Descizione del libro di Federici Canaccini, il Medioevo in 21 battagie. Cavalieri, fanti, arcieri e poi armi, strategie, tecniche. Questi sono gli elementi che fanno una battaglia. Ma se osserviamo con attenzione il ‘volto della guerra’ ci riconosciamo molto altro: emozioni, cultura, contesti, personalità e caratteristiche individuali. Un nuovo racconto del Medioevo in 21 momenti fatali che hanno deciso la Storia.Quando pensiamo al Medioevo, automaticamente ci vengono in mente immagini di spade, castelli e armature. Quasi ogni cosa che ricordiamo di questo periodo storico ha a che fare con battaglie, duelli o assedi. Mai come nei mille anni dell’Età di Mezzo, la guerra ha occupato uno spazio così centrale nella vita degli uomini. In queste pagine troveremo tutte le battaglie più famose, da Hastings ad Azincourt, da Poitiers a Bouvines, ma più volte ci stupiremo inoltrandoci in luoghi lontani, sconosciuti e affascinanti: dalle umide pianure indiane alle gole del Tagikistan, dalle acque del Giappone fino alle inesplorate valli dell’Impero azteco, dai ghiacci del Baltico fino al profondo deserto d’Arabia. Ciascuno di questi 21 ‘fatti d’arme’ diventa un prisma attraverso il quale conosciamo gli avanzamenti dell’῾arte della guerra’, ma anche uomini, culture, contesti. Un libro che piacerà a tutti gli appassionati di storia militare e che ha l’ambizione di proporre uno sguardo nuovo, capace di coinvolgere tutti coloro che amano la storia.
L’autore – Federico Canaccini, medievista, si occupa da anni di storia comunale italiana, con una particolare attenzione al conflitto tra le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini. Ha insegnato Storia della guerra nel Medioevo alla Catholic University of America di Washington, Paleografia latina alla LUMSA di Roma e attualmente insegna Paleografia e Filosofia medievale alla Università Pontificia Salesiana di Roma. In qualità di ricercatore all’Università di Princeton ha intrapreso un lavoro di edizione critica di Questioni quodlibetali e di trattati astrologici inediti. È assiduo collaboratore della rivista “Medioevo”, di cui cura la rubrica d’apertura. Tra le sue pubblicazioni, Ghibellini e ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino (2007), Matteo d’Acquasparta tra Dante e Bonifacio VIII (2008) e Al cuore del primo Giubileo (2016). Per Laterza è autore di 1268. La battaglia di Tagliacozzo (2018) e 1289. La battaglia di Campaldino (2021).
Annamaria Ferramoscaè pugliese e vive a Roma, dove ha lavorato come biologa docente e ricercatrice, ricoprendo al contempo l’incarico di cultrice di Letteratura Italiana per alcuni anni presso l’Università RomaTre. Ha all’attivo collaborazioni e contributi creativi e critici con varie riviste nazionali e internazionali e in rete con noti siti italiani di poesia. È stata ideatrice e per molti anni curatrice della rubrica Poesia Condivisa nel portale poesia2punto0. È ambasciatrice di Sound Poetry Library (mappa mondiale delle voci poetiche) per Italia e Puglia. Ha pubblicato in poesia: Andare per salti, Arcipelago Itaca (Premio Arcipelago Itaca, nella rosa del Premio Elio Pagliarani, Premio Una vita in poesia al “Lorenzo Montano”, finalista al Premio Guido Gozzano e al Premio Europa in Versi); Other Signs, Other Circles – Selected Poems 1990-2008, volume antologico di percorso edito da Chelsea Editions di New York per la collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, a cura di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti (Premio Città di Cattolica); Curve di livello, Marsilio (Premio Astrolabio, finalista ai Premi: Camaiore, LericiPea, Giovanni Pascoli, Lorenzo Montano); Trittici – Il segno e la parola, DotcomPress; Ciclica, La Vita Felice; Paso Doble, coautrice la poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano, Empiria; La Poesia Anima Mundi, monografia a cura di Gianmario Lucini, con la silloge Canti della prossimità, puntoacapo; Porte/Doors, Edizioni del Leone 91(Premio Internazionale Forum-Den Haag); Il versante vero, Fermenti (Premio Opera Prima Aldo Contini Bonacossi). Ha curato la versione poetica italiana del libro antologico del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D- Poesie 2003-2013, CFR (Premio Accademia di Romania per la traduzione). Sue poesie appaiono in numerose antologie e volumi collettanei e sono state tradotte, oltre che in inglese, in rumeno, greco, francese, tedesco, spagnolo, albanese, arabo. Un’ampia rassegna bibliografica con recensioni critiche, testi e materiale video-audio è nel sito personale www.annamariaferramosca.it Per contattare l’autrice: ferrannam@gmail.com
Inge Müller è nata a Berlino il 13 marzo 1925. Sopravvissuta miracolosamente ai furiosi bombardamenti su Berlino che hanno chiuso la seconda guerra mondiale, sarà lei stessa a estrarre i corpi dei genitori dalle macerie della loro casa. È morta suicida il 1° giugno 1966. Solo vent’anni dopo le sue poesie saranno pubblicate nella raccolta Wenn ich schon sterben muss. Come exergo al libro, il marito, Heiner Müller, ha scritto parole che danno tutta la dimensione della distanza, della solitudine della donna che aveva sposato: «… Più di una volta ho letto le poesie contenute in questa raccolta; alcune mi erano estranee, alcune mi irritavano, molte le ho capite solo dopo il suicidio della donna che le ha scritte in tredici anni accanto a me…».
Giunge un giorno
Inviato da noi
L’uomo
Annunziato.
Vantatevi voi,
voi che ci conficcate nel selciato
calpestandoci.
Per ridere non ho bisogno di un motivo
Per piangere di nessun dolore
Sono come voi e da voi ferita
Non sono nessuna oppure solo una bocca.
Dodecafonica e terza.
Siamo piantati nella terra
Da entrambi i lati
Ci consuma la pioggia
Dalla radice spunta
Una gialla talea, che
Il sole più non raggiunge.
Quando ci incontrammo
Quando ci incontrammo
In una strada laterale delle nostre vie
Sentivi paura della vita
Sentivo paura della morte
Che era vicina e vedemmo il cielo rosso
Avvolgerci soffice come una coperta di lana
E ci riscaldammo per un attimo
L’attimo
durò sette estati. Quando levammo gli occhi
Il tempo era già trascorso.
Alberto Fraccacreta –(nato nel 1989), originario di San Severo, è assegnista di ricerca in Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Collabora con alcuni quotidiani nazionali.Le seguenti poesie sono tratte da Sine macula. Poesie 2007-2019, Transeuropa. Il volume raccoglie Uscire dalle mura e Basso Impero, pubblicati da Raffaelli nel 2012 e nel 2016, aggiungendo sequenze inedite e riordinando il materiale alla luce di Delia, ineffabile presenza femminile sempre sul filo dell’epifania, colei che è lì da mostrarsi ? com’è inscritto nel suo etimo ?, immagine della donna costantemente cercata. Delia è l’idea di Maurice Scève, la Velata che nei suoi lineamenti interiori dà ragione di una traccia sine macula, trasparenza, poesia stessa e tensione del soggetto verso un’edenica relazione con il reale.
Il falco pellegrino
La luce di ottobre rade
in picchiata la schiena della Cesana.
Le nubi corrono e si sporgono
verso un fascio coartato
che le mortifica. Bacche e corolle
nel giardino pensile, una tribù
di cespugli in vampa, foglie
smeraldo refrattarie al libeccio
nella siepe del Polo Volponi.
Se mi affaccio dal parapetto
vedo qualcosa di distante
oltre le antenne e il viadotto,
sotto il crinale, che non sei tu.
Dubito se sia io a sporgermi
e avanzare nel tratto mancato,
nel passo marcato, protetto dal limite,
quando da basso i coni d’ombra
assomigliano a venati abissi
e sfrecciano auto a lato del nero.
Ma il distendermi non ti mortifica.
Non evita l’effetto e il transito,
in un moto ascensionale
vedo il tuo viso che si alza
dominante, dà forza come la prima volta,
tutto purché si noti il sorriso
lieto e cordiale,
nuovo e incoraggiante.
Madrigali del legionario
Dopo la stenta guiderai la rivolta.
L’inverno dal belvedere è ancor più sigillato.
Dal trespolo si arruffa il viso stravolto
color mandolino, sparisce in glissato.
Ma tu passerai il gelo sul coperchio del mondo,
tortorella, abbaglierai le murene al tuo canto.
Se il mio grumo d’ala sarà lì per garrire,
ricordane lo sparo, potresti sfiorire.
Cena in Emmaus
A Palestrina o a Zagarolo, dopo l’assassinio di Ranuccio. Desidera
rappresentare il congedo, a seguito della parola dei profeti,
l’ostinazione del pane spezzato. L’ombra di Cristo sbatte sulla pancia ovale
dell’oste. Una luce sovrumana filtra. Manca la canestra di frutta della copia
londinese, ci sono solo una brocca, i piatti, la tovaglia ricamata.
È tutto più asciutto.
Nessuna chiazza di vino, nessun rettangolo color mora ? il buio che avvolge
la scena è una mora di gelso, una chiazza di vino ? la tovaglia è linda.
Il piatto vuoto è così tenacemente in attesa
che potresti vedergli spuntare la membrana malvacea del timpano.
La brocca vorrebbe parlare, è puntata sulla carotide dell’uomo come una pistola.
Tace.
Il contenuto emotivo del soggetto colpisce lo spettatore.
Ma anche: il soggetto è colpito dal contenuto emotivo dello spettatore.
L’ostessa sta portando qualcosa d’invisibile su un vassoio amaranto. Il
discepolo a destra deve aver capito finalmente, ma è condannato allo
snebbiarsi d’idee.
A essere sul punto di diradarsi, senza poter, senza voler schiarire.
La scena è generalmente opaca. La scena è luminosa.
Il volto di Cristo è grave e meraviglioso. Non esistono aggettivi meno invasivi.
Gli aggettivi sono veleno pesticida.
L’uomo di spalle, Cleopa, ha compreso ogni cosa, ma non potrà mai dirla a
nessuno. L’evangelista Luca sta scrivendo universalmente il prosieguo. Allora si aprirono loro gli occhi. Condannati per sempre a non sbattere più le
palpebre. Fine della secrezione del sebo palpebrale.
L’ostessa sembra appena arrivata.
L’ostessa sembra che voglia togliere subito il disturbo. Non pare interessata.
L’oste sta per intromettersi, sbraitando: ‘Sentiamo un po’ cosa ha da dire’.
L’oste sarà perennemente al di qua di ogni sgarbo. Il torrente del rimprovero
non scorre. Il pane fuori dal piatto è letteralmente incredulo.
Cristo sta perdonando da sempre l’assassinio perpetrato dal pittore
nel cui pane fuori dal piatto si può scorgere la figura di un teschio.
Cristo se ne andrà prima dell’ostessa. Ma c’è ancora tempo. Cristo non se ne
andrà per la lunghezza dell’eterno. Non finché sarà integro il dipinto.
Entrambe le affermazioni sono ugualmente vere. Tutto quello che si dice del
quadro è plausibile.
Lui rimarrà. Ed è lì per andarsene.
Se è lì per andarsene, rimanendo ritornerà.
Simic a Strafford
Il nostro è un rapporto epistolare,
scambio di mail come lo schiocco
del carpodaco.
Non esente da frizzi e ticchettanti ironie.
Quando sulla mascherina rossa
della posta elettronica appare il suo nome,
mi sembra che la fiamma purpurea
con le zampette carnicine
venga a beccare lì vicino e allora
prilla la vibrazione, trilla
lo smartphone. Nel sottile passo
del lucherino delle pinete
(con quella nomenclatura
retoricamente ineccepibile, Spinus pinus delle Fringillidae)
lascia varietà timbriche
fino a ventitré note ? il professor
carpodaco, amico di guaine
da sfogliare sul cellulare,
bozze residuali da Il mondo non finisce.
Federico Preziosi,vive in Ungheria e insegna lingua e cultura italiana a Budapest. È fondatore del gruppo di poesia su Facebook “Poienauti”, moderatore di “Poeti Italiani del ‘900 e contemporanei” e portavoce della comunità poetica Versipelle. Collabora con exlibris20 alla sezione poesia e si occupa della divulgazione di opere poetiche nella trasmissione web “La parola da casa” con Giuseppe Cerbino. Autore di Variazione Madre, edito da Controluna – Lepisma floema, i suoi versi sono stati pubblicati su antologie, riviste online e quotidiani locali e nazionali.
Non è detto che la primavera
Della sera battuta dal sangue
sono astante in attesa di un ricovero.
A chiare lettere il caso afflitto
affila il metro e sposta fino a fondere
con l’ultimo tocco
i confini smagriti dell’assenza.
La zona rossa era pandemia
già molto tempo prima nel mio corpo,
la zona rossa era della foglia
l’impeto, la riscossa
prima del cedere il passo all’inverno
e non è detto che la primavera
concederà una tregua.
*
Nel silenzio
Perché mi attardo se non ho un nome
se nella sera qualcuno chiama
vorrei vestire il suono ed esibire un senso
ma ad alta voce la lettura tace
così come taccio io e la stagione me.
*
Inarcatura
Adesso dormi tra le braccia d’ombra
dove il selciato vale
il contrappasso tra ritorno e approdo:
avevi un rogo in gola e non chiedevi
di mordere e fuggire.
Adesso che la fonte è più tranquilla
la riflessione chiara
interroga quel vuoto che tu chiami
nome mio.
Un’adunanza cremisi sulla cornea
si inarca ai riflessi vestali
e corre lungo il volto
strozzandosi in un sorso.
-Traduttore M Canfield- Editore Libri Scheiwiller-
Descrizione -Gli eventi che nel 1952 portarono Sartre e Camus a un’insanabile rottura sono centrali per comprendere l’origine di un mito culturale: l’engagement, “l’impegno”. Da una parte il franco-algerino partigiano della resistenza, coscienza morale di una generazione; dall’altra il critico della società, l’agitatore rivoluzionario. “Tra Sartre e Camus”, un osservatore d’eccezione, un giovane scrittore di stanza a Parigi che, dalle pagine dei giornali, articolo dopo articolo, delinea l’autoritratto di un latinoamericano che, cresciuto seguendo la radicalità di Sartre, ha finito per abbracciare il riformismo di Camus. Ed è la letteratura a prefigurare la politica. Nel 1964 Sartre invita a rinunciare alla letteratura in nome dell’azione sociale: in un continente che manca di quadri tecnici come l’Africa, sostiene, è più importante fare il professore in un villaggio che lo scrittore a Parigi. Llosa dissente: se un romanziere di colore rinuncia a scrivere i libri che si porta dentro per insegnare l’alfabeto agli scolari della Guinea, cosa leggeranno questi quando l’unico che avrebbe potuto scrivere dei libri nella loro lingua ha rinunciato a farlo? Traduzioni di Sartre? Una raccolta di saggi che suona come un inno alla libertà e alla bellezza.
Dettagli
Autore:Mario Vargas Llosa-Traduttore:Canfield-Editore:Libri Scheiwiller-Collana:Prosa e poesia-Anno edizione:2010
In commercio dal:20 maggio 2010Pagine:148 p., Brossura-EAN:9788876446238
Briografia di Mario Vergas Liosa- premio Nobel per la letteratura nel 2010
Mario Vergas Liosa-Scrittore, critico e giornalista peruviano. Figura centrale della rinascita della narrativa ispanoamericana, fine polemista, è vissuto a lungo in Europa. Attivo nelle battaglie civili e politiche, si è candidato alle elezioni presidenziali del Perù nel 1990 (resoconto di quell’esperienza è Il pesce nell’acqua, El pez en el agua, 1993). Collaboratore di diversi giornali europei, conferenziere in molte università del mondo, nel 1994 ha assunto la cittadinanza spagnola; ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti tra cui i premi Principe di Asturias, Cervantes, Grinzane-Cavour alla carriera e la presidenza del Pen Club International. Autore molto prolifico, ha pubblicato articoli, saggi (su García Marquez e Flaubert), pièces teatrali e narrativa di vario genere. La città e i cani (1963) è il dissacrante romanzo d’esordio: bruciato in piazza in Perù, ottiene larghi consensi in Europa. Gli fanno seguito La casa verde (1966) e il romanzo politico Conversazione nella cattedrale (1969). Pantaleón e le visitatrici (1973) inaugura un registro di sottile, a volte comico, ironico, cui appartiene anche La zia Julia e lo scribacchino (1977). Ha sperimentato il genere giallo dal risvolto sociale (Chi ha ucciso Palomino Molero?, 1986).
Tra le ultime opere: La festa del caprone (2000), Il paradiso è altrove (2003), Avventure della ragazza cattiva (2006), struggente storia d’amore e di fuga, Il sogno del celta (Einaudi 2011) la biografia romanzata di Roger Casement, La civiltà dello spettacolo (Einaudi, 2013), Crocevia (Einaudi, 2016), Il richiamo della tribù (Einaudi, 2019) e Tempi duri (Einaudi, 2020).Ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2010.
Descrizione-COMPOSITORI”-Preziosa collana poderosa e ponderosa-I capisaldi dell’arte sonora della cultura occidentale vengono trattati in altrettanti volumi dal taglio fra loro leggermente diverso, e per questo ancora più interessante: Sergio Vartolo si immagina un Bach che, sul letto di morte, redige le proprie memorie e, sulla base di documenti autentici, dà un’immagine di sé tanto innovativa quanto credibile (il libro contiene un CD); con le monografie su Beethoven e Mahler, facendo piazza pulita di convenzioni e pigre abitudini, Alessandro Zignani ribalta le prospettive critiche in un modo acuto e sorprendente. Compositore ricercato è il boemo Zelenka, dove Claudio Bolzan fa un’analisi minuziosa della vita e delle opere in un libro che è diventato strumento di riferimento nelle bibliografie internazionali. Poi la prima biografia in lingua italiana firmata da Gabriele Formenti su Georg Philipp Telemann, il più prolifico compositore del barocco tedesco. Claudio Bolzan ci propone la prima biografia musicale in lingua italiana completa di catalogo delle Opere musicali, pittoriche, grafiche, delle recensioni e degli scritti di argomento musicale su E.T.A. Hoffmann. Giuseppe Clericetti, con Reynaldo Hahn, descrive minuziosamente quel mondo musicale francese tra Otto e Novecento, rivalutando un musicista di classe, dotato di talento e sagacia, per troppo tempo negletto. Poi il libro di Claudio Bolzan, che analizza con impressionante dovizia tutta la produzione händeliana, in una monografia destinata a diventare di assoluto riferimento su Georg Friedrich Händel, compositore cosmopolita per eccellenza, tra la nascita tedesca, la parentesi italiana e la lunghissima permanenza in Inghilterra: ma, certo, profondamente legato al nostro Paese fu lo stile musicale, specialmente in quel campo operistico che gli donò onori e ricchezze. Infine Jean Sibelius, il “grande dimenticato”, che deve la propria unicità al legame esistenziale con la natura finlandese, con i cicli della natura, con i silenzi e le attese, ponendosi quindi ben oltre la dimensione di rappresentante di una scuola nazionale.
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disegno di Pablo Picasso- Nuova Rivista Letteraria-
Fedrico García Lorca nacque a Fuente Vaqueros, nella provincia di Granada (in Andalusia) il 5 giugno del 1898, figlio di Federico García Rodríguez, un ricco possidente terriero, e di Vicenta Lorca Romero (1870–1959), un’insegnante, seconda moglie del padre[3], dalla fragile e cagionevole salute, al punto che ad allattare il figlio non sarà lei stessa, ma una balia, moglie del capataz[4] del padre, e che tuttavia eserciterà una profonda influenza nella formazione artistica del figlio: lascia infatti presto l’insegnamento per dedicarsi all’educazione del piccolo Federico, al quale trasmette la sua passione per il pianoforte e la musica:
García Lorca nacque a Fuente Vaqueros, nella provincia di Granada (in Andalusia) il 5 giugno del 1898, figlio di Federico García Rodríguez, un ricco possidente terriero, e di Vicenta Lorca Romero (1870–1959), un’insegnante, seconda moglie del padre[3], dalla fragile e cagionevole salute, al punto che ad allattare il figlio non sarà lei stessa, ma una balia, moglie del capataz[4] del padre, e che tuttavia eserciterà una profonda influenza nella formazione artistica del figlio: lascia infatti presto l’insegnamento per dedicarsi all’educazione del piccolo Federico, al quale trasmette la sua passione per il pianoforte e la musica:[3]
«Canticchiava le canzoni popolari ancor prima di saper parlare e si entusiasmava sentendo suonare una chitarra»
La madre gli trasmetterà altresì quella coscienza profonda della realtà degli indigenti e quel rispetto per il loro dolore che García Lorca riverserà all’interno della propria opera letteraria.
Federico trascorre un’infanzia intellettualmente felice ma fisicamente afflitta da malattie[3] nell’ambiente sereno e agreste della casa patriarcale di Fuente Vaqueros fino al 1909, quando la famiglia, che nel frattempo si era accresciuta di altri tre figli – Francisco, Conchita e Isabel (un quarto, Luis, morì all’età di soli due anni per polmonite) – si trasferisce a Granada.
Gli studi e le conoscenze a Granada
A Granada frequenta il “Colegio del Sagrado Corazón”, che era diretto da un cugino di sua madre, e nel 1914 si iscrive all’Università, frequentando dapprima la facoltà di giurisprudenza (non già per personale aspirazione, ma per seguire i desiderî paterni[3]) per poi passare a quella di lettere.[5] Conosce i quartieri gitani della città, che entreranno a far parte della sua poesia, come dimostra il suo Romancero del 1928.
Incontra per la prima volta in questo periodo il letterato Melchor Fernández Almagro e il giurista Fernando de los Ríos, futuro Ministro de Instrucción Pública durante il periodo denominato Seconda Repubblica Spagnola: entrambi (e in special modo il secondo[5]) aiuteranno in modo concreto la carriera del giovane Federico. Inizia nel frattempo lo studio del pianoforte sotto la guida del maestro Antonio Segura Mesa e diventa un abile esecutore del repertorio classico e di quello del folclore andaluso.[5] Con il musicista granadino Manuel de Falla, con cui stringe un’intensa amicizia, collabora all’organizzazione della prima Fiesta del Cante jondo (13 – 14 giugno 1922).[2]
Gli interessi che segnano il periodo formativo spirituale del poeta sono la letteratura, la musica e l’arte che apprende dal professor Martín Domínguez Berrueta che sarà suo compagno nel viaggio di studio in Castiglia, dal quale nascerà la raccolta in prosa Impresiones y paisajes (Impressioni e paesaggi)
L’ingresso alla Residencia de Estudiantes
Nel 1919 il poeta si trasferisce a Madrid per proseguire gli studi universitari e, grazie all’interessamento di Fernando de los Ríos, ottiene l’ingresso nella prestigiosa Residencia de Estudiantes, confidenzialmente chiamata dai suoi ospiti “la resi”, che era considerata il luogo della nuova cultura e delle giovani promesse del ’27.
Nella Residencia García Lorca rimane nove anni (fino al 1928),[5] tranne i soggiorni estivi alla Huerta de San Vicente, la casa di campagna, e alcuni viaggi a Barcellona e a Cadaqués ospite del pittoreSalvador Dalí, a cui lo lega un rapporto di stima e amicizia[6] che coinvolgerà presto anche la sfera sentimentale.
Le prime pubblicazioni
È di questo periodo (1919-1920) la pubblicazione del Libro de poemas, la preparazione delle raccolte Canciones e Poema del Cante jondo (Poema del Canto profondo), al quale fa seguito il drammateatraleEl maleficio de la maríposa (Il maleficio della farfalla, che fu un fallimento: fu rappresentata una sola volta, e in seguito allo scarso successo García Lorca decise di non farla pubblicare[3]) nel 1920 e nel 1927 il dramma storicoMariana Pineda[5] per il quale Salvador Dalí disegna la scenografia.
Seguiranno le prose d’impronta surrealistaSanta Lucía y san Lázaro, Nadadora sumeringa (La nuotatrice sommersa) e Suicidio en Alejandría, gli atti teatraliEl paseo de Buster Keaton (La passeggiata di Buster Keaton) e La doncella, el marinero y el estudiante (La ragazza, il marinaio e lo studente), oltre le raccolte poetiche Primer romancero gitano, Oda a Salvador Dalí e un gran numero di articoli, composizioni, pubblicazioni varie, senza contare le letture in casa di amici, le conferenze e la preparazione della rivista granadina “Gallo” e la mostra di disegni a Barcellona.[7]
Il conflitto interiore e la depressione
Le lettere inviate in questo periodo da Lorca agli amici più intimi, confermano che l’attività febbrile improntata ai contatti e alle relazioni sociali che il poeta in quel momento vive nasconde in realtà una intima sofferenza e ricorrenti pensieri di morte, malessere su cui molto incide il non poter vivere serenamente la propria omosessualità.[8] Al critico catalanoSebastià Gasch, in una lettera datata 1928, confessa la sua dolorosa condizione interiore:
(ES)
«Estoy atravesando una gran crisis «sentimental» (así es) de la que espero salir curado»
(IT)
«Sto attraversando una grave crisi «sentimentale» (è così) dalla quale spero di uscire curato.»
Il conflitto con la cerchia intima di parenti e amici raggiunge il suo apice allorché i due surrealisti Dalí e Buñuel collaborano alla realizzazione del film Un chien andalou, che García Lorca legge come un attacco nei suoi confronti.[9] Allo stesso tempo, la sua passione, acuta ma ricambiata per lo scultore Emilio Aladrén, giunge a una svolta di grande dolore per García Lorca nel momento in cui Aladrén inizia la propria relazione con la donna che ne diverrà moglie.[1][9]
La borsa di studio e il soggiorno a New York
Fernando de los Ríos, il suo amico protettore, venuto a conoscenza dello stato conflittuale del giovane García Lorca gli concede una borsa di studio e nella primavera del 1929 il poeta lascia la Spagna e si reca negli Stati Uniti.[9]
L’esperienza statunitense, che dura fino alla primavera del 1930, sarà fondamentale per il poeta,[7] e darà come risultato una delle produzioni lorchiane più riuscite, Poeta en Nueva York, incentrata su quanto García Lorca osserva con il suo sguardo partecipe e attento: una società di troppo accesi contrasti tra poveri e ricchi, emarginati e classi dominanti, connotata da razzismo. Si rafforza in García Lorca il convincimento della necessità di un Mondo nettamente più equo, non discriminatorio.[9]
Il periodo trascorso a Cuba è un periodo felice. Il poeta stringe nuove amicizie tra gli scrittori locali, tiene conferenze, recita poesie, partecipa a feste e collabora alle riviste letterarie dell’isola, “Musicalia” e “Revista de Avance”, sulla quale pubblica la prosa surrealistica Degollacíon del Bautista (Decapitazione del Battista).[10]
Sempre a Cuba inizia a scrivere i drammiteatraliEl público e Así que pasen cinco años (Finché trascorreranno cinque anni) e l’interesse maturato per i motivi e i ritmi afrocubani lo aiuteranno a comporre la famosa liricaSon de negros en Cuba che risulta essere un canto d’amore per l’anima nera d’America.
Il rientro in Spagna
Nel luglio del 1930 il poeta rientra in Spagna che, dopo la caduta della dittatura di Primo de Rivera, sta vivendo una fase di intensa vita democratica e culturale.
La realizzazione del teatro ambulante
Nel 1931, con l’aiuto di Fernando de los Ríos, che nel frattempo è diventato Ministro della Pubblica istruzione, García Lorca, con attori e interpreti selezionati dall’Istituto Escuela di Madrid con il suo progetto di Museo Pedagocico, realizza il progetto di un teatro popolare ambulante, chiamato La Barraca che, girando per i villaggi, rappresenta il repertorio classico spagnolo.[11]
Conosce in questi anni Rafael Rodríguez Rapún, segretario de La Barraca e studente d’ingegneria a Madrid, che sarà l’amore profondo[12] dei suoi drammi e delle sue poesie e al quale dedicherà, benché non esplicitamente, i Sonetti dell’amor oscuro, pubblicati postumi.[1]
García Lorca, che è l’ideatore, il regista e l’animatore della piccola troupe teatrale, vestito con una semplice tuta azzurra a significare ogni rifiuto di divismo, porta in giro negli ambienti rurali e universitari il suo teatro che riscuote grande successo e che svolge senza interruzione la sua attività fino all’aprile del 1936,[7] a pochi mesi dallo scoppio della guerra civile.
L’attività teatrale non impedisce a García Lorca di continuare a scrivere e compiere diversi viaggi con gli amici madrileni, nella vecchia Castiglia, nei Paesi Baschi e in Galizia.
Alla morte dell’amico banderillero e toreroIgnacio Sánchez Mejías avvenuta il 13 agosto del 1934 (dopo che era stato ferito da un toro due giorni prima), il poeta dedica il famoso Llanto (Compianto) e negli anni successivi pubblica Seis poemas galegos (Sei poesie galiziane), progetta la raccolta poetica del Diván del Tamarit e porta a conclusione il dramma Donna Rosita nubile o il linguaggio dei fiori.[13]
All’inizio del 1936 pubblica Bodas de sangre (Nozze di sangue); il 19 giugno porta a termine La casa de Bernarda Alba dopo aver contribuito, nel febbraio dello stesso anno, insieme a Rafael Alberti e a Bergamín, a fondare l'”Associazione degli intellettuali antifascisti“.
Lo scoppio della guerra civile
Stanno intanto precipitando gli eventi politici. Tuttavia, García Lorca rifiuta la possibilità di asilo offertagli da Colombia e Messico, i cui ambasciatori prevedono il rischio che il poeta possa esser vittima di un attentato a causa del suo ruolo di funzionario della Repubblica. Dopo aver respinto le offerte, il 13 luglio decide di tornare a Granada, nella casa della Huerta de San Vicente, per trascorrervi l’estate e tornare a trovare il padre.[2]
Rilascia un’ultima intervista, al “Sol” di Madrid, in cui c’è una eco delle motivazioni che l’avevano spinto a rifiutare quelle offerte di vita fuori dalla Spagna appena menzionate, ed in cui tuttavia García Lorca chiarisce e ribadisce la propria avversione verso le posizioni di estremismo nazionalistico, tipiche di quella destra che prenderà da lì a poco il potere, instaurando la dittatura:
“Io sono uno Spagnolo integrale e mi sarebbe impossibile vivere fuori dai miei limiti geografici; però odio chi è Spagnolo per essere Spagnolo e nient’altro, io sono fratello di tutti e trovo esecrando l’uomo che si sacrifica per una idea nazionalista, astratta, per il solo fatto di amare la propria Patria con la benda sugli occhi. Il Cinese buono lo sento più prossimo dello spagnolo malvagio. Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica.”
Pochi giorni dopo esplode in Marocco la ribellione franchista, che in breve tempo colpisce la città andalusa e instaura un clima di feroce repressione.
Numerosi si levano gli interventi a suo favore, soprattutto da parte dei fratelli Rosales e del maestro de Falla;[14] ma nonostante la promessa fatta allo stesso Luis Rosales che García Lorca sarebbe stato rimesso in libertà “se non ci sono denunce contro di lui”, il governatoreJosé Valdés Guzmán, con l’appoggio del generale Gonzalo Queipo de Llano, dà ordine, segretamente, di procedere all’esecuzione: a notte fonda, Federico García Lorca è condotto a Víznar, presso Granada, e all’alba del 19 agosto 1936 viene fucilato sulla strada vicino alla Fuente grande, lungo il cammino che va da Víznar ad Alfacar.[9] Il suo corpo non venne mai ritrovato.[9] La sua uccisione provoca riprovazione mondiale: molti intellettuali esprimeranno parole di sdegno, tra le quali spiccano quelle dell’amico Pablo Neruda.
Un documento della polizia franchista del 9 luglio 1965, ritrovato nel 2015, indicava le ragioni dell’esecuzione: “massone appartenente alla loggia Alhambra”[15], “praticava l’omosessualità e altre aberrazioni”.[16][17][18]
Il mancato ritrovamento del corpo di Lorca, tuttavia, accende un’intensa controversia circa i dettagli di questa esecuzione. Controversia ancora adesso tutt’altro che risolta.
Nel 2009 a Fuentegrande de Alfacar (Granada), tecnici incaricati dalle autorità andaluse di condurre uno studio specifico per l’individuazione della fossa comune, dove si suppone sia stato gettato il corpo, accertarono con l’impiego del georadar l’esistenza effettiva di una fossa comune con tre separazioni interne, dove riposerebbero sei corpi.
Il 29 ottobre 2009, sotto la spinta del governo andaluso, sul sito individuato, iniziarono i lavori di scavo con l’obiettivo di individuare gli eventuali resti del poeta; questi avrebbero dovuto interessare un’area di circa 200 metri quadrati per una durata di circa due mesi.
Assieme ai resti di García Lorca era atteso il rinvenimento di quelli di almeno altre tre persone: i banderilleros anarchici Joaquín Arcollas e Francisco Galadí e il maestro repubblicano Dioscoro Galindo. Secondo le autorità della regione autonoma dell’Andalusia, sarebbero stati sepolti nella stessa zona e forse nella stessa fossa comune anche l’ispettore fiscale Fermín Roldán e il restauratore di mobili Manuel Cobo.[19] Nel 2011 però il governo dell’Andalusia ha interrotto le ricerche per mancanza di fondi. Infine, il 19 settembre 2012, il Tribunale di Granada ha archiviato la richiesta di esumazione, interrompendo con ciò ogni attività di ricerca.[20]
García Lorca sotto la dittatura franchista
La dittatura di Franco, instauratasi, impone il bando sulle sue opere, bando in parte rotto nel 1953, quando un Obras completas – pesantemente censurata – viene fatto pubblicare. Quell’edizione tra l’altro non include i suoi ultimi Sonetos del amor oscuro, scritti nel novembre del 1935 e recitati unicamente per gli amici intimi. Quei sonetti, di tema omosessuale, saranno addirittura pubblicati solo a partire dall’anno 1983.
Con la morte di Franco nel 1975, García Lorca ha potuto tornare finalmente e giustamente ad essere quell’esponente importantissimo della vita culturale e politica del proprio Paese.
Nel 1986, la traduzione in lingua inglese fatta dal cantante e autore Leonard Cohen della poesia di García Lorca “Pequeño vals vienés”, e musicata dallo stesso Cohen, raggiunge il primo posto all’interno della classifica dei dischi più venduti in Spagna.
Oggi, la memoria di García Lorca viene solennemente onorata da una statua in Plaza de Santa Ana, a Madrid, opera dello scultore Julio López Hernández.
L’opera poetica
Pur esistendo importanti edizioni dell’opera completa di Lorca non si ha ancora un testo definitivo che metta fine ai dubbi e agli interrogativi nati intorno ai libri annunciati e mai pubblicati e non si è ancora risolta la questione della genesi di alcune raccolte importanti.
Si può comunque dire che la produzione che conosciamo, insieme ai materiali inediti recentemente trovati, è sufficiente ad offrirci una chiara testimonianza della corrispondenza dell’uomo con la sua poesia.
In un primo tempo Lorca manifesta il suo talento come espressione orale seguendo lo stile della tradizione giullaresca. Il poeta infatti recita, legge, interpreta i suoi versi e le sue pièce teatrali davanti agli amici e agli studenti dell’università prima ancora che siano raccolte e stampate.
Ma García Lorca, pur essendo un artista geniale ed esuberante, mantiene verso la sua attività creativa un atteggiamento severo chiedendo ad essa due condizioni essenziali: amor y disciplina.
Il periodo andaluso
Impresiones y paisajes
Nella raccolta di prose Impresiones y paisajes che esce nel 1918 dopo il viaggio in Castiglia e Andalusia, García Lorca afferma le sue grandi doti d’intuizione e di fantasia. La raccolta è densa di impressioni liriche, di note musicali, annotazioni critiche e realistiche intorno alla vita, la religione, l’arte e la poesia.
Libro de poemas
Nel Libro de poemas, composto dal 1918 al 1920, Lorca documenta il suo grande amore per il canto e la vita. Dialoga con il paesaggio e con gli animali con il tono modernista di un Rubén Darío o un Juan Ramón Jiménez facendo affiorare le sue inquietudini sotto forma di nostalgia, di abbandoni, di angosce e di protesta ponendosi domande di natura esistenziale:
Che cosa racchiudo in me
in questi momenti di tristezza?
Ahi, chi taglia i miei boschi
dorati e fioriti!
Che cosa leggo nello specchio
d’argento commosso
che l’aurora mi offre
sull’acqua del fiume?.
In questi versi sembra di sentire il sottofondo musicale che, modulando la pena del cuore, riflette la situazione d’incertezza vissuta e il suo distacco dalla fase dell’adolescenza.
Un momento di grande rilevanza per la vita artistica di Federico Garcia Lorca è l’incontro con il compositore Manuel de Falla avvenuto nel 1920. Grazie alla sua figura Lorca si avvicina al Cante jondo, che mescolandosi con la sua poesia dà origine alle raccolte delle Canciones Españiolas Antiguas, armonizzate al pianoforte proprio dallo stesso Lorca.
Il periodo che va dal 1921 al 1924 rappresenta un momento molto creativo e di grande entusiasmo anche se molte delle opere prodotte vedranno la luce solo anni dopo.
Poema del Cante jondo
Il Poema del Cante jondo, scritto tra il 1921 e il 1922 uscirà solamente dieci anni dopo. Presenta tutti i motivi del mondo andaluso ritmati sulle modalità musicali del cante jondo a cui il poeta aveva lavorato con il maestro de Falla in occasione della celebrazione della prima Fiesta del Cante jondo al quale Lorca aveva dedicato, nel 1922, la conferenza Importancia histórica y artística del primitivo canto andaluz llamado “cante jondo”.
Il libro vuole essere un’interpretazione poetica dei significati legati a questo cantoprimitivo che esplode nella ripetizione ossessiva di suoni e di ritmi popolari, come nelle canzoni della siguiriya, la soleá, la petenera, la toná, la liviana, accompagnate dal suono della chitarra:
Sebastiana Savoca nata a Messina, 1993-vive a Vicenza, dove ha curato la rassegna di poesia Poeti al porto. Incontri con poeti contemporanei(2019 e 2020). Laureata magistralmente in Linguistica all’Università degli Studi di Padova con la tesi dal titolo Il rapporto tra metro e sintassi nelle poesie di Enrico Testa. Uno studio secondo la linguistica teorica contemporanea, attualmente frequenta il Master in Didattica dell’Italiano come Lingua Seconda all’Università degli Studi di Verona. Nel 2015 ha conseguito la laurea in Lettere moderne all’Università degli Studi di Padova con la tesi
Della felicità è ombra la tristezza:
un’inezia del mondo questo lato
sordo che si trascina ai nostri piedi.
Non vedi? Riflettiamo, nello stesso
punto, lo stesso colore. Perché,
forse, specchiandoci dentro l’intonaco
del muro, scopriremo,
insieme, d’essere ancora uno solo.
Come la pioggia
– che cade su terra –,
perforare leggeri la distanza
di una vita (nell’aria poi discendere
veloci ma sospesi, trasparenti)
per avvedersi, con lo sguardo teso
verso l’alto, cadendo verso il basso,
insieme a mille gocce uguali a sé,
che nell’arco di giorni in cui si vive
il cielo ha le dimensioni di un’iride.
Prendersi così gioco della morte
lasciare aperte le porte, corrompere
lo spazio il tempo il peso
il sottinteso di ogni inizio – un vizio.
È ritrosia alla vita la mia
– oppure piena adesione, considero.
M’attardo a correre
con le solite scuse lapidarie,
quasi come potessi sapere – lo intravedo
a volte – dove si trova il mio corpo.
Sebastiana Savoca, “Senza grammatica”, annotazioni di poetica
L’aggettivo indicibile e i termini contraddizione, menzogna e simili – si pensi alla relazione fallace che lega parole e cose – risiedono da tempo nell’area semantica occupata dalla lingua e più in generale dal linguaggio. Il discrimine tra la nominazione e l’oggetto rileva la naturale insufficienza dei lemmi dinanzi a una realtà nella quale i soggetti vivono ma non (ri)conoscono. E allora sorge spontaneo chiedersi quale possa essere il motus corporis della poesia, quale sia l’obiettivo di un’arte che si concretizza attraverso il linguaggio e pertanto porta in sé il germe del fallimento. A ben vedere, come la parola vive di speranza prima d’essere enunciata – e scoprirsi così altro da ciò che avrebbe voluto indicare –, allo stesso modo l’essere umano, conscio della venuta della sua morte, vive di speranza prima della sua fine. Ecco dunque che, parimenti alla relazione che lega i cristiani a Dio, la poesia si fa atto di fede e chi la frequenta crede nella sua trascendenza. La sensazione di chi scrive e chi legge testi lirici è che ci sia qualcosa che vada oltre la forma e il contenuto, oltre lo scibile; qualcosa in cui riporre la propria fiducia.
Per questo motivo i componimenti sono luoghi di attesa, di silenzi, di spazi bianchi; tra gli interstizi del corpo del testo ci si aspetta forse di ravvisare una profondità lacustre in cui sorprendere le fattezze del mondo che abitiamo. Attendiamo l’inatteso, un’increspatura del nostro sentire. Si tratta, in definitiva, di un’epifania, l’istante che sancisce un ribaltamento del nostro punto di vista e quindi della nostra verità, di noi stessi. Così è possibile affermare che una poesia è tale quando riesce a commuovere – nel significato latino del termine –, quando riesce cioè a mettere in movimento, a creare turbamento, a emozionare.
Se le poesie hanno una loro forma, una struttura attraverso la quale si manifestano, è pur vero che è nel cortocircuito che smuovono gli animi: in una sequenza calcolata di ritmi e di immagini è la sospensione della ragione a generare bellezza, è, tra tutto ciò che si può decifrare, l’incomprensibile a originare un varco verso il non noto.
Da qui nasce l’esigenza da parte di chi scrive di esasperare la lingua, di decostruirla e reificarla in una trasgressione della norma; un minimo scarto della forma – della grammatica –, ad esempio, dà luogo a un’estensione dello sguardo, attivando una realtà potenziale e precedentemente assopita fuori dal campo visivo canonico. È vocazione dei poeti dunque trovare le porosità dei significanti e dei significati e orientare così l’attenzione di lettori e uditori negli interstizi di cui si è già detto.
Per farlo è necessario fare uso di una lingua che sia quanto più possibile vicina alla lingua comune – pur non rinunciando agli snodi difficili, talvolta oscuri, di cui la poesia necessita –, una lingua quindi che non implode su se stessa e non si chiude nelle riflessioni intimistiche di un io soggettivo; una lingua, invece, accessibile, attorno alla quale fondare le relazioni sociali e cominciare nuovamente a costruire comunità. E proprio in virtù della nudità della parola (ma non solo), e della vulnerabilità quindi del suo creatore, scrivere poesia oggi richiede umiltà e coraggio. L’umiltà trova le sue fondamenta nella consapevolezza che i poeti oggi sono persone tra tante e non sono né pretendono di essere diversi. Al contempo, consci della limitatezza del proprio io, forse proprio perché ci si riconosce come corpo integrante di un gruppo di persone, i poeti prendono il coraggio di condividersi e di dire, e quindi di agire, perché potenzialmente la poesia è sempre un atto perlocutorio.
Sulla scorta di queste premesse, presento brevemente la mia prima raccolta edita di poesie, Senza grammatica, pubblicata nel 2020 dalla casa editrice Transeuropa.
«A parlare, in questo libro», dice Guglielmin nella prefazione, «è […] un io collettivo, ma non omologato […] il quale, pur rinunciando a cantare, ad essere lirico, rivendica il proprio diritto d’esistenza e di resistenza all’annullamento per opera di un mondo, il nostro, che vuole identità passive, immobili alla vita, segnate da solitudine, frustrazione e violenza, un mondo senza regole, sgrammaticato, appunto, che disorienta il soggetto e lo mette in crisi».
E sgrammaticato è pure l’amore, per definizione, come ricorda la poesia che dà il titolo alla raccolta: «Senza grammatica / chi ti ama / senza dubbio domanda dilemma / ama / l’ortografia delle tue labbra». L’amore assurge qui non a fine ultimo a cui ambire per dare senso al discorso esistenziale, ma a mezzo attraverso il quale resistere al degrado e prefigurare nuovi inizi.
Lo stesso avviene sul piano stilistico che, messo in crisi, tende verso un’emancipazione dai canoni tradizionali; l’aspetto formale risente infatti di un allontanamento da una norma consolidata: non vi sono forme metriche chiuse e strutture rimiche prefissate. L’uso dei versi liberi è, in generale, uno stilema della poesia contemporanea, ma all’interno di Senza grammatica concorre ad accrescere il senso di smarrimento di un’epoca caratterizzata dalla fine delle grandi narrazioni, priva di punti di riferimento, che lascia l’individuo nell’ansia generata dal libero arbitrio.
Permane, ad ogni modo, la volontà di resistere al disordine e al disorientamento, come registra la presenza quasi ossessiva dell’endecasillabo; quest’ultimo si alterna solo a versi ipometri che, nel tentativo di ancorarsi ancora a un presunto discorso poetico, mantengono un accento di quarta o di sesta, come a lasciare traccia della loro fondatezza.
Sia sul piano contenutistico sia sul piano stilistico, dunque, pur immergendosi in universi sregolati, è possibile identificare dei segnavia la cui presenza attesta lo sforzo di dare collocazione alla propria esistenza e conferirle così una propria legittimità.
Da Senza grammatica (Transeuropa, 2020)
Senza grammatica
chi ti ama
senza domanda dubbio dilemma ama
l’ortografia delle tue labbra
*
«Questo Suo mondo è tutto un io d’ansia… Non può dare risposta a questa Sua domanda. Ora chiuda la finestra.
̶ conoscevo gli infissi, i loro scatti
anacronistica scienza dell’io
Non si può mettere ordine nel vuoto di una stanza»
*
Hai la lacerazione della tua anima
negli occhi, il nero della tua pupilla
indossa un bianco vuoto di dolore;
l’odore rosso del sangue e del sale
ossida il ferro del nostro presente
e siamo un pugno di chiodi avanzati
fissati a una parete nell’attesa.
*
Ho bucato la vena mediana di tuo padre
per un prelievo di sangue classista…
Non ha lo stesso colore il rosso
Non vedi l’esegesi dei poveri conigli
che deglutiscono il pane dei loro padroni?
Si sono chiusi a palla gli animali domestici,
forse assopiti dal loro mangime
*
Cosa rimane se non frustrazione
questo gioco di attese e disattese
la processione dei pensieri persi
i piedi spersi nelle vie natie
la foschia dell’inverno
le mani nelle tasche del giubbotto.
Eugenia Huici Arguedas de Errázuriz mecenate cilena e leader del modernismo a Parigi-
Eugenia Huici Arguedas de Errázuriz (15 settembre 1860 – 1951)a Parigi è stata una mecenate cilena del modernismo e un leader dello stile di Parigi dal 1880 al XX secolo, che ha aperto la strada all’estetica minimalista modernista che sarebbe stata ripresa di moda da Coco Chanel . La sua cerchia di amici e protetti comprendeva Pablo Picasso, Igor Stravinsky, Jean Cocteau e il poeta Blaise Cendrars. Era di origine basca.
Eugenia era famosa fin dalla tenera età per la sua bellezza; Le suore francesi hanno supervisionato l’educazione della ragazza. La giovane donna accrebbe la sua eredità nella miniera d’argento sposando José Tomás Errázuriz; un giovane e facoltoso paesaggista di una nota famiglia di produttori di vino.
La coppia si stabilì a Parigi, dove Eugenia attirò un seguito di alto profilo. Nell’autunno di quell’anno, incontrarono John Singer Sargent mentre erano in visita a Venezia, forse in luna di miele, e vedevano il fratello di José che aveva preso uno studio con Sargent a Palazzo Rezzonico. Descritta come una bellezza straordinaria, con un naso sottile e capelli corvini, è stata dipinta da Sargent che divenne molto affezionato a Madame Errázuriz e l’avrebbe dipinta diverse volte. Oltre a Sargent, è stata dipinta anche da Jacques-Emile Blanche (pittore francese 1861-1942), Giovanni Boldini, Paul Helleu, Augustus John, Ambrose McEvoy e Pablo Picasso.
Dopo che gli Errázuriz si stabilirono a Parigi, divennero amici di molti nella stessa cerchia dei Subercaseaux (Juan Subercaseaux Errázuriz, Pietro Suber, Tora Suber, Luis Subercaseaux, “Esuberanza”.) : l’ereditiera americana Winnareta Singer; il compositore francese Gabriel Fauré; I pittori francesi Joseph Roger-Jourdain, Ernest Duez e Paul Helleu; e l’artista italiano Giovanni Boldini.
Eugenia era un’appassionata sostenitrice delle arti e cercò artisti, sostenendo sia Stravinsky che Diaghilev a un certo punto, e stabilendo amicizie con scrittori e musicisti famosi come W. R. Sickert, Baron de Meyer, Jean Cocteau e Cecil Beaton.
La sua villa, La Mimoseraie, era il laboratorio di design in cui elevava la semplicità a forma d’arte. Nel 1910, scriveva Richardson, “si distingueva già per la scarsità non convenzionale delle sue stanze, per il suo disprezzo per i pouf e le palme in vaso e per la troppa passamaneria …. Apprezzava le cose molto belle e semplici, soprattutto i tessuti di lino cotone, arredi in abete o pietra, la cui qualità migliorava con il lavaggio o lo sbiadimento, lo strofinamento o la lucidatura. Ha curato il più piccolo dettaglio nella sua casa “. Per lei Elegance significa eliminazione. Errazuriz ha appeso tende di lino sfoderato e ha imbiancato le pareti come una casa di contadini – un approccio di decorazione scioccante nel 1914. Amo la mia casa perché sembra molto pulita e umile! lei si vantava di questo.
Cecil Beaton notò i pavimenti di piastrelle rosse che erano privi di moquette ma perfettamente puliti. Ha anche scritto di lei in The Glass of Fashion: Il suo effetto sul gusto degli ultimi cinquant’anni è stato così enorme che l’intera estetica della moderna decorazione d’interni, e molti dei concetti di semplicità … generalmente riconosciuti oggi, possono essere a fronte della sua straordinaria sobria eleganza. Il suo tavolo da tè offriva piatti semplici (niente torte “volgari”), secondo Beaton, che notò che il suo toast “era un’opera d’arte”. Sua nipote era entusiasta, tutto in casa di zia Eugenia aveva un odore così buono. È stato riferito che gli asciugamani odoravano di lavanda e che si è lavata i capelli con l’acqua piovana. Errazuriz detestava i set di mobili, soprammobili e cimeli abbinati. Spietata in materia di disordine, anche nei cassetti dell’ufficio, ha ordinato: gettando via e continuando. Questa era un’estensione della sua convinzione nella necessità di un cambiamento costante: una casa che non cambia, amava dire, è una casa morta. Errazuriz ha proiettato il suo stile purista in ogni angolo della sua vita. Se la cucina non è ben tenuta come il salone. . . non puoi avere una bella casa, ha dichiarato.
Il designer Jean-Michel Frank è diventato il suo discepolo più dotato. Jean Cocteau le presentò Blaise Cendrars, che si dimostrò un mecenate solidale, anche se a volte possessivo. Intorno al 1918 visitò la sua casa e fu così preso dalla semplicità degli arredi, fu ispirato a scrivere la sequenza di poesie D’Oultremer à Indigo (From Ultramarine to Indigo). Alloggia con Eugenia nella sua casa di Biarritz, in una stanza decorata con murales di Pablo Picasso.
Una delle amicizie più importanti e durature di Eugenia è stata con il pittore americano espatriato John Singer Sargent a un passaggio nelle memorie del pianista Arthur Rubinstein che ha ricordato l’alta lode di Sargent per Eugenia:
“Non ho mai conosciuto nessuno con il gusto immancabile e misterioso di questa donna. Che si tratti di arte, musica, letteratura o decorazione d’interni, vede, sente, odora, il vero valore, la vera bellezza.”
In tarda età, Eugenia Errázuriz divenne una francescana terziaria (una suora laica), vestita con un semplice abito nero disegnato da un altro minimalista, Coco Chanel. Un ambiente adatto per questo guardaroba non è mai stato costruito. Sebbene Le Corbusier sia stato incaricato di progettare la sua casa sulla spiaggia in Cile, lasciò scadere il progetto prima di morire a Santiago nel 1951, investita da un’auto mentre attraversava una strada all’età di 91 anni. Villa Eugenia, fu infine costruita in Giappone.
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