrivi che piango per uno specchio. Un tempo oggetto ornamentale, oggi oracolo. Per la brusca buonanotte che danno le poche possibilità e si dileguano. Scrivi che piango per la tua finestra, chiusa e senza saluti, melanconica per nascita. Per gli uccelli dell’ultimo decennio. Il loro terrore delle antenne televisive. Per il loro adattarsi e svolazzare tra questi alberi di ferro.
Scrivi. Per questo sabato sera sepolto tra due cipressi nella chiesa di campagna. Per la luna in lutto – indossa una cravatta nera nuvola, scrivi che piange. Piango perché mi hai chiesto se ho visto la luna piena. No, non ho visto niente di pieno, non ho vissuto. Piango perché i ragazzi portano lo zaino come una conoscenza già completa, e non entrano nel tenero rassicurante delle ore ancora acerbe e non giocano.
Scrivi che piango per le madri. Le più antiche madri. Belle ed esili, amanti delle finestre, arpiste della vedetta che la morte ha colto impreparate e sono longeve materne nelle fotografie del salotto e nei ricami.
Piango perché hanno acceso le luci e la domenica gatta raggomitolata sulla mia finestra. Scrivi che piango per le bufere, il poco cibo, per tutto il Poco, per i terremoti senza preavviso. Piango perché va sprecata la notizia che mi hai dato della prima farfalla vista ieri. Piango perché non fa notizia l’effimero.
Scrivi. Piango perché la sorte si è chiusa in casa, la dilazione è arrivata al boia, la borraccia è arrivata nel deserto, la gioventù nella fotografia. Piango perché chissà chi chiuderà dei miei giorni gli occhi.
Innaffia tu la pianta e lasciami piangere perché…
Fotografia 1948
Ho un fiore in mano forse. Strano. Nella mia vita deve esserci stato un giardino un tempo.
Nell’altra mano stringo una pietra. Con fiera grazia. Nessun sospetto per preavvisi di mutamenti, sentore di difese piuttosto. Nella mia vita deve esserci stata ignoranza un tempo.
Sorrido. La curva del sorriso, il cavo del mio umore, somiglia a un arco ben teso, pronto. Nella mia vita deve esserci stato un bersaglio un tempo. E predisposizione a vincere.
Lo sguardo affondato nel peccato originale: assapora il frutto proibito dell’attesa. Nella mia vita deve esserci stata fede un tempo.
La mia ombra, nient’altro che un gioco del sole. Addosso un’uniforme d’incertezza. Non ha ancora fatto in tempo a essermi compagna o delatrice. Nella mia vita deve esserci stata abbondanza un tempo.
Tu non ci sei. Ma se c’è un precipizio nel paesaggio se io sto sull’orlo con un fiore in mano e sorrido, vuol dire che da un momento all’altro arriverai. Nella mia vita deve esserci stata vita un tempo.
(Traduzione di Maria Paola Minucci)
da “L’adolescenza dell’oblio”, CrocettiEditore.
Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
25/02/2020 /Addio a Kiki Dimoula | L’Altrove
Ci ha lasciato, ad ottantanove anni, la poetessa greca Kiki Dimoula.
Kiki nacque ad Atene il 6 giugno 1931, nella vita fu impiegata nella Banca Nazionale Grecia, ma ebbe un grande successo con la sua poesia.
Esordì nel 1952 con la raccolta Poesie e successivamente pubblicò una decina di raccolte in versi. Le sue poesie vennero tradotte in molte lingue, in Italia fu la Crocetti Editore a pubblicarla. Con L’adolescenza nell’oblio, del 1994, vinse il prestigioso Premio dell’Accademia di Atene.
La ricordiamo con una sua poesia:
La pietra perifrastica
Parla. Dì qualcosa, qualsiasi cosa. Soltanto non stare come un’assenza d’acciaio. Scegli una parola almeno, che possa legarti più forte con l’indefinito. Dì: “ingiustamente” “albero” “nudo” Dì: “vedremo” “imponderabile”, “peso”. Esistono così tante parole che sognano una veloce, libera, vita con la tua voce. Parla. Abbiamo così tanto mare davanti a noi. Lì dove noi finiamo inizia il mare Dì qualcosa. Dì “onda”, che non arretra Dì “barca”, che affonda se troppo la riempi con periodi. Dì “attimo”, che urla aiuto affogo, non lo salvare, Dì “non ho sentito”. Parla Le parole hanno inimicizie, hanno antagonismi se una ti imprigiona, l’altra ti libera. Tira a sorte una parola dalla notte. La notte intera a sorte. Non dire “intera”, Dì “minima”, che ti permette di fuggire. Minima sensazione, tristezza intera di mia proprietà Notte intera. Parla. Dì “astro”, che si spegne. Non diminuisce il silenzio con una parola. Dì “pietra”, che è parola irriducibile. Così, almeno, che io possa mettere un titolo a questa passeggiata lungomare.
Da Il poco del mondo
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Ha compiuto gli studi universitari a Ibadan e a Leeds, in Inghilterra, dove ha conseguito il Ph.D. nel 1973. Dopo due anni al Royal Court Theatre di Londra come drammaturgo, nel 1960 è rientrato in Nigeria, dove ha iniziato ad insegnare letteratura e teatro in diverse università e ha fondato il gruppo teatrale “Le maschere 1960”. Nel 1964 ha creato la compagnia “Teatro Orisun” con la quale ha messo in scena anche le proprie opere. Nel 1965 ha pubblicato il primo romanzo, scritto in inglese, Gli interpreti.
Perseguitato e condannato a morte dal dittatore nigeriano Sani Abacha[1], Soyinka è vissuto in esilio negli Stati Uniti[2] fino al 1998, anno in cui il dittatore morì e Soyinka fece ritorno in Nigeria. Ora vive ad Abeokuta, la città nigeriana dove è cresciuto.
Viaggio
Non penso mai di essere arrivato, anche se sono
alla fine del viaggio. Ho preso una strada lontana
dalle vette ma fatta di domande e che mi porta giù
verso una casa, a quell’altra terra. So che la mia carne
intaccata dai morsi è scampata alla frenesia
dei pesci dentro la ruggine delle chiglie…
Ma me li sono lasciati dietro nel mio cammino
e così è andata col vino e col pane
Non li ho mai divisi con la sconfitta né con la fame
Me li sono lasciati dietro nel mio cammino.
Non penso mai di essere arrivato, anche se un segno
d’amore e di benvenuto mi attraggono verso casa
Gli usurpatori brindano nella mia coppa
ogni banchetto un’ultima cena
Traduzione diLuigi Sampietro
Poesia n. 313 Marzo 2016
Wole Solyinka La furia del dio del ferro
a cura di Luigi Sampietro
Après la guerre
Non nascondete le cicatrici
Nella distilleria dove si spilla il sangue
ho sentito un odore
famigliare di narcotici
Non nascondete le cicatrici
Il nostro comune rizoma di carne quando
lo si calpesta dentro la terra si attrezza contro
la morte e tutto bardato si lancia in direzione
del sole se non altro per il timore di scoprire
che il guscio è vuoto e che lo stelo degli ultimi
germogli affonda in un nulla di contraffazioni
Non strappate la pelle della terra
per coprire i tagli della pelle del tamburo
Non nascondetevi sotto una crosta
trasformando il dolore nel lamento
a mezza bocca di un pagliaccio con le bende
dipinte sulla maschera e la gola secca
per mancanza di bile, un cuore
di pezza e il ghigno di un teschio
che cerca di aggirare la severità
dell’esorcismo.
Le pitture non durano. E voi lasciate
che a seguire un cuore che pulsa
come un pezzo di legno siano quelli
che vanno dietro all’ultima onda.
Traduzione diLuigi Sampietro
Poesia n. 313 Marzo 2016
Wole Solyinka. La furia del dio del ferro
a cura di Paolo Statuti e Antonio Sagredo
Biografia
Soyinka è nato a Isara-Remo nello stato di Ogun, in Nigeria occidentale, all’epoca dominio britannico, secondo dei sei figli di Samuel Ayodele Soyinka, preside della St. Peters School ad Abeokuta e di Grace Eniola Soyinka, proprietaria di un piccolo negozio e soprattutto attivista politica nell’ambito del movimento femminista locale. Sua madre era di fede anglicana, sebbene nella famiglia di suo padre e nel vicinato fossero molto diffuse le mitologie e pratiche religiose Yoruba. Soyinka è cresciuto in un’atmosfera di sincretismo religioso che ha avuto una grande influenza sulla sua formazione, essendo sin da ragazzo contemporaneamente in contatto con i saperi tradizionali Yoruba e il Cristianesimo.
Nel 1940, dopo aver completato gli studi elementari, Soyinka frequentò la Abẹokuta Grammar School e in quegli anni e ottenne numerosi riconoscimenti per le sue composizioni letterarie. Nel 1946 venne ammesso al Government College di Ibadan, all’epoca la più prestigiosa scuola superiore della Nigeria. Dopo aver completato la sua formazione, si trasferì a Lagos, dove trovò lavoro come impiegato. In questo periodo, scrisse testi e brevi racconti per alcuni programmi radiofonici nigeriani e nel 1952, Soyinka intraprese i suoi studi universitari Ibadan e in seguito a Londra, dove seguì corsi di letteratura inglese, greco antico e storia.
Negli anni 1953–1954, rispettivamente il secondo e l’ultimo presso l’Università di Ibadan, Soyinka cominciò a lavorare alla sua prima opera ufficiale, “Keffi’s Birthday Threat” che fu trasmessa dall’emittente radio nazionale in Nigeria nel luglio del 1954. Mentre era all’università, Soyinka insieme ad altri sei studenti, fondò la National Association of Seadogs, la prima confraternita universitaria in Nigeria. In seguito si trasferì a Leeds per perfezionare i suoi studi in letteratura inglese sotto la supervisione del suo mentore Wilson Knight. Ancor prima di completare gli studi in Inghilterra, Soyinka ottenne un notevole successo come scrittore e drammaturgo, in particolare grazie ad alcune brevi commedie. In questi anni collaborò con The Eagle, un periodico umoristico inglese.
I suoi studi universitari e le esperienze europee lo portano a maturare una fusione tra alcuni degli elementi del teatro e della letteratura teatrale dell’occidente e le particolari caratteristiche dell’espressività Yoruba. Nel 1958The Swamp Dwellers e un anno dopo scrisse The Lion and the Jewel, la commedia che destò l’interesse di molti membri della London Royal Court Theatre. Soyinka decise di lasciare il corso di dottorato che seguiva a Leeds e di trasferirsi a Londra dove cominciò a lavorare come suggeritore per il Royal Court Theatre. Nello stesso periodo, due delle sue opere andarono in scena ad Ibadan.
Nel 1960, Soyinka ricevette una borsa di studio come ricercatore dalla Fondazione Rockefeller e rientrò in Nigeria. A marzo di quell’anno, scrisse una nuova commedia satirica, The Trials of Brother Jero, che stabilì definitivamente la sua fama come drammaturgo. Uno dei suoi lavori più apprezzati, A Dance of The Forest, un pungente attacco alle élite di potere nigeriane, vinse il premio al Nigerian Independence Day; nello stesso anno Soyinka fondò una compagnia di teatro popolare che per almeno cinque anni costituì il centro della sua attività teatrale: “Le maschere 1960”.
Storia del fiume ADIGE-Il fiume è stato protagonista di alcune devastanti alluvioni. Già in epoca romana la sua idrografia subì una variazione: Plinio il Vecchio[3] non cita più il Po di Adria perché l’Adige aveva subito una rotta ed era confluito nella Filistina e in altri due canali, chiamati il Fossone e la Carbonaria (Po di Goro).[4] Successivamente la rotta della Cucca, la catastrofica alluvione del VI secolo (589), secondo le cronache di Paolo Diacono, provocò morte e distruzione a Verona e nelle campagne. Vi è la notizia di altri fenomeni di questo tipo in passato: tra i più gravi sono da ricordare le inondazioni del 1882, del 1966 e del 1981.
Nel 1474, vicino a Castel Firmiano presso Bolzano, l’Adige in piena – chiamato nel documento «wasszer Etsch» – aveva inondato e distrutto le vie di passaggio, al che i duchi d’Austria misero in atto misure di ripristino delle comunicazioni viarie.[6]
Nel 1858 il corso del fiume fu deviato dal centro della città di Trento con uno spostamento del corso verso ovest: si trattò di rettificare il percorso che invece in origine faceva un’ansa verso est, fin quasi sotto alle mura del castello del Buonconsiglio. Tale operazione, che nei progetti doveva servire ad evitare inondazioni e piene nel centro della città, di fatto trasformò profondamente la zona del tracciato originale.
Nel settembre 1882 il fiume ruppe gli argini in nove punti a Bolzano e a San Michele all’Adige, e inondò la parte nord della città di Trento; la piena provocò anche un’alluvione a Verona e un’alluvione in Polesine. Proprio per salvare la città di Verona da possibili inondazioni, nella prima metà del XX secolo fu progettato, costruito e completato nel 1959 un tunnel scolmatore (Galleria Adige-Garda) che congiunge l’Adige in località Mori con il lago di Garda in località Nago-Torbole e che è in grado di convogliare le acque in eccesso dal fiume al lago. A causa della notevole differenza di temperatura e qualità delle acque, si fece ricorso al travaso delle acque molto raramente, soltanto quando strettamente necessario. Il tunnel venne usato infatti soltanto 13 volte tra il 1960 e il 2023: nel 1960, 1965, 1966 (due volte), 1976, 1980, 1981, 1983, 2000, 2002, 2018, 2022 e 2023. L’utilizzo dello scolmatore deve essere coordinato con il livello del lago di Garda e del fiume Mincio per evitare problemi.
Nel novembre 1966 la città di Trento conobbe la più grande alluvione della sua storia: buona parte della città e circa 5.000 ettari di campagna furono sommersi da circa due metri d’acqua. In seguito all’alluvione, gli argini vennero alzati di circa un metro. Nel luglio 1981 gli argini cedettero nei pressi di Salorno che fu sommersa assieme alle campagne circostanti.
Nel 2019 la portata massima che può transitare nel fiume era pari a 2.500 m³/s ed era corrispondente a un tempo di ritorno di 200 anni.
Nel corso del medioevo l’Adige fu anche teatro di importanti azioni militari, come nel 1439, quando le flotte congiunte dei Visconti e dei Gonzaga, allora in guerra contro Venezia, riuscirono a risalire il fiume e prima assediarono Legnago e poi gettarono un ponte di barche fortificato a valle di Verona per bloccare i rifornimenti alla città, mentre nel 1487, sempre lungo l’Adige, a Calliano i veneziani furono sconfitti dall’esercito del duca Sigismondo d’Austria[7].
Informazioni e curiosità sul fiume Adige
Lungo le rive del fiume, sfruttando le strade degli argini, si sviluppa la ciclopista della valle dell’Adige, una delle più lunghe presenti in Italia, che unisce la provincia di Verona con quella di Bolzano.
Ogni anno nel mese di ottobre nel tratto compreso tra Borghetto (TN) e Pescantina (VR) si svolge l’Adige marathon, una gara canoistica sia a livello agonistico che amatoriale.
La Rivista Pan
La Rivista Pan(sottotitolo: «Rassegna di lettere, arte e musica») fu una rivista di lettere, arte e musica, fondata da Ugo Ojetti nel 1933.
La rivista PAN professava un sollecito ossequio a tutte le forme del regime, condivideva gli obiettivi di grandezza nazionale e di ordine nuovo da instaurare nella società italiana e dava il suo pieno consenso ai miti della civiltà latino-mediterranea e del fascismo universale.
Redatta da Giuseppe De Robertis e dal giovane scrittore Guido Piovene per la milanese Rizzoli, Pan, rispetto alla rivista Pegaso che l’aveva preceduta, allarga gli orizzonti a interessi più ampi, spaziando dalla letteratura greca e latina, alla storia, alle arti figurative, secondo un ideale di Humanitas completamente antinovecentesco e filofascista che venne espresso nel numero del gennaio 1934 nell’Avvertenza al lettore.
L’allineamento al regime di Pan passa dai contributi dell’architetto ufficiale del regime Marcello Piacentini e del compositore Ildebrando Pizzetti, alle adulazioni di Ojetti che nel suo articolo Scritti e discorsi di Benito Mussolini, febbraio 1935, ne esalta l’oratoria e altre virtù.
Per quanto riguarda la musica classicistica e antiavanguardista, Mario Labroca esalta la “ricchezza ritmica, chiarezza, logicità di linguaggio” dello stile musicale di Stravinskij.
A parte le specializzazioni differenti, le due riviste di Ojetti sono sostanzialmente simili. Pan terminerà le pubblicazioni nel 1935.
Biografia di Elizabeth BISHOP,Poetessa statunitense di origine canadese, nata a Worcester, Massachusetts, l’8 febbraio 1911, morta a Boston il 6 ottobre 1979.Rimasta presto orfana di padre, la madre ricoverata qualche anno dopo in una clinica psichiatrica, la B. compie gli studi universitari e comincia a viaggiare in Europa e in Africa del Nord, poi in Messico (dove entra in amicizia con P. Neruda) e in Brasile, a Rio de Janeiro, dove vive quasi ininterrottamente dal 1952 al 1972, e conosce e traduce opere di V. de Moraes, C. Drummond de Andrade e O. Paz (cfr. An anthology of twentieth-century Brasilian poetry, 1972). Ha vinto nel 1956 il premio Pulitzer, il National Book Award nel 1969 e il Books Abroad/Neustadt nel 1976.
Amica di M. Moore e di R. Lowell, ai quali era legata da profonde affinità, non lontana dalle vedute modernistiche sull’arte espresse da R. Frost e W. Stevens, fa rivivere nella sua poesia lo spirito metafisico di E. Dickinson. In North and South (1945) alla dimensione spaziale si sovrappone l’ordine metaforico, al topos letterale il complesso simbolico, al segno grafico quello linguistico. La fissità della carta geografica − in Maps − rivela un mondo pulsante, dove l’inusuale ravviva all’improvviso il familiare. Nelle nuove poesie della raccolta A cold spring (1955) la conoscenza del territorio si arricchisce della conoscenza della storia. Con l’esperienza brasiliana, tradotta poeticamente in Questions of travel (1965), la vastità del continente America s’impone nella poesia della B., ma non riesce a occupare interamente il suo spazio interiore: la sua ricerca continua, in un percorso sempre più approfondito, dentro l’essere. Sul paesaggio domestico di Geography III (1976) si affaccia delicatamente la presenza dell’impenetrabile e si afferma il senso di mistero universale.
Modernista nel rendere l’irrazionale o il prerazionale ricorrendo al mito e nel riproporre lo stato del linguaggio primitivo, la poesia della B. può dirsi postmoderna nella costruzione di uno spazio linguistico culturale entro il quale l’io si mette in gioco e si definisce fino a identificarsi con l’umanità intera.
Una scelta di poesie è stata tradotta in italiano: L’arte di perdere (1982).
Bibl.: C. W. MacMahon, E. Bishop: a bibliography 1927-1979, Charlottesville (Virginia) 1980. Si vedano inoltre: A. Stevenson, E. Bishop, New York 1966; L. Schwartz, S. P. Estess, E. Bishop and her art, Ann Arbor (Michigan) 1983; E. Bishop, a cura di H. Bloom, New York 1985.
L’iceberg immaginario
Meglio per noi l’iceberg della nave,
pur segnando il termine del viaggio.
Pur se piantato come un piolo, un nuvolo petroso
in un mare di marmo in movimento.
Meglio per noi l’iceberg della nave; meglio
questa piana innevata che respira,
pur con le vele stese sopra il mare
come neve non sciolta sulle acque.
Ondeggiante, solenne campo, un iceberg
con te riposa, ne sei consapevole?,
per bruciare al risveglio le tue nevi.
Una scena così un marinaio darebbe gli occhi per vederla.
La nave viene ignorata. L’iceberg s’alza
e risprofonda; i suoi vitrei pinnacoli
correggono le ellittiche del cielo.
Una scena così rende spontaneamente enfatico chi sta
sul palco. Corde sottilissime fornite
da trecce eteree di neve bastano
ad alzare il velario. I begli ingegni di quei picchi bianchi
duellano col sole. Liceberg rischia
il proprio peso su una ribalta mobile
e ristà, gli occhi sgranati.
Quest’iceberg taglia dall’interno
le sue sfaccettature. Si conserva
in eterno come i gioielli di una tomba
e adorna solo se stesso o, al più, le nevi
che tanto ci stupiscono sul mare.
Addio, diciamo, addio, la nave salpa
dove le onde cedono alle onde e le nuvole
trascorrono in un cielo più caldo.
Gli iceberg si attagliano all’anima
(un’altra che si è fatta da sé con elementi quasi invisibili)
a vederli così: polputi, belli, eretti invisibili.
(da Miracolo a colazione, traduzione di Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica, Milano, Adelphi, 2006)
*
The Imaginary Iceberg
We’d rather have the iceberg than the ship,
although it meant the end of travel.
Although it stood stock-still like cloudy rock
and all the sea were moving marble.
We’d rather have the iceberg than the ship;
we’d rather own this breathing plain of snow
though the ship’s sails were laid upon the sea
as the snow lies undissolved upon the water.
O solemn, floating field,
you are aware an iceberg takes repose
with you, and when it wakes my pasture on your snows?
This is a scene a sailor’d give his eyes for.
The ship’s ignored. The iceberg rises
and sinks again; its glassy pinnacles
correct elliptics in the sky.
This is a scene where he treads the boards
is artlessly rethorical. The curtain
is light enough to rise on finest ropes
that airy twists of snow provide.
The wits of these white peaks
spar with the sun. Its weight the iceberg dares
upon a shifting stage and stands and stares.
This iceberg cuts its facets from within.
Like jewerly from a grave
it saves itself perpetually and adorns
only itself, perhaps the snows
which so surprise us lying on the sea.
Good-bye, we say, good-bye, the sheeps steers off
where waves give in to one another’s waves
and clouds run in a warmer sky.
Icebergs behoove the soul
(both beeing self-made from elements least visible)
to see them so: fleshed, fair, erected ivisible.
Il miscredente
Dorme sulla cima dell’albero maestro.
Bunyan
Dorme sulla cima dell’albero maestro
con gli occhi serrati.
Sotto di lui si sciolgono le vele
come le lenzuola del suo letto, esponendo
all’aria notturna la testa del dormiente.
Trasportato lassù nel sonno,
nel sonno s’è raccolto
in una palla d’oro in cima all’albero,
o si è arrampicato dentro un uccello d’oro,
o alla cieca s’è seduto a cavalcioni.
“Ho pilastri di marmo a fondamenta”
ha detto una nube. “Non mi sposto mai.
Vedi i pilastri là nel mare?”.
Sicuro nell’introspezione adesso
scruta i liquidi pilastri del proprio riflesso.
Un gabbiano, le ali sotto le sue,
ha osservato che l’aria
“sembrava marmo”. Lui ha risposto “Quassù
torreggio per il cielo perché le ali
di marmo in cima alla mia torretta volano”.
Ma dorme sulla cima del suo albero maestro
con gli occhi sigillati.
Il gabbiano ha frugato nel suo sogno
che era: “Non devo finire tra i flutti.
Il mare luccicante mi vuole tra i suoi flutti.
È duro come il diamante; vuol distruggerci tutti”.
Miracolo a colazione (Adelphi, 2006), trad. it. D. Abeni, R. Duranti, O. Fatica
The Unbeliever
He sleeps on the top of a mast.
Bunyan
He sleeps on the top of a mast
with his eyes fast closed.
The sails fall away below him
like the sheets of his bed,
leaving out in the air of the night the sleeper’s.
Asleep he was transported there,
asleep he curled
in a gilded ball on the mast’s top,
or climbed inside
a gilded bird, or blindly seated himself astride.
“I am founded on marble pillars”,
said a cloud. “I never move.
See the pillars there in the sea?”.
Secure in introspection
he peers at the watery pillars of his reflection.
A gull had wings under his
and remarked that the air
was “like marble”. He said: “Up here
I tower through the sky
for the marble wings on my tower-top fly”.
But he sleeps on the top of his mast
with his eyes closed tight.
The gull inquired into his dream,
which was, “I must not fall.
The spangled sea below wants me to fall.
It is hard as diamonds; it wants to destroy us all”.
Un’arte sola
L’arte di perdere s’impara facilmente:
tante cose si sforzano d’andar perdute,
che la perdita non è un grave incidente.
Perdi una cosa al giorno. Apri all’inconveniente
delle chiavi smarrite, delle ore sprecate.
L’arte di perdere s’impara facilmente.
Prova a perdere di più, e più velocemente:
luoghi, e nomi, e destinazioni stabilite
per un viaggio. Non ne verrà un grave incidente.
Ho perso l’orologio di mia madre e – gente! –
l’ultima, o quasi, di tre case molto amate.
L’arte di perdere s’impara facilmente.
Ho perso due care città, e un continente;
due fiumi, reami vasti e certe mie tenute.
Mi mancano, però non è un grave incidente.
— Anche se perdo te (la voce tua ridente,
un gesto che amo), è chiaro, non farò smentite:
l’arte di perdere s’impara facilmente,
ma pare un grave (Scrivilo!) grave incidente.
The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.
Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.
Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster.
I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master.
I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
Some realms I owed, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster.
— Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing isn’t hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster.
Dobbiamo ammirare la perfetta mira
di quest’aria d’inverno, cacciatrice provetta
la cui arma spianata non ha bisogno di mirino,
se non fosse che, lontano o vicino,
la sua preda è sicura, il colpo netto.
L’infimo tra di noi è così che tira.
Per ridurre il margine d’errore
sono ferme le barche e di gesso gli uccelli;
la galleria dell’aria coincide
con quella angusta che il suo sguardo incide.
Il centro del bersaglio, la pupilla,
collima con la mira e con l’ardore.
Ha il tempo in tasca, col suo ticchettio
segna il passo su un attimo. Non cura
momento e circostanze, lei, ha invocato
l’atmosfera per questo risultato.
( E l’orologio chiude l’avventura
tra ruote, foglie e nubi a scampanio).
Miracolo a colazione (Adelphi, 2005), trad. it. Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica
The Colder The Air
We must admire her perfect aim,
this huntress of the winter air
whose level weapon needs no sight,
if it were not that everywhere
her game is sure, her shot is right.
The least of us could do the same.
The chalky birds or boats stand still,
reducing her conditions of chance;
air’s gallery marks identically
the narrow gallery of her glance.
The target-center in her eye
is equally her aim and will.
Time’s in her pocket, ticking loud
on one stalled second. She’ll consult
not time nor circumstance. She calls
on atmosphere for her result.
(It is this clock that later falls
in wheels and chimes of leaf and cloud.)
Biografia Elizabeth BISHOP di – di Maria Anita Stefanelli – Enciclopedia Italiana –
Biografia di Elizabeth BISHOP,Poetessa statunitense di origine canadese, nata a Worcester, Massachusetts, l’8 febbraio 1911, morta a Boston il 6 ottobre 1979. Rimasta presto orfana di padre, la madre ricoverata qualche anno dopo in una clinica psichiatrica, la B. compie gli studi universitari e comincia a viaggiare in Europa e in Africa del Nord, poi in Messico (dove entra in amicizia con P. Neruda) e in Brasile, a Rio de Janeiro, dove vive quasi ininterrottamente dal 1952 al 1972, e conosce e traduce opere di V. de Moraes, C. Drummond de Andrade e O. Paz (cfr. An anthology of twentieth-century Brasilian poetry, 1972). Ha vinto nel 1956 il premio Pulitzer, il National Book Award nel 1969 e il Books Abroad/Neustadt nel 1976.
Amica di M. Moore e di R. Lowell, ai quali era legata da profonde affinità, non lontana dalle vedute modernistiche sull’arte espresse da R. Frost e W. Stevens, fa rivivere nella sua poesia lo spirito metafisico di E. Dickinson. In North and South (1945) alla dimensione spaziale si sovrappone l’ordine metaforico, al topos letterale il complesso simbolico, al segno grafico quello linguistico. La fissità della carta geografica − in Maps − rivela un mondo pulsante, dove l’inusuale ravviva all’improvviso il familiare. Nelle nuove poesie della raccolta A cold spring (1955) la conoscenza del territorio si arricchisce della conoscenza della storia. Con l’esperienza brasiliana, tradotta poeticamente in Questions of travel (1965), la vastità del continente America s’impone nella poesia della B., ma non riesce a occupare interamente il suo spazio interiore: la sua ricerca continua, in un percorso sempre più approfondito, dentro l’essere. Sul paesaggio domestico di Geography III (1976) si affaccia delicatamente la presenza dell’impenetrabile e si afferma il senso di mistero universale.
Modernista nel rendere l’irrazionale o il prerazionale ricorrendo al mito e nel riproporre lo stato del linguaggio primitivo, la poesia della B. può dirsi postmoderna nella costruzione di uno spazio linguistico culturale entro il quale l’io si mette in gioco e si definisce fino a identificarsi con l’umanità intera.
Una scelta di poesie è stata tradotta in italiano: L’arte di perdere (1982).
Bibl.: C. W. MacMahon, E. Bishop: a bibliography 1927-1979, Charlottesville (Virginia) 1980. Si vedano inoltre: A. Stevenson, E. Bishop, New York 1966; L. Schwartz, S. P. Estess, E. Bishop and her art, Ann Arbor (Michigan) 1983; E. Bishop, a cura di H. Bloom, New York 1985.
Sidonie-Gabrielle Colette « Me voilà donc, telle que je suis ! Seule, seule, et pour la vie entière sans doute. Déjà seule ! C’est bien tôt. J’ai franchi, sans m’en croire humiliée, la trentaine ; car ce visage-ci, le mien, ne vaut que par l’expression qui l’anime, et la couleur du regard, et le sourire défiant qui s’y joue — ce que Marinetti appelle ma gaiezza volpina… Renard sans malice, qu’une poule aurait su prendre ! Renard sans convoitise, qui ne se souvient que du piège et de la cage… Renard gai, oui, mais parce que les coins de sa bouche, et de ses yeux, dessinent un sourire involontaire… Renard las d’avoir dansé, captif, au son de la musique…»
Sidonie-Gabrielle Colette – Il vagabondo
“Eccomi qui, proprio come sono! Solo, solo, e per tutta la vita senza dubbio. Già solo! È troppo presto che sono passato, non credendomi umiliato, trent’anni; perché questo volto, il mio, vale solo per l’espressione che lo anima, e il colore dello sguardo, e il sorriso diffidente che ci gioca — quella che Marinetti chiama la mia gaiezza volpina… Volpe senza cattiveria, che una gallina avrebbe potuto prendere! Volpe senza avidità, che ricorda solo la trappola e la gabbia… Volpe gay, sì, ma perché gli angoli della bocca, e gli occhi, disegnano un sorriso involontario… Volpe stanca di ballare, prigioniera, a suon di musica… “
Biografia di Sidonie-Gabrielle Colette
Colette, pseudonimo di Sidonie-Gabrielle Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye, 28 gennaio 1873 – Parigi, 3 agosto 1954), è stata una scrittrice e attrice teatrale francese, considerata fra le maggiori figure della prima metà del XX secolo. Insignita delle più importanti onorificenze accademiche, nonché Grand’Ufficiale della Legion d’onore, fu la prima donna nella storia della Repubblica Francese a ricevere funerali di stato.
Colette è stata una delle grandi protagoniste della sua epoca, un mito nazionale: oltre che scrittrice prolifica, fu attrice di music-hall. Spesso nuda durante le sue esibizioni, autrice e critica teatrale, giornalista e caporedattrice, sceneggiatrice e critica cinematografica, estetista e commerciante di cosmetici, ebbe tre mariti e un’amante, mentre più volte fu al centro di scandali per le sue disinibite relazioni sentimentali con alcune personalità mondane, di ambo i sessi, della società francese.
Pur disprezzando le femministe della sua epoca, la sua vita e la sua opera letteraria furono la testimonianza di una donna libera, anticonformista ed emancipata, che sfidò le convenzioni e restrizioni morali, e che contribuì a rompere alcuni tabù femminili già a partire dalla sua prima creazione letteraria, il personaggio di Claudine “dall’ammiccante selvatichezza, dalla spregiudicata sensualità”e, come la definirà Willy, “una tahitiana prima dell’avvento dei missionari […], più amorale che immorale”. La fortunata serie delle Claudine, piena di un certo pigmento erotico, ai primi del XX secolo rivestiva un carattere osé notevole.
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