Introduzione di Sabrina Campolongo. Postfazione di Valérie Cossy.
Descrizione-del libro di Alice Rivaz- “La pace degli alveari“-Credo di non amare più mio marito”. Così si apre il diario segreto di Jeanne Bornand, moglie e lavoratrice, donna che è stata amante e amata e che si ritrova, ancora giovane ma vicina a non esserlo più, faccia a faccia con la sua estraneità alla vita cui le sue scelte l’hanno condotta. A finire implacabilmente sotto accusa è il matrimonio, nella sua prosaicità, nel suo insanabile scollamento dall’amore, ma una volta cominciato sembra che Jeanne non riesca più a fermarsi. L’intera società degli uomini, di cui le donne sono al tempo stesso vittime e complici, finisce sotto la sua critica spietata, tanto più feroce perché tinta della più lucida ironia”.
In tanti anni di femminismo, di teorie e pratiche, mai ho incontrato pagine di una consapevolezza così profonda e insieme di una capacità di nominare l’innominabile della relazione tra uomini e donne, nella quotidianità dei matrimoni come nella vita pubblica, così libera, diretta, felicemente senza remore e coperture.
Verità, svelamenti, messa a nudo impietosa, senza nascondere le ambiguità e le contraddizioni che passano attraverso la violenza invisibile del patriarcato.
Un frammento:
“Non l’avevamo previsto, il lavoro notturno degli aviatori, le bombe sopra i lettini dei bambini, sulle cucine a gas, sulle mensole con i libri. Non avevamo previsto niente, noi donne; come sempre li abbiamo lasciati fare; che si minacciassero, che sfilassero in parata, che venissero alle mani. Siamo rimaste a guardarli mentre si scatenavano. È proprio quello che, da madri, reprimiamo nei nostri figli piccoli, che ammiriamo nei nostri bambini diventati uomini. Quel gesto che meriterebbe il biasimo, se non una sberla, basta che il ragazzino sia diventato adulto ed ecco che le donne gli danno un altro nome. Come le parole “crudeltà” e “violenza” che diventano di colpo coraggio o eroismo.
(…)
Noi facciamo e loro disfano. Disfano persino, poco alla volta, le loro stesse teorie, rimpiazzando il credo di una generazione con quello di un’altra, cercando nomi sempre nuovi per giustificare le loro dementi carneficine.
E noi, invece di dire “Altolà!”, noi ancora ci sforziamo di seguirli, di comprenderli, di ottenere da loro delle attestazioni di devozione, e questo al fine di piacergli.”
“Quella complicità tra i sessi, se ne conosce fin troppo bene la causa, tuttavia non è per forza inevitabile…”
*Alice Rivaz, “La pace degli alveari” pagina uno 2019, pag.80
Michael Longley,- Poesie:”Il maestro del lume di candela”
Editore Mondadori-Officinapoesia Nuovi Argomenti
(Da poco uscita ne’ Lo Specchio Mondadori una raccolta antologica delle poesie di Michael Longley, a cura di Piero Boitani e Paolo Febbraro, con un saggio introduttivo di Piero Boitani, traduzioni di Paolo Febbraro, Piero Boitani e Marco Sonzogni. Proponiamo un estratto dell’introduzione e una selezione di poesie a cura di Piero Boitani.)
Il maestro del lume di candela (il “Maître à la chandelle”) è un pittore barocco che molti hanno identificato con Trophime Bigot (1579-1650), provenzale attivo per una decina d’anni anche a Roma, autore di tele di stile così diverso da essere stato persino sdoppiato, un artista più anziano e uno più giovane. E che a Roma è invece identificato, sulla base di documenti relativi al pagamento, con un “maestro Jacomo”, al secolo Giacomo Massa. Il modo di dipingere di Trophime-Jacomo cambia considerevolmente, apparendo più tradizionale in Provenza, assai più aperto alla nuova maniera caravaggesca nella capitale pontificia, ma sua caratteristica costante è quella di presentare una scena, o una figura, immerse nell’oscurità, e tuttavia illuminate, dentro per così dire il buio, da una luce che talvolta viene emanata appunto da una candela fisicamente presente nella tela. La luce della candela, di per sé non forte, possiede però nella fitta oscurità potenza tale da fare del quadro una ostensione: una rivelazione vera e propria. Michael Longley ha descritto molto bene il fenomeno in una lirica brevissima intitolata “Poem” della sua raccolta “The Candlelight Master”, del 2020, nella quale dichiara di essere lui stesso il maestro del lume di candela:
I am the candlelight master
Striking a match in the shadows.
A smoky wick, then radiance.
I am the candlelight master.
Sono il maestro del lume di candela
che fra le ombre accende un fiammifero.
Dallo stoppino fumo, poi fulgore.
Sono il maestro del lume di candela.
La concisione estrema, alla quale Longley si avvicina sempre di più negli ultimi due decenni, non consente allusioni al mistero dell’identità del maestro pittore, ma serve a far esplodere la luce «fra le ombre» (il plurale contenendo in inglese anche un accenno all’aldilà), in una radiance che è fulgore irraggiante, claritas radiosa. «Striking a match», letteralmente “lo sfregare un fiammifero”, è il gesto semplice e minimo di una creazione che ha per oggetto la luce e i volti e le cose che essa rivela, e il breve calore che il fuoco produce. Nel presentarsi come il maestro del lume di candela, Longley si mostra come il poietes umano: forte, diretto, immediato, ma anche coscientemente caduco come appunto una candela e la sua luce.
Piero Boitani
***
ANTICLEIA
Se alla roccia dove confluiscono i fragorosi fiumi, l’Acheronte,
il Piriflegetonte e il Cocito, affluente dello Stige, scavi
una fossa larga, lunga e fonda un cubito, dalle nocche al gomito,
e vi sacrifichi un montone e una pecora nera, piegando loro il capo verso le
tenebre esterne mentre tu volgi la fronte all’acqua,
tante di quelle anime anemiche dei morti ti si affolleranno attorno che dovrai
tenerle lontano dal sangue con la baionetta,
ma tra questi zombi a un tratto riconoscerai tua madre,
e se, dopo averle dato del sangue da bere e parlato di casa,
tre volte ti farai avanti per abbracciarla, per tre volte
come un’ombra o un’idea lei ti svanirà tra le braccia
e le chiederai perché evita di toccarti e lacrime verserai
perché ecco qua tua madre e perfino quaggiù nell’Ade
un abbraccio tremante sarebbe a entrambi di conforto,
ti spiegherà lei che i tendini non legano più la sua carne
alle ossa, che il fuoco irresistibile ha tutto demolito,
che l’anima prende il volo come un sogno e fluttua nel cielo,
che questo è quel che accade agli esseri umani quando muoiono?
ARGOS
Di separazioni ce n’erano state altre, così numerose
che Argo, il cane che attese Odisseo per vent’anni,
ha continuato ad aspettarlo, trascurato sul mucchio di letame
davanti la nostra porta, pieno di pulci, più morto che vivo,
lui che un tempo inseguiva capre selvatiche e caprioli; il cane
preferito, di razza pura, un fenomeno a cogliere l’usta,
che ancor oggi agita la coda e tiene le orecchie basse
sforzandosi di farsi più vicino alla voce che riconosce
e muore nello sforzo; finché anche noi come Odisseo
piangiamo per il cane Argo e per tutti gli altri cani,
per le retate di criceti e il panico dei ratti albini
e la deportazione di un canarino di nome Pepiček.
CAMPFIRES
Tutta la notte fuochi crepitanti tennero alto il morale
mentre nella terra di nessuno sonnecchiavano e sui campi di battaglia.
(Notti miti – non un alito, costellazioni in cielo
splendenti attorno a una luna abbagliante –
quando in alto una radura nell’aria svela
spazio sconfinato, e tutte le stelle appaiono
e illuminano le cime dei colli, le valli, i promontori e le punte
come Tonakeera e Allaran dove la marea
volge verso Killary, dove i salmoni lasciano il mare,
dove il pastore sorride sul suo campo lucente.
Tanti fuochi brillavano davanti a Ilio
tra il fiume e le navi: mille fuochi, e attorno
a ciascuno cinquanta uomini riposavano nella luce
delle fiamme.) I cavalli attendevano l’alba
muovendosi accanto ai carri, masticando orzo e avena lucente.
L’UOVO DEL LUCHERINO
Considera l’uovo del lucherino,
finemente screziato – macchie
e trattini – lilla, pallida ruggine
rossiccia, spruzzi di sangue
sparsi su un bianco verdastro –
tramonto a finis terrae – insomma
considera l’uovo del lucherino.
PROSEGUENDO AMERGIN
Sono la trota che si dilegua
fra le pietre di guado.
Sono la giovane anguilla
che indugia sotto il ponticello.
Sono il leprotto che mangiucchia
presso la siepe di fucsia.
Sono l’ermellino che danza
attorno al masso erratico.
Sono la matassa di lana
che vento e filo spinato ingarbugliano.
Sono il fango e lo sputo
che edificano il nido della rondine.
Sono il canto del saltimpalo,
sasso che percuote il sasso.
Sono il corvo aereo
che ha l’occhio in quello dell’agnello.
Sono il chiurlo notturno
che zufola nella canna fumaria.
Sono il pipistrello
che dimora tra costellazioni.
Sono la goccia di pioggia che racchiude
lino di fata oppure Samolus.
Sono il bocciolo di ninfea
e l’autunnale orchidea Spirantes.
Sono il temporale che penetra
nel buco della serratura.
Sono il chicco di grandine annerito
che il camino torna in acqua.
Sono la tana della lontra
e il covo del tasso nelle dune.
Sono il tasso che nell’alta marea
annega fra i detriti galleggianti.
Sono la lontra che muore
in cima al tumulo funebre.
IL MODELLINO DI AMELIA
I
Nel suo modellino del sistema solare
la mia cosmologa settenne
lega a uno spiedino da barbecue
con filo fusibile i pianeti, bottoni:
Venere, un bottone d’avorio,
Mercurio argento accanto al sole,
per Giove madreperla,
rosso e verde per Marte e la Terra,
per gli anelli di Saturno uno scovolino:
sicché nell’oscurità esterna
accanto alla cucina i suoi occhi castani
rappresentano Urano e Nettuno.
II
Amelia, nel filo non hai aggiunto Plutone
alla tua scultura del sistema solare:
minuscolo e remoto, un mondo gelido
di gelidi monti e neve di metano,
la danza di cinque lune sconosciute al sole,
il regno del dio dell’aldilà –
è lì, bambina mia, che andremo quando moriamo.
STELLE BAGNATE
Ho destato – al di là delle pietre di guado
sulla marea di luna piena – l’immaginazione –
guarda solo – costellazioni momentanee –
stelle bagnate fra i piedi – fosforescenza –
ardore dell’acqua del mare.
La storia della rivista «Nuovi Argomenti»
1953-1964
Alberto Carocci e Alberto Moravia fondano «Nuovi Argomenti». «L’idea», ricorderà Moravia, «era quella di creare una rivista di sinistra come “Temps Modernes” di Sartre, la quale avrebbe avuto un’attenzione per la realtà italiana di tipo oggettivo e non lirico». Il bimestrale ha la sua redazione in via dei Due Macelli 47 (segretario di redazione: Giovanni Carocci) e viene stampato presso l’Istituto Grafico Tiberino di Roma.
Il primo numero (marzo-aprile 1953) porta in sommario una Inchiesta sull’arte e il comunismo con interventi di Moravia, Lukacs, Solmi e Chiaromonte, ma anche racconti di Franco Lucentini e Rocco Scotellaro e un saggio di Franco Fortini.
Dal 1953 al 1964, sui 71 numeri che compongono la prima serie di Nuovi Argomenti scrivono, tra gli altri, Arbasino, Bassani, Bianciardi, Bobbio, Calvino (che pubblica La nuvola di Smog e il Diario americano) Cassola, Ginzburg, Fenoglio, Maraini, Montale, Morante, Ortese, Ottieri, Piovene, Pratolini, Raboni, Rea, Vittorini, Zolla.
Sul n. 10 del 1954 esce l’Inchiesta su Orgosolo di Franco Cagnetta; quest’ultimo – assieme ai direttori Carocci e Moravia – verrà denunciato dall’allora Ministro dell’Interno Mario Scelba per «reato di vilipendio delle forze armate» e «pubblicazione di notizie atte a turbare l’ordine pubblico», e la rivista venne sequestrata. Nel 1956, sul n. 17-18, Moravia pubblica alcuni capitoli inediti del suo romanzo La ciociara e la rivista per la prima volta apre alla poesia con Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini. Sul n. 20 (maggio-giugno 1956) trovano spazio 9 domande sullo stalinismo, con un’intervista a Palmiro Togliatti. È una formula che verrà replicata spesso, con le 9 domande sul romanzo (n. 37 del 1959, con scritti di Bassani, Calvino, Cassola, Montale, Morante, Moravia, Pasolini, Piovene, Solmi e Zolla), le 7 domande sulla poesia (n. 55-56 del 1962, con interventi di Baldacci, Bertolucci, Caproni, Devoto, Forti, Legnetti, Luzi, Montale, Paglierini, Pasolini, Pedio, Pignotti, Roversi, Sereni, Siciliano, Solmi, Vivaldi e Zolla) e le 10 domande su «neocapitalismo e letteratura» (n. 67-68 del 1964, con articoli di Arbasino, Baldini, Chiaramonte, Contessi, Cusatelli, Eco, Guglielmi, Leonetti, Moravia, Ottieri, Pasolini, Raboni, Rosso, Roversi, Siciliano, Saccà, Vittorini).
1966-1980
Nel gennaio del 1966 esce il primo numero della seconda serie – trimestrale – pubblicata da Garzanti. Ai due fondatori si è aggiunto nella direzione Pier Paolo Pasolini. Segretario di redazione è Enzo Siciliano che nel 1972, alla morte di Carocci, sostituisce quest’ultimo come direttore. Siciliano può considerarsi colui che su «Nuovi Argomenti» pratica la saggistica letteraria più compiuta, con attenzione, anche nella rivisitazione dei classici, alla sensibilità civile, ai rapporti della letteratura con la storia. Sulla rivista aveva esordito nel 1962, rispondendo al questionario sulla poesia e, due anni dopo, a quello su neocapitalismo e letteratura. Ma la caratteristica della sua presenza è data dal dittico intitolato L’anima contro la storia, due saggi su Bassani e su Elsa Morante che, dal 1966, vedono iniziare la sua presenza sempre più continua.
La seconda serie dura per 66 numeri e chiude nel 1980, segnando un percorso dove il fatto letterario tende sempre più a prendere il posto della discussione politica. Come un ciclone, nella seconda serie sta il nome di Pier Paolo Pasolini. Si può dire che la seconda serie di «Nuovi Argomenti» sia la serie di Pasolini, come la prima stagione della rivista era stata quella di Moravia, come la terza a quarta serie saranno soprattutto segnate da Siciliano. Pasolini dirige la rivista con una vitalità che tende a rompere i margini, assecondando una serie di collaborazioni dei cui autori il tempo perderà le tracce; ma tra i nomi rimasti, per esempio, ci sono Dario Bellezza, Franco Cordelli, Antonio Debenedetti, Dacia Maraini (che esordì nella prima serie, ma trovò nella seconda una vena di interesse civile), Giorgio Montefoschi, Vincenzo Pardini, Renzo Paris. A partire dal n. 10 della seconda serie (aprile-maggio 1968), Pasolini accantona discussioni di linguistica, cinema e poesia e irrompe con forza nel fascicolo della rivista. A sua firma compaiono sei interventi (Il PCI ai giovani!, Una risposta a Siciliano, Anche Marcuse adulatore, Aneddotica dell’integrazione a sinistra, Ah, Italia disunita!, e infine, come notizia da ultim’ora, Hanno sparato a Bob Kennedy). L’ultima firma è posta a 1951 nell’ultimo numero del 1975, che si sovrappone alla tragica notte all’Idroscalo di Ostia.
Nel primo numero dell’anno seguente, l’Omaggio a Pasolini coprirà la quasi totalità del fascicolo. Attilio Bertolucci affianca Moravia e Siciliano nella direzione. Redattori della rivista, dal 1974, sono Dario Bellezza e Piero Gelli. Nel 1978, Bellezza appare come segretario di redazione, con Gelli e Franco Cordelli come redattori. Tra gli autori invitati a collaborare alla rivista, Celati, Cerami, Consolo, Cucchi, Elkann, Giudici, Magrelli, Magris, Malerba, Montefoschi, Rosselli, Scialoja, Sereni, Siti, Spaziani, Zanzotto. Si pubblicano scritti di Octavio Paz, Julio Cortazar, Roland Barthes, Michail Bulgakov, Henry Michaux, José Lezama Lima, Michail Bachtin, Boris Pasternak, Joseph Brodskij.
1982-1994
«Scrivere di politica: portare o costringere gli scrittori a occuparsi di quei fatti che assediano da vicino l’esistenza quotidiana, e che ci appaiono indecifrabili, lugubremente enigmatici. Con questa ambizione si apre la terza serie di “Nuovi Argomenti”», scrive Enzo Siciliano nell’editoriale del numero di gennaio-marzo 1982 intitolato La letteratura delle cose, inaugurando i cinquanta numeri della terza serie pubblicati da Mondadori. Direttori sono Moravia, Siciliano e Leonardo Sciascia. Il collegio di direzione è composto da Dario Bellezza, Giulio Bollati, Franco Cordelli, Enzo Golino, Carlo Gregoretti, Leonardo Mondadori, Massimo Piattelli Palmarini, Lucio Villari. Nel 1984 entra a farne parte Edoardo Albinati, nel 1986 Leopoldo Fabiani. Dal 1988 Sandro Veronesi è segretario di redazione. Lo stesso anno Antonio Debenedetti entra nel collegio di direzione. Nell’89 ci sono anche Bruno Guerri, Rasy, Tondelli, Montefoschi, Elkann e Guarini e Giorgio Caproni affianca per breve tempo i direttori della rivista, fino alla sua morte che avverrà l’anno seguente.
Nel 1990, il n. 33 di «Nuovi Argomenti» (con una copertina di Mario Schifano) rende omaggio aLeonardo Sciascia, appena scomparso. Francesca Sanvitale diventa direttore accanto Moravia e Siciliano. Quest’ultimo, dall’anno seguente, avvia regolarmente la pubblicazione di un suo “diario” come editoriale della rivista. Sempre nel 1990, alla morte di Alberto Moravia, accanto a Siciliano e alla Sanvitale arrivano alla direzione Furio Colombo e Raffaele La Capria, con Dacia Maraini e Franco Cordelli in veste di vicedirettori. La rivista pubblica scritti di Bufalino, Eco, Ferrara, Mafai, Manganelli, Parazzoli, Scalfari, Tabucchi, Tobino, Vattimo, Villari, Viola, Zeichen e prosegue nella sua vocazione al talent-scouting aprendo alla collaborazione di giovani autori tra cui Abbate, Affinati, Albinati, Busi, Carbone, Colasanti, Covito, Lodoli, Mazzucco, Onofri, Picca, Tamaro, Tondelli, Trevi, Valduga, Veronesi, oltre a pubblicare scrittori stranieri quali Borges, Brodkey, Carver, Chatwin, Doctorow, Grossman, Kundera, Lowry, McEwan, McInerey, Oates, Perec, Updike, Walcott, Wolfe, Yeoshua. Nel 1993, per decisione di Enzo Siciliano e Sandro Veronesi, sul numero 48 (ottobre-dicembre) viene pubblicato il racconto lungo La baracca di Andrea Carraro, da cui successivamente lo scrittore romano trarrà il romanzo Il branco.
1994-1997
Nel 1994 la rivista cambia casa per la quarta volta. L’editore è Giunti che pubblicherà 12 fascicoli. La direzione, già dall’ultimo numero della serie Mondadori (n. 50), è composta da Dacia Maraini, Raffaele La Capria, Furio Colombo e Enzo Siciliano (direttore responsabile). Della redazione sono entrati a far parte Eraldo Affinati, Antonella Anedda, Luca Archibugi, Rocco Carbone, Massimo Onofri, Aurelio Picca, Emanuele Trevi. Al collegio di direzione si aggiungono Vincenzo Pardini, Giovanni Raboni, Nico Orengo, Sapo Matteucci, Giorgio Ficara. Segretario di redazione è Simone Caltabellota. Caporedattore Arnaldo Colasanti.
«Nuovi Argomenti» si conferma palestra per i giovani critici scrittori e poeti che in molti casi parteciperanno poi direttamente alla sua redazione: Scarpellini, Manica, Martini, Gibellini, Susani, Giartosio, Galaverni, Tripodo, De Bernardinis. Nel 1994 esordisce Niccolò Ammaniti, nel 1997 Alessandro Piperno. Sulla rivista trovano spazio Luca Doninelli, Antonio Riccardi, Claudio Piersanti, Enzo Fileno Carabba, Giulio Mozzi, Giuseppe Montesano, Antonio Franchini, Maurizio Maggiani. Vengono pubblicati Paul Auster, Don DeLillo e Seamus Heaney. Il formato non è più in ottavo ma diventa quello di un libro tascabile (sull’esempio della «Paris Review»).
1998-oggi
Dal 1998 «Nuovi Argomenti» torna ad essere stampata da Mondadori. Il primo numero della quinta serie è intitolato Terrore e terrorismo. Arnaldo Colasanti diventa direttore con Colombo, Maraini, La Capria e Siciliano (che è sempre il direttore responsabile). Lorenzo Pavolini è caporedattore. Alla redazione partecipano anche Andrea Salerno e Massimiliano Capati; collaborano Abeni, Guerneri, Tarquini, Santi. Sulle pagine della rivista continuano a passare scrittori e vita politica: Pascale, Fois, Riccarelli, Raimo, Ferracuti, Lagioia, Armitage, Strand, Hughes, Annunziata, De Angelis, Veltroni, Riotta, Moresco, Asor Rosa, Mari, Pascale, Guglielmi, Cortellessa, Voltolini.
Il n. 21 (gennaio-marzo 2003) festeggia una data importante e si chiama appunto Abbiamo 50 anni– Prologo. Seguiranno Abbiamo 50 anni – Atto Primo, Abbiamo 50 anni – Atto Secondo e Abbiamo avuto 50 anni. A partire dal numero di luglio-settembre 2003 inizia l’assidua collaborazione di Alessandro Piperno che firma un pezzo dal titolo Lettera aperta a Enzo Siciliano sul caso Philip Roth. Mario Desiati viene chiamato da Siciliano per svolgere le funzioni di segretario di redazione, in cui entrano Carlo Carabba, Leonardo Colombati, Helena Janeczeck e Roberto Saviano.
Per la rivista si apre una nuova stagione, suggellata nel 1994 dall’uscita del n. 28, Italville, e un anno dopo dal n. 30, Atlantide – Luoghi e personaggi sommersi, due numeri in cui intervengono molti dei più promettenti giovani autori del panorama italiano, tra cui Leonardo Colombati, Mario Desiati, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Francesco Pacifico, Massimiliano Parente, Valeria Parrella, Tommaso Pincio, Alessandro Piperno, Flavio Santi, Roberto Saviano, Wu Ming 1.
Il 9 giugno 2006 muore Enzo Siciliano. Il n. 35 di «Nuovi Argomenti» gli rende omaggio con un numero speciale, Officina Siciliano, in cui lo ricordano tra gli altri Alberto Arbasino, Bernardo Bertolucci, Franco Buffoni, Arnaldo Colsanti, Franco Cordelli, Alain Elkann, Miriam Mafai, Valerio Magrelli, Raffaele Manica, Dacia Maraini, Vincenzo Pardini, Elisabetta Rasy, Giorgio van Straten. Quest’ultimo, assieme a Raffaele Manica, entra nella direzione affiancando Colasanti, Colombo e La Capria. Direttore responsabile diventa Dacia Maraini.
Nel gennaio 2009 Carlo Carabba diventa coordinatore della redazione. Gli succederanno Francesco Pacifico, Marco Cubeddu e Francesca Ferrandi.
Dal 2019 la direzione è composta da Colombati, La Capria, Manica, Maraini e van Straten.
Strutturare i soggetti storici. Un paio di riflessioni a partire da Giosuè Carducci
La personalità e la parabola politica di Giosuè Carducci è emblematica del complesso rapporto tra intellettuale e movimento politico, continuamente oscillante tra esigenze di autonomia e necessità organiche di un’organizzazione strutturata. Se l’individualismo lirico rischia di sfociare in posizioni idealistiche, l’intellettuale organico può essere schiacciato da meccaniche che ne cancellano l’autonomia. Articolo di Roberto FINESCHI
Se le vacanze in Maremma ti portano a Bolgheri e Castagneto, non si può non pensare a Carducci; e se per hobby ti occupi di teoria politica, non puoi non metterti a riflettere su una figura il cui sviluppo politico e intellettuale fornisce spunti interessanti. Innanzitutto bisogna tenere a mente che il nostro è, intellettualmente, un gigante: la sua poesia può piacere o meno o essere più o meno “invecchiata”, ma si tratta di un individuo colto, brillante, audace, reinventare delle metrica classica nella modernità, grande critico letterario. Talvolta non si percepisce fino in fondo la dimensione veramente assoluta di siffatte menti, come quelle di Dante, Leopardi ecc., le cui capacità sono letteralmente sbalorditive; studiare attraverso la poesia il loro lato più umano e intimo occulta talvolta la loro assoluta eccezionalità. Ma non di questo intendo parlare.
Carducci è figlio di un medico mazziniano, democratico radicale, che in prima persona si espone nelle lotte nazionali, ma con una evidente dimensione sociale. Nel ’48 a Castagneto – pure lì c’è la rivoluzione – riesce a mediare tra rivendicazioni contadine e rigidità padronale trovando un compromesso che garantisce una, seppur parziale, redistribuzione delle terre incolte (le “preselle”). Profondamente anticlericale, non teme le conseguenze delle sue prese di posizione e questo porta la famiglia a peregrinare a lungo per l’opposizione dei potentati locali (abbandonano Bolgheri perché durante la notte prendono a fucilate l’abitazione del “mangiapreti”). Giosuè ha quello spirito e quelle idee; la sua lotta è culturale e intellettuale; celebra “Satana” (nel senso della razionalità, della mondanità, di tutto ciò che lo spirito religioso tradizionalista considerava peccaminoso e stigmatizzabile con il “ il vade retro Satana”, come commenta lo stesso Carducci in una sua lettera) [1]. Il suo non è dunque un astratto patriottismo nazionalistico, ma è imbevuto di cultura democratica, di progresso intellettuale e civile [2]. È un intellettuale impegnato, convinto e battagliero, di un classicismo moderno, erede di Giordani e di quella tradizione in cui si può inserire pure il Leopardi delle poesie civili o della Ginestra.
Lo sviluppo dello Stato italiano “unito” è una doccia fredda: il parlamentarismo trasformistico, il particolarismo e l’interesse laido schifano lui come tutti quei giovani più sinceri ed entusiasti. Come reagisce? In due direzioni diverse. Da una parte, anche a causa dei lutti familiari, con toni intimistici, per certi aspetti pre/decadenti, in cui il senso di morte e fallimento prende piede (i molti fini che entusiasticamente si era posto non sono stati raggiunti) [3]; dall’altra, politicamente, assume posizioni conservatrici, sia celebrando indirettamente la corona (anche se sotto la maschera dell’apprezzamento per la regina e con l’idea del sovrano simbolo dell’unità nazionale) [4], sia condividendo il dirigismo crispino, in cui si vede l’unico severo argine alla generale corruttela e pochezza morale della vita politica. La frustrazione esistenziale lo porta però anche a un conformismo borghese rassegnato alla vita così com’è: le molte amanti, non nascoste alla moglie, con alcune delle quali ha delle vere e proprie relazioni di anni, ma che amanti restano; le abbuffate (le “ribotte”) con gli amici in cui si mangia e si beve fino allo sfinimento. Si potrebbe forse fare un audace collegamento con La grande abbuffata di Marco Ferreri, [5], in cui sesso e cibo diventano l’unica pratica esistenziale affermativa, ma palliativa e alla fine autodistruttiva, di fronte alle convenzioni sociali delle quali tutti i protagonisti sono perfetti rappresentanti.
Questo schematicissimo quadretto mi suggerisce l’idea di un Carducci in qualche modo esempio d’eccellenza di un soggettivismo politico destrutturato, in questo senso “idealistico”, che non si riduce a lui ma che è rappresentativo di un atteggiamento che ha almeno due limiti di fondo: il primo è la distanza tra ideale e reale, vale a dire l’incapacità di comprendere in maniera sufficientemente precisa come la propria azione si collochi all’interno di dinamiche complesse. Questo è probabilmente, più in generale, uno dei limiti storici dei Democratici risorgimentali, non del solo Carducci. Il secondo è l’incomprensione del fatto che il soggetto del cambiamento storico non può essere una somma di individualità: per essere collettivo deve essere strutturato, altrimenti il senso di questa parola resta rarefatto e operativamente inefficace, almeno superato il momento dell’acme rivoluzionario. Qui, di nuovo, la superiorità operativa e istituzionale dei moderati rispetto alle trame cospirative dei democratici; e la più chiara “coscienza di classe” dei primi su interessi e obiettivi di lungo termine rispetto ai secondi.
La questione politica dell’organizzazione si sviluppa sia internamente a un movimento come struttura, sia esternamente come processo egemonico all’interno della società. Si tratta di un corpo collettivo che si individua per il ruolo funzionale degli individui che lo compongono, ma che si articola – e si è articolato storicamente – come pluralità. Il concetto di blocco storico implica all’interno dello stesso schieramento progressista rapporti tra classi diverse – classi che si definiscono funzionalmente per il loro ruolo nella riproduzione sociale – tra le quali esiste un rapporto di predominanza direttiva – egemonia – e che insieme mirano e talvolta riescono a “fare epoca”, vale a dire a determinare un cambiamento della configurazione economico-sociale complessiva. L’organizzazione e l’egemonia di un soggetto di questo tipo è complessa, stratificata e organica. Come organismo ha delle “regole” di funzionamento che, nella prospettiva della salvaguardia del corpo complessivo, trascendono l’individuo e impongono restrizioni all’arbitrio individuale, richiedono quella che una volta si chiamava disciplina. Come organismo ha un corpo che per diventare egemone al di là dei confini della propria organizzazione, soprattutto in periodi di “guerra di posizione”, ha braccia e gambe istituzionalizzate nella società, come sindacati, giornali, associazioni culturali, e via dicendo. Una presenza tangibile, anch’essa regolata.
L’organizzazione vive e si regge nella misura in cui la sua pratica e i suoi obiettivi rispondono alle esigenze storiche delle classi che la compongono e opera una trasformazione all’interno della società. Essendo essa stessa una piccola società, ha le proprie regole, le proprie convenzioni, i propri protocolli, il proprio conformismo che rischiano di diventare stretti, se non soffocanti, nella misura in cui l’organizzazione non ha una pratica corrispondente alle suddette esigenze storico-trasformative e quindi instaura dinamiche coercitive e conflittuali soprattutto con quei membri più originali e sensibili che intendono prima di altri le criticità, ma che non necessariamente sono capaci di formulare alternative. Meccanismi che creano delle fronde sono più o meno costanti, il problema storico sorge quando le dinamiche degenerative sono tali e così forti da mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’organizzazione; non solo per la pressione di forze esterne antagoniste, ma per l’incapacità interna di elaborazione e adeguamento.
Che c’entra questa assai succinta silloge di una teoria del partito, di evidente gramsciana memoria, con Carducci? Il poeta-vate, cantore ufficiale dell’alta cultura dell’Italia umbertina, mi pare rappresentativo della difficile dialettica esistente tra grande intellettuale – quale Carducci fu – e movimento politico. E più in generale tra idealità intellettuale e pratica politica. Da spavaldo democratico, repubblicano e radicale, il nostro finisce, banalizzando all’eccesso, frustrato e conservatore. Si potrebbe tirare in ballo il velleitarismo piccolo-borghese di fronte alla dura legge dei grandi processi storici, ma sarebbe una spiegazione solo parzialmente vera e scolastica, che non terrebbe conto dei problemi oggettivi di fronte ai quali l’intellettualità si pone, con le sue esigenze di libertà di pensiero e di critica in un contesto organizzativo in cui ciò potrebbe essere consentito solo entro certi limiti, talvolta particolarmente angusti. Intellettuale organico non può però significare intellettuale meccanico (smetterebbe infatti automaticamente di essere un intellettuale).
Carducci ebbe, in qualche modo, il suo partito, la massoneria, come molti altri intellettuali e politici democratici del tempo. Essa però non aveva un contenuto di classe veramente alternativo al progetto moderato, se non nel radicalismo anticlericale e in un repubblicanesimo democratico, che però non andava a toccare gli squilibri economico-sociali che affliggevano l’Italia. Si trattava in sostanza di un contenuto non radicalmente alternativo e quindi velleitario rispetto alle grandi questioni storiche dell’epoca. Il trasformismo era nelle cose stesse e Carducci si limita a rivendicare un onore e un legalismo di contro alla corruttela del presente, per il quale vede soluzioni nel dirigismo. Un vicolo cieco. Pur nella ristretta prospettiva qui proposta, egli può dunque essere rappresentante emblematico – e mostrare le criticità – di come si sviluppi una dinamica oggettivamente complessa tra un certo tipo di alta intellettualità potenzialmente rivoluzionaria e progressista e un’organizzazione politica pratica e ideale che cerchi di essere egemone. [6] Al di fuori dell’organizzazione non pare si riescano a ottenere successi operativi duraturi, ma la sua gestione è complessa e affetta da continue instabilità oggettivamente possibili. Riferimenti al presente – o al passato recente – non sono puramente casuali.
Articolo di Roberto FINESCHI
Note:
[1] A Satana è una sua celebre ode del 1863 (uscita con varianti in innumerevoli pubblicazioni e raccolte successive). Nella lettera a Giuseppe Chiarini del 15 ottobre 1863 scrive: “È inutile che io avverta aver compreso sotto il nome di Satana tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli ascetici e i preti con la formola «Vade retro Satana»; cioè la disputa dell’uomo, la resistenza all’autorità e alla forza, la materia e la forma degnamente nobilitate”.
[2] Carducci scrive su “Il popolo” di Bologna nel dicembre 1869: “Io, oppresso dalla società fin da’ primi anni, mi dichiarai per il ribelle alla monarchia solitaria di Geova, per il tentatore degli schiavi di Geova alla libertà e alla scienza, per l’oppresso dalla gendarmeria di Geova. E […] io l’ho cantato raggiante e tonante e folgorante di vita su l’universo”.
[3] In Traversando la Maremma toscana (1885) recita: “Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; / E sempre corsi, e mai non giunsi il fine; / E dimani cadrò”. Già nel 1874 in Davanti San Guido, 103-04, diceva “E quello che cercai mattina e sera / Tanti e tanti anni in vano, è forse qui”.
Per scherzare su quel “cadrò”, nel senso del “morirò”, si consideri che in una lettera a Adele Bergamini del 18 aprile 1885 Carducci affermava: “Il mio naturale si fa più triste. Quando Le dicevo che non stavo bene, non era romanticismo. La morte mi ha tirato la prima scampanellata [paresi a un braccio – ndr]. Non vorrà la potente signora aspettar troppo ch’io vada. E sonerà di nuovo”. Carducci morirà nel 1907, circa… 22 anni dopo.
[4] Celebri, per es., le poesie Piemonte o Alla regina d’Italia.
[5] La Grande Bouffe, di Marco Ferreri, celebre film del 1973 con Andréa Ferréol, Philippe Noiret, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Michel Piccoli.
[6] Come è ben noto, Gramsci affronta diffusamente questi temi nei suoi Quaderni. Interessante come discuta proprio di questo – cioè del rapporto tra elaborazione intellettuale e la tesi della teoria come “ancella” della pratica – in relazione alla soluzione “d’ufficio” da parte di Stalin, che pare non dispiacere a Gramsci, del dibattito tra i “dialettici” capitanati da Deborin e i “meccanicisti” capitanati da Bucharin (Quaderno 11, §12). In questo passo Gramsci commenta: “Si tratta cioè di fissare i limiti della libertà di discussione e di propaganda, libertà che non deve essere intesa nel senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di auto-limite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo di politica e culturale. In altre parole: chi fisserà i «diritti della scienza» e i limiti della ricerca scientifica, e potranno questi diritti e questi limiti essere propriamente fissati? Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali. Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientifico. Non è del resto impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passino attraverso il crivello di accademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche ecc.”.
Fonte- Associazione La Città Futura- | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi–
con Stefano Mancuso, Chiara Valerio, Laura Pepe e Riccardo Falcinelli –
Pesaro-Conto alla rovescia per il debutto dell’iniziativa presentata da Marsilio Arte e Intesa Sanpaolo nella cornice degli eventi che scandiscono l’anno di Pesaro come Capitale della Cultura. Riflettori puntati dunque su on Art Pesaro. L’arte legge il mondo, il ciclo di lezioni ideato per approfondire i grandi temi dell’epoca contemporanea usando l’arte come bussola. Ad alternarsi sul palco del Teatro Sperimentale saranno quattro relatori d’eccezione, invitati ad affrontare un argomento specifico e ogni volta diverso, rifacendosi al modello della lectio magistralis. La narrazione sarà accompagnata da un racconto visivo che rinsalderà il legame tra parola e immagine, stimolando il coinvolgimento del pubblico in un luogo votato per sua stessa natura alle esigenze e alle logiche della collettività.
Si inizia domenica 27 ottobre alle ore 11 in compagnia di Stefano Mancuso, scienziato noto in tutto il mondo e direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV), che si interrogherà sull’uomo come misura di tutte le cose, mentre il 10 novembre l’appuntamento sarà con la scrittrice, direttrice artistica e curatrice editoriale Chiara Valerio, impegnata in una riflessione sulla scomparsa delle immagini. Il 24 novembre la parola andrà a Laura Pepe, storica e studiosa del mondo classico, docente di diritto romano e diritti dell’antichità all’Università degli studi di Milano, che affronterà la tematica dell’Uomo e della Natura nel mondo classico. Il 1° dicembre toccherà al graphic designer, autore e docente di Psicologia della percezione alla facoltà di Design ISIA di Roma Riccardo Falcinelli concludere il ciclo di on Art Pesaro con la lezione intitolata Come si guarda un paesaggio. (Nature artificiali e artifici naturali).
Il risultato sarà un mosaico di pensieri e punti di vista sul mondo elaborati da quattro personalità del panorama culturale e artistico internazionale, appartenenti ad ambiti di ricerca differenti e trasversali che rispecchiano il criterio multidisciplinare alla base di on Art Pesaro.
La partecipazione è gratuita, fino ad esaurimento posti, e gli incontri potranno essere seguiti in diretta streaming.
Intesa Sanpaolo e Marsilio Arte annunciano on ArtPesaro, un ciclo di lezioni per interpretare il presente attraverso la chiave dell’arte, pensate e condotte da alcune tra le più autorevoli figure del mondo artistico e culturale attraverso prospettive inedite, multidisciplinari e al contempo rigorose. Gli appuntamenti si terranno presso il Teatro Sperimentale di Pesaro dal 27 ottobre al 1° dicembre 2024 e si inseriscono nell’ambito di Pesaro Capitale della Cultura 2024, di cui Intesa Sanpaolo è Main Partner.
Che l’arte serva in primo luogo a leggere e interpretare il mondo in cui siamo, guardando al passato ma anche al futuro, è la convinzione da cui parte questa nuova iniziativa, che si propone di offrire uno sguardo interdisciplinare e inedito, che rifletterà le esperienze, le conoscenze e le curiosità delle relatrici e dei relatori che prenderanno parte al programma.
Storia, mitologia, scienza, innovazione, natura sono tutti ambiti non solo capaci di dialogare con l’arte, ma anche di porre domande, dubbi e quesiti cui l’arte stessa tenta di rispondere, trascendendo rigidi confini e immaginando nuovi possibili orizzonti.
La prima edizione del progetto s’intitola on Art Pesaro. L’arte legge il mondo, collegandosi al tema “La natura della cultura” di Pesaro Capitale della Cultura 2024. Svincolandosi dai limiti imposti dall’analisi artistica tradizionale, gli interventi proposti da on Art coinvolgeranno vari ambiti di studio, in particolare le interazioni tra arte, natura e tecnologia. Scopri gli appuntamenti di questa prima edizione! https://www.marsilioarte.it/mostre-ed-eventi/on-art/
Cover photo: Stefano Mancuso, Chiara Valerio, Laura Pepe, Riccardo Falcinelli
Stefano Mancuso
Scienziato di fama mondiale e direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV), che nel 2013 il “New Yorker” ha inserito nella classifica dei world changers.
Chiara Valerio
Scrittrice, direttrice artistica e curatrice editoriale.
Laura Pepe
Storica e studiosa del mondo classico, docente di diritto romano e diritti dell’antichità all’Università degli studi di Milano.
Riccardo Falcinelli
Celebre graphic-designer, autore e docente di Psicologia della percezione alla facoltà di Design ISIA di Roma.
Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito su prenotazione. Gli incontri potranno essere seguiti in diretta streaming. Prevendite disponibili dall’autunno 2024.
Fonte-Marsilio Arte Santa Marta, Fabbricato 17, 30123 – Venezia info@marsilioarte.it – tel. +39 041 2406511
Roma-Descrizione Evento: Patrimoni Unesco in Giappone- La Convenzione sul Patrimonio Mondiale dell’Umanità è un documento adottato nel 1972 durante una sessione generale UNESCO tenutasi a Parigi, allo scopo di conservare e trasmettere alle generazioni future i maggiori beni artistici e naturali del mondo. Il Giappone, firmatario della Convenzione dal 1992, a oggi (settembre 2024) annovera 26 siti, di cui 21 culturali e 5 naturali. Uno è parte di un sito transnazionale.
Nel 1993 l’area montana Shirakami Sanchi, l’isola Yakushima, il castello di Himeji e i monumenti buddhisti dell’area templare dello Hōryūji sono stati registrati come i primi patrimoni mondiali dell’Umanità in Giappone. Successivamente, il santuario di Itsukushima, gli antichi reperti storici di Kyōto e Nara, i villaggi in stile gasshōzukuri di Shirakawa-gō e Gokayama, templi e santuari di Nikkō, fino al monte Fuji e all’Isola di Sado sono confluiti nell’elenco dei tesori del Giappone meritevoli dell’attenzione della platea mondiale.
La mostra, versione aggiornata dell’originaria a cura del fotografo Miyoshi Kazuyoshi, si avvale della collaborazione di JNTO, con l’amichevole ausilio di The National Museum of Western Art di Tōkyō.Su Eventbrite è possibile prenotarsi per partecipare alle visite guidate gratuite. Info e calendario QUI.
𝗚𝗶𝗼𝘃𝗲𝗱ì 𝟭𝟳 𝗲 𝘃𝗲𝗻𝗲𝗿𝗱ì 𝟭𝟴 𝗼𝘁𝘁𝗼𝗯𝗿𝗲 a partire dalle ore 𝟭𝟰.𝟬𝟬 sono in programma due repliche del documentario Kaikei, il maestro buddista in preghiera (2016, 60 min) sott. inglese,
dedicato ai capolavori della scultura buddhista, tra cui opere dichiarate Tesori Nazionali del Giappone. A guidarci nel percorso di scoperta delle magnifiche statue realizzate da Kaikei – uno dei maggiori scultori giapponesi del periodo Kamamura (1185-1333) – è l’esuberante idol e fashion designer Tomoe Shinohara, grande appassionata dell’argomento.
𝗚𝗶𝗼𝘃𝗲𝗱ì 𝟭𝟳 𝗲 𝘃𝗲𝗻𝗲𝗿𝗱ì 𝟭𝟴 𝗼𝘁𝘁𝗼𝗯𝗿𝗲 𝗼𝗿𝗲 𝟭𝟰.𝟬𝟬
Kaikei, il maestro buddista in preghiera (2016, 60 min) sott. inglese
L’Aquila, “Tommaso racconta Tommaso” Recital sulla figura del primo biografo di San Francesco di Assisi. Martedì 22 Ottobre 2024 ore 18:30 sarà rappresentato a L’Aquila, Teatro Comunale Ridotto, in nome della fratellanza, della solidarietà e della pace
L’AQUILA – Con il Patrocinio del Comune di L’Aquila e del Comune di Celano il Recital “Tommaso racconta Tommaso”, che già ha raccolto unanime consenso di pubblico e di critica, è presentato all’Aquila dall’Associazione Corale Polifonica “ Giuseppe Corsi “ di Celano e la Compagnia “Teatro Lanciavicchio “ di Avezzano, su testo di Don Antonio Salone. Dopo le quattro repliche nel 2023 a Tagliacozzo ( Teatro Talia), ad Avezzano ( Castello Orsini), a Celano (Chiesa Madonna delle Grazie ) e nella Diocesi di Rieti ( Teatro Santa Filippa Mareri ), questa quinta replica del Recital è stata fortemente voluta dal Nunzio Apostolico S.E.Orlando Antonini presente alla rappresentazione del 5 ottobre 2023 ad Avezzano, positivamente interessato dal lavoro messo in scena.
Il testo del recital è stato scritto da Don Antonio Salone che ha condotto uno studio approfondito sulla figura di Fra Tommaso, come testimonia l’ampia bibliografia a corredo del testo e realizza una nuova prospettiva di indagine e di lettura della figura di Tommaso da Celano.Con la regia di Antonio Silvagni, la Compagnia “Teatro Lanciavicchio” propone gli allestimenti scenici, costumi ,luci e uno straordinario e coinvolgente lavoro di interpretazione del testo, con gli attori Matteo Di Genova, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Giacomo Vallotta che sanno proporre la storia di Tommaso in tutta la sua spiritualità. La Maestra Maria Rosaria Legnini,con il Gruppo corale “Giuseppe Corsi” di Celano, ha scelto i brani musicali: musiche medievali a commento delle scene, ponendo attenzione al genere delle Laudi dal Laudario di Cortona, rielaborate e affidate alla voce del Soprano Ilenia Lucci, accompagnata dai componenti della formazione strumentale “MusiCanto Quartet“ composto dai Maestri: Corrado Morisi Fisarmonica, Beatrice Ciofani Violino e Paolo D’Angelo Chitarra. Presenta Domenica Carusi.
Si ringraziano: il Comune dell’Aquila, Sindaco Pierluigi Biondi, il Comune di Celano, Sindaco Settimio Santilli, tutti i sostenitori che hanno consentito la realizzazione dello spettacolo, il Nunzio Apostolico S.E. Orlando Antonini e collaboratori tutti. Il Recital “ Tommaso racconta Tommaso “ rientra nelle attività condotte fin dal 2014 dall’Associazione “ Giuseppe Corsi “ di Celano iniziate con lo studio e la rielaborazione del “Dies Irae” e proseguite nel corso di 10 anni con studi, concerti, animazione liturgiche di cerimonie religiose nell’ambito del “Cammino Misericordioso : Tommaso e Francesco nella terra dei Marsi”. Il recital dunque nasce dalla volontà di far conoscere la figura di Tommaso da Celano e di porre attenzione anche alla ricostruzione storica musicale e teatrale. La rappresentazione del Recital “ Tommaso racconta Tommaso” al Teatro Comunale Ridotto dell’Aquila prosegue il lavoro incessante, svolto da dieci anni, teso alla conoscenza, all’approfondimento e alla comprensione della figura di Tommaso da Celano.
Con la scelta del genere teatrale Recital si è voluto offrire a un vasto pubblico l’opportunità di conoscere la figura di Fra Tommaso, normalmente studiata dal ristretto numero degli specialisti nel settore. Un’occasione importante per conoscere ed apprezzare i valori della fratellanza, della solidarietà , del rispetto dell’ambiente e della riscoperta di relazioni interpersonali improntate all’accoglienza, all’amore reciproco, alla non violenza, alla pace.
A cura di Alessandro Banfi, Gian Corrado Peluso, Giampaolo Pignatari, Fabrizio Sinisi-
Con la collaborazione di Maria Bertaggia, Maddalena Catani, Matilde Fiorini, Mattia Gennari, Luca Maggi, Giuseppe Vitali, Mattia Savia, Andrea Siciliano, Alessandro Vaghi
ITACA, Milano 2015, Pro Manuscripto
La realtà del tempo, gli eventi della storia e della memoria, il desiderio dell’uomo nelle vicende della storia, sono la materia viva sella poesia, della scrittura, del teatro, del cinema dello scrittore che più di chiunque ha raccontato il nostro Paese. Pasolini, in un tempo molto diverso ma molto preparatorio del nostro, ha sfidato il nulla, quella riduzione dell’io che proviene dal suo interno e dall’esterno, iniziando dalla separazione tra credere e sapere, che lo lascia solo di fronte a un potere che non sa che farsene del volto umano per la sua programmazione del mondo. Una situazione analoga, con altri attori, che anche oggi si verifica di fronte alle sfide di una nuova realtà e sembra offuscare quell’esperienza umana, elementare e costitutiva, che si esprime nelle esigenze della felicità, della giustizia e dell’amore. Leggere Pasolini fa intuire l’esistenza di alcuni punti dai quali egli ha tratto il suo paragone e il suo impegno, insomma, la sua poetica. È interessante perciò vedere la consistenza e attualità di Pasolini, verificare quella sua profezia sulla società moderna e contemporanea, le cui conseguenze oggi stiamo vivendo, come occasione per costringere noi stessi ad andare al fondo di quelle stesse domande ed esigenze.
Nella Cappella delle reliquie si conserva gelosamente una Spina della Corona di Nostro Signore, recata a Farfa al tempo delle Crociate e tenuta sempre in grande considerazione.
Intorno a questo insigne cimelio della Passione si ricorda questo episodio.
Nel 1482 Alfonso, duca di Calabria, figlio di Ferrante, re di Napoli, avendo accampato il suo esercito nei prati di Granica, visitò l’Abbazia farfense. Fu mostrata al duca, assieme alle altre reliquie, anche la sacra Spina; il discorso cadde su altre Spine della stessa corona conservate in vari luoghi; allora Alfonso mostrò una di queste Spine che egli portava sempre addosso, fu messa a confronto con quella di Farfa e si vide che era differente.
Il duca, turbato da questo fatto, propose che fosse sperimentato, per mezzo della prova del fuoco, quale delle due e quella autentica. Fu acceso un fuoco nell’atrio della basilica e alla presenza di tutti i monaci, dello stato maggiore del duca Alfonso ed altri ecclesiastici , il duca getto per primo , tra le fiamme, la sua reliquia che brucio subito, quindi fu gettata alle fiamme la reliquia farfense che il fuoco “non ardì toccare”. La reliquia farfense fu gettata più volte tra le fiamme e il prodigio si rinnovò sempre. Dinanzi a questo fatto prodigioso il duca cadde in ginocchio e bacio il sacro cimelio e subito dopo lo riconsegnò , con devozione, al Priore raccomandandogli di custodire la sacra Spina con devozione e con miglio cautela.
Fonte-l’Abbazia di Farfa di D. Ippolito Boccolini –
L’Imperiale Abbazia di Farfa di Card. Ildefonso Schuster (Vaticano 1921)
Le foto sono di Franco Leggeri-
Conoscere l’Abbazia
Nel cuore dell’antica terra Sabina, ai piedi del monte Acuziano, in un’atmosfera di mistico silenzio, che avvolge anche il caratteristico Borgo che la circonda, sorge la storica Abbazia di Farfa, immersa nel fascino di una natura verdeggiante e sorridente, nella fresca aria mattutina che si respira intorno, riscaldata da un dolce sole i cui raggi oltrepassano i rami degli alberi, prima di giungervi.
L’abbazia di Farfa è un luogo particolarmente attraente, ricolmo di pace, di serenità, di semplicità, come sono semplici i monaci benedettini che vivono, in un clima di profonda spiritualità, la loro vita quotidiana tutta dedita al Signore e alla Madonna, alla quale essa è dedicata.
Fu dichiarata monumento nazionale nel 1928, per la bellezza architettonica ed artistica del monastero e della basilica, testimonianza di una storia più che millenaria tra periodi di grande splendore e periodi di decadenza o addirittura di distruzioni e dispersioni, seguiti sempre da rinascite e ricostruzioni, sì che ancor oggi l’abbazia è un centro di cultura e di spiritualità. Straordinaria anche la fioritura della santità, dal primo al secondo fondatore, rispettivamente S. Lorenzo Siro e S. Tommaso da Moriana, fino ai Beati Placido Riccardi e Ildefonso Schuster.
Tante le visite di re, imperatori e papi fino a quella di Giovanni Paolo II il 19 marzo 1993. Migliaia i visitatori che oggi la frequentano per ammirare il patrimonio di cultura e di arte che essa custodisce e rende accessibile e per il desiderio di trascorrere qualche ora o qualche giorno di riposo fisico e spirituale, usufruendo anche delle strutture di accoglienza e di ristoro, nonché del parco e delle passeggiate nella proprietà della Fondazione “Filippo Cremonesi“, che comprende pure le caratteristiche abitazioni del Borgo di Farfa con le graziose botteghe gestite da abili artigiani.
Guido Zaccagnini Una storia dilettevole della musica-
-Insulti, ingiurie, contumelie e altri divertimenti-
Marsilio Editori Venezia
Descrizione del libro di Guido Zaccagni-Ombrosi o passionali, romantici o iper-razionali: le vite dei musicisti sono policrome come le melodie con cui accendono i nostri sensi e pensieri. Tensioni emotive, vizi e virtù si traducono nelle loro composizioni, ragion per cui conoscerli e riconoscerli permette di intravedere il volto umano di personalità spesso idealizzate. Forte del rapporto sentimentale e professionale che da circa mezzo secolo intrattiene con la musica in veste di storico, studioso e divulgatore, Guido Zaccagnini racconta i rapporti tra i grandi protagonisti e i segreti dietro la nascita di melodie e falsi miti frettolosamente etichettati come capolavori. Accanto alle vicende biografiche non manca inoltre di chiarire aspetti teorici e legati ai vari contesti che hanno determinato l’affermarsi di leggende o la parabola discendente di forme musicali, correnti e strumenti, dalla Mazurka alla Sonata, dal Verismo all’Impressionismo, dal clavicembalo all’organo ecc. Narrando l’indole autoritaria e iraconda di Händel e le intemperanze di Wagner, la passione per i lepidotteri di Camille Saint-Saëns e il pallino di Erik Satie per gli ombrelli, le bordate di Prokof’ev contro Šostakovič e il Puccini double face, dandy nel bel mondo e «sor Giaomo» per gli amici, l’autore ricompone in modo originale i vari filoni che nel corso dei decenni hanno attraversato le fasi stilistiche della musica, delineando un avvincente affresco che va da Beethoven a Strauss, passando per Schubert, Schumann, Brahms, Wolf e Mahler. Far rivivere dissidi tecnici, morali e concettuali permette di «sollecitare una riflessione e conferire a questi monumenti della nostra civiltà musicale un tocco di umanità: che potrà, forse, farceli sentire più vicini; e magari farceli amare di più».
Breve biografia di Guido Zaccagnini
Guido Zaccagnini ha insegnato Storia della musica presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. Scrive per quotidiani e riviste, ed è autore e conduttore per Rai Radio 3, Rai News 24 e Rai 5. Ha fondato e diretto l’ensemble Spettro Sonoro, con cui ha eseguito e registrato, tra le altre, l’opera omnia di Nietzsche. Autore di una monografia su Berlioz, ha tradotto e curato La generazione romantica di Charles Rosen e Su Beethoven. Musica, mito, psicoanalisi, utopia di Maynard Solomon.
Guido Zaccagnini
Una storia dilettevole della musica
Insulti, ingiurie, contumelie e altri divertimenti
Andrea Zanzotto,due nuovi volumi sul Poeta di Pieve di Soligo
Editore Mondadori
Nel centenario della nascita e a dieci dalla scomparsa di Andrea Zanzotto Mondadori pubblica due volumi sul grande poeta di Pieve di Soligo: Andrea Zanzotto, ERRATICI disperse e altre poesie (1937-2011) a cura di Francesco Carbognin e Andrea Zanzotto, TRADUZIONI TRAPIANTI IMITAZIONI a cura di Giuseppe Sandrini.
Il primo volume a cura di Carbognin, propone una serie di poesie di Andrea Zanzotto pubblicate in varie sedi tra il 1937 e il 2011 ma mai confluite nei suoi libri, testimonianze fedeli della vivacità e dell’operosità della sua officina poetica.
“L’esplorazione dell’archivio privato in cui il poeta spesso teneva traccia o a volte copia delle sue pubblicazioni occasionali, assieme alla esplorazione sistematica di annate di quotidiani e riviste, ha infatti consentito di espanderne il corpus di un centinaio di poesie, da quelle adolescenziali risalenti agli anni del liceo (1937-38), improntate a un sostanziale pascolismo psicologico, ai versi di impostazione civile (1946) legati agli eventi della Resistenza. Se le poesie successive delineano l’evolversi dell’esperienza poetica zanzottiana fino a quel primo acuminato vertice toccato da Vocativo , quelle degli anni Sessanta ne dilatano l’orizzonte del sapere e del dire tra classicismo, caustica ironia e inclinazione sperimentale, proiettandosi verso i grandi esiti di “La Beltà”. Ed eccoci poi alle prime e già mature ricognizioni in versi sul dialetto (precedenti l’edizione del poemetto “Filò” e la composizione dei testi per il “Casanova” di Federico Fellini), fino alle prove quanto mai varie degli ultimi decenni, quando il soggetto lirico zanzottiano «si diffrange identificandosi con gli enti minimali del paesaggio», o con gli indizi del suo «”accadere” nella pagina, esitante tra silenzi e “promesse” di senso».”(Francesco Carbognin)
Biografia di Andrea Zanzotto- a cura di Carmelo Princiotta
Andrea Zanzotto– Nacque a Pieve di Soligo (Treviso) il 10 ottobre 1921, primogenito di Giovanni e di Carmela Bernardi, cui sarebbero poi nati le gemelle Angela e Marina, colpite da morte prematura nel 1926 e nel 1937, quindi Maria e infine Ettore.
Visse un’infanzia non felice, ma poeticamente ricca, grazie al Corriere dei piccoli e, soprattutto, alla nonna paterna. In Cal Santa, la stradina fra la chiesa e il cimitero, Angela Bertazzon recitava in filastrocche quasi ipnotiche le rime in toscano illustre di Ludovico Ariosto e Torquato Tasso. Il padre era pittore, decoratore e miniaturista, oltre che insegnante, ma dovette emigrare per la sua opposizione al fascismo.
Zanzotto frequentò una scuola materna gestita da suore che seguivano il metodo Montessori e fu ammesso direttamente alla seconda elementare. All’età di sette anni compose i primi versi. Il tentativo del padre di ricongiungere a sé la famiglia si rivelò fallimentare e sopraggiunsero anche difficoltà economiche. La zia Maria, però, coinvolgeva il nipote nel teatrino delle suore e gli trasmetteva l’avida pulsione alla lettura di giornalini e settimanali. Zanzotto ricevette anche le prime lezioni di musica, intanto che assorbiva il francese quasi casalingo dell’emigrazione trevigiana.
Nel 1937 si diplomò come maestro e iniziò a dare ripetizioni private. Era periodicamente soggetto a episodi allergici e asmatici. Dopo una pubblicazione adolescenziale di versi amorosi, dal 1938 raccolse le prime poesie, edite in parte nella strenna di Giovanni Scheiwiller A che valse? (Versi 1938-1942) (Milano 1970). Conseguì come privatista anche la maturità classica. Si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Padova, dove ebbe come maestri, anche di coscienza, Diego Valeri e Concetto Marchesi.
Scoprì Arthur Rimbaud e cominciò a leggere l’amatissimo Friedrich Hölderlin, nella traduzione di Vincenzo Errante, con suggestioni da rispecchiamento. Venne a contatto con la cultura dell’esistenzialismo. Studiò un po’ di tedesco, qualche rudimento di ebraico, e approfondì l’inglese, benché da cultore di grammatiche più che da esperto di lingue.
Vinse i prelittoriali di poesia con un gruppo di versi giovanili. Nel 1940 ottenne la prima di una lunga serie di supplenze. Il 30 ottobre 1942 si laureò discutendo una tesi su Grazia Deledda, pubblicata poi nel 2015.
Nel febbraio del 1943 fu chiamato alle armi e inviato ad Ascoli Piceno, dove si portò Frontiera di Vittorio Sereni. La manifestazione violenta della pollinosi comportò la sospensione dell’addestramento e l’assegnazione ai servizi non armati. L’8 settembre, alla notizia dell’armistizio, intraprese un avventuroso ritorno a casa. Si nascose sulle colline, ma riuscì anche a impartire lezioni private presso il collegio Balbi Valier di Pieve di Soligo. Nell’inverno cominciò a collaborare con i gruppi partigiani, in cui spiccava la figura non violenta di Antonio Adami. Nella primavera del 1944 si impegnò nella propaganda resistenziale. Il 10 agosto, durante una rappresaglia tedesca contro la piccola repubblica partigiana di Quartier di Piave, perse un amico, Gino Dalla Bortola. Il rastrellamento del 31 agosto mise a ferro e fuoco il paesaggio natio, che aveva protetto il poeta anche dagli orrori della guerra civile. Zanzotto visse alla macchia a fasi alterne, poi fu reclutato per il lavoro coatto, mentre continuavano i massacri. All’inizio del 1945 ritornò sulle colline; il 30 aprile la zona fu liberata. Zanzotto disseppellì i propri scartafacci, interrati un anno prima vicino casa. Riprese i contatti intellettuali con Treviso. Si recò più volte a Milano, dove conobbe Alfonso Gatto e Vittorio Sereni. Nel 1946, per la sua posizione repubblicana, perse una supplenza al Balbi Valier ed emigrò in Svizzera, dove insegnò in un collegio a Villars-sur-Ollon. Pur di non sottostare alle costrizioni dell’istituto, l’anno dopo fece il barista e il cameriere a Losanna. Scrisse o continuò a scrivere prose diaristiche e, alla fine del 1947, fece rientro in Italia.
Nel 1948 chiuse la composizione delle poesie d’esordio, cominciata nel 1940. Tramite Sereni inviò una silloge a Mondadori, che divenne poi suo principale editore, anche se la stampa dell’opera prima di Zanzotto si ebbe un anno dopo la vittoria del premio S. Babila per gli inediti nel 1950, con una giuria in cui figuravano Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Sereni, Leonardo Sinisgalli e Giuseppe Ungaretti. A Milano incontrò Cesare Musatti, cui espose il proprio disagio psichico. Conobbe Giuseppe Bevilacqua, germanista e traduttore, che lo introdusse alla poesia di Paul Celan.
Dietro il paesaggio (Milano 1951) si presentava come il frutto epigonale di un ermetismo radicalizzato dagli apporti del surrealismo europeo; invece rimase, nella sua ambiguità, fra i titoli più emblematici di uno dei più grandi e ormai proverbiali poeti del paesaggio. La cancellazione della presenza umana, la sostituzione del tempo cronologico con quello stagionale, l’adozione di una grammatica a forte carica astrattiva e il ricorso a una specie di citazionismo araldico sono misure manieristiche di protezione psichica.
Nel 1954 ottenne un posto di insegnante di ruolo presso la scuola media di Conegliano. Partecipò al convegno di San Pellegrino, dove fu presentato da Ungaretti, ed entrò in polemica con Italo Calvino, sostenendo tesi d’impronta esistenzialista. Dal punto di vista politico, Zanzotto fu iscritto al Partito socialista italiano (PSI) fino alla metà degli anni Ottanta. Conobbe a Pordenone Pier Paolo Pasolini. Comparve nell’antologia Quarta generazione. La giovane poesia in Italia (1945-1954) (Varese 1954). Le Edizioni della Meridiana stamparono Elegia e altri versi (Milano 1954) nella collana diretta da Sereni, con una nota di Giuliano Gramigna, che sottolineava permanenze e novità rispetto al libro precedente.
Vocativo (Milano 1957) parve a Giorgio Caproni «uno dei libri più belli del dopoguerra, riconoscibilmente nuovo» (G. Caproni, «Vocativo» di Z., in Id., Prose critiche, a cura di R. Scarpa, II, 1954-1958, Torino 2012, p. 925) e già Sereni lo riteneva secondo solo a La bufera e altro. Pasolini non esitò a definirlo come un libro di «piena crisi» (P.P. Pasolini, Principio di un «engagement», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti – S. De Laude, Milano 1999, I, p. 1207), perché Zanzotto oggettivizza, problematizzandoli, i presupposti di ogni poesia soggettiva, a partire dall’io, ridotto alla sua «miseria di fatto “grammaticale”» (Profili dei libri e note alle poesie, a cura di S. Dal Bianco, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, 1999, p. 1435), come recita il risvolto di copertina, anonimo ma di mano dell’autore.
Alla problematizzazione dell’io, in senso psichico, linguistico e storico-letterario, si uniscono quella del colloquio, ridotto alla pura vocatività, e della lingua, avvertita come transeunte. Michel David parlò poi di «inconsapevole lacanismo» (v. A. Zanzotto, Nei paraggi di Lacan, ibid., p. 1211) per il grammaticalismo di questo ‘secondo’ Zanzotto, che irrompe anche come poeta del linguaggio.
Nel 1959 Zanzotto si unì in matrimonio con Marisa Micheli, da cui ebbe Giovanni nel 1960 (a pochi giorni dalla morte del padre) e Fabio nel 1961. Per il periodico riacutizzarsi dell’insonnia e degli stati ansiosi, si sottopose a un’analisi freudiana a Padova. Pur continuando a insegnare, svolse anche le funzioni di preside nella scuola media di Col San Martino.
IX Ecloghe (Milano 1962) inaugurò la collana Il Tornasole, diretta da Niccolò Gallo e Sereni per Mondadori.
Secondo Franco Fortini, che aveva già trovato bellissime alcune poesie di Vocativo, il libro giungeva a risultati ineguagliati negli anni più recenti, anche per l’immissione di linguaggi allotri sotto la grande ombra di Virgilio e, in particolare, per la capacità di trasformare in rapporto con la storia il rapporto con il proprio inconscio.
Nel 1963 ottenne il trasferimento alla scuola media di Pieve di Soligo, dove insegnò fino al 1971. Si stabilì con la famiglia nella nuova casa di via Garibaldi (poi Mazzini). Per Neri Pozza pubblicò Sull’Altopiano. Racconti e prose: 1942-1954 (Vicenza 1964), riproposto e accresciuto in nuove edizioni a partire dagli anni Novanta. Nel 1966 tradusse Età d’uomo (Milano 1966) di Michel Leiris. Altre traduzioni seguirono negli anni Settanta da Georges Bataille, Pierre Francastel e Honoré de Balzac. Partecipò alla conferenza tenuta a Milano da Jacques Lacan per l’uscita degli Écrits. Si sottopose alla cosiddetta terapia del sonno. Nel 1967 si recò a Praga con Sereni, Fortini e Giovanni Giudici, per un incontro di poesia: uno dei non frequenti ma significativi spostamenti europei di questo appartatissimo poeta.
La Beltà (Milano 1968) fa «esplodere la “lingua”», come recita l’anonimo risvolto di copertina. Il volume fu presentato a Roma da Pasolini e, in modo piuttosto drammatico, a Milano da Fortini, che vi aveva individuato la «testimonianza […] di un accurato cerimoniale di autodistruzione» (R. Cicala, Zanzotto «in su la cima». Sulle lettere editoriali degli esordi in Mondadori e del rapporto con Sereni, in Andrea Zanzotto. La natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018, p. 167, con stralcio d’archivio), oltre che un ammicco allo strutturalismo ormai imperante.
Secondo Montale, autore di un’importante recensione, la coltissima nevrosi di Zanzotto problematizzava in modo estremamente contemporaneo il rapporto fra poeta e mondo, creando un cortocircuito sostanzialmente tragico fra espressione di secondo grado e pre-espressione, in una percussività da batticuore. Il libro, forse il più importante del Novecento poetico italiano dopo Le Occasioni di Montale, si presenta come le stazioni di un Calvario psicoanalitico che non abbia perso la propria laica spinta pasquale (donde un certo dantismo paradisiaco) e, insieme, come una strada senza uscita.
Nel 1969 Zanzotto partecipò al festival di Spoleto, dove ebbe modo di incontrare Ezra Pound. Stampò semiclandestinamente Gli Sguardi i Fatti e Senhal (Pieve di Soligo e s.l. 1969; Milano 1990), un poemetto sull’allunaggio come ferimento del mito lunare. Iniziò gli Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto, pubblicati in rivista nel 2001 e in volume nel 2019. Nel 1970 acquistò un piccolo appartamento a Milano. Dal 1971 al 1975 fu distaccato come formatore nelle scuole della provincia di Treviso. Nel 1973 morì la madre.
La fortunata antologia Poesie (1938-1972) (Milano 1973) fu curata da Stefano Agosti, che, da principale critico di Zanzotto, ne metteva in relazione la poesia con la nozione di arbitrarietà del segno postulata da Ferdinand de Saussure e con la priorità del significante sul significato elaborata da Jacques Lacan. Pasque (Milano 1973), libro dei passaggi rituali, anche pedagogici, che coinvolgono una comunità e dei passaggi psichici dell’individuo, chiuso in un’ambigua privatizzazione, fu recensito, fra gli altri, da Pasolini, che vide ne La Pasqua a Pieve di Soligo la «poesia più importante scritta in Italia in questi ultimi anni; forse, addirittura, dagli anni Cinquanta» (cfr. P.P. Pasolini, Andrea Zanzotto, «Pasque», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., II, p. 2019).
Nel 1975 uscì la prima traduzione in volume della poesia di Zanzotto, avviando l’internazionalizzazione della sua fortuna. Nel 1976 collaborò a Casanova di Federico Fellini, con testi in dialetto poi ricompresi in Filò (Venezia 1976; Roma 1981; Milano 1988) insieme con altri materiali e soprattutto col poemetto omonimo, civile tentativo di rifondazione del rapporto fra natura, uomini e linguaggio, in aperto confronto con La ginestra o Il fiore del deserto, di Giacomo Leopardi. Altre importanti collaborazioni cinematografiche seguirono negli anni successivi. Uscì intanto un’edizione petrarchesca con un memorabile contributo di Zanzotto.
Il Galateo in Bosco (Milano 1978 e 1996) è aperto da una prefazione di Gianfranco Contini, che indica in Zanzotto «il più importante poeta italiano dopo Montale» (p. 5).
Il libro avvia una «pseudo-trilogia» (v. A. Zanzotto, Note a «Idioma», in Id., Le poesie e prose scelte, cit., p. 811). La partizione va intesa in senso topografico, con la collocazione del Galateo nel Montello e di Fosfeni (Milano 1983) sulle Dolomiti, rispettivamente a sud e a nord di Pieve di Soligo, centro di Idioma (Milano 1986), ma è anche tematica, stilistica e tonale, come mostrano l’inselvamento del Galateo, la rarefazione quasi noumenica di Fosfeni e la quotidianità comunitaria di Idioma. Al centro del volume fa spicco l’Ipersonetto, che sembrò quasi autorizzare il ritorno alle forme chiuse degli anni Ottanta. A dispetto di consensi come il premio Viareggio del 1979, anno in cui usciva anche la prima monografia dedicata al poeta, l’autore temeva che fosse stato frainteso il senso profondo del libro e, quindi, disatteso il suo invito a una ripartenza da zero.
Entrando nella cosiddetta terza età, subì una grave depressione. Intanto venne insignito del premio Librex-Montale con Fosfeni, per cui Parise notava come la grandezza, anche ‘geologica’, di Zanzotto fosse di gran lunga superiore alla sua leggibilità. Nel 1987 l’Accademia nazionale dei Lincei conferì a Zanzotto il premio Feltrinelli. Numerosi anche i riconoscimenti internazionali, fino all’assegnazione del premio Hölderlin nel 2005. L’inizio degli anni Novanta, segnato dalla morte del fratello Ettore, vide l’uscita di Fantasie di avvicinamento (Milano 1991) e Aure e disincanti del Novecento letterario (Milano 1994), poi raccolti, per le cure di Gian Mario Villalta, in Scritti sulla letteratura (I-II, Milano 2001), volumi che fanno di Zanzotto un grande poeta-critico.
Meteo (Roma 1996), con disegni di Giosetta Fioroni, inaugurò la collana poetica di Donzelli come un’anticipazione di lavori in corso. Si apriva un’altra fase della poesia di Zanzotto, con una nuova posizione del soggetto e del linguaggio, oltre che un diverso trattamento del paesaggio. Le poesie e prose scelte (Milano 1999) uscì ne I Meridiani, vincendo poi il premio Bagutta. In Sovrimpressioni (Milano 2001) la deriva anche testuale, non priva di esiti indimenticabili, ruota attorno alla distruzione del paesaggio e alla trasformazione della nozione stessa di natura, come avverte l’anonimo risvolto di copertina.
Nel 2001 Zanzotto firmò un significativo contributo su Hölderlin e il crescente interesse nei suoi confronti lo spinse a pubblicare, a partire dagli eventi per il suo ottantesimo compleanno, conversazioni, scritti sul cinema e qualche altro saggio.Nel 2005 subì ulteriori restrizioni alla propria mobilità per la rottura di un femore.
Conglomerati (Milano 2009) chiude in modo testamentario l’opera in versi di Zanzotto. Non mancarono, però, pubblicazioni successive, come la plaquette Il Vero Tema (Milano 2011).
In Conglomerati si mette in discussione l’idea stessa di definitività: la poesia è ormai sostituita dalle sue varianti, in una virtualizzazione che assume in sé anche la testualità, pur nella sua materica stratificazione. Stefano Dal Bianco, in particolare, presenta Conglomerati come una Commedia contemporanea e la chiusura di una «trilogia dell’oltremondo» (in A. Zanzotto, Tutte le poesie, 2011, p. LXXIII).
Morì a Conegliano, il 18 ottobre 2011, in seguito a complicazioni respiratorie.
Opere. Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco – G.M. Villalta, con due saggi di S. Agosti – F. Bandini, Milano 1999; Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, Milano 2011, e relativa bibliografia, cui si aggiungano almeno: Il Vero Tema, Milano 2011; In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009, nota introduttiva di G. Agamben, prefazione di S. Dal Bianco, Macerata 2019; Haiku. For a Season. Per una stagione, a cura di A. Secco – P. Barron, con una nota di M. Breda, Milano 2019. Per la prosa si vedano: Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi, a cura di G. Ioli, Novara 2011; Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Milano 2013; L’arte di Grazia Deledda, prefazione di A Balduino e introduzione di E. Zinato, Padova 2015.
Fonti e Bibl.: Tra gli studi monografici: P. Steffan, Un «giardino di crode disperse». Uno studio di «Addio a Ligonàs» di A. Z., Roma 2012; Il sacro e altro nella poesia di A. Z., a cura di M. Richter – M.L. Daniele Toffanin, Pisa 2013; “Dirti Z.”: Z. e Bologna (1983-2011), a cura di N. Lorenzini – F. Carbognin, Varese 2013; C. Cardolini Rizzo, Dai versi giovanili al vocativo. Semiologia poetica nel primo Z., Taranto 2013; Hommage à A. Z., textes réunis par D. Favaretto – L. Toppan, Paris 2014; N. Lorenzini, Dire il silenzio: la poesia di A. Z., Roma 2014; S. Agosti, Una lunga complicità. Scritti su A. Z., Milano 2015; «A foglia ed a gemma». Letture dall’opera poetica di A. Z., a cura di M. Natale – G. Sandrini, Roma 2016; M. Natale, Il sorriso di lei. Studi su Z., Verona 2016; L. Stefanelli, Il divenire di una poetica. Il «logos veniente» di A. Z. dalla «Beltà» a «Conglomerati», Milano-Udine 2016; F. Venturi, Genesi e storia della «trilogia» di A. Z., Pisa 2016; S. Sferruzza, Vocativo. A. Z. sul margine. Introduzione e commento alle poesie, Ospedaletto 2017; A. Z., la natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018; Nel melograno di lingue. Plurilinguismo e traduzione in A. Z., a cura di G. Bongiorno – L. Toppan, Firenze 2018; S. Bubola, Dietro il paesaggio. Friedrich Hölderlin nell’opera di A. Z., Udine 2018; A. Russo Previtali, Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di A. Z., Firenze 2018; A. Russo Previtali, Z./Lacan. L’impossibile e il dire, Milano-Udine 2019; C. Cardolini Rizzo, La poesia pastorale nell’età moderna. Le «IX Ecloghe» di A. Z., Avellino 2019.
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