Roma- Al Teatro Lo Spazio va in scena Se io non “avrei” te,
spettacolo di Marco Di Iulio- regia di Marco Simeoli
Roma-Debutta al Teatro Lo Spazio, dal 17 al 20 ottobre, SE IO NON “AVREI” TE, spettacolo di Marco Di Iulio con la regia di Marco Simeoli. Una commedia che racconta con dinamicità e ironia l’eterno conflitto con la nostra coscienza e la quotidiana lotta con l’altro che cerca di entrare nella nostra intimità e si mette in gioco nella relazione.
Una coppia, quattro storie. Quattro attori, Patrizia Ciabatta, Giordana Morandini, Teo Guarini e Francesco Stella, due vite. Una relazione, quattro versioni. Quattro punti di vista, uno scontro.
Nell’atavico scontro uomo – donna, universo femminile e maschile, marito – moglie, coppia di fatto o altro che sia, in “Se io non avrei te” i personaggi si raddoppiano rispetto alla tradizione.
“Tra momenti emozionanti e irresistibili scontri come solo nelle vite di chi si vuol bene ci sono, la storia si snoda in una divertente complessità, in un’aulicità’ abbastanza singolare, in un’evanescenza ed al contempo in una crudelissima realtà che sono i motivi che mi hanno portato a voler dirigere questa folle commedia con la speranza alla fine delle prove, se non al debutto, di capirci qualcosa in più, soprattutto su quanti e chi sono in scena. 4 o 2 no 2 ma so’ 4 ma chi…boh!“_ annota il regista Marco Simeoli.
“Se io non avrei te” è uno spettacolo comico che racconta con dinamicità ed ironia l’eterno conflitto con la nostra coscienza e la quotidiana lotta con l’altro che cerca di entrare nella nostra intimità e si mette in gioco nella relazione, analizzando al microscopio una relazione di coppia, prendendo in considerazione anche i rispettivi dialoghi interiori.
Ognuno di noi è abitato dentro da diversi personaggi.
Molti psicologi teorizzano che in un individuo ci siano tante persone che parlano.
Spesso ci succede di litigare con noi stessi, di non parlarci, di sostenerci, di incoraggiarci. Capita spesso di scherzare o di ritrovarsi a ridere con sé stessi.
La storia è semplice: due personaggi Lui e Lei. Lui conosce Lei, i due si innamorano, poi vanno a vivere insieme, poi litigano, poi Lui esce con un’altra, poi Lei se ne accorge, i due litigano, Lei caccia di casa Lui, alla fine Lui fa di tutto per farsi perdonare ed alla fine Lei lo perdona per poi vivere felici e contenti.
Il tutto accompagnato da altri due personaggi Colui e Colei, la Coscienza di lui e la Coscienza di lei che aiuteranno, consiglieranno e sosterranno questa strampalata storia d’amore.
Il pubblico entra in empatia con i personaggi e vive insieme a loro questa giostra amorosa, con i suoi alti e bassi, vive insieme agli attori questa scena senza tempo e senza luogo, dove tutto scorre ed il focus è sull’evoluzione e l’involuzione della relazione amorosa, dove l’obiettivo di tutti è proprio quello di stare bene con sé stessi e con l’altro, di essere felici e contenti.
Informazioni, orari e prezzi
Teatro Lo Spazio
Via Locri,42
informazioni e prenotazioni
06 77076486 / 06 77204149
info@teatrolospazio.it
Spettacoli: Giovedì e venerdì ore 21.00, Sabato ore 18, Domenica ore 17
prezzo biglietto: 15 euro – ridotto: 12 euro
(bar aperto per aperitivo dalle 20.00)
«una certa dose di meledicenze, un po’ di veleno, alcuni aneddoti e pettegolezzi… Scrivo del mio tempo» Sergej M. Ejzenstejn
«Ma c’è stata la vita?…Si direbbe ci sia stata. Vissuta in modo acuto, allegro, doloroso, addirittura vivida in alcuni momenti,indubbiamente pittoresca, e tale che non la cambierei con nessun’altra» Sergej M. Ejzenstejn
Il bisogno di scrivere prende forma precocemente in Ejzenstejn, che sin dal 1917-1918 annota in quaderni e su foglietti improvvisati ogni sorta di riflessione: da considerazioni sul teatro a impressioni tratte dalle letture fatte, da divagazioni filosofiche a piccoli aneddoti buffi.
Nel 1946, sulla soglia dei cinquant’anni, mentre si accinge a scrivere le proprie memorie, egli nota come per tutta la vita, nel suo lavoro, si sia occupato «di opere à thèse» dimostrando, spiegando, insegnando. Mentre «qui», dichiara, «voglio girovagare per il mio passato, come amavo fare per antiquari e rigattieri del mercato Aleksandrovskij a Piter, per i bouquinistes dei lungosenna a Parigi, per Amburgo o Marsiglia di notte, per le sale dei musei delle cere».
Ecco allora che in queste pagine letture e stralci di vita vissuta s’intrecciano; Dumas e Hugo, Zola e Balzac si profilano nelle sale borghesi della casa paterna, Maeterlinck e Schopenhauer si stagliano sullo sfondo della guerra civile, le città d’Europa e d’America sono evocate ora attraverso incontri fortuiti con artisti di fama, da Pirandello a Cocteau, da Zweig a Joyce, ora tramite associazioni libere con temi ed eventi storici legati ai luoghi visitati: la polizia americana e francese e le tecniche del romanzo giallo, le millenarie piramidi dello Yucatan e la Chiesa ortodossa medievale, gli esordi teatrali e cinematografici a Riga e Pietrogrado, i ricordi d’infanzia sul Baltico, le prime impressioni della Rivoluzione, il fronte e la guerra civile nella Russia bianca, le emozioni per i successi professionali all’estero e in patria, i viaggi… Così la vita del grande regista «sfreccia nella memoria come un film con dei vuoti, dei pezzi spariti, con scene incollate in modo sconnesso, come un film la cui “idoneità alla distribuzione” sia pari al trentacinque per cento».
Eppure, lo scrittore Ejzensˇtejn non ci ha mai parlato in modo così chiaro. Giacché solo qui, e forse nei primi giovanili appunti «per sé», egli scrive senza altra finalità se non quella, appunto, di «scrivere». Nei suoi intenti c’è dunque l’idea di afferrare, tramite la scrittura, episodi, incontri, attimi,
immagini di quella vita che spesso noi tutti «percorriamo al galoppo, senza guardarci intorno, come un trasbordo dopo l’altro», e dalla quale, «come dal finestrino di un treno, sfrecciano via frammenti d’infanzia, pezzi di gioventù, scampoli di maturità».
È lui stesso, in apertura delle Memorie, ad annotare: «Come vorrei esaurire il capitolo riguardante la mia vita con tre parole! “Visse, meditò, si appassionò”. E che queste pagine possano servire a descrivere ciò di cui ha vissuto, su cui ha meditato e a cui si è appassionato l’autore».
Biografia di Sergey Michajlovic Ejzenstejn (1898-1948), massimo interprete del cinema russo e geniale innovatore della teoria cinematografica, iniziò il suo lavoro creativo come scenografo e regista teatrale (Il messicano, 1920-21; Anche il più saggio sbaglia, 1923; Mosca ascolti?, 1923; Maschere antigas, 1923-24). Il suo primo film è Sciopero (1924). Seguono: La corazzata Potëmkin (1925); Ottobre (1924); Il vecchio e il nuovo (La linea generale) (1926-29); Qué viva Mexico! (1930-31), incompiuto; Il prato di Bezin (1937), incompiuto; Aleksandr Nevskij (1938); Ivan il Terribile (I parte 1944, II parte, nota col titolo La congiura dei Boiardi, 1946). Dal 1928 fu anche insegnante di regia all’Istituto statale di cinematografia. Nel 1940 mise in scena La Valchiria di Wagner al teatro Bol’soj di Mosca. Al lavoro creativo di Ejzenstejn si affianca, fin dall’inizio, una straordinaria produzione di testi teorici nei quali l’indagine sul cinema si svolge, di regola, nel contesto di una penetrante riflessione sull’arte che oggi possiamo considerare senz’altro come uno degli episodi salienti del pensiero estetico moderno.
Giacomo Leopardi-la vita raccontata nel film di Mario Martone
Articolo di Alberto Corsani
Per cogliere gli accenti più evocativi del film su Giacomo Leopardi di Mario Martone «Il giovane favoloso», bisognerebbe ascoltare il cd pubblicato nel 1998 da una rivista periodica, che contiene i più celebri «Canti» leopardiani letti da Arnoldo Foà. Il decano degli attori italiani, scomparso lo scorso gennaio, dava una lettura inaspettata di quei testi così celebri e celebrati, fino alla noia proposti agli studenti con il condimento di commenti a volte banalizzanti: una lettura piana, discorsiva, affatto enfatica, perché il contenuto espressivo dei «Canti» è di per sé evocativo, ed essi non richiedono enfasi, anzi richiedono un atteggiamento «amichevole» da parte di chi legge e di chi ascolta.
Ecco, questo era il tono che forse Leopardi ha vanamente inseguito per tutta la sua (breve) vita: il Leopardi interpretato da Elio Germano per il film Martone vive, anzi sopravvive a se stesso, proprio nell’impossibilità di un dialogo disteso e confortevole con chi gli sta attorno e con l’ambiente che lo circonda. Non è, e non può essere, affettivamente coinvolgente il rapporto con un padre immerso nell’astrattezza degli studi, creatore di una biblioteca straordinariamente utile alla formazione dei figli quanto distruttiva della loro infanzia e adolescenza; la madre, così come è descritta, chiunque la vorrebbe dimenticare, anche il vicino di casa, a cui muore la figlia che dalla finestra portava un raggio di luce a Giacomo, e che si sente dire da questa donna tutta fede: è un giorno di gioia quello in cui qualcuno raggiunge Dio.
Ma anche con la natura, che il poeta ha cantato con toni inarrivabili, Giacomo non ha un rapporto accettabile: non solo perché, come emerge dal «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia» e dal «Dialogo della Natura e di un Islandese», essa si presenta ostile nella visione filosofica del recanatese (sulle differenze di visione tra Leopardi e il Manzoni «vicino» a una visione protestante, che considera cioè l’origine del Male più nell’uomo che nella natura, ha molto ben scritto Sergio Givone nel suo libro «Metafisica della peste», Einaudi 2012); nell’invenzione cinematografica di Martone sono gli stessi ambienti, i paesaggi in cui il giovane Giacomo trasmigra ogni volta che riesce ad allontanarsi dalla prigione parentale, a risultargli estranei, pur essendo oggetto dei suoi versi. Qualunque regista di film d’amore o d’avventura si sarebbe premurato di far tagliare il manto «all’inglese», perché facesse da sfondo e non disturbasse lo svolgimento dell’azione. Invece qui i boschi sono disordinati, l’erba è alta, gli sterpi non hanno niente di evocativo, gli intrecci fra i rami si presentano come in effetti sono nella realtà: casuali e privi di senso (fatta salva l’anima biologica della pianta) agli occhi umani. In genere il paesaggio di sfondo precede l’arrivo di Giacomo, che si staglia come una «silhouette», ma sempre estraneo.
Giacomo trovava dentro di sé il senso che mancava alla Natura. Ma dando un senso alla Natura, il giovane poeta perdeva il senso del suo vivere con gli altri. I suoi incontri sono quasi sempre sconfitte: a parte l’impossibilità di avere a che fare con l’altro sesso (l’aspetto non sbagliato ma più scontato del film), anche le presunte amicizie (salvo quella con Antonio Ranieri che, letteralmente, se lo carica sulle spalle come Enea con il padre Anchise, quando Giacomo non riesce a salir le scale) sono tutte strumentalmente concepite dagli interlocutori, sono vacue, accendono nel giovane speranze destinate al nulla. Il circolo fiorentino dei liberali, fra cui spicca uno sprezzante Niccolò Tommaseo, riduce all’ambito politico la considerazione di un poeta mai cresciuto come uomo.
Questa è la condanna di Giacomo: interiormente, fisicamente, sentimentalmente mai compiuto, vede con la mente troppo avanti. E vedere avanti significa anche mettere sul gradino più alto dei concetti quello del dubbio. Ovvio che l’ambiente bigotto di famiglia e di Recanati gli andasse stretto fin dall’adolescenza. Ma ovvio anche che i «progressisti» non potessero accompagnare la sua ansia di senso e di infinito, destinata a non mai risolversi. Non cambia la situazione essere a Firenze o a Roma o a Napoli. Il destino di questo giovane uomo troppo geniale è di saper contemplare e saper interpretare la realtà, senza credere in Dio e ponendo dei grandi limiti alla ragione umana. Così egli diventò un moderno, un uomo che si scopre non adeguato (Kafka arriverà solo un secolo dopo …), che trova un senso universale in uno sguardo dentro di sé, provvisoriamente collocato al di là di una brutta siepe su un colle anonimo come tanti altri. Ma sempre senza lasciarsi coinvolgere dalla realtà stessa: fosse andata diversamente saremmo stati privati di un eccelso poeta e pensatore, e Giacomo sarebbe stato più felice.
Descrizione del libro di Pier Giorgio Zunino –Gadda e Montale sono stati certamente due dei maggiori scrittori e poeti del Novecento italiano. Ma quale fu il loro atteggiamento nei confronti del fascismo? Come attraversarono il Ventennio? Quali compromessi furono costretti ad accettare? Da un lato, Gadda aveva coraggiosamente combattuto su tutti i fronti della Grande guerra, spinto da una forte passione nazionalpatriottica, e si era riconosciuto nel movimento fascista, provvidenziale difesa ai rischi della rivoluzione bolscevica. Dall’altro, Montale seguì un percorso meno lineare, dapprima condividendo i miti del combattentismo e le lusinghe del fascismo, ma allontanandosene già nel 1923, come testimoniano alcuni scambi epistolari. Con l’addentrarsi negli anni Venti entrambi vennero esprimendo un orientamento convergente, oscillante tra una sostanziale indifferenza per il fascismo e l’antifascismo. Ma gli anni Trenta, con la guerra d’Etiopia e il terribile biennio 1938-1939, li posero di fronte a scoscesi aut aut che portarono entrambi ai duri giudizi sul regime e gli italiani. Da qui le parole di fuoco di Gadda e di Montale contro un regime guidato da un ‘eredo-alcoolico’ e una società nella quale ‘più nessuno è incolpevole’. Un libro che affascinerà il lettore per le sorprendenti scoperte, frutto di un lungo lavoro d’archivio e dello studio di una imponente bibliografia.
L’autore
Pier Giorgio Zunino ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni, per il Mulino: La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1945) (2 volumi, 1975 e 1977); L’ideologia del fascismo (1985); La Repubblica e il suo passato (2003); Caporetto 1917. A un passo dalla “finis Italiae”? (a cura di, 2020). Ha inoltre scritto saggi per riviste italiane e straniere e volumi collettanei e ha curato gli Scritti politici di Alcide De Gasperi (Feltrinelli 1979) e le Lettere (1919-1942) di Piero Martinetti (Olschki 2011). Per Laterza è autore di Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime (1991).
A padre Francesco Guerello s.J.
Indimenticabile professore di liceo
e maestro di moralità civile
(Portofino, 1929-Gallarate, 2021)
Questo lavoro non sarebbe mai giunto a compimento senza l’aiuto di mia moglie Jela, non solo lettrice attenta e correttrice accanita delle infinite redazioni; ringrazio del pari i miei tre figli, Paolo, Valeria e Claudia, pazienti ascoltatori delle mie consuete «lezioncine».
«[…] un senso nascosto e superiore, che fa riferimento in un modo o in un altro a qualche carattere dell’identità umana […] una sorta di vocazione alla resistenza morale e virile: non un’ideologia, per carità, né tanto meno un credo politico. Ma la forza potenzialmente invincibile del proprio essere se stessi, diversamente dagli altri, se necessario, contro tutto […] stare dentro un sistema di regole, accettato e vissuto fino in fondo, – una “fede”, appunto – che ci salva, o almeno ci protegge, dalle disillusioni, dall’avvilimento individuale»
Alberto Asor Rosa, L’eroe virile. Saggio su Joseph Conrad
Introduzione
I Gadda e i Montale
Nel maggio del 1915, quando l’Italia si gettò nella prima guerra mondiale a fianco della Gran Bretagna, della Francia e della Russia, Gadda e Montale avevano 22 e 19 anni. Il breve scarto di età non era allora poca cosa. Mentre Eugenio si aggirava ancora, senza farsi soverchio onore, tra i banchi degli ultimi gradi della scuola secondaria, Gadda già si stava allontanando da quella stagione della vita che si definisce prima giovinezza, e che conradianamente solo una indefinibile linea d’ombra separa dalla maturità. Dopo avere brillantemente completato i suoi studi liceali a Milano, frequentava dal 1912 le lezioni di preparazione ai corsi politecnici, che, finita la guerra, con solo sua parziale intima adesione lo avrebbero consegnato al rango di ingegnere in elettrotecnica. Era questa una qualificazione professionale che possiamo immaginare quanto fosse rara nell’Italia del tempo e che di fatto già lo destinava agli strati più elevati della società. Montale, invece, una volta districatosi dalle barriere scolastiche non avrebbe fruito di alcuna formazione universitaria (di quattro fratelli solo uno era destinato a laurearsi, il maggiore). Il futuro di Eugenio, che solo astrattamente era tutto nelle sue mani, era quello di entrare in affari tramite l’azienda di famiglia.
Tra il lombardo e il genovese correvano alcune altre sensibili asimmetrie sociali. Mentre i Montale godevano di una certa larga agiatezza di origine relativamente recente, al contrario, la famiglia di Carlo Emilio aveva radici ben più antiche ed illustri, e tuttavia il padre Francesco Ippolito, che in seconde nozze aveva sposato una insegnante di origini ungheresi, Adele Lehr, in affari ebbe scarsa fortuna. A causa di poco felici intraprese tentate nel campo del commercio della seta, un settore colpito da numerose crisi internazionali, le sostanze di quel ramo dei Gadda andarono progressivamente assottigliandosi. Di fatto, il padre lasciò agli eredi un patrimonio in progressiva riduzione, che alla sua precoce morte avvenuta nel 1909 sarebbe stato gravato più da debiti da onorare che di redditi di cui godere. Sostanze che si erano fatte ancora più esigue a causa della bizzarra decisione paterna di costruire una pretenziosa villa in Brianza, del cui molteplice intrico di debiti, tasse, complessa gestione dei fittavoli, ipoteche, quote ereditarie non si sarebbe liberato prima del 1936, allorché vendette quella proprietà all’indomani della morte della madre. Tuttavia il suo status sociale, e i correlativi tratti mentali, o se vogliamo ideologici, non ne erano stati immediatamente intaccati. Gadda si sentì e agì a lungo come colui il cui cognome, verso il passato, riportava a un nonno celebre avvocato milanese e, soprattutto, a uno zio prefetto e senatore del regno, ragguardevole attore dell’epoca risorgimentale. Quel Giuseppe Gadda, infatti, dopo una attiva partecipazione alle cinque giornate era stato membro del governo Lanza-Sella che il 20 settembre aveva portato il tricolore a sventolare su Roma e nel dicembre successivo aveva goduto della prestigiosa distinzione di accompagnatore ufficiale nella presa di possesso del Quirinale da parte di Vittorio Emanuele II. Verso il presente, e non privo di durature proiezioni nel futuro, si era aggiunto il riverbero della parentela acquisita tramite il matrimonio di un altro zio con Tilde Conti, detta comunemente «zia Tilde», sorella del magnate dell’industria elettrica Ettore Conti, presto assurto a essere uno dei protagonisti della scena economica italiana.
Le pur sofferte esperienze lavorative sperimentate da Gadda a far tempo dai primi anni Venti lasciano intravedere l’ombra protettiva del fondatore, tra l’altro, della Edison e ispiratore di varie altre importanti attività imprenditoriali che lo fecero ascendere a posizioni di grande rilievo nell’establishment fascista, trascorsi che, tuttavia, avrebbero originato un suo curioso infortunio scrittorio. Nei confronti di quella ingombrante parentela Carlo Emilio avrebbe sempre mostrato alterni sentimenti, punteggiati qua e là di qualche acida notazione all’indirizzo dei «pescecani», come venivano denominati coloro che sulla guerra avevano creato estese fortune e che un vignettista di genio, il socialista Scalarini, per anni additò al ludibrio collettivo dalla prima pagina dell’«Avanti!». I rapporti personali di Carlo Emilio con «l’ultra pescecane» Ettore Conti, se così possiamo esprimerci, dovettero comunque essere piuttosto cordiali. La attività letteraria di Carlo Emilio, come del resto quella di Montale, a Conti non fu sconosciuta, e pure dovette sapere degli ottimi rapporti che intercorrevano tra i due letterati e il cugino Piero Gadda, suo nipote, a cui il grande industriale avrebbe trasmesso nel 1939, insieme al cognome arricchito di un titolo nobiliare, non piccola parte delle sue immense fortune. Gadda, per parte sua, nel 1934 dedicò Il castello di Udine a Tilde Conti,venendone autoironicamente ricambiato nel 1946 dal di lei fratello Ettore che gli avrebbe dedicato una copia del suo presunto diario di cui abbiamo detto con queste autoironiche parole «A Carlo Emilio Gadda, apprezzatissimo collega, un giovane autore! Ettore Conti».
I Montale appartenevano invece a una media borghesia che, anch’essa, si sarebbe apprestata a godere dei benefici di quello straordinario impulso economico che accompagnò la partecipazione italiana alla Grande guerra. Il padre del futuro poeta, Domenico, detto Domingo, con la moglie Giuseppina Ricci, sorella poco acculturata di un avvocato che sarebbe stata sempre assai sensibile ai travagli dell’ultimogenito, avevano dato vita a una famiglia che contava cinque figli, di cui Eugenio era il più prossimo di età all’unica sorella, che lo sopravanzava di due anni. I vari nuclei dei Montale godevano della agiatezza derivante dalla attività della «G.G. Montale e C. – prodotti chimici e generi di tinta», una delle tante piccole imprese in progressiva crescita che avevano fatto da corona al take off italiano che, pur tardivamente, si era manifestato a cavallo tra i due secoli. Fondata, sembrerebbe nel 1885, dal prozio di Eugenio, Giovanni Giuseppe, era condotta dal figlio di questi, Domenico detto Nonnin, insieme ad altri parenti, tra i quali vi era il già citato padre del futuro poeta. Ma sull’avvenire di Eugenio, della sorella e dei tre fratelli, che costituivano la quarta generazione la cui sicurezza di vita derivava dai redditi prodotti dalla medesima impresa, non mancava di profilarsi qualche ombra. In particolare il fatto che attorno allo stesso cespite economico e sulle proprietà che gli facevano da corona si affollasse un numero imprecisato di zii e di cugini. Per intanto, con la guerra quella impresa la cui ragione sociale era il commercio di sostanze chimiche, e cioè prodotti in vario modo essenziali all’economia bellica, avrebbe visto crescere di non poco il suo giro d’affari. I Montale, allo scoppio del conflitto, erano dunque espressione di una borghesia commerciale in rapida evoluzione, il cui orizzonte ideale non poteva che essere quello offerto dallo stato liberale e dalla sottostante società e che, nell’immediato, avrebbe legato le proprie fortune di ceto alla partecipazione italiana alla guerra europea scoppiata nell’estate del 1914.
Rispetto a Carlo Emilio Gadda, alla sorella Clara e al fratello Enrico, a cui si sarebbe aggiunta la sorellastra Emilia, nata dal primo matrimonio del padre, i Montale erano frutto di più fresche energie, meno gravate dal peso del passato o di un ingombrante presente. Ma la più vistosa differenza tra gli anni giovanili vissuti da Carlo Emilio e quelli di Eugenio fu la importante presenza nella vita del genovese di una sorella che un nutrito carteggio con una amica si rivela ai nostri occhi una donna provvista di un forte carattere e di non comuni doti intellettuali. Qualità che ebbero un ruolo importante nel dare forma all’atteggiarsi di Eugenio di fronte alla vita, risultando la sua influenza particolarmente rilevante durante la prima guerra mondiale. Fratello e sorella, stretti da un legame affettivo assai intenso, avrebbero costituito una sorta di famiglia nella famiglia, segnata da forti interessi culturali e da continui scambi di riflessioni stimolate dai numerosi libri di diverse provenienze che passarono per le loro mani.
Tutto ciò detto, per vie misteriose le vite di Gadda e di Montale ebbero modo di incrociarsi mostrando di avere in comune più di qualche tratto che andremo via via discoprendo. Ma qui se ne additerà per intanto uno decisivo, e cioè la diuturna lotta per tentare di preservare spazi di autonomia a favore della loro vocazione letteraria rispetto alle necessità di vita che li costrinsero di frequente ad accettare lavori che nulla avevano a che fare con ciò che chiamavano lo «studio», cioè la tradizione culturale che essi consideravano la premessa essenziale della loro attività letteraria. Allo stesso tempo, sia l’uno sia l’altro non poterono non venire a patti con il contesto politico-sociale che aveva steso sull’Italia una ferrea trama dittatoriale. Per Gadda, solitamente, ciò non presentò in molti momenti della sua vita sotto il fascismo assoluti impedimenti ideali, viste le sue endogene inclinazioni patriottiche e la conseguente iniziale franca adesione al movimento delle camicie nere. Ma addentrandosi nel Ventennio anche la tonalità del suo filofascismo subì modifiche di tono e variazioni di intensità venendo a rasentare, verso la fine degli anni Venti, un vago dissenso, sia pure espresso solo in interiore. Così, sotto diversi riguardi il confronto con il fascismo fu il comune basso continuo che animò due vite che cercarono, quale più quale meno, di affrancarsene, ciò che poteva riuscire solo in minima misura. Questi motivi dànno materia a un filo rosso che percorre l’intero svolgimento della nostra narrazione biografica, che non può che testimoniare la singolare condizione dei due grandi letterati che venivano da orizzonti familiari all’origine segnati dalla luce del privilegio, e che invece, nel farsi del tempo, sfiorarono condizioni di vita che rasentarono l’indigenza. Alla quale, paradossalmente, fu esposto più Gadda che Montale. Paradossalmente perché l’ingegnere possedeva titoli e competenze assai ricercate e che sotto molti punti di vista, al di là delle sue lamentazioni, esercitarono su di lui un mai dismesso fascino. Ma quei lavori che sarebbero stati una agevole fonte di sicuri compensi erano tuttavia impieghi così impegnativi e totalizzanti che esigevano una dedizione completa che era del tutto incompatibile con una seria attività intellettuale, quale lui la intendeva. La situazione di Montale, ancorché gli fosse sconosciuto ogni minimo interesse per il lavoro bancario, la naturale destinazione dei suoi studi, si presentava, alla resa dei conti, poco diversa. In un certo senso si potrebbe dire che il loro ventennio fascista li espose a una duplice dittatura, quella politico-sociale, ma anche quella delle lettere come irresistibile vocazione e quale obbligante scelta etica.
Il 24 maggio 1915
Allo scoppio della guerra europea, e più ancora un anno più tardi, all’entrata nel conflitto da parte dell’Italia, il profilo politico-civile di Gadda si manifestava come già nettamente orientato nella direzione di spiccatissime suggestioni nazionalpatriottiche. Non molto diverse, nella sostanza, le opzioni che avrebbero avuto corso in casa Montale, ma è certo che le fortissime connotazioni interventistiche che segnarono Carlo Emilio che si iscrisse nelle liste dei volontari sin dal marzo del 1915 sarebbero state a lungo sconosciute al più giovane genovese. Più in generale, in quel fremente studente del Politecnico, che in quel momento più che la meccanica sognava eroici combattimenti contro il nemico austroungarico, si avverte una forte volontà di partecipazione alle vicende collettive. Una sensibilità che in Eugenio, quando pur affiorerà, costituirà un evento assai meno intenso e tendenzialmente segnato da un certo carattere di parentetica provvisorietà. L’intervento nel conflitto e la guerra stessa fornirono dunque la prima importante cornice biografica ai due letterati. Per Carlo Emilio ed Eugenio intorno ai vent’anni la Grande guerra venne così ad essere il loro incontro con la storia, ossia con la vita.
La neutralità dell’Italia, che era stata dapprima una condizione ovvia per un paese non sfiorato dalle ostilità, venne ad essere presto, con i più vari motivi, oggetto di forti contestazioni che nella primavera del ’15 nel Centro-nord assunsero il carattere di moti di piazza. Da ultimo, nulla poté arginare la marea montante interventista che, dopo mesi di accaniti contrasti tra neutralisti e no travolse ogni barriera nel corso del cosiddetto «radioso maggio» del quale furono teatro, insieme con Roma, le due città dove erano nati e allora abitavano Montale e Gadda, ossia Genova e Milano.
Al capoluogo ligure toccò di fare da palcoscenico di chi fu il Giovanni Battista dell’intervento italiano nel conflitto, il poeta e romanziere Gabriele D’Annunzio. Il quale sin dal marzo del ’15 aveva messo in cantiere una orazione da pronunciare al discoprimento di un monumento eretto presso lo scoglio di Quarto, da dove nell’estate del 1860 erano salpati i Mille di Garibaldi. Con esplicito consenso del re, del presidente del consiglio, e di molti altri, il 5 di maggio era venuto il momento della attesa celebrazione. Una folla eccitata si assiepava intorno allo scoglio volgendo le spalle allo sfondo cupo del Mediterraneo. La parola trascinante di D’Annunzio, vistosamente accompagnato come non di rado gli accadeva da due eleganti signore, la cui costosa trasferta dovette poi essere pagata assai di contraggenio dai parsimoniosi cittadini genovesi, aveva, come di consueto, sollevato il suo uditorio in un’altra dimensione. Quella dove immagini di oscuro significato, sentimenti sfrenati dei quali nessuno avrebbe saputo definire l’origine, il tutto tenuto assieme dai brividi di una incontenibile emozione, avevano trascinato l’uditorio oltre sé stesso elevandolo ai più alti gradi di una passione collettiva che anelava, disse l’oratore, a «una vita di là, una vita oltre». Come da questo impasto di umori e di indefinibili sensazioni dovesse uscire «una Italia più grande» e si potesse giurare «qui si fa l’Italia o si muore», nessuno lo avrebbe capito, ma in certi stati di tensione frenica comprendere è una mera eventualità. La posta in gioco, tuttavia, era altissima. Decretare della vita e della morte di centinaia di migliaia di italiani e il fatto che nessuno sapesse cosa sarebbe realmente accaduto era componente essenziale del patto che stringeva l’oratore al suo uditorio. Lo studioso britannico A.J.P. Taylor ha affermato che, da Cavour a Bismarck, la ragione che spiega i grandi moti della storia risiede nel fatto secondo cui va lontano solo chi non sa dove sta andando.
Il passo successivo verso la guerra non poteva non condurre a Roma. Qui il 9 di maggio, Giovanni Giolitti, il candidato a capo del governo dei neutralisti, il cui ritorno alla presidenza del Consiglio avrebbe automaticamente stroncato ogni velleità guerresca, si era portato per seguire da vicino l’andamento della difficile congiuntura politica. Quattro giorni più tardi, D’Annunzio si metteva sulle orme di quel suo nemico giurato e anche lui arrivava nella capitale, dove la sera del 13 avrebbe improvvisato un discorso ancora più fremente di quello pronunciato a Genova. Sporgendosi da una finestra dell’Hotel Regina, questa volta il poeta non lasciò proprio nulla di non detto, non esitando a invocare atti di pura violenza: «contro il nemico interno», osò proclamare «il sangue corra» e «tal sangue sia benedetto». E si spinse sino a citare nominalmente quella che avrebbe dovuto essere la prima vittima, «quel vecchio boia labbrone le cui calcagna sanno la via di Berlino» – il divino oratore si riferiva a una fantasticata connivenza di Giolitti con i tedeschi per tenere l’Italia fuori dalla guerra, e si vedrà come questa infamante accusa penetrasse con forza anche in casa Montale. Quel giorno si affacciò sulla storia d’Italia la violenza come strumento per regolare le contese politiche: «Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda; alla posta per pigliarli, per catturarli», e in questa incitazione all’assassinio D’Annunzio non aveva temuto di alludere esplicitamente a una incursione armata contro l’ex presidente del consiglio indicandolo come colui che «abita qui presso». Ma fortunatamente ci fu chi capì e accorse a proteggerlo.
Sventata la candidatura a capo del governo dell’uomo di Dronero, sebbene egli godesse di ampi sostegni in parlamento e negli apparati dello stato, rimaneva da sbrogliare l’intricata questione sorta allorché il 20 aprile si era stipulato un patto segreto con Gran Bretagna, Francia e Russia. In quel documento – di cui erano ufficialmente a conoscenza solo le tre più alte cariche dello stato che lo avevano concertato – si era decretato l’intervento in guerra dell’Italia entro poche settimane. A quel punto discese in campo la terza grande città protagonista di quel sommovimento che condusse all’entrata in guerra, Milano. Qui ebbero luogo due grandi manifestazioni nelle cui prime file vi erano folte schiere di studenti, quelli che Croce, convintissimo sostenitore della neutralità, chiamava «i giovinotti nazionalisti» ai quali sarebbe stato difficile «quadrare la testa». Le foltissime manifestazioni degli interventisti milanesi diedero l’ultima spallata all’ormai vacillante neutralismo.
Gadda e la guerra
Interventista della primissima ora
Confuso tra la folla milanese vi era anche lo studente Carlo Emilio Gadda. Rudi imprecazioni, prima fra tutte «Giolitti bojaccio», non mancarono di fiorire sulle sue labbra. Ancora più sfrenato sarebbe stato il suo linguaggio quando nel gennaio del 1916 il peggiorativo «bojaccio» avrebbe dato la stura a una scarica di infamanti epiteti: «Quel bojaccio, quello schifo, quel pederasta», e non si sarebbe fermato qui; questo florilegio sarà da ricordare quando alla fine degli anni Venti il ruvido piemontese sarebbe divenuto per Gadda oggetto di ben altri giudizi, ma che allora egli avrebbe tenuto per sé. Dichiarata la guerra all’Austria Ungheria, che dal 1882 era una alleata, sebbene ben poco affidabile, il 24 maggio i soldati italiani avevano dato battaglia varcando le frontiere con l’impero asburgico che allora correvano a pochi chilometri da Venezia tagliando la pianura padana.
Carlo Emilio Gadda era stato in prima fila nella manifestazione milanese del 17 maggio che aveva trasformato le vie della città in una sorta di campo di battaglia verbale, e non è escluso che il 5 di maggio avesse fatto parte di quella rappresentanza di 60 studenti del Politecnico che, sotto la guida del noto professor Motta, che presto egli avrebbe conosciuto personalmente, erano accorsi ad ascoltare le vibranti parole pronunciate da D’Annunzio presso lo scoglio di Quarto. Ma da dove era venuta in Gadda la sua scelta per l’intervento che lo aveva portato a manifestare sulle piazze milanesi dove aveva gettato manifestini con scritto «Morte a Giolitti»?
È certamente fondata l’affermazione di Gian Carlo Roscioni, uno dei più acuti interpreti dello scrittore milanese, secondo cui la sua determinazione per la guerra fosse per lui «nell’ordine delle cose», nel senso che un giovane di quella estrazione sociale e, specificamente, di quella provenienza familiare non avrebbe potuto non essere interventista. Ma come e quando maturò quella sua scelta? Nelle carte che ci ha lasciato, una singolare ma rivelatrice traccia è costituita dagli appunti che egli era solito prendere alle lezioni dei corsi di preparazione alla frequentazione del Politecnico che aveva iniziato a seguire dal 1912. Di tempo in tempo, frammiste alle note tecniche suggerite dal professore di turno, a Gadda non riuscì di trattenersi dal consegnare a quei taccuini anche l’emozione provocata dagli straordinari avvenimenti di quei giorni che lo portò a più di una «tirata nazionalista» frammista a ciò che chi ha studiato quei testi, molto eufemizzando, ha definito «maliziosi estri di linguaggio». In verità, per chiamare le cose con il loro nome, quei quaderni ridondano di pure «oscenità e trivialità». Così, in una pagina di appunti di scienza delle costruzioni redatta intorno alla metà di gennaio del 1915, l’estro gaddiano si esprimeva con questi rusticissimi vocaboli: «La porca Italia, cumulo escrementizio, è impegolata nella sua bavosa e fagottosa neutralità. Il padre eterno la terremota e Bülow la compera. I socialisti, i preti, il papa e i professori neutralisti fanno delle chiacchiere. A differenza delle solite che non concludono mai un cribio, queste sono interessate. Se ne incontro uno in riva d’un torrente solitario, lo caccio dentro a macchina». Una glossa di tre mesi più tardi, dopo che l’infelice «parecchio» giolittiano aveva avuto già modo di manifestarsi in tutta la sua vera ma grigia consistenza, un’altra torrentizia invettiva si insinuava tra i suoi fogli: «L’Italia è uno sconcio paese di merda, indegno di vivere. Le puttane sono avvilite di dover convivere con gli italiani, e lo sterco cavallino ha orrore del loro contatto» (per la cronaca l’ex presidente del consiglio, che certe sue note ci mostrano in preda a una autentica angoscia al vedere l’Europa gettarsi in un pozzo senza fondo, e in mancanza di una cogente ragione, aveva scritto a un deputato che l’Italia, standosene fuori dal carnaio, avrebbe guadagnato «parecchio», ma quella coloritura così grettamente mercantile non aveva certo giovato al neutralismo).
Nel giudicare quelle impuntature da postribolo non si potrà non considerare che quegli appunti ovviamente pagavano un certo tributo agli usi linguistici degli studenti, e tuttavia il greve esprimersi nel confermarne la loro natura vitalistica ne attestava anche la consistenza. E un graffito anteriore alla guerra, inciso sul frontespizio di un testo di geometria analitica oggetto di studio nel 1913, dimostra come la febbre nazionalista che sarebbe diventata acceso interventismo covasse in Gadda già ben prima della guerra. Nel contesto di quelle che sono state giudicate delle «professioni di orgoglioso superomismo», Gadda se ne era uscito in un «e abbasso l’Austria […] il popolo italiano avrà gloria in sempiterno». Ma la più ambiziosa formulazione del suo credo interventista Gadda la affidò a un testo scritto nel febbraio del 1915 che assunse la forma di una lambiccata e acerba poesia, nella quale peraltro si trova fissato l’abc del suo interventismo, i cui antagonisti erano un aggregato che andava dagli eredi dei principî dell’89 ai «moderni democratici», nei quali ricomprendeva i socialisti, i «preti» e naturalmente i giolittiani. Tutti costoro, gli «psicopompi», ossia gli autopatentati conduttori di anime, erano i protagonisti, a parere di Gadda, della quotidiana fiera delle «perorazioni inutili», quelle che eternamente si consumano su ciò «che ci vorrebbe» ma «che nessuno vuole, su quello che bisognerebbe fare e nessuno fa», su «quello che vorrebbero dare e che nessuno dà». A tutto ciò si sarebbe dovuto opporre la sola «necessità santa», ossia «la volontà del sacrifizio comune, del sacrifizio immediato e pronto, che giunge a tempo e reca di poi vantaggio». La necessità della guerra, in estrema sintesi, sarebbe stata riassunta in un solo termine, «sacrificio», parola che vibra tra le righe di ogni pagina del suo Giornale di guerra e di prigionia, il diario che inaugura il 24 agosto del 1917 in val Camonica e che chiuderà il 31 dicembre del 1919, a Milano, quando tutte le illusioni del suo interventismo sarebbero state ridotte a cenere. Una scrittura, è doveroso ricordarlo, che è di fondamentale valore storico, oltre che letterario, perché ne è attestata, cosa assai rara nei diari, la sua assoluta autenticità, ossia la fedeltà alla prima redazione che non di rado prese forma sui margini dei campi di battaglia. È dunque da prendere alla lettera l’avvertenza che l’autore premette all’avvio del suo diario: «Le note che prendo a redigere sono stese addirittura in buona copia, come vien viene, con quei mezzi lessicografici e grammaticali e stilistici che mi avanzeranno dopo la sveglia antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il vino e il caffè». Una dichiarazione che itera nelle ultime pagine ove avrebbe affermato: «scritto tutto di prima mano, anche nei luoghi di bello stile, o quasi». La filologia e gli strumenti di indagine tecnica l’hanno pienamente confermato.
Un ulteriore noto passaggio del Gadda focoso sostenitore della discesa in campo concorre a perfezionarne il profilo. A guerra ancora non dichiarata, insieme a due suoi compagni del Politecnico, presa carta e penna, osarono scrivere a D’Annunzio e a Mussolini, ossia a due tra i massimi simboli della corrente interventista, richiedendo che fosse senza indugio chiesto agli studenti di partecipare alla guerra in corso senza accordare loro ritardi per motivi di studio, unendosi così ai «fratelli d’armi, che, per accorrere alla difesa suprema della patria, lasciano i campi, le officine, le occupazioni di ogni genere» mentre «noi ci sentiamo bruciare indosso questi abiti borghesi, che ormai sono per dei giovani sani e robusti causa di insopportabile vergogna».
Quegli impetuosi studenti del Politecnico furono accontentati. I primi combattimenti non spostarono di un metro la linea di confine, se non là dove gli austroungarici giudiziosamente arretrarono di quel poco che avrebbe loro consentito di attestarsi su posizioni più agevolmente difendibili. Tuttavia, sbollite le frenesie interventistiche, nelle tradotte, dicono molte testimonianze, l’atmosfera si fece subito cupa tra la truppa destinata al fronte, ma Gadda mostrò immediatamente di non essere fatto della stessa pasta dei suoi commilitoni. Destinato a Parma per un primo addestramento, nella lettera che inaugura il carteggio con la madre, il 14 giugno, esplode in un sonoro «io sto benone». Ciò che lo angustia è la sua lontananza dal fronte e dai luoghi dove si lotta per l’Italia armi alla mano. Là dove si combatteva si sarebbe avvicinato nel novembre del 1915 quando avrebbe assaporato l’atmosfera della zona di guerra, aspirazione coronata poco più tardi, il 6 gennaio del 1916, dal tanto desiderato battesimo del fuoco. E molte energie avrebbe impiegato per conseguire «la sospirata nomina che gli avrebbe permesso di combattere fra gli alpini». A questo fine, autentico imboscato alla rovescia, non avrebbe esitato a ricorrere alla raccomandazione del deputato popolare Nava.
Ma sotto la scorza del generico interventismo che cosa animava nel profondo quel suo «guerrismo»?
Patriottismo come spirito di sacrificio
Lo spasimo bellicista da cui non fu risparmiato il ventiduenne Carlo Emilio non lo faceva probabilmente essere pienamente consapevole di tutti gli elementi della realtà e di che cosa nutrisse la sua istintiva incontenibile voglia di combattere. Così dal suo denso mosto guerresco egli trasse una duplice formula che azzerava la complessità del reale: la guerra «necessaria» per ragioni attinenti all’interesse nazionale era anche «santa», cioè provvidenziale, se si intendeva rinnovare la fibra morale del paese. Come tanti altri interventisti sostenevano, dalla guerra sarebbe scaturita una rigenerazione del paese, ossia una sorta di rinascita che avrebbe rifondato l’Italia radicandola in quegli alti valori nazionali di matrice risorgimentale che, ritenevano, tutti i giorni il grigiore giolittiano aveva mortificato.
In questa prospettiva la disponibilità a sacrificare sé stessi veniva da Gadda assunta come l’elemento costitutivo dell’idea di patria che l’Italia in guerra doveva suscitare. Data per scontata la coloritura risorgimentale acquisita per via familiare fin dall’infanzia, il nucleo pulsante del suo atteggiamento verso il conflitto risiedeva nella convinzione che la comunità nazionale potesse esistere solo in presenza di una dedizione assoluta dei suoi consociati. Senza quel convergere di volontà che rivelava una identità in atto, nutrita di fatti e non di declamazioni o di mere intenzioni, la patria nell’orizzonte di Gadda era destinata a dissolversi sotto l’inevitabile prevalere degli interessi dei singoli e dei loro egoismi. Così, puramente di circostanza, se pure comparivano, erano i riferimenti che invece costituivano l’asse portante del nazionalismo italiano dei Rocco e dei Corradini che aveva saturato molta parte dei discorsi degli interventisti quando reclamavano territori, possessi, sfere d’influenza, titoli storici, egemonie navali, tutto ciò, insomma, che dava sostanza al grande obiettivo di fare dell’Adriatico, come si era soliti dire allora, «un lago italiano», affermazione che fu il punto di riferimento della strategia diplomatica perseguita dall’Italia sin dalla vigilia di guerra. Ma di quel progetto sostanzialmente imperiale, che dal patto di Londra sarebbe rimbalzato, addirittura accresciuto, alla conferenza della pace del 1919, e che insistentemente ricorreva nella letteratura nazionalista, nulla, in concreto, risuonava negli scritti gaddiani della prima guerra mondiale. Né qualche tirata eccessivamente bellicosa (noi vogliamo una Italia «sempre più potente») snaturava quell’idea di nazione tipicamente spiritualista.
Al loro posto Gadda invocava invece «la volontà del sacrifizio» comune che avrebbe dovuto dissipare «l’egoismo personale», che era l’«unica legge di molti», espressioni, la cui eco sarebbe risuonata spesso durante il fascismo. Per Gadda, in effetti, il sacrificio non era una astratta invocazione di princìpi o una mera declamazione, doveva anche rappresentare la concreta traduzione pratica di una autentica conoscenza dell’ordine delle «cose», quella di chi intendeva dare una forma alla realtà, mettendo «in ordine il mondo», ciò che avrebbe potuto realizzarsi solo se la volontà fosse stata anche «sorretta da un fine morale». Possiamo davvero dire che la sostanza prima del patriottismo gaddiano si individuasse in un non consueto congiungersi di elementi di natura etica, concretamente storica, e quindi non ciecamente espansionista. Un terreno in cui gettava le sue radici anche la ragione di ciò che potrebbe diversamente apparire come non altro che una mera ossessione personale, ossia la sua quotidiana battaglia contro il disordine e l’approssimazione che nella massa dei soldati diventava il menefreghismo neghittoso di chi non levava gli occhi oltre la soglia di sé. Ben più grave era però l’effetto del dilagante disordine mentale sulle gerarchie che avevano l’onere del comando. Da questo punto di vista quel principio negativo, che già iniziò a chiamarsi il «pasticcio» prese ad apparire nel Giornale di guerra all’indomani dei grandi massacri provocati dalla Strafexpedition. Qui troviamo per la prima volta la parola chiave gaddiana quando annota: «Il disordine e il pasticcio mi annientano, io non posso fare qualcosa, sia pure leggere un romanzo, se intorno a me non v’è ordine»; il dovere di risolvere le «questioni che nascono dal pasticcio, dal disordine, dalla trascuranza» era in lui una invincibile sollecitazione a misurare l’agire di sé e degli altri. In chi comandava il disordine si manifestava soprattutto come incompetenza e superficialità, ossia come l’imperdonabile disconoscimento delle regole che presiedono all’ordine delle cose che aveva provocato gli immensi inutili massacri di cui si era resa responsabile la incosciente gerarchia militare italiana. Nelle falangi di soldati mandati all’annichilimento non si inverava alcun puro spirito di sacrificio. Quello era un mero sciupio di vite, l’esito di una criminale incuranza e ignoranza che irrimediabilmente segnava i «generaloni» che presto sarebbero stati chiamati anche «generalazzi».
Al fronte
La sua concreta esperienza di guerra combattuta iniziò con l’Adamello, quel fantastico ma anche repulsivo scenario di scontri che a prima vista sarebbero sembrati impossibili in mezzo a quelle sterminate distese di ghiaccio scintillante il cui fulgore annientava sé stessi non meno che il nemico, così come le valanghe che seppellivano decine di migliaia di soldati non badavano al colore della divisa. Lassù si avverò il tanto atteso battesimo del fuoco, era il 6 gennaio del 1916.
Anche se non proprio eroica, assai pericolosa fu la avventura che lo colse sulla Lobbia Alta ai primi di maggio. Rientrando da una duplice massacrante corvée protrattasi per oltre venti ore, quando già le ombre della sera si allungavano, «mezzo morto di fatica», in coda al reparto perde il contatto con gli alpini di cui avrebbe dovuto essere la guida (ma loro, quasi tutti contadini, a certe disumane fatiche erano abituati). Presto cede alla «sublime idea» di ritemprarsi facendo «un sonnellino nella ‘vedretta’». Viene risvegliato di soprassalto da una provvidenziale scarica di shrapnel che gli danno «la levata» traendolo dal sonno che in una notte di primavera sarebbe divenuto fatale in quella solitudine a oltre 3000 metri di altezza. Ma rientrando nelle linee italiane ormai a notte, non essere scambiato per un soldato nemico fu un vero azzardo.
Quel 1916 lo avrebbe ripagato abbondantemente dei mesi trascorsi da involontario imboscato in cui riteneva si fosse avvilito il suo spirito combattivo. Ai primi di giugno la spedizione punitiva contro la fedifraga alleata già porta l’esercito italiano sull’orlo del precipizio. Nell’accorrere per irrobustire le difese, sotto i suoi occhi scorre un panorama di tregenda. Così scrive con sgomento di uno «spaventoso bombardamento allo scoperto». Nel diario riporta la cifra mostruosa di mille feriti ogni giorno nel settore della sua divisione. Gadda ha «coscienza del pericolo a cui andiamo incontro», e persino lui è costretto a dichiarare di avere «l’animo affaticato» e di essere calmo, ma solo «in apparenza».
Superato il momento di estremo pericolo quando quei reparti vengono a costituire l’ultimo sottile diaframma difensivo sul margine meridionale dell’Altipiano, caduto il quale tutto sarebbe stato perduto, viene il momento in cui, il 27 giugno, i nemici allentano la pressione e ai soldati italiani giunge l’ordine di avanzare per riguadagnare il terreno perduto. Ma la loro cauta marcia è contristata «dallo spettacolo delle orrende lacerazioni del monte e della foresta, dalla vista di numerosi cadaveri in putrefazione, verdi, cerei, neri, paonazzi». Il rischio mortale corso dagli italiani sotto l’assalto degli austroungarici ma anche la disperata resistenza «che salvò la pianura dall’invasione» sarà occasione per una delle sue mirabili pagine di guerra. È una ispirata immagine composta per La meccanica nel 1928 in cui si descrive la giusta punizione che per il tramite dei moschetti dei carabinieri inesorabilmente raggiunge il vigliacco che fugge, ma solo per andare «verso il nulla».
Terza e penultima stazione di questo viaggio attraverso la morte, nel maggio del ’17 riuscì a scampare, cosa che non accadde a molti, agli inenarrabili massacri provocati dall’inutile tentativo di sfondare le linee nemiche sull’Hermada, l’imprendibile riarsa collinetta battuta dal sole e dalla bora carsica che con i suoi modesti 323 metri sbarra la via verso Trieste diventando così «il simbolo della resistenza della vecchia Austria». Dalle lettere che la sorella invia al fratello Enrico emerge tutta l’«ansia senza nome» in cui vivono i familiari che sanno cosa sta accadendo sul Carso dove i fratelli Gadda sono impegnati in quella che Clara chiama l’«immane offensiva nostra». L’angoscia per loro, afferma, è un supplizio «superiore alle nostre forze» anche se non li aveva abbandonati la speranza che «l’ora sacra e fatidica suoni per gli Italiani». Quel momento non venne, e i reparti votati alla morte, in meno di un mese, ebbero 36.000 caduti.
La «porca Italia»
Sino ad allora la vista degli italiani in armi non era certo stata confortata da ammirate accensioni verso quanto essi avevano mostrato di sé. D’altra parte, il vero «carattere» dei suoi compatrioti, conosciuto da vicino, e la direzione della macchina bellica non avevano suscitato in lui neppure contraccolpi e risentimenti radicali. Nel corpo del paese c’era di tutto, egoistico menefreghismo e abnegazione, eroismo sublime e ripugnante vigliaccheria. Nell’agire dei soldati scarsa era l’intelligenza delle cose e minore ancora era la previdenza, ma non potevano non suscitare qualche partecipe compassione e talvolta ammirazione per le immani fatiche cui si sottoponevano quegli umili fanti contadini, che se resistevano era perché venivano dalle campagne dove di norma si lavorava dall’alba al tramonto e i rapporti sociali erano improntati a una assoluta brutalità dai più che retrivi proprietari terrieri.
Il limite della sua benevolenza veniva rasentato quando affermava che i soldati, in definitiva, erano dei bambini, poco consapevoli di sé, ma in fondo innocenti, anche se per metterli in riga occorreva usare la frusta. Del resto, più volte affermava la scarsissima considerazione per Cavaciocchi, il comandante del IV corpo d’armata a cui apparteneva la sua compagnia di mitraglieri. Stranamente però era solito dare un giudizio sorprendentemente benevolo di Cadorna, ben inteso prima di Caporetto, del quale aveva ammirato in particolare la manovra tattica che aveva salvato l’esercito italiano arrestando la Strafexpedition. Desta stupore, invece, per un uomo d’ordine come lui, l’epiteto con cui si registra nel diario l’unica citazione del monarca, «scemo balbuziente», ma non si deve dimenticare che alcune frange interventiste avevano male interpretato il suo silenzio nei giorni più accesi del radioso maggio – già poco prima, del resto, in un appunto Politecnico lo aveva definito «un bambino che à paura del babàu». Ma non si può non ricordare che Gadda una volta soltanto proruppe di fronte alla truppa in una imprecazione contro le gerarchie militari e immediatamente se ne rammaricò.
I fallimentari esiti delle offensive del ’16 e della primavera-estate del ’17 già avevano insinuato in Gadda un dubbio radicale circa la possibilità di una vittoria italiana. Molta parte in quel mutamento aveva avuto l’immagine sempre più negativa del «carattere degli italiani», una fragile categoria che ricomprendeva in primo luogo la truppa, ma che non escludeva i colleghi ufficiali e i superiori. Già prima d’allora la trascuratezza dei «soldati maiali» non era passata sotto silenzio, ma la ferita immedicabile circa l’Italia e gli italiani era sopraggiunta con il brivido della sconfitta sul campo che si era provato tra il 4 giugno 1916 e la grande battaglia di resistenza sul margine meridionale dell’altopiano dei sette comuni. È proprio allora che il Giornale di Campagna subisce l’onda d’urto che darà la tonalità complessiva alla sua esperienza di guerra, resa irrimediabilmente negativa un anno più tardi dalla rotta di Caporetto. Quel fortunato, ma quanto arrischiato esito difensivo del giugno 1916 fu come la rivelazione di quello che sino ad allora era stato solo un sospetto. L’Italia quella guerra, lasciava ora intendere Gadda, come avrebbe mai potuto vincerla? Troppo grande era lo scarto tra le armate nemiche e l’esercito italiano che, in definitiva, sino ad allora aveva conquistato solo qualche irrilevante quota per le quali aveva però pagato un prezzo terribile in termini di morti e feriti. Sull’Altopiano gli austriaci erano stati fermati, ma quale altro irraggiungibile livello era quanto aveva messo in mostra un apparato militare che era giunto in vista della pianura veneta, ossia del cuore del nemico italiano, mentre doveva anche tenere a bada il possente esercito russo. L’Italia che si era gettata in guerra «per una ragione ideale», inseguendo la «divina speranza di una vita nazionale più alta» mostrava di non essere all’altezza di quel compito. Tra l’Italia sognata e quella reale si era frapposta in Gadda una separazione che stava diventando invalicabile.
Venuto meno quell’impulso ideale cosa mai potesse spingere i soldati ad obbedire e ad andare incontro a una morte quasi certa se lo era chiesto in quel torno di tempo una diversissima figura, in un certo senso un uomo ispirato da ideali che erano agli antipodi di quelli gaddiani. Era stato l’ex medico Agostino Gemelli, che, abituato a misurare i comportamenti umani sulle dure tavole della psicologia sperimentale o soffocandoli nei labirinti di una religione che avrebbe trovato nella società fascistizzata l’inveramento civile di ideali religiosi abietti, aveva dato una risposta non infondata. Nell’anno di Caporetto il francescano pubblicava un volume di saggi intorno alla psicologia dei soldati in guerra, che Gadda non mostrò di conoscere ma che sappiamo invece entrò in casa Montale. Il cinico frate aveva sgombrato il campo da ogni illusione. Nessun ben intonato spirito nazionale, nessun morbido e ammaliante patriottismo avrebbe mai potuto vincere l’istinto di conservazione delle truppe che avrebbero sempre cercato di sottrarsi a un altissimo rischio di morire. Lo scetticismo del futuro rettore dell’Università Cattolica, occorre dire, in quel contesto storico faceva vedere lontano più che non consentissero le astratte purezze del patriottismo gaddiano. Gemelli infatti sosteneva che il fattore decisivo che muoveva quelle masse amorfe era non altro che lo spietato rigore. Solo uomini spossessati della loro individualità e divenuti la «parte di un tutto» ridotta a meccanica incapacità di volere potevano essere spinti all’attacco nella mortale terra di nessuno. Nulla dunque poteva un astratto amor di patria.
Certo è che sull’orizzonte del «terribile» frate, come più d’uno era solito chiamarlo, non brillava alcuna «divina speranza di una vita nazionale più alta», né compariva alcun «fine morale» come lo intendeva il lombardo seguendo la lezione dell’altro lombardo. In luogo di quelle aspirazioni, come avrebbe ben messo in mostra negli anni del fascismo, il francescano anelava ad una società irreggimentata attraverso la censura del suo prediletto Sant’Ufficio e la coercizione esercitata da un governo che talvolta gli capitò di rimproverare di non essere abbastanza fascista e cioè spietato. Insomma, al centro del suo mondo ideale vi era quel duro dressage degli uomini che già aveva permesso che la guerra durasse così a lungo.
Così, l’idealista Gadda dovette arrendersi alla dura realtà di un paese per il quale un messaggio fatto di purezza e di intelligenza risultava irricevibile perché la materia umana da cui era composto era assolutamente sorda a ogni «ragione ideale». Da ciò veniva il proclamare la sua radicale estraneità a quella «razza di maiali, porci, capaci soltanto di imbruttire il mondo con il disordine». Brucianti e aspre invettive cospargono perciò il suo Giornale spingendolo ancora una volta a imprecazioni estreme contro la «porca Italia» e i suoi degeneri figli: «Adesso, o italiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che avete fatto della patria un inferno per i vostri litigi personali […] per i veleni, le bizze, le invidie dall’epoca dei Comuni a questa parte: adesso ditemi: appartengo io alla vostra patria?».
C’è un episodio apparentemente minore accaduto nell’autunno del 1916 e che esprime tutto il senso di amara solitudine che confinò Gadda ai margini di quell’Italia in guerra. Il suo reparto è esausto, di fatto si trova in prima linea dall’inizio di giugno, tutti anelano ad «andare a “riposo”», invece giunge l’ordine di prepararsi per una nuova azione in Valsugana. Il giorno della partenza, ordinata ogni cosa, si apprestano ad affrontare «lo spettro della marcia notturna di dieci o dodici ore», quand’ecco che la motocicletta di un portaordini «piovuta forse dalla quarta dimensione dello spazio, si ferma davanti a noi. Una speranza di gioia balena sul volto di molti presenti: io pure capisco subito di che si tratta, con dolore, con un vero dolore, con un senso di delusione». Alle parole del motociclista «non partono più» si scatena una gioia incontenibile. Sono urla, risa, scomposti abbracci da parte degli «alpini fessi». Il portaordini, trascinato nell’impazzimento collettivo, è portato in trionfo, mentre su di lui si riversano fiumi di vino, e la sera è ancora «gran gioia per tutti». Glaciale il commento di Gadda: «Sono veramente costernato di non essere partito: il grido di gioia degli alpini fu per me l’inizio di un periodo di amarezza e d’attesa: spero ancora di partecipare a qualche operazione, di poter fare qualche cosa di utile, di serio», «qualche cosa per questa porca patria».
Dopo la rasentata catastrofe della Strafexpedition e la sorpresa di essere uscito vivo dall’Hermada, venne la quarta e ultima stazione di quel pericoloso viaggio attraverso la morte dal quale uscì miracolosamente incolume, ma inguaribilmente ferito nello spirito, la rotta di Caporetto.
L’11 settembre 1917 si ricongiungeva alla «cara 470a» compagnia di mitraglieri, momentaneamente abbandonata per accorrere in prima linea. In quei pochi giorni di pausa trascorsi a una dozzina di chilometri a sud-est di un villaggio chiamato Caporetto, come sempre sentì la terra delle retrovie bruciargli sotto i piedi, ma presto sarebbe iniziato l’ultimo e più sconvolgente capitolo della sua partecipazione alla prima guerra mondiale, quello che sino agli ultimi giorni della vita sarebbe tornato nella sua mente come una bruciante ferita mai rimarginata.
La guerra vista da casa Montale
L’intervento: la vittoria del paese sul parlamento
Del grave perturbamento politico che aveva colpito l’Italia nella tarda primavera del ’15 che cosa era filtrato nello sguardo del diciannovenne Eugenio Montale? Forse l’età ancora troppo giovane, forse un precoce distacco poetico dalla realtà, forse, più probabilmente, queste e varie altre indistinte cause, sta di fatto che nessuno si è mai veramente chiesto che cosa il poco più che adolescente Eugenio avesse colto di quel turbine che aveva investito le vie e le piazze di molte grandi città, la sua per prima. Salvo apoditticamente affermare che di tutto quell’agitarsi di sentimenti nulla fosse penetrato nel profondo del futuro poeta il cui spirito era dominato da una totale «indifferenza» verso l’arroventato clima che lo circondava, una lontananza che lo rinchiuse a «vivere in una specie di limbo» mentre le città dell’Italia settentrionale erano diventate teatro di manifestazioni mai viste prima inscenate da coloro che invocavano un immediato intervento nella guerra che da dieci mesi opponeva le forze dell’Intesa ai cosiddetti Imperi centrali. A cristallizzare questa lettura dell’atteggiamento del giovane Montale in un canone quasi mai contraddetto concorrevano vari elementi.
Anzitutto il fatto che sulla sua partecipazione al conflitto Montale stesso avesse poi fatto calare un silenzio solo eccezionalmente e tardivamente interrotto: un raro comportamento tanto più significativo se si tiene conto delle migliaia di prose dal contenuto più disparato ma non di rado con forti riferimenti autobiografici che il poeta avrebbe dato alle stampe nei quasi sessantatré anni che gli avrebbe concesso la sua lunga vita dopo la conclusione della Grande guerra. Solo nel decennio Sessanta-Settanta sarebbe iniziato ad affiorare nei suoi scritti qualche brandello dei ricordi di guerra. Ma la folta messe di ricerche che si andò rapidamente componendo su di lui a partire da quegli anni fu giustamente attratta dai contenuti della sua opera più che dai dati concreti della sua biografia. E in questa direzione il segno critico espresso dagli studi non poteva inizialmente non privilegiare una immagine del suo itinerario intellettuale dominato da un «male di vivere» che escludeva a priori quell’impulso di vita pur sempre necessario per riconoscersi in ideali guerreschi. Quando le parole chiave della sua poetica venivano ravvisate nella «atonia» e nell’«indifferenza», lo scatto vitale, se pure fosse sopravvenuto, era riposto nell’angolo più remoto del sentire montaliano. Così, la sua esperienza di guerra venne naturalmente scolorita sino quasi a essere rimossa, sebbene nella grande ecatombe anche Montale fosse venuto ad essere coinvolto indossando la divisa per oltre quindici mesi e lui pure combattendo in prima linea nell’estate-autunno del 1918. Né può dirsi che i precedenti due anni in cui aveva vissuto la precaria condizione di chi godeva di un temporaneo rinvio del servizio militare lo dovessero aver reso del tutto estraneo a quanto stava accadendo intorno a lui. È pur vero, d’altro canto, che, anche su ciò differenziandosi dall’atteggiamento della maggior parte degli intellettuali coinvolti nel conflitto, pochi furono i suoi ricordi di guerra che emersero negli anni a venire, e pressoché nessuno prima che ne fosse occasione il cinquantenario dell’evento del ’15-18. Nel complesso non affiorarono neppure suoi diari di guerra, pochissime furono le lettere di quel tempo che ci vennero restituite e rari si confermarono essere i testi poetici ispirati dal conflitto. Ma se questo è stato un vuoto oggettivo, è pure vero che lo si andò prevalentemente colmando con la presunzione che quella di cui si nutrì Montale negli anni della Grande guerra non potesse che essere una ideologia antibellicista, in generale, e, in particolare, assolutamente estranea a una qualunque connotazione nazionalpatriottica, il fattore che tanta incidenza aveva avuto nel determinare la vittoria dell’interventismo sui sostenitori della neutralità. Le pagine che seguono intendono rettificare questi giudizi narrando il rapido superamento della crisi da cui fu colto quando venne inghiottito dalla enorme macchina bellica distruttiva di ogni individualità. A una iniziale ribellione seguì infatti un progressivo adattarsi ai doveri di soldato che alquanto rapidamente si convertì in una adesione al contesto militare in cui venne a vivere indimenticabili momenti di esaltazione comunitaria e addirittura di appassionamento patriottico. Sono questi, riteniamo, passaggi della biografia di Montale che non si possono trascurare.
Eugenio e Marianna
Arrestandoci sulla soglia della incorporazione di Montale nella armata attraverso cui passarono oltre 6 milioni di italiani, più di un decimo dei quali erano destinati a non tornare a casa, volgiamo intanto la nostra attenzione ai non trascurabili elementi di giudizio che emergono da una ricognizione sull’ambiente che fu più prossimo al giovane Eugenio in quel tempo. Di quale atmosfera si respirasse e quali ideali, interessi, passioni civili e inclinazioni religiose si agitassero in quella famiglia appartenente a una borghesia in ascesa non sapremmo quasi nulla se in anni non lontani, nel 2006, non fosse stata pubblicata una corposa raccolta di lettere scritte e ricevute dalla sorella Marianna. Si tratta di un foltissimo libro costituito da scritture composte a partire dal 1908, ricco di documenti che forniscono preziose informazioni sulla vita di quella media borghesia genovese particolarmente per quanto riguarda gli anni 1910-20, e che si chiude il giorno della sua morte, sopraggiunta improvvisamente nel 1938. È questo l’insostituibile testo di riferimento per intercettare qualche attendibile raggio di luce sulla vita di Eugenio durante la Grande guerra. Va osservato che le conoscenze che traiamo da questa fonte sono giunte a noi quando la critica montaliana impetuosamente cresciuta dalla fine degli anni Settanta e ulteriormente incrementata dopo il Nobel, aveva ormai definito, per non dire irrigidito, il profilo intellettuale e umano del poeta prescindendo pressoché completamente dal tempo della sua prima formazione. Fu quella, al contrario, una assai importante stagione della sua biografia su cui una notevole incidenza ebbero le idee e i valori che impregnarono la vita di quella famiglia sino al momento in cui Eugenio la dovette lasciare allorché venne chiamato alle armi nell’estate del 1917. E dobbiamo ricordare che i Montale nel conflitto avrebbero dato con convinzione i quattro giovani maschi al Regio esercito e tanto avrebbero trepidato prima di vederli uscire indenni dal gran massacro.
Come per molti chiamati a vestire la divisa anche l’origine familiare di Montale ebbe una notevole influenza nel determinare il suo atteggiamento nei confronti dello straordinario evento che segnò la giovinezza di milioni di europei. Tuttavia, all’inizio la sua esperienza di guerra non presentò il coinvolgimento ideale profondo che suscitò in altri intellettuali, di cui esemplare fu il caso di Carlo Emilio Gadda. Il genovese non accorse a iscriversi nelle liste dei volontari, non scese in piazza a urlare i suoi crucifige né il suo «Giolitti boia». A indossare la divisa si rassegnò quando fu inevitabile e, anche allora, dapprima ebbe una reazione assolutamente negativa alle costrizioni della caserma. Un netto rifiuto che tuttavia, dopo essersi stemperato, si tramutò in una forte adesione al dovere di combattere. Una sorta di conversione ideale, tanto radicale quanto improvvisa, come sono tutte le evoluzioni subitanee.
Le Lettere da casa Montale scrutano con penetrante sguardo i sentimenti e i pensieri, ma talvolta anche le illusioni e le delusioni che non risparmiano le due persone che tra i sette membri di quella famiglia più furono legate da una profonda intimità intellettuale. Quando l’Italia era entrata in guerra Marianna, l’unica donna della nuova generazione, aveva 21 anni, e dai folti carteggi che ci sono stati tramandati si può trarre la non ingannevole sensazione che già allora stesse assumendo un ruolo dominante nella vita di Giuseppina, Domingo e della loro discendenza, una posizione simile a quella di un secondo capofamiglia. Era una preminenza che si radicava in una estrema sensibilità affettiva, corroborata da singolari doti intellettuali e umane. Di lei colpisce in particolare la quasi misteriosa capacità di tradurre in parola scritta i pensieri e i sentimenti dei quali la sua mente era larga dispensatrice. La sua epistolografia attesta anche le grandi e in certi momenti insormontabili difficoltà che questa giovane donna così provvista di non comuni qualità dovette incontrare nel tentativo di attuare ciò che le sue capacità avrebbero dovuto assicurarle. E invece la sua intenzione di iscriversi all’università fu iteratamente contrastata, soprattutto dalla madre che giudicava la frequentazione di un tale ordine di studi poco confacente a una donna appartenente a un distinto rango borghese. La giovane Montale, che confessava suo massimo sogno il «seppellirsi in biblioteca», riuscì ad approdare agli agognati banchi universitari non prima dell’autunno del 1916 nella facoltà di Lettere. Né quel tardivo esito fu l’avvio a studi che conducessero a una significativa attività professionale, cosicché Marianna finì per disperdere le sue eccezionali qualità entro gli angusti confini familiari, assumendo spesso sulle sue spalle l’onere di sostenere e guidare sia i genitori sia i fratelli. Ma proprio la sua acutissima sensibilità ne fa il testimone più importante degli anni di formazione del poeta. Il rilievo della relazione tra Eugenio e Marianna è secondo solo, e neppure sempre, a quello del rapporto da lui stretto con la leggendaria Irma-Clizia che mise il suo sigillo sugli anni Trenta drammaticamente vissuti dal poeta.
Dalla ferita, che si rimarginerà a stento e assai tardi, provocata dall’interdetto di frequentare l’università, si sprigionerà comunque un velo di anticonformismo che, in quanto tale, non avrebbe lasciato insensibile il fratello Eugenio. Che la donna, come scriveva in una lettera del gennaio 1916, «abbia gli stessi diritti dell’uomo» e che si debbano combattere i diffusi «pregiudizi» che la rinserrano in una «vita passiva» sono pensieri rari nell’Italia del tempo. Ancora più inusuale è incontrare una persona appartenente a un ambiente borghese, e per di più percorsa da un autentico spirito cattolico, che rivendichi, ancorché in via puramente teorica, essere «il libero amore uguale e anche superiore a certo amore coniugale». In questo senso, risulta piuttosto singolare che discorrendo con una sua amica di «infedeltà coniugale» concordasse in gran parte sul fatto che «se si potesse essere infedeli senza fare male a nessuno e senza conseguenze, che cosa ci sarebbe di male?».
Tra modernismo e nazionalismo, l’influenza dei barnabiti
Dato per scontato che quel mondo si caratterizzasse idealmente per un orientamento nel complesso liberalnazionale, dai carteggi emerge una significativa presenza di alcuni sacerdoti appartenenti all’ordine dei barnabiti. Sullo sfondo si registra qualche passaggio per casa Montale di un certo padre Testi e non manca di affacciarsi spesso il profilo dell’assai noto padre Semeria. Ma la figura che sotto tutti i riguardi, religiosi e non meno civili, appare preminente è un’altra, quella di padre Giovanni Trinchero, un barnabita di origini piemontesi che svolge un ruolo assai prossimo a quello di un vero e proprio padre spirituale dei Montale, e di Marianna ed Eugenio in particolare.
Gli orientamenti religiosi e schiettamente politici di quei membri di un ordine prevalentemente rivolto alla educazione di giovani appartenenti alla media borghesia ce li rivelano assai sensibili alla predicazione modernista, che a sua volta fu non di rado portatrice di marcate inclinazioni nazionalisteggianti, connotazioni che sarebbero vistosamente emerse negli anni della guerra. Queste varie tendenze, già non ignote in casa Montale perché non estranee al loro orizzonte sociale, sarebbero state rinvigorite dall’essere divenute parte di un messaggio religioso. Così, l’irrigidimento che la gerarchia mostrò nei confronti delle troppo spregiudicate prese di posizione dei barnabiti che frequentavano via Piaggio venne seguito da Marianna con malcelata contrarietà, che più di una volta giunse anche a registrare con insofferenza le restrizioni disciplinari alle quali per quel motivo a più riprese andò incontro padre Trinchero. Dalle sue lettere emerge che i due più giovani figli di Domingo avevano espresso una forte sensibilità nei confronti delle idee sul piano religioso assai anticonformiste che comunicava loro quel barnabita. In ossequio al rigoroso stile intellettuale che li induceva ad approfondire l’oggetto delle loro riflessioni, su consiglio di Trinchero erano passati per le loro mani i Souvenirs de ma jeunesse di Tyrrell, l’autobiografia del gesuita inglese, uscita in Italia nel 1908, un testo di riferimento per chi si affacciava sul campo ampio e oltremodo sfaccettato del modernismo. Libro che suscitò un lungo ammirato commento di Marianna affidato a una lettera alla amica Ida, in cui, tra l’altro, sottolineava l’epigrafe che il gesuita aveva voluto fosse incisa sulla sua tomba: «Prete cattolico». Formula alquanto vaga ma che comunque segnava il limite entro cui lei racchiudeva l’esito del suo affermato radicalismo religioso.
Le fonti di conoscenza del modernismo non erano in Marianna ed Eugenio tutte di primissima mano. In casa loro sorprendiamo i giovani Montale intenti a leggere anche i libri del controverso padre Semeria, direttore dell’istituto Vittorino da Feltre frequentato da Eugenio. Non rare furono comunque le espressioni di sintonia con lo spirito antigerarchico e con il vago riformismo religioso che si agitavano in quelle menti. Emblematica fu la reazione a un discorso con cui il pontefice, il moderato Benedetto XV, nel marzo del 1915 aveva proclamato la volontà di imboccare la via di un deciso rinnovamento spirituale. Agli occhi di Marianna quelle proposizioni apparivano manifestazione di mera retorica, espressioni rituali e convenzionali, enfatici pronunciamenti già uditi infinite volte. Confidando le sue disillusioni alla madre, ne aveva ricevuto una replica improntata al più elusivo praticismo: «Figliola cara, è meglio essere più semplici e ignoranti, si vive più contenti, senza rodersi per tante cose» (e questa, verrebbe da sottolineare con una certa ironia, era la madre di Eugenio Montale). Tali parole, intrise di un poco edificante utilitarismo di cortissimo respiro, che sarebbero state assai bene sulle labbra della Agnese manzoniana, suggeriscono come la buona signora ben poco percepisse quale davvero fosse il paesaggio mentale di Eugenio e Marianna e quanto estranea lei fosse all’impegno etico e intellettuale di quei due figli. Come è comprensibile nulla degli accorati consigli veniva recepito dalla figlia posto che all’amica Ida non risparmiava il più acido commento sul «tanto vuoto e tanto freddo» che suscitavano in lei certe prediche, affette ai suoi occhi da una «miseria spirituale desolante».
Eugenio, tuttavia, sentendo Marianna invocare ingenuamente l’avvento di un papa che attuando l’unione di tutte le fedi e di tutte le chiese abbracciasse l’umanità intera, si spazientiva, e montando a sua volta in cattedra, secondo quanto narrava Marianna stessa, le rimproverava quel vaneggiare intorno a una poco convincente universalità del credo cattolico: fai bene a criticare, le diceva, ma se è così «si fa come me, si manda a spasso tutto», «Tu invece pencoli…», «…vuoi tenere il piede in due scarpe… non ti sai decidere… hai paura di venire a una conclusione logica…». E ancora: «No, no, non vi capisco; se siete cattolici dovete accettare tutto senza criticare». E tre anni più tardi, in occasione di un analogo confronto con Eugenio, la sorella riferiva un giudizio su di lei che, sia pure pronunciato con il sorriso sulle labbra, è probabile che definisse il perimetro di una insuperabile linea di demarcazione tra lui e Marianna che distingueva due universi mentali destinati a evolvere in direzioni diverse. Scriveva infatti che Eugenio le rimproverava di andare «avanti senza scosse, senza crisi… Vai sulla teleferica tu! Vivi pattinando! Sei troppo liscia! Niente abissi, niente gorghi».
Le inquietudini religiose che si intravedono in quella famiglia non erano una mera parvenza e non lasciavano Eugenio indifferente, ma rappresentavano un motivo in più che favoriva il nascere di una singolare complicità tra fratello e sorella, al di là del progressivo allontanarsi di lui dalle sponde del cattolicesimo. Sebbene non sempre risulti chiaro il confine tra ciò che Eugenio veramente pensava e ciò che una sorella lievemente invasiva gli attribuiva, dall’insieme di quelle testimonianze scritte sembrerebbe di poter trarre la conclusione che intorno alla metà degli anni Dieci si stabilisse una certa linea di separazione sul tema del loro rapporto con la religione cattolica destinata a perdurare e ad allargarsi, diventando in futuro un punto fermo nella visione del mondo da parte del poeta. Così, nel marzo del 1916, Marianna scriveva in termini difficilmente riformabili che Eugenio, come ripeteva, la «chiesa l’ha mandata a spasso, io no». Da due anni, aggiungeva, il fratello non frequentava le funzioni religiose, e neppure osservava il precetto pasquale. E in un passaggio di un’altra lettera a Ida si chiariva ulteriormente lo scarto che su quei temi si era andato insinuando: «Io sono infedele (dissidente, eretica come dice Eugenio)», purtuttavia dichiarava anche di sentirsi «cattolica e di poterlo rimanere».
Non sono dunque marginali le acquisizioni che quei carteggi ci consentono, fissando, magari per luce riflessa, l’evolvere dei moti mentali di Eugenio nei suoi anni giovanili. Ma addirittura decisive sono le conclusioni a cui le lettere di casa Montale conducono allorché ci si addentri nel tema chiave del suo atteggiamento verso il grande evento collettivo in cui venne coinvolto tra i 19 e i 22 anni. Periodo nel quale le vite del fratello e della sorella sono costrette a misurarsi sul duro terreno della storia, ossia del qui e ora, dove la vaghezza di un certo astratto compiacimento intellettuale era destinata a lasciare il posto a scelte ineludibili e a giudizi dai concreti risvolti immediati. Così, l’Eugenio che va con animo profondamente turbato verso la guerra venendone poi totalmente coinvolto e che si riflette nello specchio delle lettere di Marianna acquista un profilo umano incisivo, e le luci e le ombre che da esso emanano sono le luci e le ombre della disumana realtà che gli tocca vivere.
Anche sotto questa angolatura, è impossibile non registrare la forte influenza dei barnabiti che frequentarono casa Montale. Quel loro vago riformismo religioso sul terreno politico e della realtà attuale si convertiva indefettibilmente in una inclinazione nazionalpatriottica dai colori assai accesi. Basterà dire che Semeria, così intrinseco alla famiglia Montale, andò a svolgere il suo ministero presso il comando supremo diventando intimo dello stesso Cadorna e dei suoi familiari, posizione che certo non lasciava margini di dissenso rispetto agli orientamenti più oltranzisti della dirigenza politica e, soprattutto, militare italiane. Del resto, questo intenso nazionalismo, tutt’altro che raro nelle file dei modernisti, aveva una sua precisa ragion d’essere, perché uno spigoloso sentimento antichiesastico e antivaticano si accompagnava bene, per contrasto, a un atteggiamento di lealtà verso lo stato nazionale che era l’erede del 20 settembre. Di qui fu inevitabile che molti modernisti approdassero all’interventismo, primo passo di un itinerario che si sarebbe trasformato in una fatale vocazione fascista. Si trattò di una non rara parabola, si pensi a Romolo Murri, a Semeria stesso, a don Brizio Casciola e a molti altri. Un percorso che non mancò di trovare un inevitabile riscontro anche in padre Trinchero. Ed è del pari vistosa l’influenza che da questo punto di vista il barnabita, che aveva un rapporto molto intenso con Eugenio, esercitò sui due più giovani rappresentanti della nuova generazione dei Montale.
Quando, durante la guerra l’acre spirito nazionalista del Trinchero prese a impregnare la sua predicazione, una così ostentata scelta di campo da parte di un sacerdote parve ai suoi superiori del tutto impropria e tale da dover essere sanzionata con un provvedimento disciplinare che gli impose la proibizione di predicare. Tale interdetto suscitò una risentita contrarietà in Marianna che dichiarava di essere «avvilita e spiacente» che fosse stata fatta tacere «la sua voce infiammata di patriottismo», un sentimento che dunque era coltivato con fervore sia dal fratello, sia dalla sorella. Non meno significativo nel considerare la grande influenza che questo barnabita esercitò nell’orientare e confermare l’inclinazione schiettamente nazionalista dei Montale è il fatto che a lui si debba la lettura da parte di Eugenio e di Marianna del testo capitale del risveglio nazionalistico italiano di inizio secolo, La rivolta ideale. Opera di Alfredo Oriani, lo scrittore che sarebbe ufficialmente assurto al rango di ineguagliato precursore del fascismo (tra l’altro, l’edizione nazionale delle opere del prolifico autore sarebbe stata pubblicata con la presentazione di Benito Mussolini e avrebbe goduto anche della collaborazione di un personaggio che sarebbe stato centrale nel dare forma al patriottismo montaliano, Francesco Meriano, di lui ci occuperemo tra breve). Quel libro era stato edito otto anni innanzi e sarebbe venuto a costituire una vera summa degli umori e dello stile intellettuale di cui si volle fare portatore il regime nato nel dopoguerra. Marianna, dopo averlo avidamente letto lo avrebbe trasmesso all’amica Ida nel novembre del 1916 corredandone l’invio con queste parole: «Che tono, ha sempre l’Oriani! Qualcosa di profetico, di malinconico e di appassionato insieme! Fu allievo dei barnabiti; poi negò la religione, anima inquieta e vulcanica, ma all’ultimo sembra rientrare in sé con una pensosità nuova, e morendo volle i sacramenti». Non sfuggirà l’ultimo passaggio di quella annotazione, nel quale, come già era accaduto parlando di Tyrrell, Marianna misura con precisione la limitata estensione di un pensiero religioso critico che fu suo e di molti modernisti. Era questo un anticonformismo che si tendeva sino all’estremo limite di una possibile eresia ma che si negava assolutamente a varcare soglie che potessero preludere a un conflitto jusqu’au bout con la gerarchia ecclesiastica. Quanto all’influenza in senso decisamente nazionalista del Trinchero si deve aggiungere che egli fu anche all’origine di un’altra lettura di Eugenio per molti versi non disgiunta dalle contingenze del momento, i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte.
Come non accadde solo a Marianna, in lei la passione nazionale era già andata erompendo alla vista dei soldati partenti per la Libia, vicenda che fu, sotto diversi profili, il preambolo del maggio ’15 (in proposito, non del tutto superfluo è il ricordo del celebre scritto di Renato Serra ispirato a una identica situazione). In una lettera a Ida del dicembre 1911 inevitabile era stata la contrapposizione assai di maniera tra i «valorosi, gentili nostri soldati» e i «feroci» turchi e arabi che «martirizzano i poveri soldati italiani». Ma la descrizione del tripudio popolare che si stringe come una calorosa morsa intorno alle truppe che si recano alla stazione ha l’aspro sapore della verità: «Tutti volevano abbracciare quei bravi ragazzi che partivano». Pochi anni più tardi Marianna avrebbe potuto cogliere sentimenti non diversi in occasione delle varie partenze per il fronte da parte dei fratelli.
Pensieri sulla guerra
Di fronte alla guerra mondiale vi è un primo tempo in cui un certo retroterra umanitario e vagamente tolstojano non manca di farsi sentire, sia in Eugenio sia in Marianna. Da quegli strati profondi viene una originale attenzione alle ragioni degli altri, ossia del nemico. Anche i giovani austriaci che muoiono a migliaia sono, in fin dei conti, poveri esseri umani trascinati dal turbine della storia, e Marianna avverte nell’aria «un odio che non mi va» e dal quale dice che ci si deve guardare: i soldati austriaci non sono «belve», «ma no; sono tutti poveri figlioli che fanno il loro dovere!». Il dovere, ribadisce, non l’odio è ciò che deve muovere i nostri combattenti. Quell’impulso umanitario è frutto di un alquanto astratto ottimismo che giunge a far scrivere in una sua lettera: passato il furore dell’attacco, «coi compagni e coi nemici feriti» i nostri soldati «son capaci di star digiuni e dare il loro cibo. E spesso odiano i nemici solo per amore dei compagni caduti. La maggioranza capisce che sono poveri soldati come loro».
Tuttavia, questa imperturbata equanimità che attinge a lontani valori assoluti ha intatto vigore quando si tratta di mere speculazioni intellettuali, ma si fa instabile allorché le vicende belliche diventano particolarmente aspre, toccando da vicino il destino di amici e di parenti. Di fronte ai due schieramenti che si combattono fino all’ultimo sangue, anche in Marianna quel sublime e distaccato equilibrio dà percepibili segni di un indebolimento perché, presto o tardi, tutti sono costretti a scegliere, o di qui o di là, o spietatamente accettare l’obbligo di uccidere sempre e comunque o rifiutare la guerra ab imis. Così, ecco che nei suoi discorsi fatalmente si insinua il germe di una differenziazione tra i due campi in lotta che porta a esprimere senza troppo pudore la certezza che solo nella guerra italiana sia possibile cogliere il vero «sentimento della giustizia e della nobiltà di una causa», che, immancabilmente, diviene «la nostra causa». Mentre, per definizione la giustizia non è un valore che si possa negoziare, l’oggettivo prevalere «dei propri diritti» appare a Marianna fuori discussione.
A conti fatti, per trovare una rigorosa legittimazione della propria discesa in campo, sembra che occorra introdurre un fattore ulteriore, un principio che prescinda dal giusto e dall’ingiusto, dal torto e dalla ragione. Questo qualcosa non può che consistere nell’individuare nella guerra un valore, un valore in sé. Ecco dunque che si scopre che «la guerra porta le anime a un contatto colle realtà della vita che giova sempre, che apre orizzonti impreveduti di verità spirituali ad anime prima addormentate. L’anima è messa dinanzi a sé stessa e alla morte. Tante piccinerie spariscono, tutti i sentimenti più sani rinvigoriscono, tutte le scorie sono spazzate via da un fuoco purificatore, la parte migliore della natura umana si scopre». Il punto d’approdo ultimo è però non poco insidioso. Perché per dare fondamento a quei valori rivelati dalla guerra appare necessaria una giustificazione che non può che derivare da dio: «Se Dio permette tanti strazi certo ci deve essere un perché; anzi sento che c’è, sebbene non lo possa afferrare. E qualche perché ce lo vedo anch’io, vedo che tutto non è brutto nella guerra… Morire dobbiamo tutti: il problema è nel modo di morire, bene o male. E quale morte più bella di chi cade per fedeltà al proprio dovere? Dio benedica i nostri soldati!». Non sfuggirà dove conducesse quel distinguere tra il morire «bene» e il morire «male»: il primo era quello della propria parte, il secondo, ovviamente, quello dei nemici. Ma non si potrà comunque non dire che su quel dio tanto implicato in quei massacri si stendesse un’ombra che Marianna non avrebbe potuto non avvertire, ma che se fosse stata percepita, tuttavia, non avrebbe lasciato indenne quella fede. D’altra parte, per chi credeva in dio come sarebbe stato possibile non invocarlo proprio in quelle condizioni estreme, anche se era un dio in verità assai poco rassicurante quello che reputava che l’umanità, secondo quanto scriveva, avesse «bisogno ogni tanto di passare attraverso questo crogiuolo doloroso», nel quale si pretendeva che «nulla» andasse «perduto di questo slancio dello spirito, di quanta energia morale la guerra ravviva».
Quando scendeva da queste vertiginose altezze Marianna dimostrava di essere ben dentro la realtà del come e del perché l’Italia era entrata in guerra. Il suo, tuttavia, non è dubbio che fosse il perché chiaro e inequivocabile dell’interventismo. Erano le ragioni di chi tacciava Giolitti di essere stato «pagato dai tedeschi», e che con quei soldi, si aggiungeva, era venuto a Roma «col suo neutralismo» per mettere «i bastoni nelle ruote» al sacrosanto interventismo. Nei giorni del radioso maggio aveva scritto a Ida: «Tu sapessi che eccitazione, che fermento negli animi! Se la guerra non si facesse fanno la pelle a Giolitti certamente. A Roma c’è un fermento indescrivibile. Qui, anche, ieri una dimostrazione enorme ha avuto luogo. Abbiamo la guerra civile se non impegniamo l’altra. Guarda, sono frenetica persino io!». Allo sguardo di Marianna, non poco insidiato dal calore estremo di una sovraeccitazione nazionalpatriottica, il paese sembra unito in un unico abbraccio: «Non è stato il Governo – dice – a decidere, e la nazione a seguirlo per un senso forzato del dovere; no è il paese stesso che ha fatto conoscere la sua volontà». E non sono parole dettate solo da una momentanea ebbrezza. Due anni più tardi, di fronte al crollo dello zarismo, che presto la avrebbe delusa, Marianna, in quel momento in cui neppure lontanamente immagina cosa uscirà dalla rivoluzione russa, scrive: «Mi vengono in mente le nostre giornate di maggio, quando anche il nostro popolo si è fatto sentire al di sopra di ogni combriccola parlamentare». E dunque non uno degli elementi del paradigma interventista mancava nel dire di Marianna, che riteniamo sintetizzi efficacemente e con fedeltà gli umori di casa Montale, e di Eugenio stesso.
Così, in quella famiglia dove si legge Tyrrell ma non manca l’attenzione per Oriani, che non poteva certo essere depurato da tutto l’intrinseco suo «disprezzo per l’uomo medio» e il «gregge», l’individuo «umanitario e filisteo», non c’è dunque contrasto tra una adesione a uno schietto riformismo religioso e, insieme, una attenzione alle fonti di quella «rivoluzione ideale» di cui il fascismo pretenderà di essere l’inveramento. La guerra suscita in casa Montale sentimenti che potrebbero essere contrastanti, a causa del dolore autentico che fa provare l’immensità delle sofferenze che colpiscono i soldati di entrambi gli schieramenti, ma al dunque il richiamo alle esigenze di uno sforzo collettivo degli italiani che porti alla vittoria è l’elemento che fa tacere ogni altro e diverso pensiero. E non si trascuri di rilevare come in quelle esortazioni si insinuassero parole e pensieri che già colpivano a morte il parlamento quale strumento veramente capace di affrontare le sfide del tempo presente. Era un atteggiamento che ben sappiamo quanto fosse essenziale al nazionalismo italiano e che tal quale si sarebbe ritrovato nel fascismo. Così, in occasione della Strafexpeditiondell’estate del 1916, che già faceva correre all’esercito italiano pericoli mortali, in una lettera che avrà certo avuto una eco familiare perché Marianna non la avrà tenuta per sé, vi sono espressioni che si trovavano solo nelle più intense dichiarazioni del nazionalismo antidemocratico: «Hai sentito delle dimissioni di Salandra? [che come è noto fu l’artefice dell’entrata in guerra dell’Italia]. Spero che il re lo riconfermerà. È che il nostro parlamento non è niente l’espressione della voce del paese, del popolo! Mentre i nostri soldati muoiono! Si è mostrato ben superiore, il Paese, a tutte le combriccole ‘parlamentari’». Sono tipicamente parole che avrebbero potuto essere tolte di peso dal «Popolo d’Italia» di Benito Mussolini.
III.
Gadda a Caporetto
L’illusione della pace
È più che probabile che Gadda nei primi mesi del 1917 fosse venuto a conoscenza di vaghe notizie circa una possibile fine della guerra, magari con una resa concordata tra le parti, ossia, di fatto, senza vincitori né vinti. Proprio nella pagina inaugurale del quaderno che sarebbe divenuto il Taccuino di Caporetto si ha la prova che anche in Gadda si stesse facendo strada un insopprimibile senso di smarrimento di fronte allo stallo della guerra di posizione e a tutto ciò che aveva dovuto vedere nei due anni che già aveva vissuto al fronte. Non poco sorprendente è la pagina di esordio che egli compose il 5 ottobre 1917 nella quale ci imbattiamo in una annotazione che di fatto sancisce l’avvio di una profonda revisione circa il suo giudizio sul conflitto in corso. Scriveva infatti: «La fine della guerra, che si dice prossima, mi fa grigie queste ore, con il pensiero che la parte eroica della mia vita è ultimata. Tuttavia la ragione considera come mio bene la fine delle ostilità per molti e molti motivi che non è qui il caso di riassumere».
Non stupisce che Gadda fosse stato raggiunto dalle voci di una pace di compromesso che sin dalla fine del 1916 avevano preso a circolare nei diversi fronti rimbalzando tra le varie articolazioni di quella che si sarebbe poi chiamata «radio naja». Ma una simile prospettiva, che pure per la stragrande maggioranza dei soldati era una ardente speranza, era al contempo una bruciante negazione delle ragioni dell’interventismo a cui Gadda si era votato anima e corpo da quando D’Annunzio aveva acceso il grande incendio che avrebbe travolto i neutralisti. In verità, se mai si fosse giunti a una pace che non fosse il frutto di una schiacciante vittoria italiana, l’effetto non sarebbe stato per tutti il medesimo. Il contraccolpo sarebbe stato esiziale proprio per quel vario nazionalismo che aveva di fatto imposto la guerra alla maggioranza. Chiuso in quel momento il conflitto, le centinaia di migliaia di inutili morti e feriti e le immense distruzioni materiali già avvenute avrebbero probabilmente stroncato una volta per tutte le velleità dei nazionalisti, e con esse è più che probabile che si sarebbe spezzato quel filo rosso che congiunse la guerra alla nascita del fascismo.
Dobbiamo del resto osservare che dubbi, sia pur vaghi, circa l’esito della guerra si erano da tempo già insinuati in lui. Non era dunque la prima volta che l’ipotesi di una pace che non fosse frutto di una debellatio si era affacciata nel diario. Ma quando ciò era accaduto, si era nei giorni drammatici della Strafexpedition, aveva ammesso che se mai avesse invocato la cessazione della guerra, lo avrebbe fatto «per debolezza, per stanchezza». C’è poi un passaggio di una sua lettera scritta nell’agosto successivo, allorché i tremori e le angosce provocati dal recente attacco non apparivano del tutto svaniti, che può offrire uno straordinario lampo di luce sui pensieri che si agitavano in lui e che non dovettero mancare di apparire inquietanti anche a chi li formulava. Cogliendo ciò che una comprensibile reticenza gli impediva di manifestare troppo apertamente Gadda mostrava che cosa fosse ormai venuto a pensare dell’enorme azzardo che si era rivelato il coinvolgimento italiano nella guerra quando aveva combattuto aggrappato al ciglio dell’Altipiano venendo a provare la ferale sensazione di un imminente crollo del fronte italiano. Così, al «divino» Gobbi, compagno di studi e di trascorsi interventistici scriveva: «La presa di Gorizia mi riempì di gioia, anche pel gusto di averle fregate a quegli assassini che mi scagliano pallottole esplosive e che fanno 1000 carognate. Tuttavia non mi fo illusioni sulla durata del conflitto: io sono felice di compiere il mio dovere, ma auguro a chi più soffre, di vederne la fine nel 1917». Un filo diretto correva dunque tra quelle due attestazioni testuali dell’estate 1916 e il brano di diario del 5 ottobre dell’anno successivo. Tutto quanto era andato scorrendo sotto i suoi occhi, si può dire sin dalla primo giorno di guerra, e anzitutto la debolezza morale che appariva aver intaccato in profondità il corpo del paese, in alto come in basso, avevano fatto affiorare in Gadda se non un ravvedimento circa l’entrata in guerra dell’Italia, certo un estendersi dei dubbi. Si trattava di un revirement di fatto che non poteva condurre a troppo esplicite affermazioni, che avrebbero comportato anche una dissonanza cognitivamente destabilizzante in chi ancora combatteva in ossequio a un perdurante senso del dovere e dell’onore militare. Del resto, non sembra che egli si rendesse pienamente conto degli effetti politici e sociali che una pace di compromesso avrebbe avuto sull’Italia e la sua classe politica che bon gré mal gré erano state condotte a quelle inutili stragi.
Nella nota che redigeva a ridosso di Caporetto si avverte come il disinganno della guerra avesse fatto ulteriori passi avanti, ma Gadda, per intanto, attenuava questi pensieri, che in sé erano quasi indicibili, e l’invocazione della pace, per quanto nettamente espressa, rimaneva avvolta da un velo di reticenza.
Il 4 ottobre, il giorno prima che Gadda componesse quella pagina di diario in cui con tono tutto sommato non scandalizzato si riferiva a una possibile prossima pace, un autorevole membro del comando supremo registrava nel suo diario questa tranquillizzante constatazione: «La partita per quest’anno pare che debba essere finita». E però, nel frattempo, ai primi di settembre un alto ufficiale tedesco aveva effettuato una accurata ispezione del fronte sull’alto Isonzo e di ritorno al suo quartiere generale aveva scandito tre parole: «Si può fare». Quel giorno, da quel moto di assenso scaturiva la scintilla che avrebbe provocato la rotta di Caporetto, della quale le note scritte di Gadda sono la registrazione di quanto egli consegnò a vari testi scritti tra l’immediata vigilia dell’attacco e la fine di dicembre 1917.
Una ritirata, non una fuga
L’atmosfera rilassata nella quale il reparto di Gadda trascorre nella tarda estate del 1917 i suoi meritati giorni di riposo a una ventina di chilometri a sud-ovest di Tolmino muta improvvisamente il 17 ottobre alle ore 11 quando giunge l’ordine di trasferimento nei pressi del Monte Nero perché «nei passati giorni si temette e tuttora si teme una offensiva austro-tedesca contro il nostro settore». Dopo una marcia di brutale durezza, a tarda sera la compagnia di Gadda mette piede in un villaggio chiamato Caporetto sulla riva destra del medio Isonzo, fiume a carattere torrentizio che attraversano su di un ponte che diverrà una settimana più tardi l’epicentro della rotta. Con ulteriori balzi raggiungono nei giorni successivi la cima del Krasji, un poderoso monte che con i suoi 1768 metri incombe su quel modesto villaggio. Con costernazione scoprono che quella cima è «nuda affatto, senza alcun lavoro guerresco: non strada, non trincee, non ricoveri, non gallerie». E tuttavia, si installano alla bell’e meglio su quella inospitale elevazione espostissima alle intemperie, e non meno alle artiglierie nemiche: «Così finì il 22 ottobre». Il tono epigrafico con cui Gadda scolpisce quella data sottolinea come quel giorno e quelle ore segnino uno spartiacque nella sua vita. Le successive pagine del Taccuino scritte quando è ormai prigioniero, con un accrescersi di tensione ci portano nel cuore del funesto destino che attende quel reparto.
Dopo un falso allarme, il vero attacco inizia alle 2 di notte del 24 ottobre con un poderoso bombardamento. Mentre il tiro nemico si fa «aggiustatissimo», qualcosa di singolare attira l’attenzione del tenente in seconda: le ore passano ma nessun «fuoco di fucileria» si ode venire dalle prime linee che corrono di fronte a loro, qualche centinaio di metri più in basso. Quel silenzio era inesplicabile. È a questo punto che giunge il primo sinistro segnale che indica come qualcosa di grave stia accadendo. Per spezzare il loro «assoluto isolamento tattico» che li faceva sentire «pericolosamente soli», si inviano due portaordini in cerca di notizie, i quali tornano con un biglietto su cui si legge: «Sul fondo valle l’azione non volge bene per noi». Sono parole ferali, annunciatrici di imminenti eventi disastrosi, che lasciano tutti «addolorati e stupiti». Tra dubbi e speranze, Gadda e i suoi mitraglieri sul finire di quel 24 ottobre si apprestano a passare la notte scrutando nell’oscurità che chiude lo sguardo di fronte a loro, in vigile attesa di un «attacco a fondo» da parte del nemico.
Mentre Gadda tenta di discernere nel buio e nella nebbia le ombre di un assalitore che da lì non sarebbe mai venuto, finalmente giunge l’ordine della ritirata emanato dal comando di divisione dodici ore innanzi. L’imperiosa ingiunzione, scrive, «mi fulminò, mi stordì» e non mancò di suscitare un aspro e disperato commento: «“Lasciare il Monte Nero!”; Questa mitica rupe, costata tanto. […] Lasciare, ritirarsi; dopo due anni di sangue. Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento che m’annientò». Nel buio, nell’agitazione, nel caos incombente, mentre echeggiano concitate grida di far presto, «con la mente fulminata dall’orribile pensiero della ritirata», il reparto inizia la discesa verso Caporetto non sapendo che il ponte sull’Isonzo già da ore era stato fatto brillare dagli italiani stessi non si sa per ordine di chi. Si era verso le quattro del mattino del secondo giorno dell’attacco, il 25 ottobre 1917.
Lungo il tormentato sentiero di discesa a loro si mescola via via il flusso scomposto di molta parte di quanto resta della loro divisione. Coinvolto in quella fiumana di sbandati il tenente non cessava di «sacramentare contro i fuggiaschi che si frammischiavano» ai suoi soldati. Davanti e dietro, a fianco e in mezzo a loro c’è un po’ di tutto: reparti di ogni arma che mantengono ancora, ma per poco, una certa apparenza di ordine militare, ma soprattutto fiotti di disperati, i più senza armi, che si buttano lungo la china da soli o casualmente aggregati ad altri. Gli uomini di Gadda no, loro affrettano il passo scendendo «ordinatissimi», ma in verità anche la sua compagnia inizia presto a sfaldarsi. Giunti sul greto dell’Isonzo, stupefatti vedono il ponte crollato e ancora più increduli scorgono sull’altra sponda una «lunga fila di soldati neri», «il cuore mi s’allargò pensando fossero nostri rincalzi». È un lampo di speranza che dura un istante. Quelli «sono tedeschi», immediatamente fanno coro gli altri.
E siamo all’esito estremo. La realtà si impone anche a Gadda che, schiantato da quella che gli appare essere una immane «sciagura nazionale e personale», ormai esausto si getta sull’erba. Il seguito viene da sé. Carico di «dolore» e di «umiliazione»: fa uscire dai ranghi un soldato sventolante un fazzoletto bianco, è la resa. Gettate le armi, uno ad uno, strisciando su alcune malferme assi che permettono a stento di valicare il fiume in piena si consegnano a una sentinella tedesca che li tiene sotto tiro. Ma l’immagine dei suoi uomini ormai prigionieri che ridotti a un «branco» dissimulano «la tranquillità per lo scampato pericolo» provoca in lui un moto di incontenibile rivolta.
Mentre è assorto in una intensa contemplazione delle rovine del ponte, lo sguardo di Gadda, allargandosi, deve penosamente registrare visioni da sabba: «Un soldato nostro ubriaco» che spilla «vino da una botte aperta e il cui contenuto era in parte uscito ad arrossare il polverone della strada». E attorno altri «soldati nostri si chiamavano al festino». Per ogni dove lo sguardo incontra chi è intento a gozzovigliare, chi a tracannare vino, vuoi tedeschi, vuoi italiani: con una differenza: «i primi armati, gli altri no», ovvero i primi vincitori, i secondi ignominiosamente sconfitti. La narrazione di Caporetto si concludeva con parole incise nel bronzo: «Finiva così la nostra vita di soldati e di bravi soldati, finivano i sogni più belli, le speranze più generose dell’adolescenza: con la visione della patria straziata, con la nostra vergogna di vinti iniziammo il calvario della dura prigionia, della fame, dei maltrattamenti, della miseria, del sudiciume». Erano parole scritte nel suo diario il 10 dicembre 1917.
Un’ombra tragica
Gadda, poco prima di darsi prigioniero, aveva tentato di ingaggiare un combattimento ravvicinato con gli slesiani, «la nera fila dei nemici» divenuti ormai padroni della sponda destra dell’Isonzo quella che avrebbe dovuto addurre all’Italia. Si era anche esposto in un atto di sfida, ma ne era stato bruscamente distolto dal comandante della compagnia e da tutti i soldati che temevano, ben a ragione, che «ci sparassero: ma purtroppo non spararono, si curavano poco di noi». Il tenente in seconda, però, non può non dire che «alcuni, più paurosi, temevano per la vita e avrebbero voluto darsi subito prigionieri». E qui egli citava nominativamente i reprobi a futura vendicativa memoria: «Ricordo fra gli altri paurosi…». Non dissimile sprezzo del pericolo aveva messo in mostra il giorno precedente allorché sotto il violentissimo bombardamento, obbedendo al principio che «l’ufficiale deve esporsi per animare e tranquillare i soldati», era andato a ispezionare le postazioni delle mitragliatrici amabilmente chiacchierando con i serventi sotto una pioggia di granate.
Ma la vergogna di Caporetto, provocata dall’essere caduto prigioniero senza aver neppure sparato un colpo, non sarebbe trascorso un sol giorno senza che fosse da lui rievocata sino alla sua più tarda età. Occorrerà aggiungere che non si trattava, in questo caso, solo di una patologica ipersensibilità soggettiva. Su coloro che si erano resi prigionieri, da sempre, e certo ancor più dopo Caporetto, le gerarchie militari e politiche avevano fatto gravare il sospetto che spesso si fosse trattato di una occulta diserzione. D’Annunzio, già qualche mese prima della rotta aveva addirittura affermato che i prigionieri di guerra italiani erano «imboscati d’Oltralpe», e ci sono pochi dubbi che Gadda non condividesse in gran parte quel giudizio. Era un’opinione che approssimandosi la fine del conflitto portò il governo ad apprestare particolareggiate inquisizioni per potere, se del caso, comminare le dovute severe punizioni. Fu così che anche Gadda, rimpatriato il 13 gennaio del 1919, poche ore dopo il suo ritorno a Milano si vide recapitare l’ordine di presentarsi a tambur battente davanti a una commissione presieduta da un generale che teneva le audizioni a Livorno, presso la quale egli lasciò anche una relazione scritta. Venne scagionato da ogni sospetto. Bastarono poche settimane, del resto, perché i gravi problemi del dopoguerra seppellissero le velleità vendicative coltivate dal governo e dall’apparato militare. Ma ciò non significò che Gadda stesso non avesse finito per essere contaminato da quella accusa ritenendo di non aver fatto abbastanza per combattere il nemico nella sua travolgente avanzata.
Molte pagine del diario in cui Gadda registra le note che prende durante la prigionia ruotano intorno a un tema fondamentale: il senso di colpa che lo attanaglia per aver tradito l’impegno che egli aveva preso con sé stesso, di difendere la patria se necessario sino alla morte. Certo la descrizione di come era caduto prigioniero che aveva redatto lui stesso nel memoriale terminato alla fine di dicembre del 1917 non lasciava alcuna ombra di dubbio sul fatto che la sua compagnia, giunta a contatto del nemico in piena efficienza militare, nulla avesse fatto per usare quelle armi individuali e collettive che erano state faticosamente portate solo per essere pacificamente consegnate al tedesco che aveva accolto la loro resa. E che il comportamento di molta parte dei suoi uomini, non diversamente da quello di migliaia di altri fuggiaschi, gli apparisse ignobile e gravemente censurabile è dimostrato anche dal fatto che il contenuto della relazione che consegnò alla commissione di Livorno il 20 gennaio del 1919 fu molto diverso rispetto a quello del memoriale da lui redatto 12 mesi innanzi. Contrariamente a quanto è stato giudicato, le molte omissioni e variazioni introdotte in questo secondo documento non ne facevano assolutamente una semplice copia del primo. E le varianti avevano una ben precisa ragione: celare la troppo accondiscendente resa della compagnia di cui Gadda era vicecomandante.
Le note del diario di prigionia, soprattutto quelle composte nella prima metà del 1918, illustrano la «vergogna» incancellabile e quindi «irredimibile» che gli avvenimenti di quei giorni di ottobre del ’17 avrebbero proiettato sulla sua vita, «per sempre». Vittima di circostanze o colpevole, sentiva di non poter evitare di essere collocato «tra gli infamati». Del resto, avrebbe aggiunto, «con quali parole potrò mai smentire la taccia di vile che mi sarà fatta in eterno? […] Così tornerò, se tornerò, a capo chino, tra migliaia di traditori e di cani, di puttanieri da café-chantant, di istruttori di reclute a base di bordello e di fiaschi in batteria». «Io mi sento finito: sento di non aver fatto a bastanza per la Patria».
Una pagina di ricordi scritta con grande forza introspettiva da Giulio Cattaneo, che gli fu confidente quando lavoravano alla Rai nei primi anni Cinquanta, cattura in una preziosa sintesi l’origine di una ferita che lungo i decenni lo scrittore non avrebbe saputo medicare: «Gadda aveva sperato di distinguersi al fronte ma non fu ferito e invece preso prigioniero […]. Era stato accerchiato col suo reparto e vedendosi i tedeschi addosso, dopo l’impulso a sparare e a farsi uccidere, si era arreso. Per tutta la vita avrebbe provato rimorso e vergogna […] Sentiva dopo mezzo secolo la vergogna di essere caduto prigioniero a Caporetto e a volte cercava di difendersi: “Non sono stato il solo; ero con trecentomila […]. Sono cinquant’anni che me lo rimproverano”». In verità nessuno lo aveva mai rimproverato se non lui stesso.
Montale dall’apatia alla fede nazionale
Eugenio soldato
Montale provò che cosa davvero fosse una guerra di trincea, quella guerra di trincea, solo nell’ultima fase del grande conflitto, tra l’estate del 1917 e la resa degli Imperi centrali avvenuta nei primi giorni del novembre 1918. Quando nell’agosto dell’anno precedente era stato invitato a presentarsi davanti agli ufficiali medici che con indulgenza lo avevano sino ad allora giudicato «rivedibile» – magica parola che nella più che secolare storia dell’esercito di massa italiano faceva sempre sbocciare nel cuore dei candidati al richiamo la speranza di non dover assaporare il piacere di servire la patria – è più che probabile che avesse ormai capito che le possibilità di farla franca si stessero rapidamente consumando.
I terribili vuoti che la 10a e la 11a offensiva sull’Isonzo avevano aperto, soprattutto nei ranghi degli ufficiali inferiori, coloro che avevano il compito di guidare gli attacchi, esigevano di essere al più presto colmati. Ciò che gli accadde venne registrato in quello che è il primo testo in cui si imbatte chi studia Montale, il cosiddetto Quaderno genovese, dal quale conviene prendere le mosse. Si tratta di una densa serie di note prevalentemente letterarie o genericamente culturali, irregolarmente prese tra il febbraio e l’agosto del 1917, dove rarissimi sono i riferimenti alla guerra in corso. Tra questi, i più espliciti risalgono ai mesi in cui sembra incombere l’arrivo della cartolina di precetto, dopo che già era più volte stato risparmiato grazie a un fisico non proprio adatto alle ardue prove della guerra.
Siamo all’inizio del 1917, un appunto assai contratto recita: «Lunedì, visita militare!»; e due giorni più tardi: «Ancora Rivedibile!», parole che potrebbero voler dire tutto e il contrario. Ma è probabile che fossero pronunciate con un certo sospiro di sollievo. Difficile comunque correlare il perpetuarsi della attesa con qualche definito moto dell’animo. Quel che trapela dalle annotazioni del Quaderno già rivela, tuttavia, i segni eloquenti di una incompiutezza esistenziale che diverrà il nucleo pulsante della sua vita, un mal di vivere che lo induceva a osservare: «Questo diario bisogna dire che non lo curo gran che; ma in fin dei conti ho poco o nulla da dire. Solito scagno, solita vita: il pomeriggio lo passo in biblioteca, dove mi annoio. Leggo stentatamente e vorrei… vorrei fare qualcosa di mio, ma… sono desideri; mi manca ogni volontà. La mia impotenza è prodigiosa. Passano i mesi ed io mi guardo vivere; e ne stupisco; tutto rimetto al domani. Arriverò così fino a sessanta anni, rimettendo tutto al domani?». È questa una nota vergata domenica 17 giugno 1917. In uno degli ultimi appunti che compaiono in quel testo, datato 2 agosto, tre parole sintetizzano lo stato d’animo di Eugenio a pochi giorni dal momento in cui per la prima volta avrebbe, riteniamo con un certo sbigottimento, preso in mano un fucile: «Apatia, indolenza, impotenza». Si trattava di un grigiore di sentimenti che nasceva anche dal rovello, che non dovette essere dei minori, suscitato dal dover seguire le orme commerciali del padre senza provarne trasporto alcuno, ma che soprattutto si radicava in quel suo «maladjustment», un raro vocabolo inglese con cui più volte a decenni di distanza avrebbe definito la sua «totale disarmonia con la realtà», e quindi avrebbe anche inteso esprimere la sua estraneità alle vicende politiche e civili dell’Italia tra le due guerre. Ma lunedì 13 agosto, chiamato ancora una volta, è la quarta, alla visita di leva, la sua «debole costituzione» precedentemente dichiarata viene convertita dai medici militari nel funesto «abile e arruolato» che lo condurrà ai primi di settembre a essere incorporato in un distaccamento accasermato a Oleggio. In verità, quell’esito era ormai nell’aria, se è vero che in una lettera di Marianna del 9 agosto si legge: «Eugenio deve ripresentarsi alla visita, e mammà è triste ma rassegnata», ciò che accadeva anche perché era piuttosto ingrassato e i 76 centimetri di torace non lo mettevano più al riparo dal richiamo.
La partenza di Eugenio per il centro dove si tiene il corso per allievi ufficiali è seguita con estrema trepidazione da Marianna che ne teme la gracilità fisica e la ipersensibilità psichica, due caratteri, nota, che male si combinano con la vita in una istituzione come è quella di un esercito in guerra, dove l’individuo è destinato ad annegare. Nella tarda estate del 1917 i quattro fratelli Montale sono quindi tutti sotto le armi. Ugo era partito ancor prima che iniziassero le ostilità e tutta la famiglia era accorsa a vederlo «ritto davanti al finestrino, così bello, fiero, marziale e caro!». Nel novembre del primo anno di guerra era toccato ad Alberto, che in famiglia aveva fama di nazionalista, «come quasi tutti gli universitari» aveva precisato Marianna. Infine, nel luglio del 1916, era andato al fronte anche Salvatore.
A completare lo schierarsi dei miei «ragazzoni», dei miei «guerrieri», come era solita dire la madre, non mancava dunque che Eugenio. Sin dall’inizio del conflitto, tuttavia, la sua immagine di soldato aveva suscitato uno stupore incredulo: «Così sveglio e spregiudicato è di mente! Ma così bamboccio ancora nell’anima». Quel «piccolo bimbo smarrito», «pensa se lo pigliassero mai soldato come si troverebbe in caserma!», aveva scritto Marianna a più riprese. Ora che l’impensabile è accaduto, la sorella si lascia prendere dalla singolare idea di seguirlo nella prima destinazione, un centro di addestramento presso Novara, come se un uomo con l’anima «malinconica e inquieta, insoddisfatta», così lo aveva definito nel marzo precedente, rischiasse di perdersi nel vasto mare di un esercito in armi. Certo è che se il fiducioso ottimismo di Marianna le aveva dettato espressioni di sconfinata ammirazione per quell’«entusiasmo sincero che si era acceso» nei giovani italiani richiamati («Come vanno alla guerra i nostri soldati!», aveva annotato con un eccesso di fiducioso trasporto), la partenza di Eugenio avveniva sotto tutt’altra luce. Ma era Marianna che dimostrava di essere mille miglia lontana dalla realtà della guerra se nei giorni in cui si compiva quell’enorme macello che sulla Bainsizza e sul Carso portò tanti soldati a morire persino di sete, invitava l’amica Ida a pregare insieme a lei perché i fratelli al fronte potessero «sentire la luce di Dio».
Mentre la sorella dopo circa una settimana se ne torna a Genova, inizia per Eugenio il grande viaggio attraverso la guerra, che non sorprende se in un primo tratto è segnato da una profonda ribellione interiore. I segni di disadattamento che manda alla famiglia sono accolti con animo diviso. Per un verso suscitano una sincera commiserazione per l’ultimo e più fragile dei giovani Montale: «Quanto dovrà soffrire […]. Non più leggere e scrivere, non più libertà di cogliere o afferrare al volo l’ispirazione!». Ma per un altro verso è ancora vivo l’esempio dei fratelli che avevano fatto di tutto per dimostrarsi all’altezza della situazione e per non far impensierire la madre con racconti troppo crudi. E Ugo dal fronte aveva fatto giungere un tonante «Viva l’Italia! Vi abbraccio», ed era un monito il ricordare, come fa Marianna, l’esempio dei fratelli che quando andavano via «entusiasti e convinti, è niente il soffrire. Ma così!», con Eugenio intende, visibilmente intristito nell’animo, la partenza risulta intollerabile. Loro non sembravano aver subito un grande trauma andando «verso il dovere» e ora scrivono alla madre lettere serene «per consolarla di Eugenio». L’«individualismo sdegnoso» che Marianna intravede nel fratello e quel suo vivere «una vita più complessa degli altri, dotata di una sensibilità «malinconica», in breve quel vivere «assai più degli altri» costituisce un ostacolo pressoché invalicabile che impediva una normalizzazione del suo servizio militare. Tanto più che superando alla fine del mese di agosto la visita per l’ammissione al corso allievi ufficiali il futuro di Eugenio si fa via via ancora più oscuro. Marianna e la madre avevano confidato in un esito negativo, perché, non lo vogliono confessare neanche a sé medesime, un soldato semplice avrebbe avuto qualche probabilità di non andare in prima linea, ma gli ufficiali inferiori erano destinati a comandare gli assalti e, tutti lo sapevano, le probabilità di non tornare vivi erano assai alte.
Era in quelle strette che si era fatta strada l’ipotesi di escogitare un provvedimento che lo congedasse per inabilità o che quanto meno lo assegnasse a reparti non combattenti (una circostanza che sarebbe poi stata negata con orgoglio nel 1970 quando, evidentemente, quella debolezza doveva bruciagli ancora). Molto forte la crisi che, nel contrasto tra dovere ideale e necessità pratica, coglie in questo frangente Marianna che ha un moto di ripulsa di fronte a quelle vie oblique, che al tempo della guerra erano state all’origine di un frequentatissimo vocabolo, «imboscato», la cui universale occorrenza a chi scrive accadde di constatare ancora negli anni Settanta. «Ma io – confessa a sé stessa – una parola di più», per farlo esonerare dal portare lo zaino intendeva, «non ho potuto dirla». In un’altalena di pensieri contrastanti, le settimane trascorrono mentre Eugenio fa giungere la sua grande preoccupazione a proposito di una nuova visita: «Se inabile resto soldato qui, ma impazzisco, se abile ho mille probabilità su mille di lasciarci la pelle. Credo di soffrire più che altro di una disperazione filosofica senza fine… Possibile che il 99/100 degli uomini siano animali peggio che un cavallo o un mulo, senz’anima, senza cuore e senza pensieri? Gente che si direbbe possa morire a mucchi senza lasciar traccia né pesare un grammo sulla bilancia dell’Umanità! E l’uomo allora? Quest’uomo è immortale? Possibile? Se appare ai nostri occhi meno importante di un moscerino! E se quell’uomo non vale nulla, posso lusingarmi di valer qualcosa io? E dire che a volte credo di essere un mondo! È che lo credo ancora di più se lo nego!». Così scrive Eugenio in un incontenibile sfogo con Marianna che lei trascrive per Ida il 30 ottobre del 1917.
E quanto ai dubbi circa il poco onorevole escamotage di sottrarsi al dovere ricorrendo a qualche sotterfugio, a Eugenio che le chiede consiglio il 4 ottobre Marianna li rigetta tutti: «Ma sì, si dia malato, cerchi di arrangiarsi!». Un paio di settimane più tardi, il 21 ottobre, Montale è trasferito a Parma dove seguirà il corso allievi ufficiali. Ma vi è appena giunto e all’estremità orientale del fronte si verifica quel devastante attacco che provocherà il disastro di Caporetto.
Il principio della fine?
A Genova come in tutta Italia si diffonde una sensazione di smarrimento. Il 26 ottobre, due giorni dopo l’avvio dell’attacco, Marianna scrive a Ida: «Hai visto il bollettino di stasera?». Ugo, che era a Genova in licenza, «era così avvilito»: «io non ci torno più se si lasciano prendere quello che ci è costato tanto!», diceva. «Ma io ho fiducia nell’insieme», replica lei. E così, il fratello il 30 riparte per il fronte «contento di tornare su anche lui, in questo momento». Caporetto nella famiglia Montale è l’occasione per dimostrare tutto il suo patriottismo reale, non fatto di sole parole. A casa non resta nessuno: «Tutto quello che potevamo dare abbiamo dato. Si ha diritto di sperare, di parlare, di pensare alla guerra». È un lealismo che sfida il senso comune quando osservando che i tre fratelli sono lontani dall’Isonzo, si allude a una «fortuna quasi vergognosa» ma che si può accettare, perché non «è voluta». Marianna spera in uno scacco solo «momentaneo» e testimonia che Genova era tutta imbandierata con il simbolo dell’unità del paese. Ma ancora il 2 novembre il tono è lugubre: «Mia cara Ida, che debbo dirti? […] ho ancora fiducia, questo sì…Certo non si può pensare senza un brivido a ciò che potrà essere…ma è la guerra! E potrà essere il principio della fine». Cambiando completamente registro Marianna pensa, e non è la sola, che quel grande disastro possa paradossalmente dare qualche frutto, fare del bene, essere «una sferzata che sprona». Ma non tutto il fronte interno ha quel volto di severo rigore morale, i cinema e i teatri, si osserva, sono «pieni», segno tangibile della «tanta indifferenza» (e molti altri, tra questi Gramsci e Gadda, si esprimevano con analoga indignazione).
Sei giorni più tardi, mentre si hanno i primi segni di un affievolirsi dell’impeto nemico, Eugenio scrive una densa lettera alla «carissima sorellina», che è una delle poche sue degli anni di guerra, e l’unica di quello speciale momento. Questo scritto, che è tutto una lode dell’altruismo a cui è improntata la vita di Marianna, dice molto del loro intenso rapporto, mentre non dice nulla di ciò che è appena successo e ancora sta accadendo – forse anche, ma non solo, a causa della censura militare esercitata sulla corrispondenza: «Come a Oleggio, non faccio che pensare a te, tu sei diventata il centro dei miei pensieri. Come chi dicesse la mia ragione di vivere. Dico eresie? […] Sai che io non esisto se non quando ricevo vostre nuove e tue lettere; so bene che non ti chiedo poco; immagino anch’io quello che devi passare anche tu nella tua posizione, che pensi a tutto, provvedi a tutto e lavori forse senza soddisfazione, senza compenso; e forse senza consenso, senza controllo, né paragone, né misura; e forse senza amicizie vicine od autentiche o inoffuscate. A volte mi pare di capirlo anch’io quel che deve passare nel tuo cuore e nella tua testa; o forse m’inganno. Ma a me – lo credi? – come pare bella e feconda ed energetica la tua vita! Io sono un amico dell’invisibile e non faccio conto che di ciò che si fa sentire e non si mostra; e non credo e non posso credere a tutto quello che si tocca e che si vede. Son dunque proprio un antimilitare. Anche quando scrivo non sembra che parli a mezza voce per lasciare intendere, tra le sillabe, un po’ di quello che non so dire neanche a me stesso? Siamo intesi, dunque, che se tu mi sei vicina, io ti sono vicinissimo […]. So bene che sei sempre (o sembri) limpida e sans nuages. Ma che vuoi? A volte chissà che il filtro della malinconia non tenti il suo potere contro di te?».
Mentre Marianna confessa di vivere «a ondate, di dolore e di amore, di angoscia e di fede insieme, di sdegno anche», le lettere che si scambiano i familiari tra Genova e il fronte ridondano di fiducia e di reciproco incitamento a sperare. Salvatore esclama: «Aspettiamo con fede la nostra Marna». E Ugo rassicura i familiari: «Morale elevatissimo». Ma la madre non si trattiene un rimprovero all’indirizzo di Eugenio, al quale se fosse lì direbbe un po’ bruscamente: «Va’, fa’ qualche cosa anche tu!». In verità un così rude incoraggiamento sarebbe stato superfluo. A Parma infatti gli allievi ufficiali, «tutti», avrebbe precisato Sergio Solmi in una sua testimonianza, volendo accorrere al più presto al fronte chiesero di essere mandati come soldati semplici ad arginare l’invasione. Simili iniziative collettive, tuttavia, non erano contemplate nei regolamenti militari se non per essere duramente sanzionate come una forma di sedizione, ma considerato il generoso impulso da cui era scaturita la proposta, gli autori di quel gesto vennero più che blandamente puniti con una settimana di consegna. Non solo questo episodio, anche il clima che si respira negli ambienti genovesi che circondano i Montale quale ci viene restituito dalle carte appare giorno dopo giorno sempre più improntato a una fattiva reazione. E tuttavia, almeno in quel ceto si diffonde la terribile sensazione di essere giunti sull’orlo di un baratro che da un momento all’altro potrebbe inghiottire l’intero paese. Ma proprio l’incombere di esiti catastrofici, tali che nessuno è in grado di prevederne le conseguenze, si rivela il fattore decisivo di una ripresa per molti versi impensabile che ancora oggi non può non sorprendere. Così, non sono pochi nella cerchia di quella famiglia coloro che chiedono di andare al fronte volontari ed è inevitabile che chi ha fede come Marianna invochi «una Giustizia Superiore», che scaturisce dalla «certezza che il sacrificio cosciente di tante anime non possa essere vano». Il dio che si piega alle ragioni degli uni o degli altri non manca di affacciarsi in tutta la sua scandalosa provocazione negli animi di questi poi non tanto piccoli uomini ai quali si deve riconoscere che, al punto in cui erano stati trascinati dagli eventi, in qualcosa dovevano pur riporre le loro speranze. Certo, il ricordo di quella lettera che Eugenio aveva scritto nel settembre in cui descriveva il tedio della vita di caserma, una vita forse vuota, ma al riparo dagli enormi pericoli che incombono sui soldati che ora combattono, se combattono, non doveva indurre a soverchia indulgenza i parenti che erano a Genova. Tanto più ora la posizione relativamente tranquilla di Eugenio non può suscitare compassione nella sorella che non pare disposta a giustificare la richiesta da parte sua di un ulteriore «consiglio» su quei certi maneggi. Si trattava degli eventuali passi da intraprendere per farlo dispensare dal servizio. Il suo commento, tanto più dopo Caporetto, è tagliente.
BREVISSIMI CENNI STORICI-Sulla Valle del Turano e Colle di Tora le notizie storiche non sono molte e frammentarie ma sappiamo co ncertezza che in epoca preromana sorse qui una città Sabina denominata Tora o Tiora, l’esatta ubicazione di questo antico centro è ancora controversa, numerosi resti però sono ancora visibili nei monti circostanti il lago e in prossimità di Colle di Tora (Mura au Pizzu, Mura a’ Rocca, Mura dei Frainili e Rocca del Castellano). Questa antica città fu sabina e ricordata da Autori dell’antichità classica tra cui Varrone, Dionigi d’Alicarnasso e Plinio; è inoltre ricordata anche in numerosi documenti medievali del IX secolo (Regesto e Chronicon Farfensi).
Dopo la fine del Grande Impero, Collepiccolo e la Valle del Turano, insieme a Rieti e al resto della Sabina, attraversarono un lungo periodo di sconvolgimenti e un tumultuoso susseguirsi di invasioni e governi fino a quando non vennero definitivamente incorporati nello Stato Pontificio. Nel VI sec. i Longobardi divisero l’Italia in diciassette Regioni e trentasei Ducati Più precisamente, la Sabina andò a costituire in parte il “Patrimonium Sancti Petri” e fu inclusa nel territorio del Ducato di Spoleto. Con l’affermarsi delle autonomie locali, Colle di Tora, insieme agli altri centri vicini (Castel di Tora, Pozzaglia, Malamorte, Turania ecc) entrarono a far parte della Massa Torana, per lungo tempo proprietà dell’Abbazia di Farfa. Verso la metà del secolo VIII Colle di Tora e tutta la Massa Torana passarono sotto la giurisdizione papale.
Colle di Tora, un paese dalle case bianche, arroccato su una penisola che si protende nelle acque del Turano. Colle di Tora si presenta cosi, in un’affascinante cornice naturale che esalta le bellezze di questo centro dagli illustri antenati: si, perché Colle di Tora potrebbe stare anche dentro questo slogan, suggestivo, ma fondato. Infatti una città di nome Tora è ricordata da diversi ed importanti autori dell’antichità, primo fra tutti Dionigi d’Alicarnasso che riferisce della presenza in questo luogo del culto di un oracolo. L’ubicazione esatta di questo centro è stata però sempre molto controversa: dai documenti medievali, riferiti alla chiesa di Sant’Anatolia, si può dedurre che Tora sorgesse nel centro della Sabina, certamente non distante dall’attuale paese. Compreso durante l’età romana, come tutta la zona del Turano, nella regione Valeria, Colle di Tora in epoca longobarda faceva parte del gastaldato Turano. In seguito troviamo “Collepiccolo” il nome che indicava Colle di Tora fino al 1864 incluso nei paesi della cosiddetta Massa Turana, dipendente a partire dal IX secolo dall’importante e potente abbazia di Farfa.
Le frequenti incursioni di Saraceni ed Ungari – una tragica costante del nono e decimo secolo – determinarono probabilmente la nascita di un fortificato nucleo abitato, all’origine del paese quale oggi lo vediamo. Nel XIII secolo Collepiccolo entrò a far parte dei possedimenti dei Brancaleoni, una potente famiglia originaria della Romagna che con un suo ramo collaterale, quello degli Andalò, arriverà a dominare Bologna.
Agli inizi del XV secolo, la signoria su Collepiccolo passò agli Orsini del ramo di Castel Sant’Angelo. Questa casata tenne il paese fino al 1634. In quell’anno l’ultimo signore di cognome Orsini, e che rispondeva all’insolito nome di Maharbale, vendette il feudo ai principi Borghese.
Collepiccolo non assurse mai a grandi dimensioni: da un censimento compiuto nel 1713 apprendiamo che le famiglie del paese erano 60, per un totale di 350 abitanti.
Una piccola comunità quindi, dove l’assistenza spirituale era garantita da due sacerdoti ed un chierico, e quella sanitaria dalle sporadiche visite di un chirurgo.
Edificata su uno sperone roccioso che si protende nel lago del Turano, questo paese è senz’altro il più legato al grande bacino artificiale. Nel 1731 venne inaugurata la nuova chiesa del paese, dedicata a San Lorenzo e la cui prima pietra era stata collocata qualche anno prima, col contributo finanziario del principe Borghese. Con l’instaurazione della Repubblica Romana, al seguito dei tumultuosi avvenimenti della Rivoluzione francese, Collepiccolo, come tutta la Sabina, fu compreso nel dipartimento del Clitunno, con capitale Spoleto, uno degli otto dipartimenti nei quali era stato diviso lo Stato Pontificio.
Colle di Tora (Ri) Informazioni
Altezza sul livello del mare: 542 metri Temperatura invernali: da -4° a +18° Temperature estive: da +16° a +25° Prefisso telefonico: 0765 Codice di avviamento postale: 02020 Distanza da Rieti: 30 km Distanza da Carsoli: 24 km Abitanti: 440 Nome abitanti: “collepiccolesi”
Descrizione-Icona del genio indomito e tormentato, Vincent van Gogh ha ispirato un’incredibile quantità di film e libri che ne hanno celebrato il mito soprattutto alla luce del tragico destino. È proprio da quel mito che Frédéric Pajak cerca di allontanarsi per indagare la parabola di un uomo che in dieci anni di forsennato apprendistato è passato dall’imperizia dei primi schizzi a carboncino all’esplosione di colori dei capolavori dell’ultimo periodo.
Van Gogh, una biografia ripercorre l’erranza esistenziale e artistica del grande pittore, setacciandone l’epistolario per riflettere sugli eventi meno noti o più fraintesi della sua vita. In questa accorata indagine, Pajak raccoglie anche un’altra sfida: affrontare da disegnatore i dipinti di uno dei più grandi artisti di ogni tempo. Ne nascono meravigliose tavole a china che valgono mille interpretazioni, realizzate recuperando le tecniche e gli strumenti – perfino i giunchi di palude – con cui il maestro olandese ha rivoluzionato il vocabolario della pittura.
Tra immagine e parola, un duplice omaggio, unico nel suo genere, alla lucida visionarietà di Vincent van Gogh.
Descrizione-Antrodoco-Autentico tesoro d’arte medievale (è monumento nazionale) appena fuori l’abitato. La si vuole edificata sulla vestigia di un tempio pagano dedicato a Diana (sec.V^) vicino ad un cimitero cristiano. Gli indizi di costruzione romana sono totalmente scomparsi sotto i lavori di ripristino susseguitisi nelle varie epoche; restaurata nel IX e X sec., fu poi ampliata nel XI e XII sec. La chiesa è nominata dal Papa Anastasio IV in una bolla del 1154 e la sua consacrazione, avvenuta sotto il Vescovo di Rieti Gerardo nel novembre 1051, fu sanzionata dallo stesso Federico I nel dicembre 1178. L ’interno è a tre navate; nella parte superiore dell’abside è affrescata un’immagine del “Redentore benedicente”. La facciata è a capanna con tetto irregolare e rivestimento con pietre grezze, sul portale notevole l’arco semicircolare sorretto da un architrave ornato di foglie e di animali stilizzati; ai lati le due colonne con capitelli a fogliame risultano addentrate rispetto alle colonne e ai semipilastri che sorreggono l’arco stesso. Nella torre campanaria, a sinistra della facciata, ben visibile l’alternarsi di monofore, bifore e trifore la cui varietà del materiale presente, conferma chiaramente i vari interventi di restauro. La pittura meglio conservata è lo Lo Sposalizio di S. Caterina d’Alessandria, databile alla prima metà del XV sec.. Rilevante dal punto di vista architettonico, a destra della Chiesa, il Battistero di S.Giovanni a pianta esagonale; nella sua collocazione non ha raffronti nella zona configurandosi come caratteristica tipica delle Regioni del Nord Italia. L’interno presenta un interesse notevolissimo per gli affreschi sulle pareti stilisticamente appartenenti a pittori umbro- laziali-abruzzesi del tardo trecento che danno luogo a dei cicli: Storie di Giovanni Battista, Fuga in Egitto e Strage degli Innocenti . Notevole appare il Giudizio Universale sopra la porta del Battistero. Pregevoli gli affreschi della Pietà e la figura del Precursore. Da poco sono stati completati i lavori di restauro sugli affreschi della chiesa e del battistero.
Torino- 1928-1° mostra “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”-
Articolo di Comirias De Albroit-Rivista Il Corriere Fotografico-Torino
Torino- gennaio 1928- La Mostra del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”ha rivelato , come lo sanno le migliaia di visitatori succedutesi in quel troppo breve spazio di tempo, non diciamo una nuova tendenza ad una nuova scuola , ma la collettività di un senso d’arte e d’interpretazione della natura, che finora si ammirava sparsa e disgiunta nelle opere di pochi fra le fitte schiere di fotografi dilettanti e professionisti.
Colla prima Mostra del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica” si inizia una seconda tappa , che segnerà, non v’ha dubbio, il meriggio dell’arte nostra.
Iniziamo in questo fascicolo , con sobrietà di commento, la riproduzione di un buon numero fra le opere esposte, per quanti non ebbero modo di ammirare la mostra e per il modello a coloro che della mostra si persuasero a calcare le nuove vie. Veggasi adunque in “Lo STAGNO” di Carlo Baravalle ed in “LA SCIA” di Cesare Giulio quanto possa il senso delle cose artisticamente date anche colla maggiore semplicità di mezzi. Nell’uno e nell’altro l’omogeneità dello sfondo riempie l’intero quadro; questo rotto obliquamente dalla sottile scia degli sky, quelle di pochi ciuffi di alghe. Ma l’occhio spazia oltre i margini delle vedute e la mente si raccoglie e pensa e gode nel suo intimo pensiero.
Alla Mostra sociale erano ammesse le Mostre personali di tre grandi fotografi stranieri:Marcus Adams di Londra, Leonard Misonne di Glly nel Belgio, Josè Ortiz-Echague di Madrid. Diamo dell’Adams, l’aristocratico fotografo ritrattista, uno <Studio> e l’<Abito di gala> cose soavemente pensate e squisitamente rese; del Misonne, che conosce i piani lontani e l’atmosfera del paesaggio e le carezze di luce , un< All’ombra> e un <Mattino d’autunno>; dell’Ortiz infine, il forte fotografo tutto impregnato della pittura spagnola da Goya a Zoloaga <El viejo arrabelero> e< En el atrio de Anso>: lo zampognaro dal volto rude e incartapecorito e le quattro donne in attesa nell’atrio del tempio. Ma i visitatori della Mostra non dimenticheranno mai l’effetto d’assieme di quelle tre pareti che accoglievano ciascuna i venti originali dei tre fotografi d’oltr’alpe. Comirias De Albroit
Roberto Fiorini- Dietrich Bonhoeffer- Testimone contro il nazismo
GABRIELLI EDITORI – San Pietro in Cariano (Verona)
Descrizione- Questo libro di Roberto Fiorini lo si legge tutto d’un fiato. Per tre motivi. Il primo è che il suo contenuto – la storia di Dietrich Bonhoeffer, qui raccontata nei suoi momenti cruciali – possiede un grande potere di attrazione ed esercita su chi ne viene a conoscenza un fascino unico: non ci si stanca di sentirne parlare e non è facile staccarsi da una figura come la sua. Il secondo motivo è che in questo libro Bonhoeffer è molto più soggetto che oggetto. L’Autore, ovviamente, parla di lui, ma, soprattutto, fa parlare lui; e quando Bonhoeffer parla, è difficile non stare ad ascoltarlo; la sua parola è avvincente tanto quanto la sua vita, anche perché, mentre lo si ascolta, si ha l’impressione che ci parli non dal passato, ma dal futuro, come se quest’uomo fosse oggi più avanti di noi, ci precedesse e anticipasse: il suo discorso sul futuro del cristianesimo dopo la «fine della religione» (che in realtà non sembra finita), resta oggi più ancora di allora di un interesse palpitante. Ma c’è un terzo motivo per cui questo libro lo si legge tutto d’un fiato: è lo speciale punto di vista, inconsueto, ma accattivante, di chi ha imparato a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, di chi non ha potere, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti» in un itinerario che lo ha portato sino al “caso limite”, cioè alla sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo e alla conseguente salita sul patibolo 75 anni fa, il 9 aprile 1945.
Ora, in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche che evocano quei tempi oscuri nei quali la disumanità raggiunse dei picchi inimmaginabili. La chiarezza, la determinazione e l’intelligenza della fede con le quali Dietrich Bonhoeffer affrontò quell’”ora della tentazione” sono preziosi anche oggi per un discernimento più che mai necessario. Il suo amico e confidente Eberhard Bethge disse: «Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi». Bonhoeffer è stato e resta un testimone per chiunque si accinga a percorrere la «via stretta» (Matteo 7,14) della fede e della vita cristiana. Questo libro di Roberto Fiorini lo conferma in maniera egregia. (Dalla Prefazione del prof. Paolo Ricca)
Biografia di Roberto Fiorini, ordinato prete a Mantova nel 1963.Dal 1966 al 1972 ha svolto l’incarico di assistente provinciale delle Acli e dal ’68 al ’72 insegnante di religione nelle scuole superiori. Nel 1972, dopo un corso di infermiere generico, scelse di entrare nel mondo del lavoro. Fu assunto nel 1973, come dipendente all’Ospedale Psichiatrico di Mantova. Dopo il diploma di infermiere professionale ha operato nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitario e infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Negli anni ’80-‘90 ha insegnato etica professionale nei corsi di formazione degli infermieri allora gestiti dalla CRI di Mantova. Dal 1983 al 1989 è stato segretario dei preti operai italiani e dal 1987 è responsabile della rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsi di studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su “Theologia crucis in Dietrich Bonhoeffer”. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teologico del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) di Mantova. Dal 2010 ricopre l’incarico di assistente spirituale delle Acli provinciali. Nel 2015 ha pubblicato “Figlio del Concilio. Una vita con i preti operai”. Con altri (G. Miccoli, F. Scalia, R. Virgili, A. Rizzi), “Servizio e potere nella chiesa”, Gabrielli editori 2013.
GABRIELLI EDITORI – Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)
Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Non basta andare a capo a questo verso:
giù deve sprofondare, a capofitto
gettarsi dove risiede il tuo palpito
segreto, quello che pensiamo perso.
*
Anno scorso, dicono, una donna
si è spacciata per me. Mi somigliava
parecchio: aveva quel modo vagante
tutto mio di deludere, rideva
tremenda ai vetri come faccio anch’io
talvolta con la mia povera voce.
Quest’ingannatrice voglio trovarla
e baciarla sulla bocca: quanto amore
mi ha risparmiato, quanto male.
*
A lungo abbiamo discorso del dopo.
Tu non chiedevi, dandomi le spalle
forti mi interrogavi come un oracolo.
Non esiste miracolo, dicevo, solo
per noi la giustizia dell’incontro.
E così esiste, pensavo, il congedo
dei congedi. Esiste la mano che porta
lontano il suono amato del tuo volto.
*
Dammi la sconsiderata fiducia
di mio padre nel futuro, del futuro
dammi il sacro terrore di mia madre.
Stringimi forte a non finire
più schiacciata dal passo del tempo —
appuntami al petto la lettera scarlatta
dei sopravvissuti. Scatta, dissolvimi
col cuore nel bicchiere dei minuti.
*
Questo amo di te: il tuo vuoto
di parole, il lapsus che ti racconta
da un romanzo, la carezza invisibile
a occhio nudo, la nuda mezza mela
rimasta sul letto per errore.
Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Giovanna Rosadini, Paola Mancinelli, Antonio Fiori, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Valentina Furlotti, Nicola Barbato, Mario Famularo, Piero Toto. Collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani
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