Torrita Tiberina-(RM)- Fondazione Mario & Maria Pia Serpone
Parco d’Arte Contemporanea nel cuore della Sabina
La Collezione-La Fondazione Mario e Maria Pia Serpone, un parco d’arte contemporanea nel cuore della Sabina, a soli 40km da Roma. Le opere della collezione sono orientate in corrispondenza con le stelle madri della costellazione del Toro dando forma ad un’architettura invisibile che accompagna i visitatori a scoprire installazioni all’aperto di artisti come Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Bruno Munari e Luca Maria Patella, per citarne alcuni. Oltre a ciò, la Fondazione è orgogliosa di ospitare due rarità nel panorama artistico internazionale: un ‘bottle crash’ di Shozo Shimamoto, la quale opera è un work in progress oggetto di performance annuali; e la cappella Nitsch, una cappella che il fondatore dell’azionisimo viennese Hermann Nitsch ha allestito con sue opere create in loco. Un luogo d’incontro per quanti celebrano l’amore, la libertà, la pace e l’equilibrio nel rispetto reciproco di tutte le forze che governano la natura, l’istituzione ha come centro d’interesse lo studio, la riflessione e la diffusione dell’arte contemporanea. La fondazione è visitabile esclusivamente su prenotazione.
Per info e per organizzare una visita, scrivere a: info@fondazioneserpone.org.
La collezione permanente
Una fondazione dove opere d’arte contemporanea contornano il prato, ne seguono le curve, lo impreziosiscono con significati estetici e lo ridisegnano, nobilitando lo spazio con installazioni ambientali a cielo aperto, con performance e con tutto quanto possa prendere forma d’arte attraverso il linguaggio del contemporaneo, in perfetta relazione con l’ambiente.
La cappella Nitsch
Uno spazio nel bosco concepito come una piccola cappella, il cui progetto, sottoposto al parere dell’artista, ha riscontrato la sua piena approvazione. Hermann Nitsch ha dato, infatti, la sua totale disponibilità per l’allestimento e arredamento della stessa, con opere ed installazioni da realizzarsi in loco.
Hermann Nitsch, artista austriaco, massimo esponente dell’azionismo viennese, filosofo, musicista e pittore dal 1957 si dedica alla concezione del suo “Orgien Mysterien Theater”(OMT): forma di arte totale che coinvolge tutti e cinque i sensi. Per Nitsch, teatro, palcoscenico, musica, architettura e natura divengono imprescindibili l’uno dall’altro.
Nelle sue opere si evidenzia l’aspetto drammatico di una “liturgia ematica”, che ripercorre concettualmente il processo di sublimazione dolorosa del “sangue glorioso”. Il sacrificio diviene elemento centrale di un processo di identificazione-coinvolgimento, che travolge i tradizionali schemi comportamentali.
L’opera di Nitsch è riconosciuta a livello mondiale. L’Austria e precisamente Mistelbach gli ha dedicato un museo personale, così come anche la Fondazione Morra a Napoli gli ha dedicato un museo a lui intitolato, inaugurato nel 2008; inoltre le sue opere sono presenti nei più importanti musei di arte contemporanea.
Contattaci-Per organizzare una visita della Fondazione Serpone, un evento privato o per avere maggiori informazioni sui nostri progetti e collaborazioni, inviaci una mail: info@fondazioneserpone.org
Cercaci su Google Maps: Fondazione Serpone Viale Marconi, 5 (S.P. Tiberina 15a, Km. 37,100) 00060 Torrita Tiberina, Roma
Giudizio del critico Cesare Garboli sul poeta e saggista Franco Fortini
da MaledettiPoeti
Cesare Garboli :<<La verità è che Franco Fortini -(Firenze, 1917 – Milano, 1994)- era un grande letterato, un letterato che, ogni tanto, scriveva delle poesie bellissime e insuperabili. Solo che questo letterato incallito, con tutti i vizi, le qualità, le vanità dei letterati, è stato visitato un giorno dalla politica così come Cristo si è fatto visitare dal demonio.>>
L’Autore toscano è stato uno degli intellettuali più influenti del ‘900. In seguito alle leggi razziali dell’Italia fascista cambiò il cognome ebraico Lattes con quello materno, Fortini.
A proposito del suo scomodo ruolo nel dibattito culturale nazionale, dichiarò negli anni ’90: “Ho praticato l’isolamento per quasi trent’anni. Vivo da tempo incontrando pochissime persone, evito quanto posso le pubbliche occasioni e gli ambienti letterari, non leggo miei versi in pubblico. Per vent’anni non ho concorso a premi. Non mi perdonano, da sempre, certe posizioni e certi giudizi. L’Italia aveva avuto, dal Risorgimento in poi, quello che Edoarda Masi chiama un ‘ceto pedagogico’. Ossia intellettuali che si facevano latori di coscienza critica. Oggi tale categoria non esiste più. La sua goffa imitazione è quella dei moralisti da giornalismo corrente e da TV.”
Il suo impegno civile proseguì fino alla fine della sua vita. Pochi mesi prima di scomparire venne infatti pubblicato da Einaudi, all’interno della sua ultima raccolta di versi, ‘Composita solvantur’, un capitolo dedicato alla Guerra del Golfo, conflitto armato tra Iraq e Stati Uniti che divenne il più grande evento mediatico globale del ventesimo secolo. La sezione conteneva anche la esemplare lirica ‘Lontano, lontano’, ironico componimento sulla sanguinaria crudeltà bellica ‘anestetizzata’ e spettacolarizzata dal racconto televisivo.
Racconta in proposito l’accademico Donatello Santarone: “Nel febbraio 1994 Franco Fortini pubblicò ‘Sette canzonette del Golfo’. Fu tra i pochissimi intellettuali italiani ad avere la tragica consapevolezza di quanto stava accadendo. Di fronte all’orrore dell’Armada occidentale, il poeta sceglie la ‘distanza’ del registro ironico, tra Metastasio e Manzoni, come in questi distici in doppio senario a rima baciata di ‘Lontano, lontano’, ago doloroso contro l’ipocrisia dominante.”
Una curiosità sulla carriera di Fortini denota la sua profonda adesione allo spirito del tempo da lui vissuto. Come riferisce lo scrittore Gianni D’Elia, fu lui a ‘battezzare’ la famosa macchina da scrivere della Olivetti, emblema del Giornalismo dell’era pre-Internet, con il nome con cui è da tutti conosciuta, ovvero ‘Lettera 22’ (dal 1963, ‘Lettera 32), nel periodo in cui lavorava nella fabbrica informatica di Ivrea, dal ’48 al ’54.
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RAGIONE DEGLI ANNI
Si può ancora disperdersi, schiarite
dei mesi incerti, soli obliqui.
Si può ancora volare per la vostra
polvere tenera, schiarite.
Di rado il profondo su querce e vasche d’iride
Eliso azzurro meditando posa
e un chiù persuade il viale roseo
che l’affanno può sparire.
Ma gioventù ci aspetta in una sera
di calme stille dai rami e di passi
incerti. Una leggera chiara sera
avremo ragione degli anni.
AGLI DÈI DELLA MATTINATA
Il vento scuote allori e pini. Ai vetri, giù acqua.
Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti, poi nulla.
La mattinata si affina nella stanza tranquilla.
Un filo di musica rock, le matite, le carte.
Sono felice della pioggia. O dèi inesistenti,
proteggete l’idillio, vi prego. E che altro potete,
o dèi dell’autunno indulgenti dormenti,
meste di frasche le tempie? Come maestosi quei vostri
Stig Dagerman-Breve è la vita di tutto quel che arde
Traduzione di: Fulvio Ferrari -Prima edizione: 09 novembre 2022-
-Casa Editrice IPERBOREA-
Per la prima volta tradotta in italiano, un’antologia che dà conto di circa dieci anni di attività poetica di Stig Dagerman.«Un giorno all’anno si dovrebbe immaginare / la morte chiusa in una scatoletta bianca. / A nessuna illusione si dovrebbe rinunciare, / nessuno morrebbe per quattro dollari in banca. // (…) Nessuno vien bruciato all’improvviso / e nessuno per strada ha da crepare. / Certo, è menzogna, son del vostro avviso. / Dico soltanto: Possiamo immaginare.» Stig Dagerman espresse anche in versi la vicinanza agli ultimi e l’umanesimo dolente che in una continua tensione tra speranza e disincanto attraversano la sua multiforme opera in prosa. Negli anni 1944-47 e 1950-54, fino al giorno prima di morire, scrisse per il giornale anarchico Arbetaren oltre 1300 dagsedlar, poesie satiriche a commento della cronaca politica e sociale che con il loro tono diretto contribuirono a fare di Dagerman un riferimento identitario per i giovani libertari della sua generazione. Il metro è per lo più tradizionale, quasi da filastrocca, ma la giocosità della rima e del ritmo potenzia per contrasto la durezza dei contenuti: gli accordi della «democratica» Svezia con la Spagna di Franco, i senzatetto di Stoccolma lasciati al freddo, i bambini armati per combattere le guerre dei grandi. Ai brevi componimenti di denuncia, questo volume affianca una scelta di versi in cui la forma irregolare insieme alla riflessione sulla condizione umana, pur sempre intrecciata all’impegno politico, avvicina l’autore alle avanguardie internazionali e ben accoglie simboli e metafore della sua narrativa. Una lettura toccante che aggiunge un tassello significativo al ritratto di uno sperimentatore instancabile al quale ancora oggi s’ispirano scrittori, giornalisti e musicisti di tutta Europa.
Recensione di Angelo Ferracuti a «Breve è la vita di tutto quel che arde» di Stig Dagerman, apparsa su La Lettura il 6 novembre 2022
Tutta la letteratura di Stig Dagerman è fortemente permeata di esistenzialismo politico e coerenza tematica, ma anche da un contrasto molto forte tra io e mondo, istinto di libertà, desiderio di giustizia sociale contrapposti alla brutalità del potere. Come la sua cristallina postura di autore è segnata da una combattività angosciata e a volte disperata, che pendolareggia tra sogno utopico e disincanto, speranza e disillusione, e da una militanza totale nel movimento libertario svedese vissuta a microfono aperto nella sua breve vita, iniziata nel 1923 e finita a soli 31 anni nel 1954 quando morì suicida al culmine del successo editoriale.
In poche stagioni ci ha lasciato alcuni libri di rara forza espressiva, valore letterario e trasporto emotivo, la passione e la purezza delle raccolte di racconti, romanzi come «Bambino bruciato», «I giochi della notte», «Il serpente», l’esordio del «1945», il lancinante «Il nostro bisogno di consolazione», un breve ma intensissimo monologo filosofico sulla tensione dell’uomo verso la felicità, il bisogno di libertà e lo schiacciante sistema di dominio sociale, che può reputarsi il suo testamento intellettuale; i reportage lirici di «Autunno tedesco», quando fu inviato da l’«Expressen» nel 1946 in Germania fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia, a raccontare il Paese sconfitto, tutti libri fedelmente editi da Iperborea.
Un’altra componente di Dagerman e della sua letteratura è la ricerca ossessiva della coerenza visionaria attraverso quella che ha definito «La politica dell’impossibile», nella letteratura e nella vita, titolo di un libro di saggi, avversa a quella «Realpolitik», la politica concreta, pragmatica, dello status quo, dei compromessi e della rinuncia al cambiamento, schiacciata dal giogo economico.
Adesso esce il libro delle sue poesie politiche, «Breve è la vita di tutto quel che arde» (Iperborea) tradotto e curato con rigore e passione da Fulvio Ferrari, professore ordinario di Filologia germanica all’università di Trento, ma soprattutto grande conoscitore e divulgatore delle letterature scandinave. Si tratta di una scelta del suo corpus poetico che mette insieme testi sparsi ai «dagsedlar», dispacci quotidiani spesso scritti in rima affidati al giornale anarchico «Arbetaren» («L’operaio»), di cui era redattore, che però nel linguaggio corrente significa anche «ceffoni» per la loro immediatezza e vicinanza ai fatti di cronaca.
Insieme agli accadimenti storici c’è anche la vena esistenzialistica e romantica dello scrittore svedese: l’incrocio di questi due elementi è la sua cifra, il suo conio profondo che percorre tutta la sua opera, dentro quell’angoscia e paura prodotte dalla Seconda guerra mondiale che ne è il tellurico fondale storico.
Nel libro si alternano differenti stili compositivi, riflessioni intimistiche sulla condizione umana e il senso della vita, così come testi di impegno sociale come l’intenso «No pasarán» dove commemora l’epica tragica della guerra di Spagna con tutta la sua verve antifranchista, un inno alla lotta, alla resistenza.
La poesia di Dagerman ha una urgenza politica, ma soprattutto esistenziale, stilistica, la forma è il suo fuoco, la forma che incrocia gli ideali dei «Cuori ardenti» di cui parla in un saggio, anche per questo lo sentiamo contemporaneo e fratello, la sua letteratura è viva. I «dagsedlar», scritti con caustica ironia, hanno spesso l’andamento di una filastrocca, un gusto agrodolce, nel senso che ibridano lo stile cantilenante del verso con contenuti di dura crudezza, spietati, del palcoscenico impazzito del mondo, e nascono sempre da una notizia di cronaca.
I temi sono l’antimilitarismo, la bomba atomica, la condizione umana degli ultimi, la violenza sui bambini, un argomento molto caro a Dagerman, siano essi i senzatetto svedesi o gli africani dannati della Terra, i neri americani condannati a morte e portati al patibolo, come in «Due volte morto»: «Tutti quanti abbiamo da imparare,/ ci si allena ore e ore per fare il boia./ Che importa come un negro può campare,/ Quello che conta è che un negro muoia».
L’anarchico ribelle, quello che dice di voler opporre il potere delle sue parole «a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà», è anche al fianco dei lavoratori insorti in Germania dell’Est contro il regime comunista: «Quante volte il popolo avete chiamato./ Ora rispondiamo: Siam qui, siamo arrivati./ Fatevi avanti, popolari signori/ – e se vi è possibile, disarmati!».
L’ultima poesia scritta da Dagerman si intitola «Attenti al cane!», pubblicata il 5 novembre 1954, e nasce dopo avere letto la dichiarazione di un responsabile della Previdenza sociale di Värmland, una contea che si trova nella parte occidentale del Paese: «Certo è deplorevole che gente che vive di sussidi tenga poi un cane» fu l’affermazione indignata di una persona probabilmente appartenente alla ricca borghesia svedese.
Stig Dagerman il ribelle, lo scrittore nato nel cuore del proletariato e figlio di un operaio artificiere poverissimo e di una telefonista, quello posseduto dal radicalismo che giovanissimo diresse «Storm», il giornale della gioventù anarchica, reagisce a queste parole scrivendo versi venati di ironica indignazione, descrive la gente dei bassifondi come quelli che «stanno in stanzette strette e fosche/ con i loro bastardi costosi», poi la denuncia arriva con un’invettiva provocatoriamente sarcastica: «Ora è il momento di esser risoluti:/ Abbattere i cani! Non è buona cosa?/ E siano poi anche i poveri abbattuti,/ così il Comune risparmia qualcosa».
La poesia fu pubblicata il giorno dopo la sua morte, l’aveva scritta ventiquattr’ore prima di uccidersi con il gas di scarico della sua automobile.
Dopo una serie di tentativi di suicidio non riusciti, sprofondato in una cupa depressione, questa volta aveva organizzato tutto, scrivendo persino l’epitaffio per la sua lapide: «Qui riposa/ uno scrittore svedese/ caduto per niente/ sua colpa fu l’innocenza/ dimenticatelo spesso».
Breve nota sull’Autore Stig Dagerman Poeta svedese-
Stig Dagerman – Anarchico lucido e appassionato incapace di accontentarsi di verità ricevute, militante sempre in difesa degli umiliati, degli offesi e dell’inviolabilità dell’individuo, Dagerman appartiene alla famiglia dei Kafka e dei Camus e resta nella letteratura svedese una figura culto che non si smette mai di rileggere e riscoprire. Segnato da una drammatica infanzia, intraprende molto giovane una folgorante carriera letteraria bruscamente interrotta dalla tragica morte, lasciando quattro romanzi, quattro drammi, poesie, racconti e articoli che continuano a essere tradotti e ristampati. Iperborea ha pubblicato Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte, Perché i bambini devono ubbidire?, La politica dell’impossibile, Autunno tedesco e Il serpente.
Biografia di Stig Dagerman (Älvkarleby, 5 ottobre 1923 – Enebyberg, 5 novembre 1954) è stato un giornalista, scrittore e anarchico svedese. Talentuoso, sensibile e libertario concluse la propria esistenza suicidandosi a soli 31 anni. Per la somma di questi fattori sopravvive tutt’oggi come figura mitica della letteratura svedese. È per molti versi un emblema della letteratura quarantista, capitanata dai celebri Karl Vennberg e Erik Lindegren.
In seguito all’abbandono da parte della madre nei primissimi mesi dopo la nascita e per la difficoltà del padre, minatore nei pressi di Stoccolma, di garantire le condizioni essenziali alla crescita, il piccolo Stig fu ospitato e cresciuto dai nonni paterni. Anche contrariamente a talune descrizioni biografiche, egli più tardi descrisse l’infanzia come l’epoca forse più felice della sua vita.
Nei nonni, similmente a quanto accadde allo scrittore austriaco Thomas Bernhard, trovò delle figure vivaci, rassicuranti ed intellettualmente stimolanti, dunque le prime condizioni per il futuro percorso intellettuale. L’uccisione del nonno nel 1940 da parte di uno squilibrato e, poco tempo dopo, la perdita della nonna colpita da una emorragia cerebrale, portarono Stig Dagerman a commettere il primo di una serie di tentati suicidi. Tempo dopo si sarebbe trasferito a Stoccolma dal padre.
A soli tredici anni poté avvicinarsi all’anarchismo e al sindacalismo. Iniziò precocemente l’attività di scrittore in seno all’Unione Sindacale Giovanile (Syndikalistiska Ungdomsförbundet) per poi elevarsi a redattore del giornale Storm (traducibile come La tempesta) e, ancora, a cura prevalentemente di fatti di cronaca, del giornale anarcosindacalista Arbetaren (L’operaio). Solo in seguito avrebbe potuto scrivere per le sezioni culturali.
Nel 1945 il primo romanzo, Ormen (Il serpente), avente per soggetto l’elemento del terrore, segnò il debutto di Stig Dagerman e l’immediato riconoscimento della critica a fronte del contenuto e dell’originale soluzione stilistica. Non passò troppo tempo perché egli si dimettesse dall’incarico di redattore da Arbetaren e si dedicasse a tempo pieno alla scrittura non giornalistica, per cui nel 1946 vide la luce De dömdas ö (L’isola dei condannati), uno dei suoi lavori più complessi, concepito nella casa di Strindberg a Kymmendö.
La produzione di Dagerman subì un’accelerazione. Nel 1947 comparve e fu messa in scena al Dramaten la prima pièce teatrale, Den Dödsdömde (Il condannato a morte), mentre raggiunsero la pubblicazione anche la raccolta di racconti Nattens Lekar (I giochi della notte) e l’intera serie di reportage dalla Germania dell’immediato dopoguerra, prodotti per Expressen (L’espresso) e riuniti nel volume Tysk höst (Autunno tedesco), vera consacrazione al grande pubblico.
Nel 1949 vide la luce Bröllopsbesvär, burla popolare dai tratti satirici; alla quale fece seguito una condizione esistenziale complessa, la separazione dalla prima moglie e una nuova unione con l’attrice Anita Björk, il rifiuto continuo delle proposte di lavoro da parte dell’editore e una lunga depressione terminata con il suicidio, il 5 novembre 1954. Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
– A cura di Claudio Bolzan -Zecchini Editore-Varese
Il curatore della Guida è Claudio Bolzan, Oltre 800 pagine, più di 150 compositori, 400 anni di musica, 450 monografie, 650 consigli discografici: è ciò che trovate nella poderosa e ponderosa Guida alla Musica da Camera.
«In un mercato fino a pochi anni fa asfittico, si inserisce questo nuovo passo di Zecchini Editore nella erigenda biblioteca della classica, iniziata nel 2010. Nella Musica da Camera ci si ritrova in mano uno strumento indirizzato dal curatore Claudio Bolzan a musicisti, insegnanti e semplici appassionati: nella prefazione l’autore spiega di non credere a quel tipo di manuali che “si leggono come romanzi”. [… ] In conclusione, una guida equilibrata e strategica, di facile consultazione, che offre la possibilità di scoprire compositori generalmente assenti da auditorium e discografie generaliste, ma anche le composizioni meno note dei grandi della musica […]». (Ferdinando Vincenzoni ,ANSA)
Guida alla Musica da Camera
A cura di Claudio Bolzan
Presentazione di Enrico Dindo
Hanno collaborato: Marco Angius, Davide Anzaghi, Nicola Cattò, Elena Filini, Edoardo Lattes, Stefano Pagliantini, Alessandro Solbiati, Massimo Viazzo.
Copertina cartonata – pp. XXVI+836 – formato cm. 15×21
Collana “Le Guide Zecchini, 4” – Euro 49,00
La musica da camera rappresenta senza dubbio la parte più cospicua e raffinata dell’intero repertorio musicale occidentale, percorrendo da cima a fondo la storia della musica dalla fine del ’500 all’età contemporanea e dando vita ad opere di fondamentale importanza, tali da rappresentare nel modo più completo le varie fasi e i vari movimenti succedutisi nell’arco di ben quattro secoli. Anche per questo tanto più indispensabile diventa una Guida che permetta di orientarsi con efficacia nel mare magnum di questo repertorio, selezionando gli autori più rappresentativi ed analizzando le loro opere più importanti, permettendo di penetrare nel loro interno e offrendo una conoscenza approfondita dei generi, delle forme adottate, dei più svariati organici (dal duo, al trio, al quartetto, con e senza pianoforte, fino alle formazioni comprendenti dieci e più strumenti). Tanto più necessaria diventa una tale Guida nel nostro Paese, data l’assoluta mancanza di un testo di questo tipo, organico ed esauriente, concepito per soddisfare l’interesse dei semplici appassionati, senza per questo trascurare il bisogno di approfondimento di chi è, invece, più addentro nelle conoscenze e nella pratica della musica. Se i primi troveranno gli autori più amati e la presentazione e l’analisi delle opere più celebri e frequentate in sede concertistica e discografica, i secondi potranno incontrare anche i personaggi meno noti, le analisi più ricche, i riferimenti più approfonditi e capillari, uniti ad un’ampia documentazione di prima mano, spesso presentata e tradotta per la prima volta nella nostra lingua.
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Considerazioni di Pierluigi Cappello<<La poesia sottolinea l’umano che c’è dentro di noi e sottolinea ciò che di umano è ancora rimasto nel mondo.>>
Pierluigi Cappello (Gemona del Friuli, 1967 – Cassacco, 2017), uno dei poeti italiani più popolari degli ultimi decenni.
Dopo esser rimasto paralizzato all’età di 16 anni a causa di un gravissimo incidente stradale, l’autore friulano ha sempre vissuto su una sedia a rotelle.
“Sapeva sorridere, di una risata dolce e contagiosa, di tutto, anche della sua condizione di disabile”, ha scritto il settimanale Avvenire dopo la sua morte, avvenuta all’età di 50 anni.
Tra i tanti riconoscimenti ottenuti per le sue opere c’è anche il premio Vittorio De Sica 2012 per la Poesia, ricevuto il 6 novembre di quell’anno nel palazzo del Quirinale dalle mani dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
“Sarei diventato poeta anche senza l’incidente, anzi di più, anche meglio”, rivendicava con orgoglio.
Ed a proposito del suo rapporto con l’ispirazione poetica, raccontava in un’intervista pubblicata dal Corriere della sera il 14 settembre 2014: “La poesia ti visita quando decide lei. È leggera e invadente insieme. Le parole non ti danno orari. Alcuni versi li scrivo di notte, poi di giorno li rivedo, li sistemo. L’alba è il momento migliore, quell’intervallo che c’è tra quando se ne va l’infermiere della notte e arriva quello della mattina.”
Pierluigi Cappello è stato anche segnalato all’Accademia di Svezia per una possibile candidatura al Nobel dal PEN Club, una delle istituzioni incaricate di individuare i letterati idonei al prestigioso riconoscimento.
La stessa associazione lo ha ricordato così in occasione della sua scomparsa: “Era prima di tutto un poeta ed ha imperturbabilmente -e potremmo dire eroicamente- affermato la primazia della poesia, affrontando col sorriso una vita difficile al punto da stroncare l’entusiasmo di chiunque ed insegnando a chi lo voleva ascoltare che la vita va riempita di contenuti. Nel mondo di oggi il suo messaggio poteva ben valergli il Nobel”.
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MATTINO
(Pierluigi Cappello)
Ho un acero, fuori casa, e tutto è lontano qualche volta tutto passa nelle cose senza contorno
ho un acero misterioso come una città sommersa
e guardare diventa le sue foglie,
l’ombra premuta
metà sulla strada metà nel giardino
la luce di ciascun giorno
dove le voci si appuntano e si disperdono.
Siamo l’acqua versata sulle pietre dei morti
sul filo teso tra la preghiera e il canto siamo la neve dentro le cose
Breve biografia di Antonio Francesco Perozzi è nato nel 1994 e vive a Vicovaro, in provincia di Roma. Il suo ultimo libro è Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022, introduzione di Pasquale Pietro Del Giudice, segnalato al Premio Montano 2021, vincitore del Premio Paolo Prestigiacomo Under 40 2022). Suoi racconti, articoli, poesie, lavori visivi e sonori, sono apparsi in riviste, antologie, giornali e blog. Collabora con Grado Zero, Polisemie, La Balena Bianca, lay0ut magazine e utsanga. Per Poesia del nostro tempo cura la serie di interviste “Dialoghi”. Gestisce a sua volta un blog di scritture, La morte per acqua, e conduce il podcast “Spara Jurij”.
Astigmatismo: alcune ipotesi
Per convincermi che andasse tutto bene
sono uscito alle quattro.
Ho raggiunto via Gonfo che è sollevata
tra campi brulli e pali della luce.
Che io veda delle macchie – ho pensato –
che io veda come dei vermi, tra la pupilla
e il mattonato, che abbia spesso mal di testa e spossatezza,
potrebbe voler dire qualcosa. Esempi:
– i diavoli mettono alla prova la nostra tenuta
a partire dalla salute
– la forma degli oggetti è un sogno
e io ho smesso di crederci
– l’acqua del nord-est contiene poco calcio
e questo conduce alla pazzia
Rientrando comunque ho bevuto.
La camminata mi ha messo sete e bere
è straconsigliato per i miopi.
*
Passeggiata + internet
Tenere in tasca uno Xiaomi produce cosmi.
Capita che attraverso il paese
da casa mia in collina fino alla piazza
e mi pare di avere Chernobyl sulla coscia, non lo so,
come un dio che chiuso Instagram si sparpaglia.
Incontro nell’ordine: due mucche, una Hyundai,
mia zia, certi che odio.
Ma chiunque saluto è niente
rispetto all’arcangelo quadrato che mi accompagna.
Così il vento mi batte le tempie e il mio cranio
ha trentamila anni, è un tipografo fiammingo;
in salita faccio fatica ma le mie ossa
le trapassa una freschissima Via Lattea.
*
Negozi ristrutturati
Posso fare un lungo elenco
di locali che non sono più come per lungo
tempo ho visto che fossero, entrandoci.
La Superal a Carsoli, la farmacia, eccetera.
E non è tanto il ricordo:
quando ci capito cerco in automatico
l’ingresso dal lato sbagliato, appaiono
macchine Hotwheels e Pokémon evanescenti
dove ora ci sono dentifrici e giochi nuovi.
Pensa essere sempre in viaggio e rimanere
di gesso se qualcosa cambia,
si ritrova cambiato, e la tua idea deperisce,
si squaglia come stagno sopra gli ultimi arrivi.
Quando esco sul piazzale, che è rimasto
lo stesso (sole + cemento), Graveler
mi coglie alle spalle: non esiste
più. Il suo pupazzo viene fuori dalle maglie
con scritto PYREX, che però sono strette,
incollate, nell’ex reparto giocattoli.
*
Fossalta
Vivere banalmente
è uno schioppo dalla Crai al bar,
una collezione di adesivi che alla fine
vinci un drago.
Fossalta, poca cosa
con un nome che non spiega
se va in basso oppure sopra, se
sul retro dell’Osteria Rialto è davvero la trincea
che si scavalca, o solo un dosso.
«HANNO SPARATO A HEMINGWAY»
lo scrivono dappertutto perché non è successo
nient’altro da ricordare: chiesa novecentesca,
modesta, una leggenda
sugli aironi. Così quando ritorno
la racconto in quattro frasi: «Come si vive?»
«Mese per mese, a contratto
determinato, passeggiando dieci minuti
sulla via principale.»
Al Roxy c’è il sole perché ha vetrate
larghe che trattengono il caldo. Torno indietro
e non trovo un minuto nel cervello
che mi abbia avvisato, magari nel sonno,
scendendo l’estate da un autobus,
rubando Lupo Alberto o vestendomi,
che alla fine sarei arrivato fin dentro
qua. In pochissima cosa.
*
Sfere metalliche in volo
Ho un’immagine che mi sono costruito da solo:
sono delle sfere di metallo
grandi, sospese
venti metri sulla zona coltivata.
Le vedo – nel pensiero – salendo
sul bus che costeggia il Piave.
Il Veneto si presta a scavare allegorie
di questo tipo nel cielo – ad esempio
il tramonto qui è cianotico,
blu-viola, basso, cloud, robe del genere.
Oppure i tralicci dell’Enel che svettano sul grano
ancora non uscito mi danno le idee
di segnali captati dall’altrove, messi a terra
e convertiti in acciaio.
Allora approfitto della situazione e moltiplico
le sfere contro la capacità
della corteccia cerebrale. Alla fine
ne faccio seimila; io e l’autista
ci inoltriamo fino alla gola
e niente è più traccia di niente.
Breve biografia di Antonio Francesco Perozzi è nato nel 1994 e vive a Vicovaro, in provincia di Roma. Il suo ultimo libro è Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022, introduzione di Pasquale Pietro Del Giudice, segnalato al Premio Montano 2021, vincitore del Premio Paolo Prestigiacomo Under 40 2022). Suoi racconti, articoli, poesie, lavori visivi e sonori, sono apparsi in riviste, antologie, giornali e blog. Collabora con Grado Zero, Polisemie, La Balena Bianca, lay0ut magazine e utsanga. Per Poesia del nostro tempo cura la serie di interviste “Dialoghi”. Gestisce a sua volta un blog di scritture, La morte per acqua, e conduce il podcast “Spara Jurij”.
Biblioteca DEA SABINA -La rivista «Atelier»
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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«Poeta degli oppressi»Ernesto Naso: così lo definisce Nino Agnello, figura di spicco della letteratura agrigentina degli ultimi cinquant’anni, concludendo la sua dotta rivisitazione di Ove rapina luce (1953), Gemito della creazione (1970) e Il grido degli oppressi (1976) che rappresenta il cuore del libretto*. In particolare, poeta degli oppressi del suo (e nostro) profondo Sud amato senza veli, contemplato nei violenti chiaroscuri della sua accecante bellezza e delle sue plurisecolari ingiustizie.
E tale è stato Ernesto Naso – pastore valdese del quale ricorrono quest’anno il novantesimo anniversario della nascita e il trentesimo della morte – non solo con le poesie delle tre raccolte appena menzionate e con altre pubblicate postume per l’occasione, ma anche con la sua predicazione, dal pulpito e «fuori tempio», per tutti coloro che hanno avuto il privilegio di incontrarlo, di leggerlo, di ascoltarlo, di intrecciare le loro biografie con la sua, dai suoi famigliari «secondo la carne» a quelli «secondo lo Spirito», dalla nativa Riesi – in quella Sicilia centrale che allora, soprattutto a causa del soffocante potere della mafia, rappresentava uno dei territori più miseri d’Europa – alle Puglie (Orsara e Taranto), da Bergamo alla Toscana (Pisa e infine Firenze) e, per brevi periodi, in altri luoghi.
Ne sono testimoni, fra gli altri, l’amico e fratello nel ministero Ennio Del Priore, ideatore e curatore del libretto; il figlio maggiore Paolo, autore dell’introduzione; il pastore Salvatore Ricciardi, del quale viene ripubblicato in calce il necrologio del 1986 per Ernesto; e pure, nel suo piccolo, il sottoscritto, che tramite Ernesto e Paolo Naso, attratto proprio dalla passione di entrambi per la causa degli ultimi, fin dalla sua adolescenza fu portato da Bergamo a conoscere e ad amare a sua volta, tutti insieme, il Mezzogiorno d’Italia, il protestantesimo e Gesù Cristo.
Come il professor Agnello non manca di puntualizzare nei suoi commenti, dal punto di vista stilistico la poesia essenziale, ma pure straordinariamente evocativa di Ernesto Naso è figlia della sua ricca cultura letteraria e in particolare delle sue frequentazioni dei grandi «ermetici» del primo Novecento: Quasimodo, Ungaretti, Montale e altri ancora. Ma la sua ispirazione, soprattutto nella scelta dei temi più ricorrenti – le pene, lo sfruttamento e l’ansia inappagata di riscatto di braccianti, operai e prostitute; la nostalgia degli emigrati per la terra d’origine, fatta di amore-odio; le grandi e le piccole violenze; guerra e pace; la denuncia dello sfacelo dell’ambiente naturale e l’anelito a una nuova creazione; fede e dubbio; mal di vivere e, nonostante tutto, mai soffocata speranza – è figlia della spontanea ribellione di uno spirito mite, umile e sofferto, ma pure convinto che chi crede nel Crocifisso risuscitato possa reagire positivamente all’altrimenti insopportabile contraddizione fra le tenebre del tempo presente e la luce del Regno che viene.
Luce che il pastore Naso sapeva cogliere per sé e riflettere per altri non solo con la lettura, lo studio e la predicazione della parola di Dio o con la sua creatività evangelizzatrice e diaconale, quest’ultima assai vivace soprattutto durante i 13 anni del suo ministero pastorale a Taranto e nella vasta diaspora di quella nostra chiesa, ma anche con la contemplazione delle meraviglie del creato, con la sua poesia e con la musica di Johann Sebastian Bach, della quale era maestro al pianoforte e che per lui era non solo arte nobilissima, ma anche sublime preghiera. Luce che splende anche tra le tenebre del nostro mondo di oggi, perché le tenebre non l’hanno mai sopraffatta, né riusciranno mai a sopraffarla.
La poesia di Ernesto Naso. 1926-1986, a cura di Ennio Del Priore, Domodossola, PrintGrafica Pistone, 2016, pp. 60, euro 12,00.
Presentiamo alcune poesie di Verónica Jiménez: PoesÍa De Chile
Verónica Jiménez (Santiago del Cile, 1964) dal libro Nada tiene que ver el amor con el amor, pubblicato da Piedra de Sol Ediciones a Santiago nel 2011, e da noi, a cura di Sabrina Foschini, nel 2014 con il titolo L’amore non ha niente a che fare con l’amore. Verónica Jiménez ha ricevuto nel 2013 il premio Migliore Opera Letteraria del Consiglio della Cultura del Cile, per il suo saggio Cantores que reflexionan. Cultura y poesía popular en Chile.
L’amore non ha niente a che fare con l’amore
non ha niente a che fare la sete con l’acqua che dirompe
né la primavera con il fiore che si stacca dallo stelo.
Sono solo esempi.
L’amore ha a che vedere con l’abitudine di guardarsi più volte negli occhi
ha a che vedere con l’abitudine
di cercare negli occhi avversi l’eco di un lampo
o parole gentili dietro le maschere severe del silenzio.
Non hanno niente a che fare con l’amore i prolungamenti dell’estate
né le foglie che si staccano esauste dagli alberi
neanche quelle che agli alberi si aggrappano come tarli.
È un esempio.
L’amore ha a che fare con una casa distrutta dalla pioggia
con stanze al buio e le pozzanghere
con le tristi camicie avvinghiate al vuoto dell’aria
con i maglioni senza scopo sospinti nel fuoco
con un paio di occhi soffocati nel loro specchio.
L’amore ha a che fare con l’abitudine di guardarsi negli occhi più volte
e riattizzare le fiamme delle pozzanghere più volte
e ospitare la pioggia nelle stanze buie più volte.
L’amore ha a che fare con la fuga dalle nostre case
col fondare nel fango una nuova città per metterci al riparo
col vestirci in nome dell’amore di una nuova ghirlanda di grandine
col rinnegare nel suo nome i frutti e gli alberi.
L’amore non ha niente a che fare con l’amore.
Non ha niente a che fare l’amore con le parole che feconda.
CORPI AVVERSI
La luce è sedentaria, l’oscurità
ci spinge in quattro direzioni
alla velocità del riso o dello spavento
Abbi il coraggio di incrociare i corpi avversi
anche se ti accorgi che i piedi
sono la contraddizione dei piedi
cercando marciapiedi transitori
nella notte. Va e penetra
nei loro corpi
e se qualcuno ti chiede di trattenerti
nel momento in cui le tue mani
contano mani e quanto hai toccato
è preso da un vento verticale
non lo ascoltare, abbi il coraggio
di abitare solchi avversi, come
il nottambulo fa migrare
quanto ha toccato
verso una luce che sprofonda
nella lampada spenta.
Comprendere all’improvviso
il luogo più propizio per il fiore
l’esatta commemorazione del petalo
che si sfoglia, cade e si dissolve
in un sogno senza più sussulti.
La consunzione dello scheletro
la crescita tenace delle unghie
senza altro scopo
d’immaginari graffi nel legno.
Il fiore perde i nettari che lo intridono
la carne si ripiega verso il ventre del nulla.
I miraggi della luce
sulle steppe solitarie della pelle.
Sotto il suolo
i rituali funebri dell’amore
lacerano le foglie.
Una stella bagna l’altra
come prima bagnava il corpo irrigidito.
Acque di dolore, germoglio
estirpato.
Con la luce degli astri costruisce una lanterna
per cercare sotto le ceneri
statue immobili o cadaveri in movimento:
questo è un braccio e giace aggrappato alla lampada
questi sono gli occhi avvezzi a guardare all’interno.
La bocca lancia pietre nel precipizio
e il corpo
si svuota di tutti i nomi.
Il corpo tenta di entrare in quello che rimane
quando finisce l’accoppiamento degli astri.
Traduzioni di Sabrina Foschini
Verónica Jiménez (Santiago del Cile, 1964) dal libro Nada tiene que ver el amor con el amor, pubblicato da Piedra de Sol Ediciones a Santiago nel 2011, e da noi, a cura di Sabrina Foschini, nel 2014 con il titolo L’amore non ha niente a che fare con l’amore. Verónica Jiménez ha ricevuto nel 2013 il premio Migliore Opera Letteraria del Consiglio della Cultura del Cile, per il suo saggio Cantores que reflexionan. Cultura y poesía popular en Chile.
Roma-L’Academia Belgica e Montoro12 Gallery sono liete di presentare ROA – Animal Gaze all’Accademia Belga di Roma. Dopo aver esposto una delle sue opere nella mostra Animal Power alla Montoro12 Gallery di Bruxelles nell’autunno del 2023, ROA è stato invitato a lavorare presso la Montoro12 Artist Residency di Roma, dove ha realizzato un nuovo corpo di opere appositamente per questa mostra, visitabile dal 16 ottobre al 5 novembre 2024.
Nato in Belgio, ROA è considerato uno dei più importanti artisti murali contemporanei. È noto soprattutto per i suoi enormi dipinti di animali su edifici di tutto il mondo: a Roma si può ammirare la sua famosa Lupa a Testaccio e il suo cucciolo d’orso orfano, che tiene in mano il dardo anestetico che ha ucciso sua madre, sulla facciata del Mercato Vittoria in Prati.
Per questa mostra ROA presenta una nuova serie di animali dipinti su metallo e legno riciclati, alcuni provenienti da vecchi mobili, come un armadio art déco o il piano di un tavolo di legno a 12 lati ai quali lui da una nuova vita. In genere ROA ritrae la fauna selvatica della zona in cui sta lavorando; infatti la maggior parte degli animali presentati si trova all’interno o nei dintorni della Residenza d’artista, come volpi, picchi, cinghiali e molti altri. Il suo stile caratteristico è una resa meticolosa dell’animale in bianco e nero, con grande attenzione ai dettagli, a volte aggiungendo un’altra dimensione con parti interattive che possono aprirsi e rivelare organi interni come il cuore, l’apparato digerente o il cervello in un colore vibrante. Il tocco finale del dipinto è anche il più importante: la rappresentazione degli occhi dell’animale, la luce che riflette “la finestra dell’anima“.
Il titolo della mostra, Animal Gaze, si riferisce a un termine coniato per la prima volta dal filosofo francese Jacques Derrida nella sua raccolta di saggi L’animale che dunque sono: “Non c’è, a mia conoscenza, nessuna attenzione mai data seriamente allo sguardo animale…“. Derrida sfida il tradizionale binomio uomo-animale, in cui l’uomo è visto come soggetto dominante, mentre l’animale è oggetto di osservazione. Secondo la nozione di sguardo animale, gli animali osservano e rispondono al comportamento umano, testimoniando l’impatto dell’attività umana sul mondo naturale. Dare un’impronta all’animale come soggetto che guarda piuttosto che come oggetto che viene guardato, è esattamente ciò che ROA fa nelle sue affascinanti opere.
Gli animali di ROA sono unici. Le loro grandi dimensioni, le pose insolite (talvolta dettate da supporti irregolari) e le forti espressioni facciali alludono al fatto che ognuno di questi animali è un individuo. Attribuendo agli animali qualità simili a quelle umane, come emozioni o intenzioni, l’opera di ROA suggerisce che gli animali non sono semplici osservatori passivi, ma agenti attivi nell’ecosistema. In questo modo, l’artista incoraggia gli spettatori a rivalutare il loro rapporto con gli animali e il mondo naturale e a riconoscere l’interconnessione di tutti gli esseri viventi.
La carriera incredibilmente prolifica di ROA come artista di murales in giro per il mondo è testimoniata dalla sua recente pubblicazione “ROA Codex“, che sarà disponibile in vendita durante la mostra.
Mostra: ROA. Animal Gaze
Apertura: 16/10/2024
Conclusione: 05/11/2024
Organizzazione: Academia Belgica e Montoro12 Gallery
Introduzione di Sabrina Campolongo. Postfazione di Valérie Cossy.
Descrizione-del libro di Alice Rivaz- “La pace degli alveari“-Credo di non amare più mio marito”. Così si apre il diario segreto di Jeanne Bornand, moglie e lavoratrice, donna che è stata amante e amata e che si ritrova, ancora giovane ma vicina a non esserlo più, faccia a faccia con la sua estraneità alla vita cui le sue scelte l’hanno condotta. A finire implacabilmente sotto accusa è il matrimonio, nella sua prosaicità, nel suo insanabile scollamento dall’amore, ma una volta cominciato sembra che Jeanne non riesca più a fermarsi. L’intera società degli uomini, di cui le donne sono al tempo stesso vittime e complici, finisce sotto la sua critica spietata, tanto più feroce perché tinta della più lucida ironia”.
In tanti anni di femminismo, di teorie e pratiche, mai ho incontrato pagine di una consapevolezza così profonda e insieme di una capacità di nominare l’innominabile della relazione tra uomini e donne, nella quotidianità dei matrimoni come nella vita pubblica, così libera, diretta, felicemente senza remore e coperture.
Verità, svelamenti, messa a nudo impietosa, senza nascondere le ambiguità e le contraddizioni che passano attraverso la violenza invisibile del patriarcato.
Un frammento:
“Non l’avevamo previsto, il lavoro notturno degli aviatori, le bombe sopra i lettini dei bambini, sulle cucine a gas, sulle mensole con i libri. Non avevamo previsto niente, noi donne; come sempre li abbiamo lasciati fare; che si minacciassero, che sfilassero in parata, che venissero alle mani. Siamo rimaste a guardarli mentre si scatenavano. È proprio quello che, da madri, reprimiamo nei nostri figli piccoli, che ammiriamo nei nostri bambini diventati uomini. Quel gesto che meriterebbe il biasimo, se non una sberla, basta che il ragazzino sia diventato adulto ed ecco che le donne gli danno un altro nome. Come le parole “crudeltà” e “violenza” che diventano di colpo coraggio o eroismo.
(…)
Noi facciamo e loro disfano. Disfano persino, poco alla volta, le loro stesse teorie, rimpiazzando il credo di una generazione con quello di un’altra, cercando nomi sempre nuovi per giustificare le loro dementi carneficine.
E noi, invece di dire “Altolà!”, noi ancora ci sforziamo di seguirli, di comprenderli, di ottenere da loro delle attestazioni di devozione, e questo al fine di piacergli.”
“Quella complicità tra i sessi, se ne conosce fin troppo bene la causa, tuttavia non è per forza inevitabile…”
*Alice Rivaz, “La pace degli alveari” pagina uno 2019, pag.80
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