Francia-Santuario di Lourdes -Per Flaminia Leggeri la fotografia è uno strumento di narrazione. Narrare con le immagini, comunicare e curiosare per Flaminia Leggeri è costruire una piccola o tante piccole storie di persone di varia umanità così come amava il grande Scrittore e Regista Mario Soldati, ma in questo caso i bambini hanno attirato la fotocamera e “l’obiettivo” di Flaminia e, con queste innocenti foto, ha saputo cristallizzare l’attimo di libertà e di curiosità così bella nei bambini. L’obiettivo è fuori dalla “normalità ovvia” dell’immenso Santuario di Lourdes. La domanda e la curiosità della fotografa sono: cosa fanno i bambini ? Come utilizzano le pause negli attimi in cui i genitori concedono la ”Tana Libera Tutti”? Fotografare l’attimo di vera innocenza e tranquillità dei bambini che sono nell’abbraccio della Vergine Maria e coperti dal suo manto. Flaminia con la fotocamera cerca di superare la “parola” con le immagini che, appunto, diventano “forza espressiva” in questa Oasi di Pace all’interno dell’immenso Santuario.
Il set fotografico scelto da Flaminia è statala spianata accanto al santuario della Madonna di Lourdes, con l’imponente ruota della basilica superiore che sale sopra la grotta. Il santuario della Madonna di Lourdes è un santuario e un luogo di pellegrinaggio “cattolici mariani” nella città di Lourdes Francia. Il Santuario comprende diversi edifici religiosi e monumenti intorno alla Grotta di Massabielle dove si sono verificate le apparizioni della Vergine Maria tra cui 3 basiliche : la Basilica della Madonna dell’Immacolata concezione,della Basilica del Rosario e della Basilica di San Pius X, note, rispettivamente, come basilica inferiore superiore e sotterranea.
A beneficio dell’obiettivo e fotocamera di Flaminia non potevano mancare persone con abbigliamenti diversi in una giornata di pioggia. Poi, sul fiume Gave,l’angolo dove “le paperelle” (Germano reale) che vivono in tranquillità e soddisfano la curiosità dei milioni di pellegrini che le osservano e danno loro da mangiare. Da notare la foto che ritrae la signora la tra i cespugli, nei pressi della Grotta, raccoglie erbe e “cattura” l’Escargot, il nome francese delle lumache.
Endre Ady (1877-1919) è vissuto nell’Ungheria a cavallo di due secoli, alla vigilia del crollo dell’impero austro-ungarico, mentre il paese era combattuto tra arretratezza e modernità, tra le rivendicazioni sociali stroncate dalla tragedia della Grande Guerra e la nascita dei grandi movimenti artistici e culturali del Novecento. Di tutti gli umori del tempo ha fatto materia dei suoi versi. Poeta “maledetto”, consumato dall’alcool e dal fumo, spesso in povertà, ma con l’ambizione di frequentare il grande mondo internazionale della cultura, fu portato a morte precoce dalla sifilide contratta in un incontro occasionale. Inviso ai benpensanti, adorato dal popolo e dagli artisti, nella Budapest in cui si addensavano le ombre di un fascismo spietato seppe tenere aperto uno spiraglio di libertà, assieme a Béla Bartók, György Lukács, Lajos Kassák. Di famiglia calvinista, ebbe sempre una passione profonda per i testi della tradizione biblica, ma non ne fece mai oggetto di una devozione formale. Il suo definirsi un «incredulo che crede» lo fa sentire vicino alla sensibilità dell’Occidente contemporaneo.
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Testi selezionati da Il perdono della luna. Poesie 1906-1919 (trad. di G. Caramore, V. Gheno, Marsilio, 2018)
ENDRE ADY
Poesie scelte
Il poeta di Hortobágy
Un giovane cumano, occhi grandi,
dilaniato da brame pensose,
custode di mandrie, andava verso Hortobágy,
la celebre steppa magiara.
Miraggi e crepuscoli allora
cento volte gli presero l’anima.
E se nel cuore un fiore sbocciava
se lo brucavano i popoli branco.
Mille volte pensò cose sublimi.
Pensò alle donne, al vino, alla morte.
Ovunque altrove nel mondo
sarebbe stato un sacro cantore.
Ma se osservava i compagni – sporchi,
ebeti, in brache – se osservava il suo gregge,
seppelliva veloce il suo canto:
erompeva in bestemmie. O fischiava.
Al cospetto del principe buono Silenzio
Cammino nel bosco, sotto la luna.
Mi battono i denti, fischietto.
Alle mie spalle, alto, un colosso:
il principe buono Silenzio;
e guai a me se indietro mi volto.
Guai a me se tacessi,
o guardassi lassù, verso la luna.
Un gemito, uno schianto.
Un solo passo, e il principe buono, Silenzio,
già mi avrebbe schiacciato.
Il Maligno antico
[…]
«Signore, ho una madre: una donna che è santa.
Ho una Léda: che sia benedetta.
Ho un paio di guizzi di sogni,
qualche seguace. E sotto la mia anima
un grande acquitrino: l’orrore».
«Avrei forse anche uno o due canti,
una o due nuove, grandi canzoni lascive,
ma ecco, voglio soccombere
sotto il tavolo, nell’ebbrezza,
in questa antica contesa».
«Signore, congeda il tuo servo desolato,
non c’è nulla ormai, solo la certezza
l’antica certezza, il sicuro sfacelo.
Non m’incantare, non farmi male, non darmi da bere.
Signore, io non voglio più bere».
«Ho la nausea, un gran disgusto
e reni malati e consunti.
Mi inchino a te un’ultima volta,
scaglio a terra il bicchiere.
Io mi arrendo, Signore».
[…]
Sangue e oro
A me, al mio orecchio fa lo stesso,
se ansima la voluttà o rantola il tormento,
se sgorga il sangue o tintinna l’oro.
Io so, proclamo che questo è il Tutto
e che a nulla serve ogni altra cosa:
solo il sangue e l’oro. Il sangue e l’oro.
Tutto muore e tutto trascorre,
gloria, canti, potere, denaro.
Ma sopravvivono il sangue e l’oro.
Popoli muoiono e ancora rinascono
e santo è l’audace che, come me, afferma
per sempre: il sangue e l’oro.
Sotto il monte di Sion
Con barba arruffata, bianca, da Dio,
lacero, tremulo, correva ansimante,
il mio Signore, da tempo in oblio,
in alba d’autunno, umida, cieca,
da qualche parte, sotto il monte di Sion.
Una grande campana il mantello,
rattoppato con lettere rosse,
mesto e malconcio, il vecchio Signore,
percuoteva, picchiava la bruma,
per il Rorate cœli suonava campane.
Un lume nella mia tremula mano,
una fede nella mia anima lacera,
e nella mente la giovinezza di un tempo:
allora fiutavo l’odore di Dio,
e qualcuno andavo a cercare.
Mi attendeva là, sotto il monte di Sion,
ardevano i sassi con fiamme robuste.
Suonando campane mi accarezzava,
le sue lacrime mi mondavano il viso,
era buono il vecchio, e clemente.
La vecchia mano rugosa baciavo,
e contorcendomi rimuginavo
«Come ti chiami, bel vecchio Signore?
A chi ho rivolte le tante preghiere?
Ahimè, non riesco a ricordare».
«Una volta morto a te son tornato
io, che in vita ero dannato.
Potessi ricordare una preghiera di bimbo!»
Lui mi guardò con grande tristezza
e suonava, suonava campane.
«Oh, se sapessi il tuo nome grandioso!»
Attese, attese, poi ascese correndo.
Ogni suo passo il rintocco di un salmo:
salmo di morte. E intanto io siedo, piangendo,
piangendo, sotto il monte di Sion.
In tre sulla pianura
Siamo solo in tre sulla grande pianura:
Dio, io e una maledizione contadina.
So bene che tutti moriremo,
ma io lancio un forte grido spietato.
Io da solo non temo, non tremo,
tanto ormai il mio guscio è di Satana.
Eppure conservo la pianura e il suo Dio
assieme a quella maledizione contadina.
Qui ormai è inutile tutto, in autunno,
in inverno, e primavera, e nella lenta estate.
Sulla grande pianura non ci sarà prodigio,
se noi, noi tre, non proviamo a resistere.
E adesso ammutoliamo
Baciami in bocca, Sera, bella sorella
fammi tacere e dài la notizia
che il tuo fratello, quello che assorda,
ha smesso, irritato, i suoi canti.
Ora per l’ultima volta vuol raccontare
la poca letizia che ha ricavato
da questo matto matto cantare.
Baciami in bocca, Sera, bella sorella.
Divieti mesti, liete confessioni,
melodiosi lamenti, ferite profonde,
mai più scaverò nell’anima mia
pozzi per voi risonanti.
Ogni fonte di sangue è ricolma.
Sulla tomba del sacro tacere di ogni cosa
siedono, muti e come in croce,
divieti mesti e liete confessioni.
Viva ormai ogni cosa, e ciascuno.
Vivano le parole solenni,
ma Endre Ady non parla,
ma Endre Ady non parli.
Si nasconda pure, se sa dove andare,
dimentichi tutti i suoi desideri,
col cuore vermiglio percosso a livida morte,
viva ormai ogni cosa, e ciascuno.
Ammutoliamo, Sera, bella sorella.
Ammutoliamo con un grande bacio.
Guardiamo come fossimo morti,
allentate le corde, la sordità della notte.
Forse ancora romperemo il silenzio,
ma la nostra parola non sarà un sacro segreto,
tormento per noi e per gli altri.
Ammutoliamo, Sera, bella sorella.
La tristezza della resurrezione
[…]
Oh, guai a chi risorge
e non sente la propria vita,
la sua è la parola di vacuo burattino
e lui stesso è marionetta di un teatrino,
domanda, tentazione e mistero.
Io questo aspetto: che qualcuno
mi chiami
e con bocca dolce, calda
mi sussurri chi sono.
Qui nella valle dei Tatra c’è un lago,
scintillante, pulito, selvaggio.
Vi cerco dentro i secoli,
la mia vita,
i canti che schiudono le tombe.
Cerco vicinanza a me stesso,
al Tempo che vola via,
allo specchio, alla magia,
per riconoscermi dentro.
E si ferma la Vita
e so che ormai non c’è nulla,
nessuno vive più
e niente è vero.
Un vecchio viso grinzoso ghigna dal lago.
Non so chi sia.
Sono risorto, ahimè, sono risorto.
La vendetta del silenzio
(Una vecchia leggenda)
Gli venne tagliata la lingua
e languì a morte chi
le sue confortanti parole
assetato amava e bramava.
Così nella puszta viveva
l’ammutolito eremita,
fluttuando in pomeriggi sordi
come calda melodia estiva.
E quando tutto fu taciuto,
eruppe dolore e angoscia,
ogni pietà e silenzio,
accumulati nel muto.
Il vocio vociante in precedenza
mai s’era così presentato;
e tonante l’eremita sparse
tra tutti il suo verbo in abbondanza.
E dei semplici si acquetò
la collera e il cordoglio,
e come un Dio che dispone e castiga
la lingua tagliata parlò.
Stringo con la mia mano che invecchia, la tua mano, e proteggo i tuoi occhi con questi occhi che invecchiano.
Belva di spente età, mi bracca l’orrore, sono arrivato da te attraverso rovine di mondi, e attendo, insieme a te, atterrito.
Stringo con la mia mano che invecchia, la tua mano, e proteggo i tuoi occhi con questi occhi che invecchiano.
Non so perché né sino a quando rimarrò qui con te: ma stringo la tua mano e proteggo i tuoi occhi.
Endre Ady
(Traduzione di Umberto Albini)
da “Endre Ady, Poesie”, Guanda, Milano, 1978
***
Őrizem a szemedet
Már vénülő kezemmel Fogom meg a kezedet, Már vénülő szememmel Őrizem a szemedet,
Világok pusztulásán Ősi vad, kit rettenet Űz, érkeztem meg hozzád S várok riadtan veled.
Már vénülő kezemmel Fogom meg a kezedet, Már vénülő szememmel Őrizem a szemedet.
Nem tudom, miért, meddig Maradok meg még neked, De a kezedet fogom S őrizem a szemedet.
Endre Ady
da “Életem nyitott könyve”, Gondolat, 1977
Parente della morte
Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.
Amo le rose malate,
le vogliose donne sfiorenti,
e i lucenti, malinconici
tempi d’autunno.
Amo il richiamo spettrale
delle ore tristi
e il fratello giocoso
della grande e santa Morte.
Amo coloro che partono,
che piangono e si destano
e, nei freddi mattini brinati,
i campi.
Amo la stanca rinuncia,
il pianto senza lagrime,
la pace, rifugio di saggi, di poeti
e di malati.
Amo i delusi, gl’infermi,
coloro che sono fermi,
gl’increduli, i tristi:
il mondo.
Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.
Proteggo i tuoi occhi
Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.
Belva di spente età, mi bracca l’orrore,
sono arrivato da te
attraverso rovine di mondi,
e attendo, insieme a te, atterrito.
Stringo con la mia mano
che invecchia, la tua mano,
e proteggo i tuoi occhi
con questi occhi che invecchiano.
Non so perché né sino a quando
rimarrò qui con te:
ma stringo la tua mano
e proteggo i tuoi occhi.
Endre Ady era un poeta ungherese, nato in una famiglia calvinista aristocratica decaduta. Era nato con sei dita per mano, segno di eccezionalità ma anche di malaugurio, di un destino diabolico. Fu l’ ostetrica ad accorgersene e ad amputargli quello che avanzava. Per tutta la vita il poeta mostrò con orgoglio le sue cicatrici, che chiamava magiche.
Visse e studiò in Ungheria, abbandonando gli studi di Legge per diventare giornalista. Due donne gli furono fatali, la prima perché lo avvelenò. E’ lei la protagonista di un bellissimo racconto intitolato “Il bacio di Rosalia Mihaly“. Rosalia, che nasconde la vera identità di Maria Rienzi, visse solo ventisei anni. Fu “piccola, teatrale e virago”. Aveva i capelli rossi e rideva fragorosamente, secondo quanto si addice a una ballerina. “Non l’ ho mai vista Rosalia Mihaly”, scrive il poeta, “ma nessuna altra donna ha segnato la mia vita in modo più possente”. Si era invece invaghito di Marcella Kun, anche lei attrice, e le aveva promesso che se si fosse concessa avrebbe scritto per lei una bella recensione. Ma lei tentennava, spaventata dal suo ardore. “Io non mi ero mica messo a studiare l’ amore per sapere che diavolo fosse”, le diceva, “ma per consumarmici, per ridurmici in cenere, come più mi fa piacere”. Ma alla fine cedette. E lo contagiò. Una ricerca ossessiva delle origini della malattia, porta il poeta, attraverso un giornalista mediocre e volgare, fino alla tomba di Rosalia Mihaly, ultimo anello della catena. Così scriveva Ende Adry, e identica era la sua vita. La sifilide lo tenne in ostaggio tutta la vita. E l’ alcool accompagnò la sua autodistruzione.
Quel bacio avvelenato divenne l’ immagine primaria della sua poesia, e insieme il diaframma che lo costrinse al di qua della vita che avrebbe voluto. Era un giornalista di successo e un poeta quasi sconosciuto, quando gli fu diagnosticata da un medico parigino. Era lì, nella ville lumiere dei poeti simbolisti – dove scopre le opere di Mallarmè, Verlaine, Rimbaud, Baudelaire, fratelli d’ arte e di insanità – insieme alla donna che amò perdutamente. Adel Brul, divenuta poi Leda nei canti che le dedicò, era la moglie di un eccentrico e ricco uomo d’ affari, Odon Diosy. “Aveva i capelli tinti di azzurro cupo, le scarpe, le calze dello stesso azzurro; si metteva del rossetto non soltanto sulle guance e sulle labbra, ma ne tingeva anche, rendendole simili all’ interno di una conchiglia, le narici dal disegno inconsueto sul naso imponente”. La descrive così Paolo Santarcangeli nella prefazione alla raccolta di poesie pubblicate da Lerici editore. Una femme fatale, una donna alta provocante sensuale e colta. Lei lo trasformò da giornalista di talento a poeta grandissimo, tra i più importanti della cultura austro-ungarica. Profeta di un mondo prossimo alla dissoluzione, cantore di passione e desiderio, sensuale e potentissimo. “Credo di essere la coscienza dell’ odierna magiarità colta” scriveva Endre Andy di sè dopo la pubblicazione della raccolta di poesie che lo consacrò al successo e lo travolse insieme di critiche e riprovazione (Új ver sek, Poesie nuove), – “ma questa coscienza non può essere sempre pulita”. Rimane a Parigi per un anno, con Leda e il marito, poi torna in Ungheria. Ma nel 1906 ripartono insieme e viene per la prima volta in Italia. Per una crociera che parte da Trieste e arriva fino in Sicilia. Sarà di nuovo a Roma nel 1911 ma il suo amore con Leda, sempre tormentato e funestato dal male e dalla sua vita disperata, sta per finire.
L’ anno successivo lei lo lascia per un altro uomo, e lui, su consiglio dell’ amico Sándor Ferenczi, allievo prediletto di Freud, decide di ricoverarsi in un ospedale per malattie mentali. “Siamo in piedi, rigidi e dimenticati/ sull’ orlo di un precipizio selvaggio/ l’ uno all’ altra attaccati,/ né un lamento lacrima o parola/per precipitare basta una mossa/come legami di carne e sangue/ci proteggono le nostre labbra/blu e tremanti, ci tengono attaccati/finche mi baci non abbiamo parole/ma dì un parola e cadiamo entrambi”, scrive in una sua poesia famosa che risale a quel periodo. Si consolerà sposando qualche anno dopo la giovanissima ammiratrice Beruka Bonza, la Csinszka delle sue poesie. Con lei si trasferisce in Transilvania.
Nel frattempo, il 28 giugno 1914, lo studente bosniaco Gavrilo Princip uccide l’ arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Endre Ady scrive, si spende contro la catastrofe del conflitto in agguato, ma invano. Un mese dopo l’ Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia, dando inizio alla prima guerra mondiale. La sconfitta militare, avrà come conseguenza la fine dell’ Impero. Nel 1918, in seguito al Trattato Versailles, nascono Austriae Ungheria come stati autonomi, e insieme la Cecoslovacchia e un nuovo assetto dei Balcani che diventarà la Yugoslavia. I nuovi confini costringono un quarto della entia magiara a vivere fuori dalla nuova nazione ungherese. La Transilvania diventa rumena, e anche il paese natìo di Endre Ady, Érmindszent, che alla morte del poeta verrà a lui intitolato. Nella nuova repubblica, il poeta viene eletto presidente della Accademia Vorosmarty, la più importante istituzione culturale del paese. Ma le sue condizioni di salute non gli permisero neanche di tenere il discorso di insediamento. Muore il 27 gennaio 1919 e i suoi funerali furono seguiti da una folla enorme che lo acclamava come il poeta simbolo della nuova nazione. Lui lasciò scritto soltanto che voleva essere dimenticato, come una domanda senza risposta.
Roma-Scatti rubati di Matteo Casilli-La mostra alla Casa dell’Architettura :
”Un viaggio dietro le quinte dei film, attraverso una serie di fotografie di scena”
Roma-Nella sala centrale della Casa dell’Architettura, la mostra fotografica “Scatti rubati” di Matteo Casilli – La mostra proseguirà fino al 27 ottobre 2024
La mostra propone un viaggio dietro le quinte dei film, attraverso una serie di fotografie di scena scattate durante le riprese. Ogni immagine cattura l’essenza del cinema, rivelando momenti di intimità e magia che spesso restano nascosti agli occhi dello spettatore. Soggetti pensosi e sognanti che sembrano celare qualche impercettibile segreto.
Questa raccolta di foto è un omaggio al mondo del cinema, un racconto visivo che svela ciò che accade quando la macchina da presa smette di girare.
Evento all’interno del più ampio programma della terza edizione di Proiezioni, la rassegna cinematografica organizzata dalla Casa dell’Architettura in occasione della Festa del Cinema di Roma dal 16 al 27 ottobre 2024.
Scatti rubati – immagini di set
Vernissage e visita guidata alla mostra
16 ottobre 2024 ore 19.30-22.00
Casa dell’Architettura – sala centrale
complesso monumentale Acquario Romano
p.zza Manfredo Fanti, 47 – Roma
Daria Menicanti è stata una Poetessa, insegnante e traduttrice italiana. In lei si mescolano il registro sarcastico e ironico e quello più sottile della malinconia. Per Lalla Romano la sua era “una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”.
ESTIVA
*
Ogni sera le madri dai balconi
chiamano i figli con urli soavi.
Cadono i nomi gridati nel buio
come stelle filanti. Ad uno ad uno
tornano con le bluse a quadrettini
le gonnellette alte una spanna i teneri
re,le regine.
Daria Menicanti, il “grillo” che ha cantato Milano
“Io mi sento il palloncino fuggito dal suo grappolo”
Da bambina la chiamavano grillo, un soprannome che ha conservato per tutta la vita e che a volte disegnava accanto alla sua firma. Un nomignolo profetico per chi del canto ha fatto la sua voce. Daria Menicanti è una delle poetesse italiane dimenticate da riscoprire.
A Piacenza c’è nata “per caso” in quel 6 aprile del 1914 perché sentiva di avere un destino legato al mare viste le origini livornesi e fiumane dei genitori. Il padre aveva studiato con Pascoli che nutriva speranze nel promettente poeta. Lui scelse però di studiare legge e lavorare prima come assicuratore a Trieste e poi come bancario in diverse città del Nord. In seguito fu costretto a cambiare molti lavori per le difficoltà dovute al suo antifascismo e la famiglia si spostò spesso seguendolo.
Daria era la sesta figlia, l’ultima, la più vezzeggiata, la più capricciosa, mingherlina ma con un carattere molto risoluto. I rapporti con la famiglia furono sempre burrascosi, specie col padre spesso assente. Non disse a nessuno che si laureava e nessuno invitò al suo matrimonio, pochi mesi dopo. Dopo le nozze in Comune tornò semplicemente a casa, riempì una borsa e se ne andò dicendo “stasera non vengo a casa perché mi sono sposata”, ricorda la nipote Lucia.
A mano a mano quale ero ritorno:
una che va vestita come càpita,
contenta del poco, di rari
amici scontrosi,
una dispari
felice di bere alla brocca
della sua solitudine.
Daria è una persona schiva e solitaria e i primi anni li vive nella stessa “campana di vetro” di cui parla Sylvia Plath, che avrebbe poi tradotto nel 1968. È di salute cagionevole perciò non va a scuola e studia a casa seguita dalla sorella maggiore Trieste. Inizia a frequentare la scuola pubblica solo alle superiori iscrivendosi al Liceo Ginnasio Berchet di Milano. Continua gli studi alla Facoltà di Lettere e Filosofia e ha come compagni di corso Antonia Pozzi, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Enzo Paci. Si laurea in estetica con Antonio Banfi e una tesi sulla poetica di Keats. Proprio quel Banfi che creerà intorno a sé la “scuola di Milano”.
Lo sbocco naturale della sua formazione è l’insegnamento e per tutta la vita Daria Menicanti insegna nella scuola media, diventando in seguito anche preside. Ma il suo lavoro culturale è più ampio. Dagli Anni 30 in poi compone poesie, scrive sulle riviste letterarie e traduce, traduce moltissimo, specialmente dall’inglese e dal francese: John Henry Muirhead, Paul Nizan, Betty Smith, Noel Coward, Nelly Sachs, Paul Geraldy, Sylvia Plath. Le traduzioni servono da laboratorio per la definizione della lingua poetica anche se Daria ha tradotto soprattutto prosa, e specialmente filosofia. “La vita dello scriba è una manciata / di sillabe e vocali e consonanti / e di allitterazioni”.
Dopo tanto silenzio
mi arriva di lontano
festante, fragorosa
una banda di rime,
di assonanze.
Le corro incontro
felice
fino sull’angolo.
L’impronta filosofica resta sempre forte nella sua scrittura. La sua poesia non si lascia andare mai al sentimentalismo ma è sempre frutto della lucida riflessione propria della filosofia. Eppure non è mai fredda, distante, anzi si interessa alla più piccola realtà, inclusi animali e piante, tanto cari alla poetessa.
È ancora capace di infanzia
il tronco ficcato sul cuore
della città. Una luce d’alba gli esce
dai rami, ai piedi gli si affolla
un subbuglio di verde.
A un vento improvviso lo zampillo
della fontana gira verso il tronco
assentendo approvando: – D’accordo,
sussurra, la vita
può essere ancora bella
“Il razionalismo per me è sempre stata una vocazione. Pensa che tempo fa mi dicevo che ero una illuminista” dice in una intervista parlando della sua poesia come dell’“irrazionale espresso razionalmente”. A radicare la sua opera creativa nel razionalismo filosofico ha contribuito l’amore per Giulio Preti, anche lui filosofo della scuola banfiana. Si sposano nel 1937 ma il matrimonio è burrascoso. Finisce nel 1954 ma restano legati da una profonda amicizia.
Poeta
In giro me ne vado come un cirro
silenzioso color ombra. Mi piace
stare alto sui tetti a galleggiare
guardando. Io mi sento il palloncino
fuggito dal suo grappolo: una cosa
ironica leggera e all’apparenza
felice
Le amicizie di Daria si contano sulle dita di una mano ma sono per sempre. Lalla Romano, collega a scuola, diventa la sua più cara amica e di lei dice che “aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”. Anche Vittorio Sereni è un punto di riferimento importante, sia personale che professionale. Ogni domenica la poetessa va a pranzo dai Sereni e dà alle loro figlie lezioni private di greco e latino.
Alla poesia si avvicina già negli anni dell’Università ma è ancora qualcosa che tiene per sé. È negli Anni 50, e soprattutto dopo il definitivo trasferimento a Milano, che si dedica alla poesia innestandola a fondo nella sua città.
Con la tazzina stretta tra le dita,
ben calda tra le dita,
sola, in pace,
in un tiepido alone
di vapori,
di aroma di caffè,
indugio presso il banco
insaziata di calore
tra gli urti continui
e i pardons.
Nel 1964 esce per Mondadori la prima raccolta, Città come, che vince il premio Carducci. Nella prestigiosa collana Lo Specchio saranno pubblicate anche Un nero d’ombra nel 1969 e Poesie per un passante nel 1978. Il direttore della collana era Sereni e nel 1982 aveva già approvato un volume in attesa di pubblicazione, Ferragosto. Ma nel 1983 l’amico muore improvvisamente e Mondadori fa un passo indietro comunicandole per lettera che non sarà più pubblicata. Uno sgarbo che Daria non digerirà mai. Da allora in avanti la poetessa affida le sue raccolte a editori più piccoli: Altri amici, un bestiario poetico dedicato agli animali da Daria tanto amati, esce nel 1986; Ferragosto, considerata dall’autrice la sua opera migliore, vede le stampe nello stesso anno; Ultimo Quarto nel 1990.
Lucciola
Fu per come esitava che l’amai
subito
e colsi quel seme di luce
stringendo le due palme.
Ma come ci guardai gelosa, buio
era tornato il bel fuoco,
ombra con ombra
pace
Dopo l’ultima raccolta continua a scrivere anche se le sue condizioni fisiche e psichiche vanno peggiorando rapidamente, fino alla morte appena 5 anni dopo. Sulle poesie inedite ha lavorato febbrilmente, correggendo e limando continuamente i versi come testimoniano i taccuini scritti a matita. Un lavorio continuo che passa al setaccio della ragione tutti i moti dell’animo e li distilla.
Di qua la vita e da quell’altra parte
la morte e in mezzo l’uomo
in stato di assedio
La sua poesia si è nutrita di minime situazioni quotidiane, di silenzi e inquietudini, piccole epifanie, di vissuto cittadino popolato da personaggi che qualche volta Daria sembra orchestrare sulla scena come una abile regista. Quando parla di se stessa si definisce un “camaleont poet” come il suo amato Keats.
Ma sono – oltre che me – sono sul guscio
d’un fiore il mite grillo
dell’estate inquilino –
o l’urlo abbandonato dell’ossesso
sul marciapiede riverso –
Nella sua opera si passa dal tratto nostalgico e struggente a quello ironico e tagliente, dalla riflessione filosofica sulla vita al ritratto dei reietti metropolitani. La città è sempre presente, se non da protagonista come sfondo attivo.
Me ne vo con un gran coltello infisso
nel petto, il manico fuori.
Me ne vado tranquilla e bianca. Un vigile
col fischio mi richiama: – Il coltello,
mi grida, il coltello! –
Par proprio che la lama
superi le misure della legge.
Così mi fermo e pago
l’ennesima contravvenzione
E spesso presente è il cuore, anche se non viene quasi mai nominato direttamente ed è sempre mediato dall’intelletto. Non c’è sentimentalismo fine a se stesso ma riflessione lucida e acuta sulle ragioni del cuore.
Se il cuore è innamorato
il fracasso che fa.
L’hanno paragonata a Umberto Saba e Sandro Penna ma a lei piaceva di più far riferimento ai poeti classici, specialmente a Orazio e Marziale, a cui si ispirano anche i suoi fulminanti epigrammi.
Dopo tanto odio ti ricordo infine
con animo fraterno
e ti perdono
il bene che mi hai fatto
(Le poesie e le citazioni sono tratte da Il concerto del grillo: l’opera poetica completa con tutte le poesie inedite, Mimesis)
“La straniera”, “L’ebrea”, “Il rospo”, “Nel lager”, “Solo la notte ti ascolto”.
Hilde traduzione di Giuliano Pistoso
da Gertrud Kolmar, Il canto del gallo nero, prefazione di Marina Zancan, traduzione di Giuliano Pistoso, Essedue Edizioni-
Lettera alla sorella
Berlino 1.2.42
Mia cara Hilde,
Se non avessi le esperienze che invece ho vissuto, sicuramente sarei d’accordo con te sulla delusione che «sta in agguato», sull’illusione e la realtà; e per molte donne, forse per la maggior parte, parlo di donne sensibili e forti d’animo, vale quello che tu dici. Invece per me… Mi credi se ti scrivo qui: «Non sono mai stata delusa» e «la realtà è sempre impensabilmente più bella di tutte le illusioni?». Mi credi? Per me è stato così.
Non voglio dire con questo che non mi sono mai sentita infelice, che non ho mai provato dolore. Anzi sono stata molto, molto infelice, ho sopportato anche dolori molto forti e profondi che però ho anche amati come una futura madre può amare i tormenti con i quali viene benedetta dal proprio figlio. Ma tutto questo io l’avevo intuito già prima, l’avevo previsto e sopportato in anticipo, conoscevo il prezzo altissimo che avrei dovuto pagare, quindi delusioni per me non ce ne sono state. Le parole «eterno», «costante» e «fedele» (almeno applicate al mio partner) le avevo cancellate dal mio vocabolario sin dall’inizio. Questo probabilmente era dovuto anche al fatto che io non sono mai stata l’unica, ma sempre «l’altra»… Tu riterrai che fossi troppo modesta, invece non lo ero. Avevo una infiammabilità bassa e prendevo fuoco molto difficilmente – un fuoco che poi si spegneva presto, però, se bruciava (quanto raramente), la brace era forte e durevole. Il mio sentimento diventava allora una specie di re Mida capace di trasformare in oro tutto quello che toccava con le sue mani; si levava grande come un sole e indorava ogni stagno, ogni pozzanghera. E infine non aveva più tanta importanza quello che faceva, come si comporta- va la persona cui era dovuto il suo sorgere, il suo calore, il suo irradiare. Il sole splende sopra i giusti e gli ingiusti…
Con tanti cari saluti anche da papà
Trude
La poetessa
Mi tieni completamente nelle tue mani.
Come quello di un minuscolo uccello, batte il mio cuore nel tuo pugno. Tu che leggi, sta attento
perché vedi, stai sfogliando una creatura. Ma se per tè è fatta solo di cartone,
fogli stampati e colla, allora resta muta, non ti colpisce col suo grande sguardo che dai neri segni guarda cercando;
allora è solo una cosa con il destino di una cosa.
Pure s’era cinta di veli come una sposa, s’era adornata perché tu la potessi amare ed, esitante, prega che, per una volta,
tu cacci via la pigra indifferenza
e trema e sussurra a se stessa:
«Non succederà.» Ti fa un cenno e un sorriso. Chi dovrebbe sperare se non una donna?
Il suo intero mondo è quel solo: «tu…»
Con fiori neri e sopracciglia dipinte,
con catene d’argento, con sete, stellata d’azzurro. Da bambina sapeva cose più belle,
ma le parole più belle le ha dimenticate.
L’uomo è molto più saggio di noi. Nei suoi discorsi parla della morte,
della primavera, delle industrie, del tempo. Io dico: «tu…», solo e sempre: «tu ed io.»
Questo libro è un vestito di ragazza,
può essere bello e rosso o poveramente sbiadito e sempre soltanto da dita amate
si lascerà gualcire, qualche volta macchiare.
Perciò sono qui a mostrare quello che mi è accaduto;
quello che un forte candeggio ha sbiadito senza poter del tutto cancellare.
Perciò ti chiamo. Il mio richiamo è leggero, sottile.
Tu senti quello che dice, ma comprendi quello che sente?
L’ebrea
Io sono straniera.
Perché gli uomini con me non s’azzardino, voglio essere circondata da torri
che portano aguzzi berretti di pietra grigia in alto verso le nuvole.
Voi non potete trovare la chiave di bronzo della tetra scala. Essa gira su di sé verso l’alto come la piatta, squamosa testa sollevata
una vipera nella luce.
Ah, questo muro si sgretola come roccia bagnata per millenni dalle tempeste;
gli uccelli dai rudi colli rugosi
si rintanano nelle profonde caverne.
Sotto la volta di sabbia friabile groviglio di rettili con i petti maculati… Vorrei armare una spedizione esplorativa nella mia originaria, antichissima terra.
Posso la sepolta Ur dei Caldei forse da qualche parte scoprire, l’idolo Dagone, la tenda degli ebrei, la tromba di Gerico.
La tromba che abbattè le arroganti mura, brunisce sepolta, piegata, distrutta,
ma un tempo ho respirato il soffio che produsse il suo suono.
Nelle cassapanche coperte di polvere giacciono senza vita le nobili vesti, morente splendore dall’ala della colomba, l’ottusità di Behemot.
Io le indosso stupita. Sono ben piccola,
lontana dai tempi della loro ricchezza e del loro potere,
ma intorno a me si aprono scintillanti spazi come a difesa ed io in essi mi espando.
Ora mi sento strana e non mi riconosco perché ero già prima di Roma, di Cartagine, perché subito ardono per me gli altari
di Debora e della sua schiera.
Dal vaso d’oro nascosto
corre attraverso il mio sangue un doloroso splendore e un canto vuole chiamarmi con nomi
che siano di nuovo fatti per me.
I cieli gridano colorati segnali. Impenetrabile è il vostro volto:
quelli che, timidi, con la volpe del deserto mi circondano, non lo vedono.
Soffiano gigantesche, devastanti colonne d’aria, verdi come giada, rosse come coralli,
sopra le torri. Dio permette che crollino e tuttavia i millenni ancora stanno.
La straniera
A mia sorella Hilde
.
La città è per me un vino colorato in un levigato calice di pietra
che sta e brilla davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.
Esso riflette il suo cerchio più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi, ci colpiscono tutte le cose a noi quotidiane e usuali.
Davanti a me la rigida parete delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro della piccola bottega
si chiude riservato: «Io non t’ho chiamata.»
II selciato ascolta e cerca a tentoni il mio passo pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno si unisce con la colla, là si parla una lingua che non è mia.
La luna palpita rossastra come un assassinio sopra il corpo lontano, sopra la parola smarrita, quando, la notte, contro il mio petto s’infrange il respiro d’un mondo straniero.
Noi ebrei 15.9.1933
Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio, voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa, la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.
E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato, e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità, la mano che si tende a toccare Dio in cielo.
Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei, e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono, gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.
E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante, sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare, e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma, e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.
L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli, l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele; Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!
Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero. Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre, tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!
.
Il rospo
12 ottobre 1933
Il crepuscolo azzurro scende denso d’umidità con il mantello dal largo orlo rosa dorato.
Un pioppo nero si staglia nella morbida luce,
e dolci betulle tremano contro la pallida schiuma.
Come una testa di morto, una mela rotola sorda nel solco, s’accartoccia leggera e perisce la bruna foglia autunnale. Con piccole luci spettrali la città, lontano, s’abbuia.
La bianca nebbia dei prati avvolge i ranocchi.
Io sono il rospo
e amo gli astri della notte. La sera, alto, il Rosso
si gonfia purpureo nello stagno d’improvviso incendiato. Sotto le assi marce della botte per l’acqua piovana
mi rintano accovacciato e grasso;
il tramonto del sole
spia, sofferente, il mio sguardo lunare.
Io sono il rospo
e amo il sussurro della notte. Un delicato flauto
nell’oscillante canneto, nel càrice s’è svegliato, un tenero violino
vibra e scintilla sul ciglio del campo. Tacito ascolto,
mi trascino sulle zampe palmate
sotto una panca fradicia
membro dopo membro fuori dal pantano come un sommerso pensiero
si trae fuori dal groviglio e dal fango. Oltre i cespugli, fra i ciotoli
modesta, buia creatura, saltello;
il rugiadoso gocciolare del fogliame, l’edera verde-nera mi sciacquano via.
Respiro, nuoto
dentro un profondo, tranquillo splendore, umile voce
sotto l’alato piumaggio della notte.
Vieni dunque e uccidi!
Per tè posso essere solo un disgustoso animale:
io sono il rospo
e porto il gioiello.
Nel lager
Quelli che s’aggirano qui sono corpi soltanto, non hanno più anima,
soltanto nomi nel registro dello scrivano, carcerati: uomini, ragazzi, donne,
e i loro occhi fissano vuoti
con lo sguardo sbriciolato, distrutto per ore in una fossa buia,
soffocati, calpestati, picchiati alla cieca.
Il loro gemito tormentoso, il loro pazzo terrore, una bestia, sulle mani e sui piedi, carponi…
Hanno ancora le orecchie
e neppure odon più il loro grido. La prigione distrugge, schiaccia:
nessun coraggio, nessun coraggio più per ribellarsi! Stride leggera la sveglia spaccata.
Si affaticano come dementi, grigi, devastati, separati dall’umanità variopinta,
irrigiditi, timbrati e marcati,
come bestiame da macello che aspetta il beccaio e non conosce che il fetido truogolo e il recinto.
Solo paura, solo orrore nei volti
quando, di notte, uno sparo afferra la vittima… e nessuno ha veduto l’uomo
che silenzioso in mezzo a loro
trascina la croce nuda verso il supplizio.
Lettera alla sorella
Hilde, sorella carissima il 15 12 1942
Un mio conoscente, il dottor H. era uno studioso di Spinoza e un giorno mi ha parlato della sua teoria sulla libertà della volontà umana all’interno della non-libertà. Penso di capire tutto questo attraverso le mie esperienze personali. Non è dipeso da me accettare o rifiutare il lavoro in fabbrica, mi è stato imposto, però ero libera di accettarlo o di rifiutarlo intcriormente; posso eseguirlo con ritrosia o con buona volontà. Dal momento che io l’ho accettato nel mio cuore non me ne sono più sentita soffocata. Ho deciso di considerare questo lavoro un insegnamento e di imparare il più possibile. In questo modo, dentro alla non-libertà, ho scelto la libertà. E così vorrei anche sopportare il mio destino, sia esso alto come una torre o nero e soffocante come una nuvola…
Berlino 23.10.41 ore 4 del mattino
Lettera alla sorella
Cara Hilde,
Di recente mi ha offerto aiuto un breve, piccolo episodio. Durante la pausa per la colazione (un quarto d’ora circa), mi trovavo nella stanza degli armadi e sedevo tutta sola su una panca vicino a una giovane zingara che non faceva nulla, non parlava, guardava completamente immobile fuori, verso il cortile deserto della fabbrica… Io l’ho osservata: non aveva quella faccia angolosa degli zingari con gli occhi inquieti e scintillanti, anzi i suoi tratti erano morbidi, quasi slavi; era di carnagione abbastanza chiara… E non aveva soltanto l’aria cupa, vinta degli animali, dei vecchi cavalli da tiro. Questo inevitabilmente c’era, ma c’era anche qualcosa di più: una chiusura impenetrabile, un silenzio, una distanza non più raggiungibile da una parola o da uno sguardo del mondo esterno… E ho capito che proprio questo avevo sempre voluto possedere senza riu- scirvi e che se adesso l’avessi niente e nessuno dall’esterno mi potrebbe più toccare. Però mi trovo già su questa strada e ne sono contenta… I reumatismi di papà sono migliorati, anche se non molto… Lui naturalmente sta ancora dormendo.
Un caro saluto!
Trude
Lettera alla sorella
Berlino 1.2.42
Mia cara Hilde,
Se non avessi le esperienze che invece ho vissuto, sicuramente sarei d’accordo con te sulla delusione che «sta in agguato», sull’illusione e la realtà; e per molte donne, forse per la maggior parte, parlo di donne sensibili e forti d’animo, vale quello che tu dici. Invece per me… Mi credi se ti scrivo qui: «Non sono mai stata delusa» e «la realtà è sempre impensabilmente più bella di tutte le illusioni?». Mi credi? Per me è stato così.
Non voglio dire con questo che non mi sono mai sentita infelice, che non ho mai provato dolore. Anzi sono stata molto, molto infelice, ho sopportato anche dolori molto forti e profondi che però ho anche amati come una futura madre può amare i tormenti con i quali viene benedetta dal proprio figlio. Ma tutto questo io l’avevo intuito già prima, l’avevo previsto e sopportato in anticipo, conoscevo il prezzo altissimo che avrei dovuto pagare, quindi delusioni per me non ce ne sono state. Le parole «eterno», «costante» e «fedele» (almeno applicate al mio partner) le avevo cancellate dal mio vocabolario sin dall’inizio. Questo probabilmente era dovuto anche al fatto che io non sono mai stata l’unica, ma sempre «l’altra»… Tu riterrai che fossi troppo modesta, invece non lo ero. Avevo una infiammabilità bassa e prendevo fuoco molto difficilmente – un fuoco che poi si spegneva presto, però, se bruciava (quanto raramente), la brace era forte e durevole. Il mio sentimento diventava allora una specie di re Mida capace di trasformare in oro tutto quello che toccava con le sue mani; si levava grande come un sole e indorava ogni stagno, ogni pozzanghera. E infine non aveva più tanta importanza quello che faceva, come si comporta- va la persona cui era dovuto il suo sorgere, il suo calore, il suo irradiare. Il sole splende sopra i giusti e gli ingiusti…
Con tanti cari saluti anche da papà
Trude
da Gertrud Kolmar, Il canto del gallo nero, prefazione di Marina Zancan, traduzione di Giuliano Pistoso, Essedue Edizioni
Biografia di Gertrud Kolmar-10 dicembre 1894 Gertrud Kàthe Chodziesner nasce a Berlino-Mitte/ nella PoststraBe 14/ figlia maggiore dell’ avvocato Ludwig Chodziesner (1861) e di Elise Chodziesner nata Schoenflies (1827). I genitori del padre – trasferitesi da Woldenberg (oggi Dobiegniev) a Berlino -sono merciai/ e questa attività permise ai loro tré figli di studiare giurisprudenza. La madre di Gertrud Kolmar è la figlia di un fabbricante di tabacco emigrato a Berlino da Landsberg sulla Warta (oggi Gorzòv).
1897 Nasce la sorella Margot.
1899 La famiglia si trasferisce in una casa con giardino nel sobborgo residenziale del Westend, nella Ahornallee 37.
1900 Nasce il fratello Georg.
1905 Nasce la sorella Hilde.
1901-1911 Gertrud frequenta le elementari nel Westend e la scuola media femminile di Weyrowitz a Berlino- Charlottenburg.
settembre 1912 Frequenta la scuola femminile di agraria ed economia domestica Arvedshof a Elbisbach vicino Lipsia. Il di- ploma da a Gertrud il diritto di frequentare un semina- rio per insegnanti.
1915 Lavora in una scuola materna.
maggio 1916 Consegue il diploma per l’insegnamento della lingua francese.
ottobre 1916 Consegue il diploma per l’insegnamento della lingua inglese. Acquisisce nozioni di ceco, fiammingo, spa- gnolo e russo.
1916 circa Interrompe una gravidanza e tenta il suicidio.
gennaio 1917 Trascorre un periodo in un luogo di cura con la madre a Kónigstein sul Taunus.
Natale 1917 Per iniziativa del padre la casa editrice Egon Fleischel
& C. pubblica il volume Gedichte (Poesie). Lo pseu- donimo “Kolmar” è il nome tedesco della località Chodziez, da cui deriva il cognome Chodziesner.
novembre 1918 Lavora come interprete per il Ministero degli Esteri e si occupa della censura della corrispondenza del campo di prigionia Doberitz presso Spandau.
1916-1918 E’ probabilmente in questo periodo che comincia a lavorare al ciclo di poesie Napoleon und Marie (Napoleone e Maria).
1919-1926 Lavora come istitutrice e insegnante di lingue presso numerose famiglie di Berlino e assiste i bambini sor- domuti.
1919-inizio anni ‘20 Nascono i primi cicli di poesie.
1920-1921 Durante l’inflazione, per ragioni di carattere economico, la famiglia è costretta a lasciare la villa nel Westend e a trasferirsi a Kurfùrstendamm 43.
1923 La famiglia va ad abitare a Finkenkrug in una casa con un grande giardino, nella Manteuffelstrasse, oggi Feuerbachstrasse. Il padre si dedica alla coltivazione delle rose e alla cura degli animali.
dicembre 1926 metà 1927 Gertrud viene assunta come istitutrice presso una famiglia di Amburgo-Harvestehude.
tarda estate 1927 Frequenta un corso estivo all’Università di Digione e si diploma con la votazione migliore del corso. In- traprende quindi un viaggio di studio in varie città della Francia, fra le quali Parigi. Con questo viaggio termina la crisi creativa di Gertrud Kolmar, iniziata intorno al 1923.
inverno 1927/29 Das preuRische Wappenbuch (II libro degli stemmi prussiani).
1928 Lavora, probabilmente per l’ultima volta, come istitutrice a Peine. D’ora in avanti Gertrud Kolmar pub- blicherà le sue poesie su riviste e antologie. Viene so- stenuta da suo cugino Walter Benjamin, da Elisabeth Langgàsser, Ina Seidel e Victor Otto Stomps.
fine 1928 Ritorna alla casa paterna. Assiste la madre, gravemente ammalata e si occupa della gestione familiare. Partecipa a un corso di notariato e lavora come segretaria per suo padre.
1928/29 E’ probabilmente questo il periodo in cui nasce il ciclo di poesie Bild der Rose (Immagine della rosa).
25 marzo 1930 Muore la madre.
1930 Attraverso le sue pubblicazioni sull’ “Insel Almanach 18 agosto 1930 auf das Jahr 1920” Gertrud Kolmar conosce lo scrittore Karl josef Keller, con cui ha un rapporto d’amicizia fino al 1939.
1 febbraio 1931 Die jùdische Mutter (La madre ebrea).
1927-1932 Mein Kind (Mio figlio), Weibliches Bildnis (Ritratto di donna) e Tiertràume (Sogni di animali).
25 ottobre 1933 Das Wort der Stummen (La parola dei muti) autunno 1933 Das Bildnis Robespierres (Ritratto di Robespierre).
1934 Viene pubblicato il volume di poesie PreuRische Wappen (Stemmi prussiani) per le edizioni Die Ra- benpresse (Berlino) di Victor Otto Stomps. Ma la casa editrice è costretta a sospendere l’attività e gran parte della tiratura va perduta.
14 marzo 1935 Cécile Renault. Dramma in quattro atti.
dal 1936 Lo “Judischer Kulturbund” organizza serate in cui ven- gono recitate le sue poesie. La Kolmar conosce Nelly Sachs e jacob Picard/ che si adopera per la pubblica- zione delle sue poesie.
20 dicembre 1937 Welter” (Mondi).
15 giugno 1938 Nacht (Notte). Leggenda drammatica in quattro atti.
1938/39 Emigrano il fratello e la sorella.
tarda estate 1938 Esce il volume di poesie Die Frau und die Tiere (La donna e gli animali) per lo Judischer Buchverlag Erwin Lòwe (Berlino). Il libro non può più essere pubblicato con lo pseudonimo. Dopo il pogrom del 9 novembre e la successiva interdizione alle case editrici ebraiche il libro viene mandato al macero. dal 9 novembre 1938 Il padre viene tenuto in prigione per quattro giorni.
23 novembre 1938 La famiglia Chodziesner è obbligata a vendere la casa di Finkenkrug entro 24 ore.
21 gennaio 1939 La famiglia è obbligata a trasferirsi nella Speyerer Stra- de a Berlino-Schóneberg.
13 febbraio 1940 Susanna.
dall’aprile 1940 Gertrud Kolmar prende lezioni di ebraico ed è presto in grado di scrivere poesie in questa lingua.
fine 1941 E’ prevista la sua deportazione, ma il capo della fabbrica dove lavora la “reclama” qualificandola come indispensabile.
luglio 1941 E’ avviata al lavoro forzato nella fabbrica di imballaggi Epeco a Berlino-Lichtenberg.
1 aprile 1942 Scrive un racconto andato perduto. settembre 1942 Il padre viene deportato a Theresienstadt. Dalla fine del 1942 svolge lavoro forzato in una fabbrica di imballaggi a Berlino-Charlottenburg.
13 febbraio 1943 Il padre muore a Theresienstadt.
27 febbraio 1943 Durante la cosiddetta “Azione nelle fabbriche” viene arrestata assieme agli altri lavoratori forzati ebrei di Berlino e condotta in un campo di smistamento.
2 marzo 1943 Con il “32° Trasporto all’Est” Gertrud Kolmar viene deportata ad Auschwitz.
Vittorino Curci è nato a Noci nel 1952, dove vive. Musicista e poeta. Cura su la Repubblica di Bari la rubrica La Bottega della Poesia. Ha pubblicato numerose opere di poesia La stanchezza della specie, LietoColle, 2005, Un cielo senza repliche, LietoColle, 2008, Il frutteto, LietoColle, 2009, Il pane degli addii, La Vita Felice, 2012, Verso i sette anni anch’io volevo un cane, La Vita Felice, 2015, Liturgie del silenzio, La Vita Felice, 2017. Tra le sue altre pubblicazioni, un libro di racconti, Era notte a Sud, Besa, 2007, e due libri di poetica, La ferita e l’obbedienza, Icaro, 2007 – Spagine. 2017, e Note sull’arte poetica, Spagine, 2018. Nel 2021 è uscita l’opera antologica Poesie (2020-2017), La Vita Felice, con prefazione di Milo De Angelis
Vittorino Curci
Poesie (2020-1997)
prefazione di Milo De Angelis
Edizioni La vita felice, pp. 164,
Poesie di Vittorino Curci
*
albe mute ci mangiano
i sogni che facciamo.
la parola cade sul foglio
per scaricare il peso di mille storie
sembra una preghiera stare qui.
le labbra cercano in silenzio
la strada del ritorno
la notte resta impigliata nei vestiti.
fuori, non ci siamo che noi
sotto mentite spoglie
*
un bambino dietro una porta a vetri
guarda la strada coperta di neve.
lì dove torniamo
il senso raggruma nel bianco
volevamo che fosse così
il mondo, un luogo immaginato e vivo
come l’arte che pulsava alle tempie.
ma a furia di togliere ci è rimasta
la fortuna… e promesse come brividi…
scene mute che ci consumano…
cani che abbaiano in lontananza
arruolati nel sogno
Parto proprio dal dettaglio del titolo, “Poesie (2020-1997)”, per indovinare l’operazione intellettuale e, prima ancora, psicologica di Vittorino Curci: lo sfalsamento delle cronologie nel loro ordine di percezione solita e solitaria, la giustapposizione emotiva e linguistica delle ere personali e collettive attraverso la narrazione multidirezionale della Storia nelle infinite minime dilatanti storie di tutti. Il dato biografico appare volutamente sfuggente, evasivo, criptico così da rappresentare materia flessibile che si appoggia sulle parti del verso più visionarie affinché affiori la possibilità della loro coincidenza (“un bambino dietro una porta a vetri/guarda la strada coperta di neve./lì dove torniamo/il senso raggruma nel bianco”). Eppure è l’elemento realistico che infittisce la trama narrativa e quella lirica (“Sul crinale avverso un piccolo bar/di provincia con l’insegna al neon/e il cartello SI VENDE/Culture millenarie muoiono/in uno spavento immane”), proprio come avviene, con le dovute differenze, nella poesia filosofica di Hulme: la costruzione semantica si compone di correlativi oggettivi che si soggettivizzano nell’alternarsi di similitudini e contrapposizioni logiche e ontologiche per giungere alla trasfigurazione etica di ogni elemento della realtà (“Uomini accartocciati sui rami./La visione abbagliante dello schermo./L’orrore assoluto/passa il tempo”). Il cinismo, visuale acuta e necessaria, frutto maturo dell’albero radicale che non ha ignorato la sostanza universalistica e fertilizzante del tempo, pro-rompe tra i versi con la ferocia di un testamento precoce (“bisognava solo agire con lo sguardo. Per il resto, a quei tempi gli argini non crollavano”.) ma non ci si illuda che esso abbandoni il suo finalismo all’autocommiserazione: ogni frazione perduta del sé può recuperare la sua individuazione attraverso la compenetrazione osmotica delle età che ci appartengono tutte insieme (“collane di bambini intrecciano/trame di vendetta./il mesto giro delle stagioni affianca/la crudeltà dei sigilli./i nomi potrebbero tornarmi”). Ed è esattamente dai nomi che si parte per smarrire, nell’impronta di suono che rende la statura della carne, la temerarietà del potenziale umano (“La perfezione/all’altro capo del tempo/non ha memoria del nome”). Il linguaggio insedia l’esistenza, ne sincretizza apologie e disfatte (“La lingua che ho rubato è per voi/per le vostre bocche asciutte, contadini”), recupera la decodifica della vulnerabilità (“d’accordo sui rami, sulle i sbagliate, su tutto quello che arriva come un mal di testo nelle sere fortunate”). Torno al dettaglio, notando come il topos dell’infanzia che precorre e percorre tutta l’opera (che, si ricorda, è una antologia di estratti di varie pubblicazioni dell’autore che copre un lasso di tempo molto ampio) rappresenti una consapevole esposizione all’indietro (“forse, per una scucitura del tempo e una prolungata infanzia che cede sovranità al mondo”) che permette all’uomo di essere l’occasione di se stesso: “La gioia si capisce dagli occhi, dalla decisione con cui impugnano”. Nella divagazione onnivora di registri linguistici differenti che transitano dalla poesia in versi alla prosa poetica, mi sembra che una evidenza, benché impercettibile, non possa sfuggire: le composizioni più recenti hanno abbandonato le maiuscole e molta della punteggiatura degli scritti più risalenti, forse perché se da giovani la libertà è un istinto, nell’età matura, se lo vogliamo, può diventare un talento che ci allena all’etica del plurale.
-Alberto Sughi -Artista del realismo esistenziale-
I disegni :”momenti di vita quotidiana senza eroi”-
Alberto Sughi (Cesena 5 ottobre 1928-Bologna 31 marzo 2012)-Artista del realismo esistenziale ,si era trasferito a Roma nel 1948, dove aveva frequentato il gruppo artistico del Portonaccio, animato da Renzo Vespignani, che lo influenzerà nelle successive ricerche legate al realismo a sfondo sociale.
Scelse la strada del realismo, nell’ambito del dibattito fra astratti e figurativi dell’immediato dopoguerra. I dipinti di Sughi rifuggono tuttavia ogni tentazione sociale; mettono piuttosto in scena momenti di vita quotidiana senza eroi. Enrico Crispolti nel 1956 nel inquadrò la sua pittura nell’alveo del realismo esistenziale.
Scelse la strada del realismo, nell’ambito del dibattito fra astratti e figurativi dell’immediato dopoguerra. I dipinti di Sughi rifuggono tuttavia ogni tentazione sociale; mettono piuttosto in scena momenti di vita quotidiana senza eroi. Enrico Crispolti nel 1956 inquadrò la sua pittura nell’alveo del realismo esistenziale.
La ricerca di Alberto Sughi procede per cicli tematici: le cosiddette Pitture verdi, dedicate al rapporto fra uomo e natura (1971-1973), il ciclo La cena (1975-1976); agli inizi degli ’80 appartengono i venti dipinti e i quindici studi di Immaginazione e memoria della famiglia; dal 1985 la serie La sera o della riflessione. L’ultima serie di dipinti, esposta nel 2000, è intitolata Notturno.
“Donna sul divano Rosso”, 1959, Olio e tempera su tavola 150×120 cm, Cesena, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Uomini al bar”, 1960, Olio e tempera su tela 180×130 cm, Cesena, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La cena. Uomo che mangia”, 1975, Acrilico su tavola 100×70 cm, Roma, collezione privata, Milano Collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La cena. Donna sola”, 1976, Acrilico su tela 180×120 cm, Fiuggi, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Donna davanti al televisore”, 1981, Acrilico su tela 158×158 cm, Roma, collezione dell’Artista – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La lavanda dei piedi”, 1981, Acrilico su tela 160x160cm, Cesena, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Tramonto romano”, 1983, Olio su tela 180×250 cm, Sessa Aurunca, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Teatro d’Italia”, 1984, Olio su tela 250×360 cm, Cesena, collezione Cassa di Risparmio – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Guardare fuori”, 1985, Olio su tela 100×120 cm, Trezzano sul Naviglio, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La sera”, 1985, Olio su tela 120×100, Roma, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La poltrona del potere”, 1969, Olio su tela 110×140 cm, Trezzano sul Naviglio, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Villa sull’Adriatico”, 1973, Olio su tela 120×100 cm, Roma, collezione dell’Artista – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub.
«Come al solito», rispose la Sibilla, «ho cominciato pescando nella mia memoria. La memoria dei nonni è importante per i bambini, dà loro la dimensione della fluidità del tempo, del continuo scontro-incontro tra passato e futuro. Il passato è l’assuefazione a modelli costruiti in precedenza, il futuro la trasgressione critica per migliorarli e superarli».
Joyce Lussu, Il libro delle streghe
Introduzione
Da un finestrino appannato di un piccolo treno regionale marchigiano che una sera d’inverno da Porto San Giorgio mi porta a casa, una manciata di chilometri più giù, guardo il cielo notturno. La linea adriatica corre lungo il mare aperto, ora calmo, bellissimo, anche se in quel periodo lo spettacolo è sopra, nello spazio profondo. Sono i mesi della grande stella che passa a chiudere un secolo denso e complicato. A voler essere definitivi, chiude un intero millennio. La stella si mostra ogni sera in tutto il suo splendore, nitida e dinamica, è la cometa più luminosa che si sia mai vista.
È il 1997 e vivo a Milano da un po’, dopo un periodo passato a Bologna dove mi sono trasferita per l’università. Le volte che torno nelle Marche, invece di rivedere i vecchi amici ormai persi per strada, prendo questi vecchi treni regionali e corro da Joyce Lussu, o arrivo fino ad Ancona dove mi aspetta il nostro comune editore e amico Massimo Canalini della Transeuropa.
I miei ritorni quegli anni nelle Marche sono principalmente per lavoro e per studio. Laggiù, in una bella casa di campagna tra Porto San Giorgio e Fermo che si chiama San Tommaso, località Paludi, vive una donna formidabile, saggia e generosa, ricchissima di pensieri, intuizioni, toni, bellezza, forza, argomenti, intelligenza. La mia Joyce, la mia sibilla.
Quando la incontro la prima volta è il novembre del 1991, un mese dopo l’uscita del mio primo libro. Lei ha settantanove anni, io ventuno. È nata nel 1912, come mia nonna Fernanda, e io di fama la conosco da sempre. Da quando la maestra alle elementari ci leggeva la sua poesia Scarpette rosse, che avevamo stampata nel sussidiario accanto a poesie di Brecht, Tagore, Neruda, e i miei compagni scoppiavano a piangere, perché è una poesia che fa piangere. Il suo nome mi è noto da sempre perché in casa si parlava di Joyce come della sorella di Gladys, per via di parenti comuni.
Mi ha mandato a chiamare lei ma sono anni che desidero conoscerla. Lei non sa che io l’ho già sentita al telefono. Infatti Canalini in casa editrice ad Ancona, rispondendo alle chiamate, aveva questo dannato vizio di mettere le persone in vivavoce per lasciarsi le mani libere di continuare a trafficare con bozze e floppy disk (era ancora l’epoca dei dischetti, dei nastri registrati e dei manoscritti). Avevo dunque avuto modo di assistere, spettatrice silenziosa, a una tremenda scenata di Joyce contro di lui che non si decideva a ripubblicare l’introvabile Portrait. Alquanto seccata, la scrittrice riversava via telefono accuse, insulti, reprimende severe e giuste su quei giovani editori anconetani che avevano costruito la loro iniziale fortuna proprio grazie ai suoi libri. Canalini taceva, incassava, annuiva, le dava ragione. Però non ristampava.
«Ma perché cavolo non ristampi, pure tu», gli dicevo. «È un libro bellissimo».
Me ne aveva data una copia e lo avevo divorato. Avevo preso anche Il libro delle streghe, Alba rossa che conteneva Fronti e frontiere, e poi il libro della nonna di Joyce, Lanostra casa sull’Adriatico, e Le inglesi in Italia, un albo di grandi dimensioni sulla storia della famiglia (e del territorio). Tutti editi da Transeuropa/Il lavoro editoriale a partire dagli anni Ottanta.
Portrait è stata la prima autobiografia di Joyce. Nella sua edizione anconetana contiene «116 foto rare, mai pubblicate». Penso che molti dei problemi che ostacolavano un’eventuale ristampa fossero legati al costo della riproduzione delle foto. Almeno credo, perché della piccola editoria, e di quella marchigiana in particolare, ci sarebbe molto da dire (e si dirà: molti dei libri di Joyce sono usciti, per sua scelta, da piccoli editori, indipendenti e di cultura).
Comunque, conservo gelosamente quella copia introvabile con le sue foto straordinarie. Tante Joyce, dall’infanzia alla vecchiaia, in vari contesti. Una piccola Joyce a Firenze coperta solo di meravigliosi capelli lunghissimi, alla moda vittoriana delle foto inglesi di Lewis Carroll. Joyce con i fratelli, Max e Gladys. Una Joyce signorina vestita da amazzone con maestosi cavalli, nelle Marche, a casa del nonno. Una Joyce studentessa di filosofia nella Heidelberg degli anni Trenta. Poi una ragazza in Africa, approdata lì in cerca di lavoro con un fascicolo già aperto a suo nome nel Casellario politico centrale della polizia fascista. Una foto con Benedetto Croce, amico e primo curatore delle sue poesie. Quindi, una serie di scatti di Joyce ripresa dietro a un microfono, in piazze o in case della cultura, trasmissioni televisive (però all’estero, rare le sue apparizioni in televisione in Italia), in sedi o a congressi di partito, riunioni di partigiani, di intellettuali mondiali per la pace, di scrittori. Il momento in cui un generale appunta la medaglia d’argento al valor militare sull’abito che so essere rosso di una Joyce sorridente in occhiali da sole. Joyce con Emilio, Joyce con il figlio Giovanni. Joyce in Sardegna, poi in marcia con i guerriglieri del Curdistan, della Guinea-Bissau. Joyce con Nazim Hikmet, penna in mano e fogli ben distesi. Joyce su una sdraio con un bel nipotino, roseo e attento, seduto sulle ginocchia. Entrambi guardano nell’obiettivo, sorridenti e fiduciosi. Aspettano il futuro, sereni.
È per un libro di foto che Joyce mi ha mandato a chiamare. Si intitolerà Streghe a fuoco, parlerà di donne, e sarà composto collettivamente, con una serie di testi di donne scelte da Joyce e relative fotografie fatte da Raffaello Scatasta, fotografo di Fermo che vive a Bologna da sempre (scoprirò con sorpresa, subito, che abita praticamente oltre il muro della casa in cui mi sono trasferita da due mesi, in una traversa di Strada Maggiore, lui al 3 io al 5, e che le nostre finestre sono adiacenti: roba da streghe, davvero).
Arrivo, dunque, a casa di Joyce per la prima volta una sera di novembre del 1991. È buio e sono anni che non vado in visita da qualcuno che abita in campagna, ma è una situazione che mi è molto familiare e mi porta indietro alla mia infanzia, a cose che mi sono note: una luce accesa su un portoncino di legno di una grande villa padronale, con attorno la notte che avvolge i campi fino al fiume, i rumori e gli odori dei fossi, l’umido autunnale, la pioggia sulle foglie del giardino. È la prima volta che vedo casa di Joyce (e di Gladys e di Max, insomma dei Salvadori), ma tutto quello che c’è fuori lo conosco bene: è la campagna marchigiana disegnata dalla mezzadria, è la provincia picena in cui pure io sono nata, è una delle vallate che corrono tra l’Adriatico e i Sibillini.
Gladys ha disegnato un albero genealogico che, a casa dei miei, è sistemato su un leggio di peltro brunito. Quando eravamo piccole, noi figlie lo ammiravamo intimorite, fiorito com’era di ghirigori e nomi scritti in caratteri con le grazie, su pergamena, con in cima un’intestazione latina: Ciccus Gratianus, che sarebbe il capostipite della famiglia materna di mio padre. Noi bambine cantavamo quei nomi solennemente, per poi ridere, avvolte in lenzuola che dovevano fungere da mantelli, perché eravamo attratte dagli svolazzi e dal latino e dai nomi di quegli sconosciuti che, in qualche modo a noi oscuro e lontano, ci avevano preceduto.
Le famiglie Graziani e Salvadori si erano incontrate a metà dell’Ottocento e questa lontana parentela era testimoniata dalla presenza, in entrambe, di echi di nomi inglesi: mio padre aveva infatti un cugino di nome John, anche se tutti lo chiamavano Gione (così come Joyce veniva chiamata dai contadini anche Iole, Gioice, Giove: la storia dei nomi di Joyce/Gioconda comincia subito). C’era un legame tra le due famiglie, dunque, che risaliva alla «tribù anglo-marchigiana» (definizione di Joyce) nata con l’arrivo nelle Marche di un gruppo di signorine inglesi, e se nella nostra parte di british rimaneva ben poco, nel ramo Salvadori quelle ladies avevano lasciato un imprinting preciso: il loro pensiero cosmopolita, libertario e femminista aveva prevalso sull’immobilismo marchigiano della parte maschile della genealogia.
Non parlerei di tutto questo se, a un certo punto, non diventasse importante, per Joyce, risalire all’indietro, ad ascendenze che spiegano l’amalgama culturale e ‘antropologico’ di un posto, di una famiglia, di una storia. Succederà dopo un po’ nel suo percorso, dopo che si sarà messa sulle carte a fare la storia da una prospettiva un po’ diversa, originale come è originale tutta la sua opera. Perché Joyce la storia l’ha fatta di persona, da protagonista, ma anche da studiosa.
La storia è anche dentro casa di Joyce, in quella casa in cui entro per la prima volta e che colpisce molto chiunque l’abbia visitata. Intanto, a quell’epoca, c’è dentro Joyce. Avvolta in un elegante e caldo scialle colorato, mi accoglie con un gran sorriso, contornata da amiche che chiacchierano, ridono, fumano (e mi squadrano: ovvio, sono quella che, giovanissima, ha appena pubblicato un libro). Mi parla subito del suo progetto di libro sulle streghe, mi fa dono di un libro di Mimmo Franzinelli sui cappellani militari che devo leggere assolutamente, mi dice, e uno su padre Agostino Gemelli e i suoi legami col fascismo.
Dopo quel giorno, tornerò tutte le volte che posso.
Non c’è solo quel libro iniziale, collettivo e fotografico, a tenere insieme i nostri discorsi. Ce ne sarà un altro, anni dopo, frutto di decine di incontri con lei fissati su nastro. Ore e ore di registrazioni che realizzo nel corso di mesi, di anni, andando a trovarla per parlare della sua vita, dei suoi pensieri, della sua storia, per raccogliere la sua lezione. Non uso a caso questa parola: per anni Joyce ha girato per le scuole parlando ai più giovani, facendo storia tra i banchi, confrontandosi con studenti e studentesse di ogni età e anche con i loro insegnanti, cercando di rispondere a domande semplici e per questo fondamentali. Per esempio: che vuol dire ‘civiltà’? Come nasce la violenza nella società? Com’è stato possibile che una minoranza si sia impossessata delle ricchezze a scapito di una maggioranza sfruttata e sottomessa? Che cos’è la pace? Come mai le donne sono state perseguitate per secoli? E ancora, cosa significa combattere nella resistenza per un’antimilitarista?
Vado da lei a porre a mia volta delle domande, come secoli fa pellegrini e viandanti salivano sui Sibillini, fino alla grotta della signora che, narra la leggenda, circondata dalle sue fate tesseva i fili di passato, presente e futuro, e di cui la stessa Joyce ci ha lasciato un’interpretazione nuova e molto affascinante. D’accordo, non proprio, non le ho mai detto: «Cara Joyce, tu sei una sibilla: sei tu la nostra sibilla»; tuttavia, molte persone la chiamavano in questo modo e capitava spesso, quando veniva invitata in giro per l’Italia, che venisse presentata così in pubblico. Naturalmente ne rideva, di questa storia della sibilla che le attribuivano.
Anche dopo la sua morte, molti sono stati gli interventi, incontri, approfondimenti in cui si è usata questa dicitura per definirla. C’è un titolo che ricorre spesso, in articoli di giornale o nei convegni sulla sua figura: Joyce Lussu, sibilla del Novecento. Anche il Novecento è stato usato spesso per parlare di lei, perché lei è stata il Novecento. È stata un tempo, un intero secolo, ed è stata un mondo.
Quando mi capita di doverla definire, raccontare a chi non la conosce, a volte snocciolo un elenco: partigiana, poetessa, scrittrice, traduttrice, storica, politica, combattente, medaglia d’argento per la lotta di liberazione, compagna di Emilio Lussu, intellettuale, agitatrice culturale, saggista… A volte cambio l’ordine, di alcune definizioni so che avrebbe da ridire (per esempio su «intellettuale», e probabilmente pure su «agitatrice culturale»), quasi sempre mi sembra che nessuna di queste etichette riesca a dar conto della sua grandezza, neanche se messe – appunto – tutte assieme.
E allora forse sibilla è una figura che sono autorizzata a usare, adesso, anche io, per dire di Joyce.
E sono di nuovo su quel treno di tanti anni fa, che corre lungo il mare nella notte, sotto la cometa, continuando a pensare a Joyce, a Emilio, alla loro vita luminosa
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Già durante quei viaggi di ritorno da casa di Joyce, anche se l’avevo lasciata da pochi minuti, mi capitava di pensare a Joyce ed Emilio insieme e di provare una sorta di ‘mancanza’. Gli incontri con Joyce erano impegnativi, nel senso che sollecitavano molte questioni e costituivano una sorta di richiamo a studiare, lavorare, approfondire. Ed erano straordinariamente intensi perché, per una lettrice e per una persona alle prese con la scrittura com’ero, c’era davvero moltissimo per riflettere e di cui fare tesoro. Faceva un certo effetto sapere che certe storie che sembravano pura fiction, le storie che leggevo nei suoi libri e che la riguardavano, erano invece avvenute davvero e che i protagonisti erano esistiti e si erano comportati in maniera così magnifica. Una di quei protagonisti la conoscevo, ce l’avevo avuta davanti fino a un attimo prima, e magari in quel momento stava mangiando un gelato al marron glacé con l’amica con cui mi aveva accompagnato alla stazione di Porto San Giorgio. Io, invece, stavo tornando a casa col mio bottino di cassette registrate, stordita da tutti gli argomenti venuti fuori e discussi sempre col taglio alla Joyce, brillante e vivace, inaspettato, mirato, scomodo, ed ecco che nella solitudine un po’ appannata del treno cominciavo a pensare a Joyce ed Emilio giovani, insomma trentenni, o almeno adulti (lei giovane adulta, all’epoca del loro incontro, lui uomo maturo, dato che aveva ventidue anni di più, ma insomma non anziani), ed era facile per me pensarli come ‘amici’ reali, umani, pieni di spessore e sostanza.
Mi dispiaceva non averli potuti conoscere in coppia, particolarmente perché in quella fase della mia vita – e dello ‘studio’ della scrittrice Joyce – sentivo di dovermi concentrare soprattutto sulle vicende della resistenza che li avevano visti protagonisti coraggiosi e bellissimi. Intanto avrei voluto ringraziarli per i rischi che si erano presi. Poi non avrei mai smesso di chiedere storie su quel periodo. Un po’ perché appartengo alla generazione dei nipoti che da piccoli si facevano raccontare dai nonni le storie di guerra, essendo i genitori concentrati a fare altro e non avendo per motivi anagrafici troppi ricordi su quel periodo, un po’ perché ho sempre considerato la seconda guerra mondiale un punto decisivo e fondamentale per capire tutto quello che era arrivato dopo. E a scuola, naturalmente, non ci si arrivava mai, col programma. O meglio, alle scuole elementari avevo avuto una maestra molto sensibile all’argomento (era stata vittima delle leggi razziali del ’38) e le avevo frequentate in un periodo in cui in classe si parlava molto della pace e si leggevano appunto le poesie di Joyce Lussu, però poi alle superiori, quando si sarebbe dovuta approfondire e analizzare la storia del Novecento, tutto veniva travolto dalla fretta della maturità incombente, delle ultime interrogazioni ecc. ecc., insomma tutti i problemi che ci sono – incredibilmente – ancora oggi. Così a quell’epoca stavo cercando di recuperare i pezzi che mi mancavano e, allo stesso tempo, avevo avuto questa fortuna pazzesca di trovarmi Joyce, storica e scrittrice, a portata di mano, disponibile a raccontare e condividere.
Pensavo spesso a Joyce ed Emilio, alle loro storie. Le avevo lette, le avevo ascoltate. Erano storie straordinarie. Il loro incontro, la loro storia insieme non smetteva di stupirmi.
Ed è da lì che partirò.
Chi è, dunque, Joyce quando, a ventun anni, incontra per la prima volta Emilio Lussu a Ginevra?
È la figlia di due persone che il capitano sardo conosce già, una ragazza in esilio da tempo insieme alla sua famiglia. Alta, bionda, occhi azzurri, portamento aristocratico, Gioconda Salvadori (così all’anagrafe: Beatrice Gioconda Salvadori, ma per tutti Joyce) è una donna di bellezza eccezionale, con un notevole fascino che le arriva da nascita e formazione. Determinata, pragmatica, colta, ha una coscienza politica molto forte. E poi, scrive poesie.
Pur essendo giovane, ha già viaggiato molto, per scelta e per necessità. Appena può si sposta tra la Svizzera, dove ha seguito i genitori fuoriusciti, e l’Italia, dove torna a casa dei nonni marchigiani; è stata un semestre in Africa per lavoro; ha soggiornato un paio di anni in Germania per studio.
Nata a Firenze l’8 maggio del 1912, terza dopo Gladys (Perugia, 1906) e Max (Londra, 1908), Joyce è in fuga dal ’24. Ha dodici anni, infatti, quando nella sua vita di ragazzina accade un evento cruciale, un atto di grave violenza che condizionerà la storia della sua famiglia: il pestaggio subito dal padre, uscito vivo solo per un caso dall’assalto di una squadraccia fascista.
Suo padre, Guglielmo Salvadori, filosofo positivista-evoluzionista, professore di Sociologia (uno dei primi laureati in Italia in Scienze sociali, con seconda laurea in Filosofia presa a Lipsia), è il traduttore dell’opera del filosofo Herbert Spencer, uscita per l’editore Bocca. A Firenze ha una libera docenza che esercita a titolo gratuito. Scrive su riviste e giornali, collabora con il «New Statesman» e la «Westminster Gazette», mentre sua moglie è corrispondente del «Manchester Guardian» per il quale scrive diverse critiche al regime. Sono, per questo, due intellettuali nel mirino.
Entrambi appartengono a nobili famiglie marchigiane di proprietari terrieri del fermano, ma Willy (così viene chiamato in casa Guglielmo) ha rotto i rapporti col padre a causa di divergenze politiche. Né lui né la moglie condividono il conservatorismo retrogrado delle ricche famiglie d’origine. Il padre di Guglielmo, il conte Salvadori Paleotti, è uno degli agrari che hanno organizzato i primi fasci nelle campagne picene e Willy, che ha studiato, è un laico repubblicano con tendenze liberali – meglio dire liberal, all’inglese, per intendersi – e simpatizza con i socialisti (a Porto San Giorgio si è iscritto alla Società operaia), non può tollerarlo. La moglie Cynthia (all’anagrafe Giacinta Galletti di Cadilhac, ma chiamata anche lei all’inglese), che lo ha accompagnato a Lipsia appena sposati per togliersi anche lei da quell’ambiente, la pensa come lui. Come molte donne della sua generazione, non ha frequentato scuole pubbliche e a differenza dei fratelli maschi non è andata in collegio per non rinunciare alla vita in campagna e al suo amore per piante e animali, però parla quattro lingue, soggiorna spesso a Roma con la famiglia per motivi di lavoro del padre deputato, ha studiato disegno a Napoli prendendo lezioni dal pittore Flavio Gioja, è stata un anno a Madras (dove suo fratello Arthur si è trasferito dopo aver studiato al Trinity College di Oxford diventando funzionario britannico in India), è convinta antimilitarista e neutralista. Proviene da una famiglia in cui l’innesto inglese da parte femminile ha lasciato una robusta base di impegno, orgoglio, indipendenza e sensibilità libertaria soprattutto nelle donne, già ‘emancipate’ da qualche generazione e in contrasto con i loro mariti (parlando, in un racconto, di una parente d’inizio Ottocento che si era salvata da un’aggressione grazie al suo atteggiamento, Joyce accenna a «spalle erette e sguardo gelido e diretto, secondo le regole del Collier’s pluck, la grinta di famiglia»). Suo padre, ex ufficiale garibaldino originario di Roma, è stato sindaco di Torre San Patrizio e per cinque volte deputato liberale del collegio di Montegiorgio ma è un uomo che si comporta in modo arrogante, «una specie di Don Rodrigo locale» dice Joyce, un feudatario vecchio stampo che gira per i suoi possedimenti, e per le piazze dei paesi dove fa campagna elettorale, con la carrozza equipaggiata di campieri armati di fucile. La figlia preferisce guardare alla madre scrittrice (che a un certo punto si separa dal marito e se ne torna in Inghilterra), ai cugini inglesi che sono molto attivi nel movimento pacifista e anticolonialista sorto attorno a Bertrand Russell. Parla tranquillamente di rivoluzione: «diceva che l’avremmo dovuta fare nel 1914, per impedire la guerra», scrive Joyce della madre, ricordando certi pranzi a villa Marina, la casa dei nonni Salvadori, dove tornano d’estate «facendo inorridire il parentado» con le loro uscite sovversive (e certe poesie provocatorie scritte dalla piccola Joyce fatte trovare a tavola alla famiglia riunita, infilate per scherzo tra i tovaglioli delle zie).
Orgogliosamente e coerentemente con la scelta di rompere con la loro classe sociale d’origine, Willy e Cynthia hanno rinunciato al sostegno economico dei padri possidenti ma non avendo una vera formazione professionale, e con tre figli da crescere, si sono arrangiati tra lezioni, traduzioni e corrispondenze per giornali inglesi.
In quegli anni scelte del genere – esporsi politicamente, contrastare la propaganda – si pagano care, ed essere prelevati a casa da una squadra di otto fascisti armati fino ai denti per andare a ‘discutere di stampa libera’ alla sede del fascio, dopo esser stati segnalati da una gentildonna della colonia anglo-fiorentina per due pezzi usciti sui giornali inglesi, significa una cosa sola: botte, minacce, torture.
Sono anni molto violenti a Firenze. La città è percorsa da bande di fascisti terribili, duri e fanatici, riuniti in squadracce dai nomi paurosi. Una su tutti, ‘La Disperata’, al cui soccorso arriva ogni tanto ‘La Disperatissima’, composta da squadristi di Perugia che si muovono anche fuori regione spingendosi a fare incursioni fin nelle Marche. Gentaccia pronta a usare bastone e olio di ricino senza alcuno scrupolo, teppisti, criminali come Amerigo Dumini, il capo degli squadristi che un paio di mesi dopo sequestrano e uccidono Matteotti (e che, ricorda Lussu ne La marcia su Roma, era solito presentarsi dicendo «Amerigo Dumini, nove omicidi»).
Il professor Salvadori, per non mettere in pericolo la famiglia, obbedisce alla convocazione senza fare storie e va a piazza Mentana. Entra nel covo alle diciotto del primo aprile e ne esce a tarda sera, coperto di sangue e barcollante. Max, all’epoca sedicenne, che gli è andato appresso perché aveva delle lettere da impostare alla stazione e l’ha aspettato fuori, ha sentito tre brutti ceffi che ciondolano per la piazzetta dire alcune frasi inquietanti.
«Occorre finirlo».
«Già, ma chi l’ha comandato?»
«L’ordine viene da Roma».
In quel momento Willy esce dal palazzo circondato da una dozzina di fascisti esagitati che brandiscono bastoni. Il padre, ammutolito, è coperto di sangue, e quando Max gli si fa incontro per sostenerlo e aiutarlo riceve la sua razione di botte: i picchiatori non hanno finito, la squadraccia li segue fin sul ponte Santa Trinita, vogliono buttare padre e figlio al fiume. I due si salvano solo grazie a una pattuglia di carabinieri che passa di lì per caso, e quando infine arrivano a casa a mezzanotte, malconci e umiliati, sebbene Cynthia mantenga calma e lucidità e Willy cerchi di minimizzare, lo shock è forte per tutti loro. Scrive Joyce in Portrait:
Tornarono tardi, e la scena è ancora nei miei occhi. Noi due donne (mia madre e io, mia sorella era in Svizzera), affacciate alla ringhiera del secondo piano, sulla scala a spirale da cui si vedeva l’atrio dell’entrata; e loro due che dall’atrio salivano i primi gradini, il viso rivolto in alto, verso di noi.
Il viso di mio padre era irriconoscibile; sembrava allargato e appiattito, e in mezzo al sangue che gocciolava ancora sotto i capelli, si vedevano i tagli asimmetrici fatti con la punta dei pugnali: tre sulla fronte, due sulle guance, uno sul mento. Mio fratello aveva il viso tutto gonfio e un occhio che pareva una melanzana. «Non è niente, non è niente», diceva mio padre, cercando di sorridere con le labbra tumefatte. Capii in quel momento quanto ci volesse bene.
In quella sera drammatica che costituisce uno spartiacque nella storia della loro famiglia, Joyce fa tesoro dell’esempio dato dai genitori e dal fratello. Il padre che coraggiosamente cerca di sminuire la portata della violenza e il fratello che lo sostiene forniscono alla Joyce dodicenne «solidità, in quanto alle scelte da fare. Servì a pormi di fronte a ciò che è barbarie e a ciò che invece è civiltà».
La scelta è chiara. Insieme alla pena per quello che è successo ai suoi cari, nella giovanissima Joyce, quella sera di primavera, si impone repentina una reazione, un’intuizione:
Ma un altro pensiero mi traversò il cervello come una freccia.
Noi donne eravamo rimaste a casa, in relativa sicurezza; mentre i due uomini della famiglia avevano dovuto buttarsi allo sbaraglio, affrontare i pericoli esterni, la brutalità di una lotta senza quartiere. E giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anch’io.
Questa promessa di Joyce, la sua risoluzione, scandita in quell’enunciato finale breve come una sentenza e con la scelta di una parola forte come «rissa», mi è sempre sembrata molto potente. Una di quelle decisioni prese in un’età precisa e a cui attenersi, fedelmente, per tutta la vita. Un fondamento ineludibile, un ‘cosa voglio fare da grande, chi voglio essere’. Un centro, un asse, la definizione della propria, fortissima, personalità, ciò che intendiamo con carattere, e in questo caso anche con tempra, che ci arriva da formazione e circostanze, ma soprattutto da nostre scelte.
Sembra una formulazione semplice, cristallina, ma dietro c’è una scelta etica esistenziale molto impegnativa. Joyce racconta quella scelta sempre con grande linearità, senza mai lamentarsene, anzi rivendicandola come una cosa naturale, il da farsi in quel momento. Ma non è affatto una cosa ovvia, anzi. Né ovvia né facile.
I giovani Salvadori stanno già pagando un prezzo alto per le loro scelte. Max è stato pestato a scuola, da un gruppo di compagni del ginnasio, un anno prima. E adesso la violenza contro il padre con annuncio di «sentenza di morte», la fuga, l’esilio.
Guglielmo darà poi mandato al suo avvocato di avviare un procedimento legale contro gli aggressori, ma la macchina della violenza continuerà ad agire indisturbata: avvocato minacciato, studio del successore sfasciato, intimidazione testimoni, insabbiamento procedura, impunità per gli aggressori. Tutto questo viene raccontato da Salvadori in un articolo di due pagine comparso sul quindicinale parigino «Il becco giallo» (I fasti del duce e del fascismo, 1928) e da Gaetano Salvemini in The Fascist Dictatorship in Italy (pubblicato a New York nel ’27) per spiegare come il potere fascista si fondi su violenza, asservimento delle istituzioni e autoritarismo. A quell’epoca, all’estero, si pensa ancora che si tratti di un momento transitorio e che il regime sia tutto sommato rispettabile: molte cancellerie provano simpatia per Mussolini, non avendo ancora chiara la portata del fenomeno (Churchill, all’inizio, aveva definito Mussolini «un leader ammirevole»). Serviranno i racconti dei fuggiaschi per far uscire voci e testimonianze da un’Italia completamente bloccata dalla censura.
Ai figli Salvadori il rientro in Italia è consentito ma ogni volta devono chiedere permessi e passaporti, perché per il momento il loro paese li considera nemici, il sistema li ha rigettati come oppositori ‘per nascita’. Tutto ciò comporta un senso di sradicamento, conferma la precarietà, la disparità di diritti: fanno una vita da emarginati, da esclusi, da respinti.
Rileggendo alcune dichiarazioni di Joyce, che si trovano magari in piccole prefazioni a suoi libri meno noti, in un paio di occasioni il peso di quella condizione si scorge in filigrana. È la condizione dei perseguitati, in questo caso per motivi politici, per i loro ideali, e la persecuzione non è indolore. Scrive, riflettendo sulla sua storia, in una introduzione a un libro sui suoi avi: «Non ho nostalgia per l’infanzia e la gioventù, che rappresentano per me epoche di immaturità, d’insufficiente autonomia e perciò di frustrazioni; sto molto meglio ora, con una maggiore padronanza di me e delle cose».
A cosa si riferisce? A un errore di gioventù che vedremo più avanti (un matrimonio finito male), ma anche alla sua situazione generale, credo. Alla condizione che il regime ha ritagliato per lei senza che, troppo piccola, potesse ancora opporvisi fino in fondo come avrebbe fatto dopo.
E probabilmente Joyce sta pensando a una fase della vita problematica per molti, sempre (l’adolescenza, l’incompiutezza dei primi anni da giovani adulti), ma sorprende scoprire che la magnifica oratrice, la donna capace di affascinare intere piazze, che non esita a salire su un palco per discutere e rispondere alle domande di chiunque e che in privato non si sottrae a confronti anche duri e memorabili lasciando gli interlocutori strapazzati e ammutoliti, fino a una certa età sia stata molto timida. Ed è lei stessa a raccontarlo: «Il fatto di non essere mai andata a scuola mi aveva reso difficile la comunicazione, perché innanzitutto la scuola serve non per quel che impari a fare ma per la possibilità di stare insieme agli altri, per un fatto ‘sociale’ che a me era mancato. Di fronte al mio simile avevo dei blocchi, avevo l’incapacità di comunicare, una scarsissima fiducia in me stessa. È quel che capita ai giovanissimi, credo». La Joyce silenziosa e insicura, tra la bambina allegra e desiderosa di imparare tutto e scherzare (Giacinta, nel suo diario, la descrive come una bambina di grande vitalità, serena, che «non sente che il bisogno di vivere e agire»; ne documenta gli interessi, vivissimi, il tempo trascorso ad ascoltare con stupore la zia Minnie che suona, l’ammirazione per i discorsi complessi del fratello Max, le passeggiate a cavallo con Gladys, le battute scambiate col padre, le domande che pone ai genitori e per le quali i genitori non hanno tutte le risposte) e la donna piena di verve e «gioiosa aggressività» che diventerà, è un inedito assoluto per chi l’ha conosciuta. Ma è assolutamente credibile, vero, naturale.
E frustrazione e impotenza sono sensazioni note a Joyce: il regime ha cercato di imporgliele ma lei le ha sempre combattute, cercando in tutti i modi di contrastarle con l’azione, altro principio fondativo della sua vita. È il fascismo che l’ha spinta fuori dal suo paese, le ha tolto i documenti, ha punito i suoi familiari. A questo Joyce reagisce con la rivolta. E con non poca rabbia, sentimento indispensabile per la sopravvivenza.
Dunque, la sua rivolta personale risale alla prima giovinezza. Per lei che ha sempre tenuto in grandissima considerazione il giudizio dei genitori («sarei morta piuttosto che rischiare, con un atto di vigliaccheria, di perdere la stima di mia madre»), deve essere stato pesante, a quell’età, subire la persecuzione fascista, assistere alle violenze contro i suoi cari, essere costretta all’esilio. Dall’altra parte, la saldezza delle posizioni dei genitori la tengono ancorata a principi e valori che lei condivide in toto e che le offrono una vita molto più ricca e interessante di quella che potrebbe avere se, per esempio, volesse andare a vivere con i nonni. Su questo è molto chiara e non ha tentennamenti: «Le cose che loro m’avevano insegnato per me andavano benissimo e ho continuato su quella strada. Ma a me è andata anche bene, poiché non ho mai subito quel genere di traumi che incombono su tutti i ragazzi che hanno dei veri conflitti coi genitori. Non è naturale mettersi contro i propri genitori. Mio padre, che l’aveva fatto, è rimasto traumatizzato non poco. Certo, il suo coraggio è servito a noi, ma per lui è stato un trauma terribile. Io credo fermamente che poiché lui l’aveva subito, noi ci siamo salvati».
Joyce è insofferente verso il sistema, a quell’età, non certo verso la sua famiglia. E il sistema non è solo spietato, ma si regge su persone mediocri, conformiste, piccoli burocrati a cui viene conferito un potere di arbitrarietà spaventoso. Lo racconterà bene in apertura di Fronti e frontiere, il suo testo sulla guerra di liberazione, quando narra del passaporto annullato, della fatica di avere i documenti sempre sottoposti a valutazione e giudizio, di sentirsi respinta dal suo paese.
Ma è anche vero che l’intelligenza non è necessariamente collegata all’esperienza, alla maturità: «Non so se il tempo è veramente qualcosa che matura, poiché secondo me l’intelligenza viene per illuminazioni rapide e profonde. Le cose da cui ho imparato di più non erano dovute al tempo o alla ripetizione, ma erano proprio delle luci che si accendevano».
Joyce si definisce «proletarizzata dalla lotta». Da una parte la famiglia d’origine, con gli agi, le rendite da aristocrazia terriera, il blasone, dall’altra i genitori convintamente indipendenti, libertari, che vivono da intellettuali e non vogliono saperne dei privilegi della loro classe di partenza. Commentando le foto di Portrait,Joyce scrive: «Quelle che mi sembrano più incongruenti e quasi comiche, sono le fotografie dell’infanzia e della prima gioventù. Si vede una graziosa bambinetta ben pettinata e lavata, con l’abitino buono (povera mamma, che ci cuciva tutti i vestiti riciclando vecchi cenci e ci cucinava la dieta mediterranea perché aveva tanti pochi soldi!); oppure una cavallerizza con splendidi cavalli, che sembra la figlia di un lord senza preoccupazioni economiche».
La bambina pettinata e lavata coincide solo in parte con il quotidiano della piccola Joyce a Firenze. Assomiglia di più, forse, alla ragazzina che passa le estati dai nonni in campagna, arrivando dalla città.
Pochi giorni dopo l’aggressione, minacciati dalla promessa che i fascisti sarebbero tornati per la seconda, definitiva, lezione («davano lezioni, questi», commenterà Joyce), i Salvadori lasciano Firenze. Cynthia ha un passaporto con il nome da ragazza, fatto l’anno prima per andare a trovare sua madre in Inghilterra, Willy solo una tessera del Touring Club (i documenti gli sono stati sequestrati) che gli permette di passare cinque giorni oltreconfine per ‘motivi turistici’. Partono a scaglioni, diretti al cantone di Vaud, nella Svizzera francese. Hanno individuato quella destinazione, a differenza dei loro pari fuoriusciti della prima immigrazione che scelgono la Francia, perché lì, grazie a qualche parente e a conoscenti inglesi, hanno contatti con gruppi libertari cosmopoliti.
C’è una scuola lungo il lago Lemano, in un paese chiamato Gland, la Fellowship School, una scuola che trae ispirazione dall’esperienza del Cabaret Voltaire (il locale di Zurigo sorto con intenti artistici e politici, culla di dadà, avanguardia, sperimentalismo e radicalismo). La gestisce Emma Thompson, quacchera nata nel Kent, prima donna a diplomarsi in Scienze sociali presso lo Stockwell College of Education di Londra, che dopo una vita di insegnamento tra Francia e Inghilterra con i suoi risparmi ha aperto in Svizzera una propria scuola in cui mettere in pratica le sue teorie pedagogiche in modo libero e innovativo. In questa scuola che si regge con i fondi di quaccheri britannici e di mecenati antimilitaristi, i ragazzi alloggiano in villette e hanno la possibilità di incontrare le celebrità del pacifismo di quegli anni, da Romain Rolland a Coudenhove-Kalergi, da Bertrand Russell a Pandit Nehru, più vari personaggi di passaggio che tengono lezioni interessanti e attuali. Joyce e Max la frequentano per un po’, mentre i genitori sono ospiti di amici, poco lontano. Gli scolari si applicano in attività pratiche, puliscono, cucinano; fanno belle passeggiate negli idilliaci scenari svizzeri di prati, montagne, laghi e villaggi. Arrivano da tutto il mondo e l’impostazione internazionalista è molto forte, ci si rivolge agli insegnanti con espressioni in sanscrito perché serve una lingua comune; si imparano canti e danze popolari di varie culture; si fa meditazione.
I mesi in quella scuola nuova e alternativa sono uno dei pezzi della particolarissima formazione di Joyce, non il più importante ma di sicuro il più singolare. Fino a quel momento ha ricevuto un’educazione frammentaria, essendo stata ritirata dalle elementari già nel ’23, dopo la riforma Gentile, sia per motivi economici – in casa non si riescono a pagare divise, tasse, libri di scuola di tutti – sia per l’impostazione troppo fascista della scuola italiana quanto a pedagogia e contenuti. In famiglia ha ricevuto molti insegnamenti in storia, storia dell’arte, letteratura, latino, greco, geografia, disegno, ma si sente un po’ carente nelle materie scientifiche come matematica e chimica. Dell’infanzia fiorentina rievocherà spesso la quantità di libri che i genitori si erano portati dalle Marche, il fatto che leggessero tutti insieme, anche in lingua originale («mio padre aveva una bella voce sonora ed era un ottimo dicitore»).
Ai bambini Salvadori viene dato da leggere di tutto, dalla letteratura inglese per l’infanzia di ottima qualità, ai fumetti, ai libri di storia, ai classici che i genitori ritengono adattissimi anche per la più piccola. Le fanno leggere la Divina commedia liberamente, senza particolari spiegazioni o commenti, e lei la apprezza molto e impara, arricchisce il suo linguaggio, familiarizza con la versificazione. «Un giorno che mio padre in cucina aveva alzato un po’ troppo la voce sono arrivata e gli ho detto ‘Taci maledetto lupo, consuma dentro te con la tua rabbia!’ e la lite si è risolta in risate».
Non avendo molti soldi ma tempo e cultura, Willy e Cynthia si applicano per coinvolgere la più piccola (Max e Gladys un loro percorso scolastico lo stanno facendo) in attività che non richiedano grandi spese: nel periodo fiorentino, passeggiate nei giardini di Boboli con relative osservazioni di piante e panorami, visite agli Uffizi e al museo Stibbert, nei giorni gratuiti, con racconti su arte e usi degli altri popoli, letture dei classici da Ariosto a Orazio, dal Don Chisciotte a Longfellow.
I bambini di Willy e Cynthia non sono stati battezzati ma i genitori hanno fornito una panoramica sulle religioni più diffuse, proposto la lettura di Bibbia e Vangeli, Corano, discorsi di Gautama Buddha, i detti di Confucio e i sogni di Lao Tse. È un’educazione laica, quei testi vengono letti come testi storico-poetici: «il dogma e l’assoluto ci apparivano come segni di arretratezza mentale e civile». Storicizzate le religioni e lasciati liberi di scegliere, i ragazzi non subiscono particolari richiami mistici. Visitano varie chiese di varie confessioni, moschee, sinagoghe, chiese calviniste, ma nessuna religione li affascina o colpisce in maniera particolare (solo Gladys, da adulta, si convertirà al cattolicesimo al momento del matrimonio, su richiesta del marito). La mamma propone tutti i tipi di narrazioni senza interferire più di tanto, ma un giorno che Joyce sta sfogliando una vecchia Bibbia ricca di incisioni, le indica altri libri, di storia e di poesia, dicendole che «questi hanno fatto solo del bene e la gente è diventata più intelligente e più buona. Mentre questi», riferendosi ai libri di religione, «hanno fatto ammazzare un sacco di gente. C’è in questi libri qualcosa che non va».
Poi ci sono le spiegazioni e gli esempi forniti dal quotidiano, dalle osservazioni della bambina. Già da piccolissima i genitori la portano in manifestazione, assistono insieme ai cortei dei lavoratori, degli operai della Pignone, dei reduci che chiedono la pace in piazza della Signoria e vengono dispersi dalle cariche della polizia a cavallo; Joyce osserva la folla, le bandiere rosse rimaste a terra, i gruppetti di squadristi che si affacciano dalle vie laterali, abbigliati di nero e con simboli paurosi, pugnali, teschi, striscioni con scritto me ne frego.
Quando, a sei anni, vede un gruppo di prigionieri austriaci malridotti, o legge sul «Corriere dei Piccoli» il fumetto italiano infarcito di nazionalismo e pedagogia della guerra, e chiede spiegazioni al padre, lui le dice che quegli austriaci sono come i poveri contadini che lavorano per il nonno: i Gegé, i Nemo, il figlio della Cognigna, mandati al fronte esattamente come i soldati nemici. Le spiega, da neutralista com’è, cos’è un fronte, cos’è un prigioniero, cos’è un soldato.
Quando, a nove anni, durante la campagna elettorale del ’21, una campagna durissima segnata da violenze terribili, viene sorpresa a scrivere su un muro abbasso mussolini! abbasso il fascio e viva la repubblica! da un fascista che le molla due sberle, e corre dalla madre per chiedere, orgogliosa, se ha fatto bene a non cedere a quello che pretendeva immediata ritrattazione, la madre le risponde: «Certo che hai fatto bene». Più avanti nella vita, quando sarà a sua volta madre, capirà quanto può costare a un genitore rispondere così in circostanze del genere.
Joyce ama e stima profondamente i genitori, li ammira. E non vuole assolutamente deluderli.
Terminata un po’ malamente l’esperienza con la ‘scuola della fratellanza’ (non sempre, purtroppo, queste istituzioni sperimentali funzionano perfettamente) e preferendo i genitori, a quel punto, una cultura più tradizionale per i figli, i Salvadori girano per un po’ in cerca di una sistemazione svizzera meno precaria.
La trovano lì vicino, a soli cinque chilometri. Begnins è un villaggio di meno di mille anime ma ospita otto castelli che sono in realtà ville fortificate, con torri e smerli, restaurate e abitabili. Si stabiliscono nel castello di Martheray, un edificio a due piani con una splendida vista sul lago e sul Monte Bianco, prendendolo in affitto a una cifra accettabile dal vignaiolo che l’ha avuto in eredità. È una casa dagli spazi enormi: corridoi larghi cinque metri e lunghi trenta, saloni che potrebbero ospitare duecento persone, una cucina gigantesca con un immenso piano di lavoro su cui loro appoggiano un fornelletto da campeggio. D’inverno ci fa un freddo tremendo e si raccolgono attorno al focolare in cucina, aiutati da uno scaldabagno elettrico che permette di rifugiarsi in una confortevole vasca d’acqua bollente quando proprio non si resiste. Le ampie soffitte diventano palestra di giochi per i ragazzi. Joyce occupa la stanza rotonda più alta, dove si chiude a declamare le poesie che viene scrivendo.
La scrittura, la poesia, l’interesse per la lettura, sono, diremmo oggi, nel Dna di Joyce. Non solo per via dei genitori, ma anche grazie alla nonna materna. Margaret Collier, Madame Galletti di Cadilhac, ha scritto due libri noti anche in Inghilterra: Our Home by the Adriatic (1886, Richard Bentley and Son) e Babel (1887, William Blackwood and Sons). Entrambi i libri, il primo una sorta di saggio antropologico su quello strano e ignoto angolo di mondo chiamato Marche e l’altro un vero e proprio romanzo con protagonista una giovane marchigiana che si reca a Londra, hanno avuto un buon successo e diverse ristampe.
Incoraggiata dai genitori Joyce, sin da piccola, scrive componimenti e già a dieci anni pubblica delle poesie su un giornalino mensile illustrato della casa editrice Claudiana di Firenze, «L’amico dei fanciulli», con cui continuerà a ‘collaborare’ per qualche anno. Scrive e pubblica qualche esercizio poetico anche per «La strenna dei fanciulli», una pubblicazione per bambini che le famiglie regalavano ai figli a Natale. Anche in Svizzera continua a pubblicare le sue poesie, alcune per la Fellowship School, altre per la rivista «Unsere Jugend».
Nella formazione di Joyce gioca un ruolo importantissimo la conoscenza delle lingue. Con i genitori mezzi inglesi, si parla l’inglese; grazie ai vari giri in Svizzera e al papà che ha studiato a Lipsia, si impara il tedesco; il francese si apprende in un attimo, nel cantone di Vaud, e si studia perché in quegli anni è la lingua straniera più insegnata e richiesta anche nelle scuole italiane. Willy, infatti, non ha assolutamente rinunciato a un’educazione ‘italiana’ per i suoi figli: considera un diritto irrinunciabile rimanere italiani, seppure temporaneamente esuli in Svizzera per cause di forza maggiore, e punta proprio a lottare «affinché l’Italia diventasse un paese dove gente come noi potesse vivere e lavorare», scriverà. Non intende alienarsi più del dovuto, dunque, dal suo paese d’origine e spinge i figli a dare gli esami, da privatisti, nelle Marche. Joyce torna per sostenere la licenza ginnasiale a Fermo e Max quella liceale a Macerata (dove anche Joyce farà la maturità nel ’30).
È in occasione di uno di quei ritorni in Italia dai nonni che Joyce visita Napoli per la prima volta. Ha diciassette anni e bussa a palazzo Filomarino per incontrare Benedetto Croce, amico di Willy per via di una corrispondenza che hanno intrattenuto tra filosofi discutendo di Spencer. Annunciata dunque da una missiva del padre, va a sottoporre al celebre filosofo alcuni suoi scritti: poesie, racconti, un dramma a sfondo politico.
Don Benedetto accoglie molto favorevolmente i lavori di Joyce. È colpito dalla personalità della signorina Salvadori (così la chiama), dalla qualità dei suoi versi che elogia molto e che si adopererà per far pubblicare su «La Critica» e più tardi, in raccolta, dal suo editore napoletano Ricciardi.
Il ritratto che ne fa Joyce è un po’ irriverente ma molto affettuoso ed efficace: «Don Benedetto era un uomo piccolo, con una testa a pera e un naso molto grande. Leggeva con rapidità incredibile, voltando le pagine una dietro l’altra, col naso che quasi toccava il foglio; tanto che pareva che non usasse gli occhi, ma che aspirasse le parole scritte con la proboscide».
Nasce un’amicizia che diventerà anche, in qualche modo, collaborazione politica, seppur con prospettive e posizioni diverse.
La casa di Croce le ricorda quella del nonno, lei chiama entrambe le sue «oasi di benessere», forse perché sono grandi, comode, sicure. Differentemente dagli ambienti che la sua famiglia frequenta di solito (vagoni di terza classe, latterie in cui ci si sfama con una tazza di latte, sedi dell’Esercito della salvezza per avere una cuccetta e una scodella di minestra durante i giri svizzeri, anticamere di questure dove si aspetta per ore il rinnovo di un documento, case di fortuna), le dimore di questi proprietari terrieri sono palazzi forniti di tutti i comfort. Villa Marina dei conti Salvadori, una costruzione in stile neorinascimentale risalente al Settecento, con i suoi viali alberati, le piante, gli animali, la buona cucina, le appare più accogliente. Palazzo Filomarino risulta più imponente e freddo: «un susseguirsi di stanze abbastanza scure interamente tappezzate di libri, con tavoli coperti di carte e sedie dallo schienale rigido». Non c’è, all’apparenza, nulla di «decorativo», nota Joyce, nessun oggetto riconducibile a un gusto femminile nonostante la presenza delle molte donne di casa Croce, la signora Adelina e le quattro figlie.
Gli animali a cui si riferisce Joyce parlando della casa del nonno sono principalmente cavalli, per i quali nutre una passione che condivide con sua madre (Cynthia è sempre stata provetta cavallerizza, capace di domare puledri con la gentilezza, e continuerà a usare sempre i cavalli per spostarsi una volta tornata nelle Marche, persino da anziana, visto che a quell’epoca saranno ancora il principale mezzo di locomozione), ma sono anche motivo di conflitto con le nobili zie: capita che da piccola Joyce venga esclusa da tavola perché puzza di stalla. Lei infatti passa ore nelle mangiatoie con i cavalli, accudendoli, nutrendoli, offrendo fave e zucchero, anche recitando per loro le sue poesie di bambina. Ha un pessimo rapporto con l’aiuto cocchiere, tal Mustafà che ambirebbe a guidare la Lancia del conte Salvadori, una delle prime automobili, bellissima, con gli strapuntini dietro, nera lucida, se il posto non fosse già preso dallo chauffeur Lanfroy, un reduce decorato. Mustafà tratta male i cavalli e Joyce non lo sopporta. Lo detesta anche per il suo servilismo. Il giovane garzone di stalla, ossequioso verso la proprietà e devoto alla causa dei padroni, sarebbe diventato di lì a breve il capo di una squadraccia dedita a picchiare pacifici socialisti e repubblicani in strada e nelle case. Il periodo è quello delle agitazioni degli operai e dei contadini e anche se nel piceno non ci sono stati grossi movimenti come nelle campagne del Nord, qualcosa si teme.
Quando d’estate tornano a Porto San Giorgio, i piccoli Salvadori sono colpiti dall’ingiustizia della disparità di classe tra i loro parenti rentiers e il paese popolato da mezzadri, artigiani, piccoli commercianti, pescatori. Loro sono abituati, a Firenze, a frequentare persone di ogni estrazione sociale senza porre steccati o esclusioni: le famiglie con cui intrattengono rapporti sono per lo più famiglie di operai, impiegati, artigiani. E sì, a Cynthia capita di frequentare anche signore inglesi e salotti, ma quando la moglie di un agrario umbro, la contessa Grace di Campello, le dice «Ma Cynthia, tu dovresti essere col fascismo; il fascismo difende la nostra classe», lei le risponde: «La vostra non è più la mia classe».
Invece, nelle Marche, la distinzione tra padroni e mezzadri, tra potenti e sfruttati, è molto netta, fa parte dell’ordine sociale dell’ex Stato pontificio ancora ben radicato. I nipoti ‘fiorentini’, però, quando tornano da quelle parti, criticano il nonno conte, i suoi silenzi e la sua bellissima papalina ricamata che indossa in casa, il suo incedere autoritario che però nasconde inanità (la proprietà è gestita, di fatto, da fattori e contabili), lo prendono in giro perché legge Salgari, considerano quei loro parenti arretrati e il loro modo di vivere un po’ assurdo, anacronistico.
Ricordando l’estate del 1920 e i giorni caldi dello sciopero generale, Max dirà di essere rimasto molto impressionato dalla disuguaglianza dell’ambiente sangiorgese. Quando una delegazione dei ‘sovversivi’ si era recata alla villa di suo nonno per esporre le proprie istanze, differentemente dai suoi cugini, lui ne aveva appoggiato le ragioni. In paese c’erano molti socialisti e repubblicani, una società operaia e la camera del lavoro. Echi del biennio rosso erano arrivati sin lì. La rivolta di Ancona (distante poche decine di chilometri) del giugno 1920, con la ribellione armata dei bersaglieri che non volevano partire per l’Albania, ne era stata uno degli episodi più significativi. Era stata sostenuta da una parte consistente della popolazione, dai lavoratori del porto, dagli anarchici che in città costituivano una presenza attiva e numerosa sin dalla fine dell’Ottocento, accresciuta nella settimana rossa di Errico Malatesta del 1914; da Ancona, la sommossa si era estesa anche ai paesi vicini e c’erano stati scontri in tutte le Marche, in Romagna, in Umbria, scioperi di solidarietà a Roma e Milano, blocchi ferroviari. La rivolta, che aveva lasciato morti sul campo sia da una parte sia dall’altra, era stata repressa a colpi di cannone, ma aveva avuto come effetto la rinuncia all’occupazione dell’Albania.
È così che dalle parti dei Salvadori, un po’ più a sud appunto, si parlava di fare di villa Marina una casa del popolo, e Joyce ricorda che vi era stato un piccolo assalto bonario alle cantine della villa da parte di alcuni socialisti che si erano rivolti così al nonno: «Sor conte, volemo spartì?». La cosa si era risolta senza incidenti, ma la famiglia era rimasta molto scossa e il pomeriggio stesso il conte aveva chiamato a raccolta gli altri proprietari terrieri della zona per «armare un loro piccolo esercito privato» diventando così uno dei primi finanziatori del fascismo in zona.
Joyce bambina ha grande simpatia per i contadini-reduci che non le parlano delle loro esperienze di guerra ma sorridono con franchezza, sono amichevoli e «giocavano con i bambini come se i bambini fossero importanti e preziosi». Al contrario, non sopporta gli ufficiali-reduci che capitano a casa del nonno, arroganti e odiosi e che considerano i bambini una seccatura.
Le persone a cui vuole bene e che rievoca spesso come esempio di onestà e correttezza sono quelle del ‘popolo’. Come la Cognigna, moglie del vergaro che abita in una casa colonica vicina alla villa; Filomena, una marinara che vive in una capanna sulla spiaggia; il giardiniere Nazzareno, che è un vecchio socialista; Nannì Felici, un fabbro anarchico dall’invettiva sempre pronta.
Porto San Giorgio è anche questo, un villaggio di persone pacifiche e laboriose, ed è un posto in cui la famiglia Salvadori ha un ruolo importante per varie ragioni. È stato infatti il bisnonno Luigi a bonificare decine di ettari di terreni, per dodici chilometri di costa, frutto della regressione marina di fine Settecento che ha interessato il tratto di spiagge sotto Fermo, tra il porto e il Tenna. Il bisnonno era stato sindaco per più mandati, priore del porto, imprenditore agrario moderno e innovativo. A dar lustro al territorio, anche suo figlio Tommaso, nominato da Joyce in varie opere come l’unico intellettuale e studioso della famiglia prima di Willy: laureato in Medicina a Pisa, aveva preso parte alla spedizione dei Mille, poi era diventato un celebre ornitologo (a lui sono dedicati i nomi di varie specie di uccelli, tra cui un’anatra della Papuasia, oltre a un fagiano, uno scricciolo, un canarino); autore di numerosissime opere scientifiche e collaboratore dei cataloghi del British Museum, aveva riorganizzato la raccolta del museo zoologico di Torino, uno dei più importanti d’Europa, di cui era stato vicedirettore per una vita.
Ottenuto dunque da privatista il diploma al liceo classico Leopardi di Macerata, Joyce, sulla scia del padre che aveva a suo tempo studiato con i migliori professori di Lipsia, decide di iscriversi all’università di Heidelberg, la cui facoltà di Filosofia a quell’epoca è la più prestigiosa d’Europa. Per farlo, deve mettere insieme un po’ di soldi e trova impiego come istitutrice e cameriera presso una famiglia napoletana a Bengasi, dove rimarrà sei mesi soffrendo per la convivenza con quei suoi datori di lavoro piuttosto ottusi e ignoranti. Anche i suoi fratelli lavorano. Max in una fabbrica poi in una mensa per studenti, Gladys, laureata a Ginevra in Psicologia, si occupa di bambini handicappati, attività all’avanguardia per l’epoca che poi coltiverà tutta la vita, anche una volta tornata nelle Marche.
Ha ancora diciotto anni quando, messo da parte un gruzzolo sufficiente, Joyce torna in Italia, passa dalla Svizzera per salutare i genitori, e va nella Germania di Weimar.
A Heidelberg vive in un pensionato con altre ragazze, si mantiene insegnando francese e italiano in un collegio o facendo la babysitter, frequenta le lezioni dei migliori professori, tra cui l’esistenzialista Jaspers e il neokantiano Rickert. È in contatto con gli studenti di sinistra (i sozi,i giovani socialisti e socialdemocratici che si oppongono ai nazi), frequenta un maneggio in cui può cavalcare in cambio di lavori da scuderia. Ogni tanto esce con dei ragazzi per andare a ballare. Fa, insomma, vita universitaria.
Una volta riceve una visita di Willy che, per farle un regalo, la porta a sentire un concerto al festival di Bayreuth: c’è Toscanini che dirige il Lohengrin di Wagner, in un teatro in cui si esibiscono i massimi maestri dell’epoca. Joyce, però, non apprezza molto i toni che le ricordano le marce di un reggimento («il senso dell’umorismo di Wagner non era molto sviluppato, c’era un sottofondo razzistico-militaristico») e la lunghezza estenuante dell’opera, né le piacciono le facce che vede attorno, dall’aria già nazista.
Ci sono le corporazioni studentesche, a Heidelberg, le confraternite che organizzano dei duelli al pugnale, i Mensuren, illegali ma tollerati in quanto folkloristici e tradizionali, importanti per la formazione patriottica del bravo tedesco.
Nel ’32, poi, in città arriva Hitler; il borgomastro gli ha concesso l’uso della Stadthalle e gli studenti di sinistra si preparano a riceverlo, pensando di organizzare un contraddittorio. In quanto ‘esperta’ di opposizione al fascismo, per averlo sperimentato in prima persona in Italia da perseguitata, Joyce viene scelta dai compagni come loro portavoce. Dovrà illustrare le loro ragioni e butta giù anche una scaletta per il suo intervento, ma le cose vanno diversamente. Già la sera prima del comizio si capisce che aria tira, con i bivacchi di nazisti in uniforme che occupano la città tra bevute e canzoni tra il patriottico e l’osceno. La descrizione di Joyce di quelle ore è l’istantanea della tenebra che, già apparsa in Italia, si è fatta ancora più scura e paurosa e comincia ad allungarsi su tutto il continente senza trovare opposizione:
L’indomani la città era in stato d’assedio, riempita di camicie cachi e vessilli rossi, i negozi erano chiusi, le strade bloccate, la gente tappata in casa. Dal balcone del municipio, altoparlanti potentissimi diffondevano ovunque il nevrotico, cadenzato abbaiare della voce di Hitler, il fragore degli applausi, l’esplodere delle canzoni. Altro che contraddittorio!
Ero molto scossa. Corsi all’università in cerca dei miei professori. Ne trovai un paio all’entrata, non mi ricordo nemmeno chi fossero, e concitatamente descrissi loro quel che stava accadendo.
Mi guardarono con un sorriso di paziente sopportazione. «Non se la prenda», mi dissero. «Quando quei ragazzoni si saranno sfogati, tutto tornerà come prima».
La loro ottusità mi sconvolse; e quando trovai Jaspers e Rickert, la risposta non fu molto diversa. Feci allora alcune riflessioni sugli accademici, le università e la cultura libresca. Forse, la cultura che mi serviva, avrei dovuto cercarla da un’altra parte.
Una prima fase della vita di Joyce si chiude così, con il rigetto per l’establishment culturale delle accademie e delle università, del sapere ufficiale ai massimi livelli di raffinatezza del pensiero che però non ha saputo o voluto riconoscere i segni della tragedia incombente neanche quando ce li ha avuti sotto gli occhi. Distratto e miope.
2
Un piccolo passo indietro per collocare, nelle varie zone d’Europa in cui si muovono e nelle diverse svolte della loro esistenza, tre dei protagonisti di questa storia che stanno per legarsi gli uni agli altri.
Dunque, da una parte abbiamo i fratelli Salvadori, Joyce e Max, e dall’altra Emilio Lussu. Il punto comune sarà Giustizia e Libertà, il movimento antifascista al quale i Salvadori aderiranno da subito. Sorto a Parigi nel 1929 intorno a un gruppo di esuli fuggiti dal confino e dalle squadracce mussoliniane, ha come obiettivo l’insurrezione e il rovesciamento del regime.
Di Joyce sin qui abbiamo detto. Lasciamola per un attimo, per capire invece chi è Emilio Lussu e cosa rappresenta ai suoi occhi nel momento in cui le loro vite si incrociano la prima volta.
Quando Joyce incontra per la prima volta Emilio a Ginevra, nel 1933, è consapevole di trovarsi al cospetto di un mito: l’uomo a cui deve consegnare un messaggio segreto per conto di Giustizia e Libertà è un prestigioso rivoluzionario ricercato dalle polizie fasciste di tutta Europa.
Carismatico, coraggioso, indomito, Lussu è un figlio della Sardegna più profonda. Nato ad Armungia nel 1890, laureato in Giurisprudenza a Cagliari, amatissimo comandante della brigata Sassari (nella prima guerra mondiale ha ricevuto ben quattro medaglie dopo quattro anni di trincea per azioni sull’altipiano del Carso e della Bainsizza), ex deputato del Partito sardo d’azione, ha pagato cara, fin lì, la sua militanza, ma ha anche ottenuto una gran bella vittoria su un regime che sembra inattaccabile.
Capelli e occhi neri, slanciato, elegante, occhiali dalla montatura di metallo, baffi e pizzetto, sguardo ironico e tagliente, in quel periodo si fa chiamare ‘Mister Mill’ e vive in clandestinità. Agli occhi dei giovani dell’epoca, lo dice Joyce stessa, è un personaggio leggendario, per le gesta in Sardegna e per la sua avventurosa fuga da Lipari.
I fatti della Sardegna sono questi: la sera del primo novembre 1926, centinaia di fascisti hanno assediato la casa dell’avvocato Lussu. Non è un’azione isolata, è solo una delle rappresaglie che bande di fascisti organizzano in tutta Italia – devastando case, sedi di giornali, picchiando e assaltando – non appena si è diffusa la notizia dell’attentato fallito a Mussolini, avvenuto il giorno prima a Bologna per mano del sedicenne Anteo Zamboni. Lussu, che è un antifascista, ha partecipato alla secessione dell’Aventino dopo l’assassinio di Matteotti, è antimonarchico, ha lavorato a un progetto federalista-rivoluzionario per unire azionisti, repubblicani e socialisti, è nel mirino dei fascisti della sua città: l’ordine è di saccheggiarne la casa e linciarlo sul posto. L’organizzazione dell’assalto, nella sede del fascio, è durata tutta la giornata per cui c’è stato tempo e modo, per Lussu, di ricevere informazioni da voci amiche e preparare una reazione. Gli amici gli consigliano di scappare ma lui decide di restare in casa, situata nella piazza più centrale di Cagliari, lasciandola ben illuminata, «per dare un esempio di incitamento alla resistenza».
Scende in strada per vedere che succede, sente gli squilli di tromba che chiamano a raccolta i fascisti mentre la piazza si fa deserta. Risale, manda via la domestica. La città continua a serrarsi, i negozi abbassano le saracinesche, i cinema si svuotano. Al ristorante vicino casa dove va a pranzare, il cameriere – che è stato un suo soldato durante la guerra e ora è diventato fascista ma nutre ancora grande rispetto del capitano – lo scongiura di partire subito. La sentenza contro Lussu è stata emessa e lo sa tutta Cagliari. Persino gli inquilini del suo palazzo, tra cui un magistrato di Corte d’appello, si chiudono e tacciono terrorizzati.
«Incominciai a preparare la difesa. Un fucile da caccia, due pistole da guerra, munizioni sufficienti. Due mazze ferrate dell’esercito austriaco, trofei di guerra, pendevano al muro». Due giovani amici e compagni si presentano per aiutarlo ma lui li congeda senza discutere. Spegne la luce e si avvicina alla finestra. Assiste alla devastazione della sede della tipografia del giornale «Il Corriere» all’angolo, poi a quella dello studio dell’avvocato Angius.
Quindi risuona il grido «Abbasso Lussu! A morte!».
È sorpreso di riconoscere tra gli assalitori persone che conosce bene, di cui è stato amico o compagno di scuola.
La colonna si divide in tre parti e l’attacco arriva da tre punti: una squadra sfonda il portone e sale dalle scale, una cerca di entrare da un cortile sul retro, l’ultima si arrampica dai balconi. «Confesso che, nella mia vita, mi sono trovato in circostanze migliori. I clamori della piazza erano demoniaci. La massa incitava gli assalitori dalle finestre con tonalità di uragano».
Lussu lancia un primo avviso, grida «Sono armato!» da dietro le persiane.
Poi, mira e spara al primo che arriva sul balcone. Un giovane fascista, Battista Porrà, colpito a morte piomba giù, sul selciato della piazza. Gli altri scompaiono in un lampo.
Nonostante lo svolgimento dei fatti dimostri la legittima difesa (e infatti verrà assolto) e nonostante l’immunità parlamentare, Lussu viene portato in carcere. Ci vorrà un anno prima di arrivare a sentenza ma l’ordine di scarcerazione immediata è seguito da un ordine di domicilio coatto. Lussu è condannato alla pena di cinque anni di confino per misure di ordine pubblico e definito «avversario incorreggibile del regime».
In quell’anno di carcere si è ammalato di pleurite, non ha ricevuto cure adeguate e ha sviluppato una lesione tubercolare. Sebbene dichiarato intrasportabile da un medico, violando il regolamento carcerario Lussu viene spedito a Lipari. Non gli permettono neanche di salutare la madre. Lungo il percorso verso l’imbarco incontra solo militari schierati e armati: le banchine sono deserte e solo un pescatore, ritto su una barca in mezzo al mare, grida «Viva Lussu! Viva la Sardegna!» prima di approdare in porto e finire a sua volta accerchiato dalla polizia.
Lussu viene imbarcato febbricitante e provato. Sperano che muoia durante la traversata.
Due giorni dopo, invece, approda a Lipari e, seppure sfinito e ammanettato con doppia catena, riesce a scendere sulle sue gambe.
Ad attenderlo, una fila di camicie nere che improvvisano un’accoglienza intonando il de profundis, ma anche compagni e amici che lo salutano con affetto e rispetto. Sull’isola c’è un piccolo drappello di ex deputati come lui, è come se a Lipari si fosse ricostruito in scala ridotta il parlamento di un tempo. Ci sono democratici, repubblicani, liberali, cattolici, c’è il capo della massoneria, e naturalmente ci sono socialisti, comunisti, anarchici.
I colleghi gli fanno subito notare che è seguito da agenti in borghese. Lussu è infatti considerato molto pericoloso dal regime ed è stato disposto per lui un trattamento speciale.
Non che manchi la sorveglianza, a Lipari. Isola bellissima, così come Ponza, Ustica, Favignana, Pantelleria, Lampedusa, Tremiti, dal novembre del ’26, data dell’entrata in vigore delle leggi eccezionali fasciste, è destinazione di confino. In quegli anni è la principale colonia per gli oppositori politici. Il paese è piccolo e gli abitanti non si mischiano ai confinati. La natura è amena, il clima d’estate è molto caldo, il mare spettacolare, ma quel posto è un carcere a cielo aperto.
Tutto attorno, a terra e in acqua, guardie, vedette, pattuglie, spioni, ronde. In porto, mas armati di mitragliatrice e riflettori; al largo, incrociano motoscafi veloci e imbarcazioni a vela e a motore; sull’isola quattrocento uomini armati sorvegliano cinquecento prigionieri, più o meno un agente ogni due confinati. Tra i deportati vi sono anche pericolosi agenti provocatori, ex fascisti in punizione disposti a ogni bassezza pur di riguadagnare stima e favori dei loro vecchi capi.
La vita è scandita da orari da rispettare, c’è un coprifuoco, ci sono ronde di controllo che passano per le case abitate dai confinati. La corrispondenza in arrivo e partenza, compresi libri e riviste, è censurata e vistata. È proibito parlare di politica, ma di cosa parleranno mai dei deportati per motivi politici? E dunque il modo si trova. Sostituendo la parola ‘fascisti’ con la parola ‘polpi’, si passano ore ad analizzare la vita dei polpi, la loro organizzazione sociale, il loro comportamento in natura e via così.
Il controllo su Lussu è molto pesante: «Essere di continuo pedinati sembra una cosa indifferente. Invece è molto penoso e irritante. Bisogna avere i nervi a posto per non diventare nevrastenici, sentendo sempre dietro di sé degli uomini che vi seguono come la vostra ombra. Uscire di casa ed essere seguiti: avvicinarsi ad un amico ed essere seguiti: parlare ed essere uditi: fermarsi e sentire che anche l’altro si ferma; entrare in un caffè, in un negozio, in una casa, e vedere sempre la stessa faccia; non poter sorridere; stringere la mano a un passante, non poter ricevere in casa un amico, senza che la vostra ombra ne prenda nota, questo diventa in breve un’oppressione e un incubo».
Dal primo momento in cui ha messo piede sull’isola, Lussu ha avuto una sola idea in testa: la fuga. È convinto che, con un buon piano e complicità esterne, è possibile «evadere da qualunque posto, anche da una fortezza», ma nessun confinato è mai riuscito nell’impresa.
Ci vorranno anni, vari tentativi, un gran lavoro di preparazione. Alla fine, scapperanno in tre: il capitano sardo considerato pericoloso agitatore politico, un giovane intellettuale fiorentino, il nipote di un ex presidente del consiglio.
Emilio Lussu, Carlo Rosselli, Fausto Nitti.
Destinazione Francia.
Nel libro La catena, scritto subito dopo l’arrivo a Parigi, Lussu riserva alla fuga vera e propria un solo capitolo. Gli preme di più spiegare il contesto, raccontare le condizioni di vita dei confinati, ricostruire il clima che ha portato alla nascita delle leggi eccezionali. Però gli è chiaro che il raid di Lipari è stato «un sasso gettato al centro di un lago calmo in una giornata di sole. Attorno al punto toccato dal sasso, i cerchi si formano, si moltiplicano, si estendono, e ridanno animazione all’immobilità, vita improvvisa alla morte apparente», e sa, perché molti sono interessatissimi all’aspetto ‘sportivo’ e chiedono tutti i dettagli, che «il giovane lettore che s’interessi di avventure romanzesche ha probabilmente saltato le pagine sul tribunale speciale, e attende la fuga».
C’è il contesto politico e c’è l’azione.
O anche, c’è la cornice e c’è l’opera d’arte. Perché la fuga è davvero rocambolesca, come viene spesso definita per sottolinearne l’audacia e la dinamica, ed è un capolavoro, per riuscita ed effetto. E per ciò che segue, ossia la nascita del movimento che da lì trae ispirazione e forza. Una volta arrivati in Francia i protagonisti, intervistati dai giornali di tutto il mondo, non possono svelarne tutti i dettagli (uno dei fondamentali ‘complici’, Gioacchino Dolci, viene chiamato Caio perché il nome non si può ancora dire), ma un libro uscito nel 2009, Lipari 1929 di Luca Di Vito e Michele Gialdroni, ne ricostruisce accuratamente la preparazione con documenti, lettere, testimonianze, accidenti, tentativi, dispacci e dati tecnici. Ed è una storia avvincentissima, piena di suspense.
L’ex militare Lussu, appena messo piede sull’isola, ha immediatamente individuato i punti strategici; da quei luoghi non passerà mai, per non destare sospetti. Comincia a rispettare orari ferrei e si impone una disciplina da cui non derogherà mai – uscite alla stessa ora, passeggiata quotidiana in quella che la polizia ritiene la zona più adatta all’evasione ma che è all’opposto di quella prescelta, luoghi fissi da frequentare per apparire prevedibile e rassicurante. Come alloggio, sceglie una casa danneggiata dal terremoto (Nitti racconta che in una stanza c’era un buco al centro del pavimento e si doveva camminare rasente al muro, per andare in bagno bisognava fare gli equilibristi su una passerella) che ha il pregio di avere una terrazza alta da cui si può osservare il mare e controllare i quattro punti cardinali. Dispone, inoltre, di quattro vie di fuga attraverso i tetti.
In quella casa passerà molto tempo, in inverno, colpito da una ricaduta della tubercolosi. È a letto febbricitante, quando riceve la prima visita di Carlo Rosselli, appena sbarcato a Lipari. È il gennaio del 1928, Lussu racconta: «Venne a trovarmi il giorno dopo il suo arrivo. Sorridente, con la guida di Lipari in mano, sembrava un turista. L’isola gli faceva dimenticare l’aria compressa dal carcere». Il ventottenne Rosselli, infatti, è appena uscito di prigione, dove ha scontato dieci mesi di reclusione per aver favorito, insieme a Sandro Pertini e Ferruccio Parri, l’espatrio di Filippo Turati in Corsica.
Lussu e Rosselli diventano subito amici. Confinati sull’isola, si vedono quotidianamente, ma anche dopo, per circa sei anni, dal ’29 al ’34, non passerà giorno senza che siano insieme, concentrati a progettare, elaborare, discutere, confrontarsi. Da militanti, con obiettivi ben precisi. Da azionisti.
Lussu, rievocando la figura di Rosselli, dirà: «Un temperamento d’eccezione il suo. L’ho sempre visto senza riposo e senza stanchezza, a Lipari come a Parigi. Solo un uomo di quella tempra e di tanto entusiasmo morale poteva dare tanto prestigio all’antifascismo e a un movimento come Giustizia e Libertà».
Da subito, Lussu e Rosselli parlano di fuga e continueranno a parlarne. Rosselli: «Abbiamo poi sempre parlato di fuga, fino alla noia, fino alla reciproca esasperazione. Fuga con variazioni, in tutti i tempi. Passati, presenti, futuri, condizionali. Fughe in barca, in motoscafo, in piroscafo, in aeroplano, in dirigibile.
Giorgia Antonelli | doppiozero | 17 gennaio 2023
Quando si entra nel cimitero acattolico di Roma si viene sopraffatti dalla bellezza e dalla quiete, e in mezzo ai dedali di percorsi fra tombe di personaggi più o meno celebri, quasi non si fa caso a una piccola pietra miliare posta proprio all’ingresso, per terra, su cui si legge «In memoria di Joyce Salvadori 1912 – 1998 Emilio Lussu 1890 – 1975». È qui che sono custodite, insieme per l’eternità così come insieme avevano vissuto, le ceneri di due dei più importanti protagonisti della Resistenza italiana.
La storia della loro vita è la geografia di una guerra e al contempo la mappa di un amore, e se per tutta la loro esistenza l’importanza politica e letteraria di Emilio Lussu (scrittore, partigiano, padre costituente e deputato) sembra aver offuscato il ruolo di Joyce nella scrittura e nella Resistenza, lasciando la conoscenza di questa importantissima figura del ‘900 a un pubblico ristretto di intellettuali, adesso la bella biografia scritta da Silvia Ballestra per Laterza, La Sibilla, vita di Joyce Lussu, restituisce al grande pubblico la consapevolezza di un personaggio storico, culturale e letterario di prim’ordine.
Ballestra ha svolto un accuratissimo lavoro di ricostruzione della vita di Lussu, basandosi non solo sui documenti e sui libri, ma anche sulla testimonianza diretta di Joyce, conosciuta quando Ballestra era poco più che ventenne e a cui è rimasta legata per tutta la vita da un intenso rapporto di amicizia e condivisione di intenti letterari, oltre che dalle comuni origini marchigiane.
Ballestra segue dunque le orme di Beatrice Gioconda Salvadori (detta Joyce) fin dalla nascita, avvenuta a Firenze l’8 maggio del 1912, ultima dei tre figli di Guglielmo Salvadori Paleotti (detto Willy), filosofo, professore di filosofia e traduttore italiano di Herbert Spencer, e di Giacinta Galletti di Cadilhac (detta Cynthia), donna coltissima e poliglotta, che trasmette a Joyce il Collier’s pluck, la grinta che proviene dal ramo femminile inglese trapiantato nelle Marche della sua famiglia: entrambi provengono da nobili famiglie di possidenti terrieri marchigiani ed entrambi hanno rinnegato le loro famiglie d’origine, ritenute distanti dagli ideali socialisti che li animano.
È dunque in seno alla famiglia che Joyce inizia a sviluppare la propria coscienza politica, segnata, appena dodicenne, dal pestaggio del padre e del fratello maggiore Max a opera dei fascisti. È dal ’24 dunque che Joyce conosce la fuga: prima in Svizzera, da cui fa la spola con le Marche, al seguito dei genitori, poi in Africa per lavoro e in Germania per studio.
Questo primo episodio di violenza lascia una traccia profondissima nella coscienza della giovanissima Joyce, la stessa consapevolezza che attraverserà in quegli anni altre scrittrici italiane della resistenza come Alba de Céspedes e che porta in sé una domanda che è una rivoluzione epocale: dove sono le donne?
Mentre gli uomini combattono, vanno in guerra, si armano per la Resistenza e subiscono attacchi, le donne restano a casa, al sicuro. Cosa possono fare le donne? Moltissimo, sembra mostrarci Joyce con l’esempio della sua vita, fedele al principio dei suoi dodici anni, quando «giurai a me stessa che mai avrei usato i tradizionali privilegi femminili: se rissa aveva da esserci, nella rissa ci sarei stata anche io».
Ed è proprio questo che viene fuori dalla scrittura di Ballestra, il ritratto di una donna forte, determinata, senza peli sulla lingua tanto da usare liberamente il turpiloquio e capace di raccontare le esperienze umane senza tabù, dalla guerra all’aborto del primo figlio di Emilio – che non poté tenere perché fuggitiva – al parto di suo figlio Giovanni, in grado di arringare le piazze con determinazione e mantenere il sangue freddo nelle situazioni più controverse, capace di lasciare a guerra terminata il figlio piccolissimo alle cure di sua madre Giacinta nelle Marche per girare la Sardegna – terra del suo amato Emilio – a cavallo, per parlare con le donne sarde e smuoverle dal loro torpore, per instillare in loro una coscienza politica.
Joyce non è sempre stata così, racconta Ballestra, è stata timida in giovinezza, ma è stata la vita a forgiarla. Scrive Ballestra: «È il fascismo che l’ha spinta fuori dal suo paese, le ha tolto i documenti, ha punito i suoi familiari. A questo Joyce reagisce con la rivolta. E con non poca rabbia, sentimento indispensabile per la sopravvivenza».
Ci vuole coraggio, determinazione, e anche la forza di sfidare le convenzioni per essere Joyce Salvadori e diventare Joyce Lussu: mettere a tacere un primo matrimonio fallito nelle Marche degli anni ’30, legarsi per la vita e negli intenti a un rivoluzionario e seguirlo e sostenerlo per tutta la vita, sopportare i pettegolezzi che vedevano nella caparbietà del suo carattere e nella scelta di essere una donna libera i tratti di una poco di buono, ma Joyce non è una che si fa piegare dalle convenzioni sociali, né dai ruoli convenzionali e precostituiti. È una donna bellissima, colta e tenace che anche nei momenti più duri – la depressione che segue l’aborto, la lontananza da Emilio, dal fratello Max e dai suoi familiari, che rivedrà solo a guerra finita – non smette di apprezzare le piccole cose belle che la vita può offrire, quelle che restituiscono dignità anche nella disperazione: «i fiori, gli animali, il paesaggio, il buon cibo, le case accoglienti, l’aspetto ordinato di capigliatura e vestiario», sono questi gli elementi che rendono possibile resistere, combattere, perché «la lotta – scrive Ballestra – è un rimedio alla disperazione, l’azione è un richiamo morale ma anche di sopravvivenza alle atrocità della guerra».
Ed è con questo animo che seguiamo Joyce mentre si unisce al gruppo di Giustizia e Libertà, impara a falsificare documenti, assume identità sempre nuove e diverse, porta in salvo ricercati come i coniugi Modigliani, viene addestrata e reclutata a Londra nelle file del SOE (Special Operations Executive, agenzia segreta britannica nata per volere di Churchill) e nel settembre 1943, con il nome in codice di Simonetta, attraversa l’Italia per arrivare nel sud liberato dagli Americani per conto del Comitato di Liberazione Nazionale, perché «una donna può farcela dove tre uomini hanno già fallito». E Joyce riesce, supera difficoltà, mantiene i nervi saldi, e dimostra quello che si era prefissata da ragazzina: che una donna può essere nella lotta allo stesso modo di un uomo, tracciando così, con il suo esempio, un luminoso modello per le sue contemporanee e per le donne a venire.
La Storia di Joyce è dunque prima di tutto la storia di una vita, poi quella di una scrittrice. E a chi volesse obiettare che nel libro trova più spazio la narrazione della attività politica di Joyce piuttosto che di quella letteraria e che la dimensione narrativa possa perdersi tra le pieghe della Storia che inghiotte, sospende, trasforma, si può controbattere che la vita di Joyce fuori dalla scrittura è parte integrante della scrittura di Joyce.
Nelle pagine di Ballestra le doti letterarie di Joyce viene fuori immediatamente, ne sono prova le poesie giovanili tanto lodate da Benedetto Croce, ma lei mette da parte il suo incredibile talento per un’urgenza più grande: la resistenza partigiana e la militanza politica per le quali si spende senza sosta, sia durante la lotta al regime fascista che dopo, quando gira l’Italia e la Sardegna a verificare con mano ciò di cui c’era bisogno per la ricostruzione, per lavorare fianco a fianco delle donne, smuovendo la loro coscienza di partecipazione politica alla vita del Paese.
Gertrude Stein scrisse in Autobiografia di tutti: «E se si è un genio e si è smesso di scrivere si è ancora un genio se si è smesso di scrivere», e questa definizione sembra calzare a pennello per Joyce, la cui scrittura si è nutrita della vita quando per necessità ha smesso di scrivere, per ritornare più forte a guerra finita, quando l’abilità di scrittrice viene messa a servizio della traduzione letteraria e della testimonianza politica della Resistenza. Anche lo stile della sua produzione poetica cambia, si fa scabro, vivo, ricercato nella scelta di parole autentiche, di una precisione nel dire che vuole arrivare a più persone possibili e che la porterà ad autodefinirsi «scrittrice di complemento, non di professione».
Con questa idea di scrittura Joyce torna dunque a scrivere dopo la guerra, con un figlio piccolo da accudire e una carriera politica appena iniziata nelle liste del Partito d’azione in cui mette in atto un modo di fare politica molto diverso da quello del marito, che dopo la guerra lavora alla Costituzione e diventa deputato. A Joyce infatti sta stretto il ruolo di first lady, così prende treni, va nelle piazze a parlare con la gente, punta i piedi se non trova donne in politica con cui interloquire gridando a gran voce quel suo Dove sono le donne?
Joyce Lussu non vuole essere “un caso eccezionale” tra le donne, come le diceva Benedetto Croce, ma vuole che le donne tutte rendano quella che è considerata un’eccezione la norma dell’agire quotidiano, così organizza il primo convegno nazionale delle donne sarde per rappresentare «le aspirazioni della massa femminile, la più oppressa nell’oppresso popolo di Sardegna».
È in questi anni, racconta Ballestra, che germoglia in lei un nuovo modo di fare poesia, e che nasce uno dei suoi libri più celebri: Fronti e frontiere, quello che Joyce rievoca come la sua storia d’amore per Emilio Lussu anche se, o forse soprattutto perché, racconta il loro peregrinare per l’Europa durante la guerra e quella telepatia che li legava anche a distanza e che insieme all’ironia – che Ballestra mai dimentica di sottolineare – e alla comunanza di visione e intenti, aveva reso inossidabile il loro legame.
Nella produzione letteraria di Lussu il talento è quindi medium di un significato più ampio, in cui la letteratura si fa politica. Anche all’interno della sua esperienza come traduttrice, negli anni ’70 (è stata, tra gli altri, traduttrice di Nazim Hikmet, Agostinho Neto, José Craveirinha e Marcelino dos Santos), Joyce sceglie sempre poeti e scrittori che soffrono per una condizione di mancata libertà, che si fanno portavoce di Paesi – e popoli – che non hanno voce, e che proprio per questo vanno divulgati con più attenzione e con più forza, in modo da portare all’attenzione di un pubblico più ampio non solo le loro storie, ma quelle di intere nazioni impegnate in lotte di liberazione, come l’Africa e il Kurdistan.
Gli anni ’70 però, oltre al suo impegno terzomondista, a nuovi libri e alle traduzioni, porteranno anche un immenso dolore nella sua vita: nel marzo del 1975 Emilio muore, lasciandola sola. Ma Joyce continua la sua attività politica e letteraria, e si occupa di storia focalizzandosi sul suo territorio, inizia così a studiare la sibilla appenninica delle sue terre, raccontando di donne sapienti e rivoluzionarie, perseguitate come streghe per le loro conoscenze e la loro libertà, e lo fa per la prima volta dal punto di vista di una donna. Le donne, l’ambiente, la pace (guerra alla guerra, soleva dire), resteranno i suoi campi d’indagine prediletti fino alla fine dei suoi giorni, il 4 novembre 1998, quando si ricongiunge a Emilio nell’eternità degli scrittori di valore e dei combattenti per la libertà.
L’operazione letteraria di Silvia Ballestra nel suo La Sibilla, vita di Joyce Lussu, è dunque una perfetta ricostruzione di uno dei periodi più importanti della storia recente, ma anche la narrazione di un’esistenza particolare che si fa racconto universale, in cui la vita di Joyce Lussu è quella di una scrittrice talentuosa a servizio della vita attiva e di una donna con una personalità unica, fatta di dignità, ardore e sensibile intelligenza, capace di cambiare la Storia.
Dopo aver terminato il libro sono tornata a Testaccio a cercare quella pietra su cui sono incisi i nomi di Joyce ed Emilio Lussu, ho parlato con loro come si fa con qualcuno che ora mi sembra di conoscere da sempre e ho lasciato lì un fiore di gratitudine per la poetessa partigiana, vissuta per la libertà.
C’è un paio di scarpette Rosse di Joyce Lussu
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede
ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio
di scarpette infantili
a Buchenwald.
Più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald.
Servivano a far coperte per i soldati.
Non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas.
C’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald.
Erano di un bimbo di tre anni,
forse di tre anni e mezzo.
Chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni,
ma il suo pianto
lo possiamo immaginare,
si sa come piangono i bambini.
Anche i suoi piedini
li possiamo immaginare.
Scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti
non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald,
quasi nuove,
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…
Poesie di Janet Frame- da Parleranno le tempeste. Poesie scelte-
A cura e traduzione di Francesca Benocci ed Eleonora Bello-Gabriele Capelli Editore
Janet Frame (Dunedin 1924–2004) è stata una tra le più importanti scrittrici neozelandesi. Candidata due volte al premio Nobel, l’ultima nel 2003, è soprattutto nota per il film di Jane Campion Un angelo alla mia tavola tratto dalla biografia omonima. Nata in una famiglia indigente, riesce a diplomarsi come insegnante ma è successivamente bollata come non “normale” e non idonea all’insegnamento. Diagnosticata schizofrenica, viene internata per otto anni in manicomio dove è sottoposta a 200 elettro-shock e minacciata di lobotomia. A darle forza e libertà sarà la scrittura e i riconoscimenti che il mondo letterario inizia a tributarle arrivando a essere tradotta in tutto il mondo. Non così per le sue poesie, amatissime ma raramente tradotte. Oltre a Un angelo alla mia tavola, sono stati pubblicati in italiano i romanzi Gridano i gufi, Volti nell’acqua e Verso un’altra estate. Parleranno le tempeste è la prima raccolta di poesia tradotte in italiano.
Provati estate primavera autunno inverno,
datemi il grande freddo per sempre,
ghiaccioli su tetti muri finestre il sogno
marmoreo perpetuo integrale di un mondo e di persone ghiacciati
nella più nera delle notti, così nera da non riuscire a distinguere
il sogno perpetuo integrale marmoreo.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé.
Un tempo
Un tempo la brezza calda della gente
che filtrava sotto la porta chiusa che mi separava da loro
cambiava la fiamma, influenzava
la forma dell’ombra,
mi bruciava ribruciava dove facevo
tavolette di cera nell’oscurità.
Poi oltre la porta era solo silenzio.
Le gazze ladre tappavano il buco della serratura
attraverso cui rassicuranti becchi di luce avevano pizzicato briciole.
Un inverno che non ho mai conosciuto
ha sigillato le crepe con un male chiamato neve.
Cadeva così pura
dal nulla, in fiocchi accecanti.
Oltre la porta era solo silenzio.
Io indugiavo nel mio rituale solitario.
Effetti personali
Un amo dentro a un portafoglio di plastica strappato,
una vite arrugginita, un folletto della Cornovaglia,
del mio primo libro un volantino spiegazzato,
alti il doppio, o morti, nelle foto di famiglia
i bambini, un orologio d’argento con la cassa rotta
“Resistente agli urti” ma non era l’orologio che il piccolo Levìta
aveva, nell’inno, nella sera silenziosa fatta
di oscuri cortili del tempio e luce sbiadita…
anche se mio padre si chiamava Samuel. Che udito debbo avere,
e perché, mi chiedevo un tempo, per sentire il Verbo?
… un chiodo lucido… la lettera di un nuovo amore,
una spilla ossidata appartenuta a mia madre.
Poi, quasi adescasse dall’ultima marea questo ciarpame infranto,
la bella mosca schiuma-onda da pesca, di mio padre il vanto.
Parleranno le tempeste
Parleranno le tempeste; di loro puoi fidarti.
Sulla sabbia il vento e la marea scrivono
bollettini di sconfitta, gusci imperfetti
presso il memoriale liscio d’alberi d’altura,
alghe, uccello lacero, rasoio affilato, corno d’ariete, conchiglia.
Dacci le notizie dicono gli asceti leggendo
e rileggendo dieci miglia di spiaggia; tra gusci vuoti, guarda,
bruciano nella stampa del sale, storie
d’inondazione: come abbandonai casa e famiglia.
Rasoio: come tagliai la gola alla luce del sole.
Corno d’ariete: come caricai danzando alla luce lanosa del sole.
Conchiglia: come la mia vita salpò su un’oscura marea.
Francesca Benocci è nata a Sinalunga, in provincia di Siena, il 17 maggio 1985. Dopo infinite peripezie geografiche e un corso di studi in medicina messo prematuramente da parte, approda alla facoltà di Lettere e Filosofia di Siena. Si iscrive al corso di laurea in “Lingue, letterature e culture straniere” laureandosi nel 2010 in inglese e russo. Scrive una tesi che ha come oggetto la “comparazione” tra due traduzioni italiane di uno stesso testo in inglese. Ha completato, sempre presso l’Università di Siena, un master in traduzione ed editing di testi letterari e ha iniziato un dottorato in Translation Studies alla Victoria University of Wellington, in Nuova Zelanda.
Eleonora Bello (1985) ha conseguito una laurea triennale in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Milano, dove ottiene anche il Master di primo livello PROMOITALS (Didattica dell’Italiano come lingua seconda e straniera). Successivamente ottiene il Master di secondo livello all’Université de Franche-Comté (Besançon, Francia) in Letteratura e Cultura Italiana. Ha insegnato italiano come lingua straniera a Milano, Città del Messico e Besançon.
Janet Frame: scrittura e follia scritto da Ivana Daccò
Una che che ce l’ha fatta ad uscire dal manicomio, un po’ per fortuna, molto per determinazione. Per capacità. Un genio.
Mentre leggo “Un angelo alla mia tavola”, autobiografia di Janet Frame, mi si impone il riflettere sul fatto che la sua opera e la qualità della sua figura di donna vengono, e sono, legate alla sua storia di sofferenza psichica; e la riflessione si allarga allo stereotipo che propone come pressoché inevitabile la relazione tra una sensibilità fuori dell’ordinario, che sa tradursi in parole, e la malattia mentale, quantomeno la precarietà di quel tanto di equilibrio richiesto (e non potrebbe essere diversamente) dalle convenzioni sociali, dall’epoca e dalla società in cui si vive.
E’ uno stereotipo che colpisce, non solo ma in particolare, le donne; e il tema della presenza, ad esempio, di suicidi tra le scrittrici o, come nel caso di Janet Frame, di malattia mentale, ritorna, più o meno dibattuto, più o meno sostenuto da dati oggettivi, quasi ci fosse una richiesta sociale che prescriva questo. ‘Genio e sregolatezza’ certo ma, per le donne, sembra si chieda qualcosa di più.
Non voglio, qui, raccontare la storia di vita della Frame, che è bene lasciare al libro, al suo diretto racconto che spero a breve di riuscire a proporre, se non per il ‘non dettaglio’ di anni di vita, tra i venti e i trent’anni di età, trascorsi al manicomio prima che, a seguito del suo successo di scrittrice, tale diagnosi non venisse, diciamo, revocata e le venisse restituita la libertà personale.
Vero, la sua biografia dice, a proposito della fine dell’esperienza manicomiale, che è stata riconosciuta come <errata> la diagnosi di schizofrenia che le era stata ascritta ed è stato tirato un rigo sui duecento elettroshock subiti e sulla lunga esperienza di reclusione, per non dir altro. E allora va bene, diciamo che la diagnosi era sbagliata; oppure che la schizofrenia non esiste; che, forse, è altra cosa e non si cura con gli elettroshock, come pure avviene ancora in molte parti del mondo. Diciamo che sono il regime manicomiale e la supposta cura a causare la devastazione mentale e fisica delle persone affette da questa malattia. Problema complesso.
Ma il tema che, mentre leggo, mi si pone è un po’ diverso. Il tema sta nel fatto che, in qualche modo, sembra sia difficile che non venga correlata alla pseudo o vera malattia di cui Janet Frame (non) soffriva, la sua particolare sensibilità, la visione che lei stessa esprimeva della sua vita, di cui diceva che era scissa tra “questo mondo” e “quel mondo”, tra la vita che conduceva in quello che chiamava il suo mondo, ricco di sensazioni, colori, emozioni, riservate a lei sola, da tradurre in scrittura, da contenere, forse, attraverso la parola scritta, e dunque mediata, e la vita che conduceva nel mondo di tutti, dentro le regole, gli impegni che la società richiede, dove si muoveva comunque con la necessaria competenza – e con la fatica, va detto, che ciò comportava per lei, donna introversa, timida, a disagio nelle relazioni con gli altri.
Ed ecco aprirsi l’estrema aporia che vuole far convivere, nella mente di una ‘pazza’ (con tutto ciò che il senso comune associa a tale condizione), una sensibilità fuori dell’ordinario, un pensiero preda di visioni, emozioni di grande forza, stati d’animo difficili da controllare e l’estremo rigore, la capacità tecnica, la cura, la continuità di impegno richiesti dalla scrittura. Tutte cose che mal si sposano con una mente devastata.
E colpisce come, ancora, viva una forma di malinteso romanticismo, fuori tempo e fuori contesto, che fa amare, quasi desiderare, sembra, la figura dell’artista caratterizzato da eccessi (nel vivere, nel sentire, nel comportarsi) che diventano disagio mentale fino ad arrivare alla pazzia, e fino al comportamento suicidario, in particolare quando l’artista è donna.
Non sono infrequenti i luoghi comuni che associano la letteratura al femminile alla pazzia, che indicano un tasso di suicidi particolarmente elevato tra le scrittrici. Poi, al dunque, tutti pronunciano un solo nome: Virginia Woolf. Janet Frame è fortunatamente morta anziana, per una malattia, nella sua città natale di Dunedin in Nuova Zelanda.
Eppure. Qualcosa sembra esserci, potrebbe, e il nome della Woolf non è il solo, nel computo delle morti cercate. L’elenco potrebbe essere lungo – limitandoci al ‘900 vengono alla mente le poetesse Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alfonsina Storni, l’americana Silvia Plath. Possiamo aggiungere Marina Cvetaeva, Alejandra Pizarnik, Violeta Parra. Sibilla Aleramo ha a suo carico un tentativo fortunatamente fallito mentre ha evitato tale esito, ma pagando con una vita di grande sofferenza, la sudafricana Bessie Head; e non è stata facile la vita, e la storia manicomiale di Alda Merini.
Solo un abbozzo di elenco impossibile, che comporterebbe comunque la mancanza di tutte quelle che il mondo non ha conosciuto.
Le biografie di queste donne riportano difficoltà di vita talora gravi, che tuttavia difficilmente consentirebbero una correlazione tanto semplicistica, come se il viverle dovesse portare, di per sé, attraverso una relazione diretta e inevitabile, alla pazzia; o come se il cedere alle prove della vita fosse il segno distintivo di un animo elevato, di una sensibilità superiore che tutte le donne che, similmente provate, non hanno ceduto, non possedessero.
Eppure. E’ pensabile che queste grandi scrittrici siano state, pur dentro storie personali difficili, più che sane di mente, ma che il loro mondo le abbia messe alla prova in modo alla fine insostenibile, mponendo loro un sovraccarico di peso per il loro essersi permesse la scrittura, la poesia, deviando dall’assunzione di ruolo prescritta? E’ pensabile che quel di più che la società ha posto sulle loro spalle abbia fatto la differenza?
Janet Frame, I ghiaccioli , da Parleranno le tempeste, Gabriele Capelli Editore (2017)
Districare quei fitti ricci rossi per Janet era un problema come cercare uno spazio di silenzio in cui immergersi per accudire le sue amate parole.
Non era una vita semplice quella che le si presentò, e non lo fu nemmeno in seguito: tre sorelle con cui condividere vestiti, letto e libri, un fratello colpito da continui attacchi epilettici, una maestra che non perdeva occasione per ricordarle la sua povertà, il suo disordine, i suoi abiti sporchi, una madre che tentava di abbellire le povere case – in cui continuamente si trasferivano per seguire il padre ferroviere – con oggetti di fantasia.
Un taccuino – dono dal padre – si trasforma in un’insperata ancora di salvezza nel grigio di quei primi anni, e un libro di fiabe – Le favole dei fratelli Grimm – prestato da un’amica, la introduce in un mondo ricco e senza confini. La fantasia viaggia libera e si lascia andare.
Janet è “diversa”, poco incline alle relazioni, introversa, timida, lo sarà per tutto il resto della sua esistenza con buona pace di chi la voleva cambiare. Scopre il mondo dei libri e tra quelle parole cerca un riparo. I libri aumentano, sempre in prestito, li porta a casa, non li lascia nemmeno per mangiare. Comincia a scrivere sul suo taccuino, scrive a scuola, prime composizioni, primi tentativi di liberare la parola. Non viene presa sul serio: lei è la “strana”, la “matta”. Pubblica sul giornalino della scuola, e non solo; queste prime scritture ricevono un riconoscimento insperato. Cambia maestra. Il nuovo maestro legge con interesse i suoi temi a scuola, il resto che le aleggia intorno non gli interessa minimamente. La incoraggia a proseguire e Janet giura a se stessa che da grande farà la poetessa!
Difficile credere che questo sia stato il background di Janet Frame, autrice neozelandese, due volte proposta per il Premio Nobel.
Un’idea narrativa inserita in una autobiografia, richiesta proprio dal suo maestro, un tentativo di suicidio e Janet la “diversa” finisce per otto lunghi anni in un ospedale psichiatrico sottoposta a quattrocento elettroshock, il “trattamento”, lo chiamano i medici, una “esecuzione” lo definisce lei.
Janet scrive su qualunque pezzo di carta riesce a recuperare e consegna i testi alla sorella durante le rare visite in istituto.
Non volevo che mi accadesse nulla, scriverà in seguito nella sua autobiografia, per questo si rende disponibile, lava, mette la cera, rispetta i suoi turni, ma lo stesso non sfugge al trattamento che le viene somministrato con la stessa regolarità.
Il giorno prima dell’intervento per la lobotomia il medico di Janet annulla l’operazione e prepara le sue dimissioni dall’ospedale. Quei racconti affidati alla sorella durante le rare visite, sono stati inviati a un premio prestigioso e Janet risulta prima. La notizia della vincita e dell’uscita del libro è riportata sul giornale. Il medico la dimette il giorno dopo, Janet non è più persona da manicomio.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé – da Canto
Janet Frame continuò a scrivere racconti, pubblicò con regolarità, vinse molti premi ma la poesia? Che fine aveva fatto la poetessa? Restava “nascosta in bella vista” (Gina Mercer).
Sono invisibile. / Sono sempre stata invisibile / come la povertà in un paese ricco, come i ricchi nelle stanze riservate delle loro case piene di stanze, come le pulci, i pidocchi, come un’escrescenza sottoterra, i mondi oltre il cielo, il vento, il tempo, le idee — l’elenco dell’invisibilità è infinito, e, dicono, non fa buona poesia. Come le decisioni. / Come l’altrove. / Come gli istituti lontani dalla strada di nome Scenic Drive. / Basta similitudini. Sono invisibile.
Oltre alle poesie disseminate nei suoi romanzi, alcuni dei racconti brevi possono essere definiti “poesie in prosa” (Bill Manhire). Pubblicazioni sporadiche su alcune riviste e, nonostante un solo volume di poesia pubblicato durante la sua vita, l’opera in versi comprende ben 170 componimenti!
Non pubblicò mai una seconda raccolta, per diversi motivi. La necessità di guadagnarsi da vivere la condusse a produrre ciò che era più vendibile, i suoi discussi trascorsi psichiatrici, ma anche una certa misoginia di sguardo, un buon numero di guardiani sessisti ansiosi di stroncare e reprimere la poesia di Janet Frame, nonché una polverosa invidia maschile.
La stessa nipote, Pamela Gordon, nel ruolo di esecutrice letteraria in possesso dei suoi manoscritti inediti di poesia e di prosa, ha subito pressioni. E quando tentò di spingerla a pubblicare il volume di poesie prima di morire, Janet rispose: “Non ho bisogno che nessuno mi dica che il mio lavoro è buono. Fallo dopo che sarò morta.”
Gli dei
Chi ha detto che gli dei non hanno bisogno di sognare? /Fanno più sogni di tutti e più cupi / con gli occhi notturni che infiammano un regno / che il loro risveglio piange, perduto.
[…]
Più sono solitari i loro picchi di nuvole / più vicini si fanno i loro sogni/ a scaldare colline deserte e popolate / – gli dei più di tutti hanno bisogno di sognare.
E nonostante la sua figura di poetessa sia stata trascurata e quasi dimenticata (per anni non è stata più pubblicata), oggi la sua poesia è tornata ad essere tradotta e pubblicata. Parleranno le tempeste – il volume da cui sono tratte alcune poesie qui presenti – è la terza edizione di poesie scelte e tradotte a vedere la luce negli ultimi anni.
Le poesie di Janet Frame (1924 – 2004) colpiscono per la chiarezza, il controllo, la precisione con cui riescono a definire aspetti dell’animo, della psiche, del comportamento umano. Riesce a mettere a fuoco con esattezza e piena responsabilità, con una padronanza sorprendente figurazioni metaforiche, che sono intese a chiarire, a definire aspetti dell’esistere, dello stare, dell’andare, del morire. Lo scontro costante, quotidiano, l’opposizione tra luce e buio, tra il visibile e l’invisibile che pure permane sono dichiaratamente i suoi temi portanti. È evidente la sua abilità nel provocare sentimenti in chi legge. Il suo talento nel filtrare e amplificare i più complessi sentimenti, il nascosto, lo straordinario nelle cose di tutti i giorni, il non detto, la vergogna, la colpa, le contraddizioni umane.
La Frame affronta temi vari e profondi ma lo fa con un approccio originale e creativo, lo fa con scelte linguistiche in cui le continue allitterazioni, il gioco, i simil-anagrammi rappresentano uno sforzo/gioco poetico. Le poesie colpiscono per la struttura e composizione nell’ affrontare i temi della morte, della separazione e della partenza.
La poetica di Janet Frame non si aggroviglia su nuclei di rabbia ma rappresenta un percorso di silenzio in cui riportare alla luce antiche memorie con una discrezione estrema e sofferta, mai urlata.
Il poeta, allora, “respira con un polmone solo / sale una scala con un solo piolo / spara alle stelle senza arma alla mano”.
Nel passo lieve Janet Frame sostiene la sua lotta senza perdersi e rimanendo fedele al suo essere “Eppure ho sentito / di insetti stecco e sagome / e letti a righe / nel cielo e file / di fiori incorporei / in bianco e nero / miseri come gli arcobaleni contro la pressione / e la purezza / del non-colore. / Devo continuare a lottare / con la testa gialla e rossa / dal profondo della fossa, io rimanendo a modo mio”.
Traduzione di Paolo Dilonardo -Edizioni Nottetempo –
Descrizione del libro di Susan Sontag (1933-2004) Stili di volontà radicale –Edizioni Nottetempo–Dalla guerra in Vietnam al cinema di Bergman e Godard, dall’identità americana alla pornografia: Stili di volontà radicale è un libro che ha segnato un’epoca intellettuale. Uscito nel 1969, è la seconda raccolta di saggi pubblicata da Susan Sontag, dopo Contro l’interpretazione. Siamo alla fine degli anni Sessanta, un periodo di sovvertimenti e sperimentazioni tra i più inquieti del Novecento, in cui la critica, il pensiero, le forme artistiche e la contestazione politica si orientano verso stili radicali, come suggerisce il titolo del libro. In cui la spinta contro il mainstream capitalistico e la cultura di massa produce rivoluzioni nei linguaggi dell’arte e nella coscienza, toccando spesso soglie estreme e sondando i limiti della consapevolezza, dell’esperienza e del dicibile. Nascono da questa tensione le riflessioni di Sontag sul rapporto tra l’estetica contemporanea e il silenzio, l’acuta analisi dell’immaginazione pornografica con le sue ossessioni erotiche e la sua violazione delle norme (sessuali e letterarie), le incursioni in opere di personalità filosofiche o artistiche radicali come Bataille, Cage, Beckett, Godard. E, infine, i giudizi brucianti e la visione pessimistica dell’America contemporanea, con la sua “innocenza” e “barbarie” – entrambe “spropositate, letali” –, cui segue il resoconto del viaggio in Vietnam fatto dall’autrice nel 1968, nel pieno di una guerra spietata: ritratti feroci dell’identità statunitense, in testi che, come gli altri di questa raccolta, sono ancora capaci di parlare con accenti innovativi al nostro prese
Nota biografica-Susan Sontag (1933-2004), tra gli intellettuali, scrittori e critici statunitensi più influenti della seconda metà del ’900, nottetempo ha pubblicato i primi due volumi dei diari, Rinata (2018, 2024) e La coscienza imbrigliata al corpo (2019), il romanzo L’amante del vulcano (2020) e i saggi Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore (2020), Davanti al dolore degli altri (2021), Contro l’interpretazione (2022) e Sotto il segno di Saturno (2023), tutti tradotti da Paolo Dilonardo.
Alcune pagine in anteprima-Susan Sontag –Stili di volontà radicale
L’estetica del silenzio
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Ogni epoca deve reinventarsi un progetto di “spiritualità”. (Spiritualità = propositi, terminologie, regole di comportamen- to, che mirano alla risoluzione delle dolorose contraddizioni strutturali insite nella condizione umana, al perfezionamento della coscienza, e alla trascendenza).
Nell’età moderna una delle metafore più efficaci per de- signare il progetto spirituale è quella dell’“arte”. Una volta raggruppate sotto questa denominazione generica (una mossa relativamente recente), le attività di pittori, musicisti, poeti o danzatori si sono rivelate un ambito particolarmente duttile in cui mettere in scena i drammi formali che assillano la coscien- za, poiché ogni singola opera d’arte fornisce un paradigma più o meno ingegnoso attraverso cui gestire o appianare quelle contraddizioni. Ma, com’è ovvio, tale ambito deve essere con- tinuamente rinnovato. Qualunque obiettivo l’arte si proponga, infatti, finisce per dimostrarsi restrittivo, se paragonato agli obiettivi più ampi perseguiti dalla coscienza. L’arte, che è di per sé una forma di mistificazione, subisce una serie di attac- chi demistificatori; i vecchi intenti artistici vengono contestati e ostentatamente rimpiazzati; le mappe della coscienza ormai obsolete sono ridisegnate. Ma ciò che conferisce energia a tutte queste crisi – l’energia che, per così dire, le accomuna – è pro- prio la convergenza di un insieme di attività piuttosto disparate
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in una singola classificazione. Con la nascita del concetto di “arte” ha inizio la stagione dell’arte moderna. Da quel momen- to in poi, ogni attività sussunta in quel concetto diventa un’at- tività profondamente problematica, di cui è possibile mettere in discussione i procedimenti e, in ultima analisi, lo stesso diritto di esistere.
Dalla promozione delle arti allo statuto di “arte” deriva il mito cardine dell’arte, quello dell’assolutezza dell’attività dell’artista. Nella sua prima, e più irriflessiva, versione, questo mito considerava l’arte un’espressione della coscienza umana, di una coscienza che cercava di conoscere se stessa. (Soddisfare i parametri valutativi stabiliti da questa versione del mito risulta- va piuttosto facile: alcune espressioni erano più complete, più edificanti, più informative o più ricche di altre). La versione più tarda del mito postula un rapporto più complesso, e più tragico, tra arte e coscienza. Negando che l’arte sia pura e sem- plice espressione, il mito più recente la associa al bisogno o alla capacità della mente di estraniarsi da se stessa. L’arte non è più intesa come una coscienza che si esprime e, di conseguenza, afferma implicitamente se stessa. Non è la coscienza in sé e per sé, quanto, piuttosto, il suo antidoto – sviluppato dalla coscien- za stessa. (Soddisfare i parametri valutativi stabiliti da questa versione del mito si è rivelato molto più difficile).
Il mito più recente, che deriva da una concezione post-psi- cologica della coscienza, trasferisce all’interno dell’attività ar- tistica molti dei paradossi connessi al raggiungimento di una condizione assoluta dell’essere, descritta dai grandi mistici re- ligiosi. Così come l’attività del mistico deve sfociare in una via negativa, in una teologia dell’assenza di Dio, in un’aspirazione a immergersi nella nube della non conoscenza che trascende la conoscenza e a coltivare un silenzio che trascende le parole, l’arte deve tendere all’anti-arte, all’eliminazione del “soggetto”
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(dell’“oggetto”, dell’“immagine”), alla sostituzione dell’inten- zione con la casualità, e al perseguimento del silenzio.
Nella prima, lineare, versione del rapporto tra arte e coscien- za si percepiva un conflitto tra l’integrità “spirituale” degli im- pulsi creativi e la fuorviante “materialità” della vita ordinaria, che dissemina un gran numero di ostacoli sul cammino verso un’autentica sublimazione. La versione più recente, in cui l’arte è parte di un’interazione dialettica con la coscienza, instaura, invece, un conflitto più profondo e frustrante. Lo “spirito” che cerca di incarnarsi nell’arte si scontra con la materialità che la caratterizza. L’arte è smascherata come un atto gratuito, e la concretezza stessa degli strumenti dell’artista (così come, so- prattutto nel caso del linguaggio, la loro storicità) si rivela una trappola. Esercitata in un mondo saturo di percezioni di secon- da mano, e particolarmente disorientata dalla natura infida del- le parole, l’attività dell’artista è tormentata dalla mediazione. L’arte diventa nemica dell’artista, perché gli nega il compimen- to – il trascendimento – a cui egli aspira.
Perciò, l’arte finisce per essere considerata qualcosa da esau- torare. Un nuovo elemento entra a far parte di ogni opera in- dividuale, divenendone una componente costitutiva: l’auspicio (tacito o dichiarato) della propria soppressione – e, in ultima analisi, della soppressione dell’arte in quanto tale.
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La scena si apre su una stanza vuota.
Rimbaud è andato in Abissinia per fare fortuna con il traffico
degli schiavi. Dopo esser stato per un certo periodo maestro elementare in un villaggio, Wittgenstein ha scelto di dedicarsi all’umile mestiere di portantino in un ospedale. Duchamp si è
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dato agli scacchi. Commentando queste esemplari rinunce alla propria vocazione, ognuno di loro ha dichiarato che considera- va i traguardi raggiunti nel campo della poesia, della filosofia o dell’arte come irrilevanti, privi di importanza.
Ma la scelta del silenzio definitivo non vanifica la loro ope- ra. Al contrario, conferisce retroattivamente una forza e un’au- torevolezza aggiuntive a ciò che è stato interrotto – il ripudio dell’opera diventa una nuova garanzia di validità, un attestato di serietà incontestabile. Questa serietà consiste nel non con- siderare l’arte (o la filosofia praticata in quanto forma d’arte: Wittgenstein) come qualcosa la cui importanza duri in eterno, come un “fine” o un veicolo perenne per l’ambizione spiritua- le. Il principio realmente serio è quello che considera l’arte un “mezzo” per raggiungere un fine che forse è possibile conse- guire soltanto abbandonando l’arte stessa; secondo un giudizio più insofferente, l’arte è una falsa strada o (per dirla con l’artista dadaista Jacques Vaché) una stupidaggine.
Benché non sia più una confessione, l’arte è più che mai una liberazione, un esercizio ascetico. Per suo tramite l’artista si purifica – da se stesso e, alla fine, dalla propria arte. L’artista (se non l’arte stessa) si impegna ancora a proseguire il pro- prio cammino verso il “bene”. Ma se in passato quel bene si identificava per lui con la padronanza e la piena realizzazione della propria arte, oggi il bene supremo consiste nel giunge- re al punto in cui l’obiettivo dell’eccellenza gli appare etica- mente ed emotivamente privo di senso, ed è più gratificato dal serbare il silenzio che dal trovare la propria voce nell’arte. Inteso come punto di arrivo, il silenzio propone uno spirito di definitività antitetico a quello che pervade il modo tradizio- nale (descritto a meraviglia da Valéry e Rilke) in cui gli artisti più autoconsapevoli hanno seriamente utilizzato il silenzio: come spazio di meditazione, di preparazione alla maturazione
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spirituale, di un’ordalia che si conclude con la conquista del diritto a parlare.
Nella misura in cui è serio, l’artista prova la continua tenta- zione di recidere il dialogo che intrattiene con il pubblico. Il silenzio è la conseguenza estrema di quella riluttanza a comuni- care, di quell’ambivalenza rispetto alla creazione di un contatto con il pubblico che è una caratteristica precipua dell’arte mo- derna, instancabilmente votata al “nuovo” e/o all’“esoterico”. È il supremo gesto ultraterreno dell’artista: attraverso il silen- zio, egli si libera dal legame servile con il mondo, che assume di volta in volta le vesti di mecenate, cliente, consumatore, antago- nista, giudice o travisatore della sua opera.
Eppure, non si può fare a meno di ravvisare in questa ri- nuncia alla “società” un gesto profondamente sociale. L’artista coglie i segnali della sua futura liberazione dal bisogno di eser- citare la propria vocazione osservando i colleghi e misurando- si con loro. Può assumere una decisione esemplare di questo tipo solo dopo aver dimostrato, e autorevolmente messo in pratica, la sua genialità. Una volta che, secondo criteri di giu- dizio di cui egli stesso riconosce la validità, ha superato i pro- pri pari, al suo orgoglio resta una sola direzione da imboccare. Essere preda di un anelito al silenzio, infatti, significa rivelarsi, in un senso ancora più estremo, superiore a chiunque altro. Suggerisce che quell’artista ha avuto l’ingegno di porre più domande degli altri, e che ha nervi più saldi e parametri di eccellenza più rigorosi. (Che l’artista possa perseverare nell’in- terrogare la sua arte fino al proprio esaurimento, o a quello dell’arte stessa, non ha certo bisogno di dimostrazioni. Come ha scritto René Char, “nessun uccello è in vena di cantare in un cespuglio di domande”).
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Di rado l’artista moderno spinge la scelta del silenzio fino a un punto di semplificazione talmente estremo da indurlo al muti- smo. Più consueto è che continui a parlare, ma in modo tale che il pubblico non sia in grado di udirlo. L’arte più valida della no- stra epoca è stata recepita dagli spettatori come una mossa verso il silenzio (o l’inintelligibilità, l’invisibilità, l’inudibilità), come uno smantellamento della competenza dell’artista, della respon- sabilità con cui esercita la sua vocazione – e, di conseguenza, come un’aggressione nei loro confronti.
L’inveterata tendenza dell’arte moderna a scontentare, provoca- re o frustrare il pubblico potrebbe essere considerata una condivi- sione vicaria e limitata di quell’ideale del silenzio che nell’estetica contemporanea è assurto a modello fondamentale di “serietà”.
Ma si tratta di una forma di condivisione contraddittoria. Non solo perché l’artista continua a creare opere d’arte, ma an- che perché il distacco dell’opera dal pubblico non è mai dura- turo. Con il passare del tempo e la comparsa di opere sempre più innovative e complesse, le trasgressioni degli artisti diventa- no accattivanti e, in ultimo, legittime. Goethe accusò Kleist di scrivere drammi per un “teatro invisibile”. Ma anche il teatro invisibile finisce per diventare visibile. Il brutto, il dissonante e l’insensato divengono “belli”. La storia dell’arte è un susseguir- si di acclamate trasgressioni.
L’intento caratteristico dell’arte moderna, diventare inac- cettabile per il suo pubblico, dichiara, per converso, l’inaccet- tabilità agli occhi dell’artista della presenza stessa del pubblico – un pubblico inteso, nell’accezione moderna del termine, come un’aggregazione di spettatori voyeuristici. Almeno fin da quando Nietzsche ha affermato, nella Nascita della tragedia, che il pub- blico di spettatori così come lo intendiamo noi – una presenza
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ignorata dagli attori – era sconosciuto ai Greci, gran parte dell’ar- te contemporanea sembra animata dal desiderio di liberarsi del pubblico, un’impresa che spesso si presenta come un tentativo di eliminare del tutto l’“arte” stessa. (A favore della vita?)
Per l’artista votato all’idea che il potere dell’arte sia quello di negare, l’arma decisiva nell’incoerente guerra che combat- te contro il pubblico sta nella tensione sempre più crescente verso il silenzio. Il divario sensoriale e concettuale tra artista e spettatori, lo spazio del dialogo mancato o troncato, può anche costituire la base di un’affermazione ascetica. Beckett sogna “un’arte senza risentimenti per la propria insuperabile indigenza, e troppo orgogliosa per la farsa del dare e dell’ave- re”. Ma non c’è modo di abolire un minimo di interazione, un minimo scambio di doni – così come non esiste un ascetismo provetto e rigoroso che, quali che siano le sue intenzioni, non produca un incremento (anziché una perdita) della capacità di provare piacere.
E nessuna delle aggressioni compiute, intenzionalmente o inavvertitamente, dagli artisti moderni è riuscita ad abolire il pubblico o a trasformarlo in qualcos’altro – per esempio, in una comunità impegnata in un’attività condivisa. Non è possibile. Finché sarà concepita e apprezzata come un’attività “assoluta”, l’arte resterà separata ed elitaria. E le élite presuppongono le masse. Nella misura in cui si definisce essenzialmente in base ai suoi scopi “sacerdotali”, l’arte migliore presuppone e ratifica l’esistenza di voyeur profani, relativamente passivi e mai iniziati appieno, regolarmente convocati perché guardino, ascoltino o leggano – e subito dopo congedati.
Il massimo che l’artista possa fare è modificare i termini della relazione che si instaura tra lui e il pubblico. Analizzare il concetto di silenzio nell’arte vuol dire analizzare le alternative che si pon- gono all’interno di questa situazione sostanzialmente inalterabile.
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Indice
Parte i
L’estetica del silenzio 13 L’immaginazione pornografica 51 Pensare contro se stessi. Riflessioni su Cioran 97
Parte ii
Teatro e cinema 123 Persona di Bergman 151 Godard 179
Parte iii
Cosa sta succedendo in America? 231 Viaggio a Hanoi 245
Ringraziamenti 327
Appendice bibliografica
di Paolo Dilonardo 329
Edizioni Nottetempo –
Chi siamo
nottetempo, fondata nel 2002 da Ginevra Bompiani, Roberta Einaudi e Andrea Gessner, è una casa editrice indipendente che pubblica saggi, opere di narrativa e poesia, e in tutti gli ambiti orienta la propria ricerca verso gli spazi critici proponendosi di dare voce a testimoni e interpreti che della nostra società esplorino la complessità e le contraddizioni.
Fin dall’inizio, la casa editrice ha intrattenuto un dialogo costante con la scena editoriale internazionale, sia nella scoperta di autori da tradurre sia attraverso la promozione dei nostri autori in altri paesi, perché solo in uno scambio culturale continuo possono verificarsi le condizioni per esercitare la nostra attività.
Le collane:
La collana di narrativa accoglie quindi autori italiani e stranieri, esordi e conferme, testi classici e nuove proposte.
Alla saggistica sono dedicate le cronache, libri documentari ma molto narrativi; i ritratti, biografie o diari di artisti e pensatori colti nella loro intimità creativa; le figure, saggi limpidi intensi e contemporanei sulle figure del pensiero e dell’arte; animalìa, collana di monografie agili, divulgative dedicate al mondo animale; e la più giovane collana terra che ha come campo d’indagine le possibili relazioni alternative tra viventi per un nuovo pensiero ecologico che superi la visione antropocentrica. Infine Semi, una collana di ebook gratuiti che contengono idee e proposte di filosofi e pensatori interpreti del presente; piccoli libri che mettiamo a disposizione della riflessione attorno a quello che sta accadendo e come possiamo immaginare il mondo a venire.
Le collane di piccolo formato da portare con sé e leggere agilmente nei momenti di attesa sono gli ormai classici sassi e i gransassi, in cui trovano spazio testi veloci e incisivi di saggistica, pamphlet e pensieri.
Alla poesia è dedicata una collana diretta da Maria Pace Ottieri e Andrea Amerio.
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