Camillo Brezzi-L’ultimo viaggio nei lager. Dalle leggi razziste alla Shoah.
Editore il Mulino
L’ultimo viaggio nei lager di Camillo Brezzi, il Mulino-Tre citazioni brevi vi danno subito l’idea telegrafica del saggio di cui vi parleremo “
Il viaggio verso Auschwitz – pochi ne parlano perché pochi sono tornati- è uno dei capitoli più terribili della shoah.Il mio è durato sei giorni” (Liliana Segre).
“Nessuno però ci aveva detto che la nostra idea di peggio era uno scherzo in confronto all’inferno che ci attendeva (Sami Modiano).
“Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo (Primo Levi ).
Camillo Brezzi ha insegnato storia contemporanea all’Università Siena-Arezzo,ha al suo attivo numerosi saggi ed è direttore scientifico della Fondazione Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. In meno di 200 pagine l’autore ha sintetizzato, pensando soprattutto agli studenti, la più grande tragedia umanitaria, rappresentata dalla shoah, della seconda guerra mondiale. Non c’è nulla di nuovo, rispetto all’ampia letteratura sulla tragedia ebraica esistente. L’autore si è assunto però il difficile compito di realizzare una sintesi dei documenti,di una parte importante delle testimonianze e,in generale, della lo storia della shoah. Si ripercorrono anche i percorsi di alcuni deportati, a partire dalle fasi iniziali della “soluzione finale”. E poi ,l’arresto, il viaggio, l’arrivo ad Auschwitz-Birkenau. Cominciava così la discesa all’inferno, che abbiamo visto (nei tanti film e documentari) e letto in numerosi libri. Per ricordarcelo vengono riportate le testimonianze di Primo Levi, Liliana Segre, le sorelle Tatiana e Andrea Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina. Un libro fondamentale per capire- senza la necessità di consultare migliaia di volumi – un orrore troppo spesso dimenticato o sottovalutato.
La deportazione degli ebrei nei campi di sterminio rappresenta l’atto più drammatico della Seconda guerra mondiale. Un atto che fu messo in pratica dai nazisti con il solerte aiuto degli italiani, che si trattasse di militari della Repubblica Sociale o di comuni delatori. Il volume ripercorre le storie di alcuni deportati, concentrandosi sulle fasi iniziali della «soluzione finale»: l’arresto, poi il viaggio e l’arrivo sulla Judenrampe, la banchina di Auschwitz-Birkenau dove avveniva la prima selezione. È questa la prima tappa di una discesa all’inferno in cui i prigionieri cominciano a perdere lo status di esseri umani. Nei vagoni (usati solitamente per il trasporto di animali) viaggiano stretti, pressati uno all’altro, utilizzando un bidone per i bisogni corporali; i giorni e le notti si susseguono e si rischia di perdere la nozione del tempo; la fame e la sete si fanno sempre più crudeli, così come le urla dei comandi, pronunciati in una lingua incomprensibile ai più. Intrecciando le testimonianze di Liliana Segre, Primo Levi, le sorelle Tatiana e Andra Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina e Sami Modiano con quelle di altri sopravvissuti, il libro spalanca la porta su un orrore che non saremo mai in grado di comprendere fino in fondo, di cui è però necessario tramandare la memoria e mantenere salda la coscienza collettiva. Le impressioni, le sensazioni, le percezioni, che i salvati hanno restituito nelle loro memorie sono una preziosa fonte per ricostruire quell’indicibile tragedia, una ricchezza per gli studiosi, una grande pagina di letteratura civile.
Eh si, questa è la scritta latina che possiamo leggere al Teatro Olimpico di Vicenza, e che non poteva mancare per il suo significato, al centro in alto del scenae frons, vale a dire della spettacolare facciata in proscenio nel Teatro Olimpico di Vicenza. Cosa traduce? “ecco la difficoltà, ecco ciò che v’ha di faticoso”, e cioè: “adesso viene il difficile, il momento di impegnarsi” ed anche, “qui l’opera, qui la fatica”, questa frase racchiude l’intento nel suo operare dell’audace Accademia Olimpica di Vicenza, artefice di aver commissionato ad Andrea Palladio la costruzione del Teatro Olimpico, una “miniatura” di inestimabile valore e bellezza.
Io credo fermamente che Andrea Palladio, dopo aver studiato ed assorbito la grande bellezza dell’architettura classica romana e dopo averne apprezzato le nuove interpretazioni del primo e del tardo Rinascimento, fa dell’architettura un’arte nuova che è creativa e dinamica, funzionale e giocosa, un’architettura che pare fondersi con le altre discipline. Lo Stile Palladiano è variabile come lo spazio e il tempo, si fa strumento di espressione e per questo riesce, solo grazie agli occhi, ad appagare tutti i sensi.
Teatro Olimpico di Vicenza, il più antico teatro coperto, progetto di Andrea Palladio, scenografia fissa di Vincenzo Scamozzi. 1580-1585.
Il Teatro Olimpico è una delle meraviglie artistiche di Vicenza. Si trova all’interno del cosiddetto Palazzo del Territorio, che prospetta su piazza Matteotti, all’estremità orientale di corso Palladio, principale direttrice del centro storico.
Nel Rinascimento un teatro non è un edificio a se stante – come diventerà di prassi in seguito – ma consiste nell’allestimento temporaneo di spazi all’aperto o di volumi preesistenti; nel caso di Vicenza, cortili di palazzo o il salone del Palazzo della Ragione.
Nel 1580 il Palladio ha 72 anni quando riceve l’incarico dall’Accademia Olimpica, il consesso culturale di cui egli stesso fa parte, di approntare una sede teatrale stabile. Il progetto si ispira dichiaratamente ai teatri romani descritti da Vitruvio: una cavea gradinata ellittica, cinta da un colonnato, con statue sul fregio, fronteggiante un palcoscenico rettangolare e un maestoso proscenio su due ordini architettonici, aperto da tre arcate e ritmato da semicolonne, all’interno delle quali si trovano edicole e nicchie con statue e riquadri con bassorilievi.
La critica definisce l’opera ‘manierista’ per l’intenso chiaroscuro, accentuato tra l’altro da una serie di espedienti ottici dettati dalla grande esperienza dell’architetto: il progressivo arretramento delle fronti con l’altezza, compensato visivamente dalle statue sporgenti; il gioco di aggetti e nicchie che aumentano l’illusione di profondità. Il Palladio appronta il disegno pochi mesi prima della sua morte e non lo vedrà realizzato; sarà il figlio Silla a curarne l’esecuzione consegnando il teatro alla città nel 1583.
La prima rappresentazione, in occasione del Carnevale del 1585, è memorabile: la scelta ricade su una tragedia greca, l’Edipo Re di Sofocle, e la scenografia riproduce le sette vie di Tebe che si intravedono nelle cinque aperture del proscenio con un raffinato gioco prospettico. L’artefice di questa piccola meraviglia nella meraviglia è Vincenzo Scamozzi, erede spirituale del Palladio. L’effetto è così ben riuscito che queste sovrastrutture lignee diventeranno parte integrante stabile del teatro. Sempre allo Scamozzi viene affidata anche la realizzazione degli ambienti accessori: l’Odeo, ovvero la sala dove avevano luogo le riunioni dell’Accademia, e l’Antiodeo, decorati nel Seicento con riquadri monocromi del valente pittore vicentino Francesco Maffei.
La fama del nuovo teatro si sparge prima a Venezia e poi in tutta Italia suscitando l’ammirazione di quanti vi vedevano materializzato il sogno umanistico di far rivivere l’arte classica. Poi, nonostante un avvio così esaltante, l’attività dell’Olimpico venne interrotta dalla censura antiteatrale imposta dalla Controriforma e il teatro si riduce a semplice luogo di rappresentanza: vi viene accolto papa Pio VI nel 1782, l’imperatore Francesco I d’Austria nel 1816 e il suo erede Ferdinando I nel 1838. Con la metà dell’Ottocento riprendono saltuariamente le rappresentazioni classiche, ma si dovrà attendere l’ultimo dopoguerra, scampato il pericolo dei bombardamenti aerei, per tornare seriamente a fare spettacolo in un teatro che non ha uguali al mondo.
Biografia di Eugénio de Andrade è nato nel 1923 a Póvoa da Atalaia, piccolo borgo della Beira Baixa, all’interno del Portogallo, ed è scomparso di recente, a ottantadue anni, nella sua casa di Oporto, il 13 giugno 2005. Ha avuto un’infanzia povera nella quale, di abbondante, c’era soltanto il vento, la luce, gli alberi, l’azzurro del cielo, l’immanenza delle cose concrete e essenziali. È un mondo in cui il bianco abbagliante dei muri si interseca con le forme ardite dei tronchi d’ulivo, elementi di una geografia spiccatamente mediterranea che entra con prepotenza nell’architettura dei suoi versi, versi spogli e severi come il paesaggio della sua terra, ma illuminati da intuizioni folgoranti che sembrano sgorgare direttamente dall’inconscio. Poeta dell’amore, è stato definito più volte. Ed effettivamente l’Eros occupa una parte importante nella sua opera, un Eros spontaneo e solare. Il rilievo che il corpo assume in questa poesia rivela il desiderio profondo di ridare dignità a ciò che nell’uomo è stato disprezzato e vituperato da sempre: la gioia dei corpi, la sensualità, la passione concreta per le cose terrene, il miracolo dell’incontro profondo e misterioso fra due esseri. Nella sua poesia il corpo, limpido ed apollineo, diventa quasi un’anima carnale: si cancella il dualismo caratteristico della nostra cultura cattolico-occidentale e l’uomo risorge integro, nella sua dimensione assoluta. Poesia intensamente terrena (oserei dire disperatamente terrena, se ciò non fosse fuori luogo in questa poetica di equilibrio), quasi da diventare metafisica del fisico, parola che si fa corpo e corpo che si smaterializza in parola. Per Eugénio de Andrade l’atto poetico è “l’impegno totale dell’essere per la sua rivelazione”. L’ansia di riscatto dell’uomo totale, pertanto, la fedeltà assoluta alla vita, il desiderio di esprimere una coscienza – coscienza infelice – del mondo, è ciò che più contraddistingue questo grande lirico.
Il volto originale della sua poesia sta probabilmente anche nel sincretismo delle sue radici, nelle fonti molteplici alle quali ha attinto, dai classici greci – sopratutto Esiodo, Omero,
– alla tradizione lirica medioevale gallego-portoghese, passando attraverso la componente ispanica (la nonna materna era spagnola), in particolare García Lorca, Antonio Machado, Vicente Aleixandre, Luis Cernuda, fino ai più importanti lirici portoghesi quali Luís de Camões, Camilo Pessanha, António Nobre, Casais Monteiro, Fernando Pessoa.
Dalla pubblicazione del libro As mãos e os frutos, nel 1948, assistiamo ad un crescendo di rigore e depurazione linguistica che lo portano, in certi momenti, quasi alle soglie del silenzio, ai versi ridotti all’osso. Ma la parola è sempre limpida e immediata, quelle stesse parole nude e dirette – afferma il poeta – del cerimoniale arcaico della comunicazione delle prime necessità del corpo e dell’anima. E tuttavia è una poesia estremamente raffinata e di grande ricchezza verbale e musicale, segnata da una polifonia ritmica pari solo, in lingua portoghese, a quella di Camilo Pessanha. Fra l’altro, Eugénio de Andrade ha coltivato, con uguale sobrietà e maestria, anche il poème en prose.
La sua bibliografia comprende più di venti libri di poesia, due di prosa, un libro per l’infanzia, diverse opere di traduzione. È uno dei poeti portoghesi contemporanei di maggiore notorietà e ciò si deve anche all’immediatezza del suo mezzo espressivo. È stato tradotto in inglese, tedesco, italiano, spagnolo, francese, olandese, ceco, rumeno.
Poesie di Eugénio de Andrade, poeta portoghese
VEDERE CHIARO
Tutta la poesia è luminosa, persino
la più oscura.
È il lettore che ha talvolta,
al posto del sole, nebbia dentro di se.
E la nebbia non permette mai di vedere chiaro.
Se ritornerà
un’altra volta e un’altra volta
e un’altra volta
a queste sillabe infiammate
rimarrà cieco da tanto chiarore.
Sia felice se arriverà.
***
QUASI NIENTE
L’amore
è un uccello tremante
nelle mani di un bambino.
Si serve di parole
perché ignora
che le mattine più limpide
non hanno voce.
***
TO A GREEN GOD
Portava con sé la grazia
delle fonti quando fa notte.
Era il corpo come un fiume
in serena sfida
con i margini quando cala.
Camminava come chi passa
senza aver tempo di fermarsi.
Erbe crescevano dai passi,
crescevano tronchi dalle braccia
quando le alzava in aria.
Sorrideva come chi danza.
E sfogliava al danzare
il corpo, che gli tremava
in un ritmo che lui sapeva
che gli dei devono usare.
E seguiva il suo cammino,
perché era un dio che passava.
Estraneo a tutto ciò che vedeva,
avvinto nella melodia
di un flauto che suonava.
***
IMPETUOSO IL TUO CORPO È COME UN FIUME
Impetuoso, il tuo corpo è come un fiume
in cui il mio si perde.
Se ascolto, sento solo il tuo rumore.
Di me, neanche il segno più breve.
Immagine dei gesti che tracciai,
irrompe puro e completo.
Per questo, fiume fu il nome che gli diedi.
E in esso il cielo diventa più vicino.
***
GLI AMANTI SENZA DENARO
Avevano il viso aperto a chi passava.
Avevano leggende e miti
e freddo nel cuore.
Avevano giardini dove la luna passeggiava
mano nella mano con l’acqua
e un angelo di pietra come fratello.
Avevano come tutta la gente
il miracolo di ogni giorno
sgocciolando dai tetti;
e occhi di oro
in cui ardevano
i sogni più dispersi.
Avevano fame e sete come le bestie,
e silenzio
intorno ai loro passi.
Ma ad ogni gesto che facevano
un passero nasceva dalle dita
e abbagliato penetrava negli spazi.
***
ADDIO
Come se ci fosse una tempesta
a scurire i tuoi capelli,
o se preferisci, la mia bocca nei tuoi occhi,
carica di fiore e delle tue dita;
come se ci fosse un bambino cieco
a inciampare dentro di te,
ho parlato di neve, e tu trattenevi
la voce in cui con te mi persi.
Come se la notte venisse e ti portasse,
era fame l’unica cosa che sentivo;
ti dico addio, come se non tornassi
al paese in cui il tuo corpo inizia.
Come se ci fossero nuvole su nuvole,
e sulle nuvole mare perfetto,
o se preferisci, la tua bocca pura
ad avanzare largamente nel mio petto.
URGENTEMENTE
È urgente l’amore.
È urgente una barca in mare.
È urgente distruggere certe parole,
odio, solitudine e crudeltà,
alcuni lamenti,
molte spade.
È urgente inventare allegria,
moltiplicare i baci, i raccolti,
è urgente scoprire rose e fiumi
e mattine limpide.
Cade il silenzio sulle spalle e la luce
impura, fino a dolere.
È urgente l’amore, è urgente
Restare.
***
LE PAROLE
Sono come un cristallo,
le parole.
Alcune, un pugnale,
un incendio.
Altre,
rugiada appena.
Segrete vengono, piene di memoria.
Insicure navigano:
barche o baci,
agitano le acque.
Abbandonate, innocenti,
leggere.
Tessute sono di luce
e sono la notte.
E persino pallide
ricordano ancora verdi paradisi.
Chi le ascolta? Chi
le raccoglie, così,
crudeli, disfatte,
nei loro gusci puri?
***
I FRUTTI
Così io vorrei la poesia:
fremente di luce, aspra di terra,
rumoreggiante di acque e di vento.
***
METAMORFOSI DELLA CASA
Si innalza aerea pietra dopo pietra
la casa che solo possiede nella poesia.
La casa dorme, sogna nel vento
la delizia improvvisa di essere albero.
Come sussulta un busto delicato,
così una casa, così una barca.
Un gabbiano passa e un altro e un altro,
la casa non resiste: anch’essa vola.
Ah, un giorno la casa sarò bosco,
alla sua ombra incontrerò la fonte
dove un rumore d’acqua è solo silenzio.
***
NELLE PAROLE
Respiro la terra nelle parole,
nel dorso delle parole
respiro
la pietra fresca della calce;
respiro una vena d’acqua
che si perde
tra le spalle
o le natiche;
respiro un sole recente
e raso
nelle parole,
con lentezza d’animale.
***
SCRIVO
Scrivo già con la notte
in casa. Scrivo
sulla mattina in cui ascoltavo
il rumore della calce o del fuoco,
e eri tu soltanto
a dire il mio nome.
Scrivo per portare alla bocca
il sapore della prima
bocca che baciai tremante.
Scrivo per arrivare
alle origini.
E tornare a nascere.
Le poesie più belle di Mahmoud Darwish-poeta palestinese-
POETA STRANIERO IN TERRA PROPRIA – Mahmoud Darwish, scrittore palestinese considerato tra i maggiori poeti del mondo arabo, ha raccontato l’orrore della guerra, dell’oppressione, dell’esilio (al-Birwa, suo villaggio natale, è stato distrutto dalle truppe israeliane durante la Nakba e ora non esiste più, né fisicamente né sulle cartine geografiche). Fuggito in Libano con la famiglia, per scampare alle persecuzioni sioniste, tornò in patria (divenuta terra dello Stato d’Israele) da clandestino, non potendo fare altrimenti. La sua condizione di “alieno” e di “ospite illegale” nel suo stesso paese rappresenterà uno dei capisaldi della sua produzione artistica.
ARRESTI ED ESILIO – Arrestato svariate volte per la sua condizione di illegalità e per aver recitato poesie in pubblico, Mahmoud – che esercitò anche la professione di giornalista – vagò a lungo, non avendo il permesso di vivere nella propria patria: Unione Sovietica, Egitto, Libano, Giordania, Cipro, Francia furono le principali nazioni dove il poeta, esule dalla sua terra, visse e lavorò.
Eletto membro del parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese, poté visitare i suoi parenti solo nel 1996, anno in cui – dopo 26 anni di esilio – ottenne un permesso da Israele. Il poeta si spense a Houston (Texas) il 9 agosto 2008 in seguito a complicazioni post-operatorie. Mahmoud aveva infatti subito diversi interventi al cuore, l’ultimo dei quali gli fu fatale.
Le poesie più belle di Mahmoud Darwish-poeta palestinese-
Potete legarmi mani e piedi
Togliermi il quaderno e le sigarette
Riempirmi la bocca di terra
La poesia è sangue del mio cuore vivo
sale del mio pane luce nei miei occhi.
Sarà scritta con le unghie
lo sguardo e il ferro
la canterò nella cella della mia prigione
al bagno
nella stalla
sotto la sferza
tra I ceppi
nello spasimo delle catene.
Ho dentro di me un milione d’usignoli
Per cantare la mia canzone di lotta
PENSA AGLI ALTRI
Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
CARTA D’IDENTITA’
Ricordate!
Sono un arabo
E la mia carta d’identità è la numero cinquantamila
Ho otto bambini
E il nono arriverà dopo l’estate.
V’irriterete?
Ricordate!
Sono un arabo,
impiegato con gli operai nella cava
Ho otto bambini
Dalle rocce
Ricavo il pane,
I vestiti e I libri.
Non chiedo la carità alle vostre porte
Né mi umilio ai gradini della vostra camera
Perciò, sarete irritati?
Ricordate!
Sono un arabo,
Ho un nome senza titoli
E resto paziente nella terra
La cui gente è irritata.
Le mie radici
furono usurpate prima della nascita del tempo
prima dell’apertura delle ere
prima dei pini, e degli alberi d’olivo
E prima che crescesse l’erba.
Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro,
Non da un ceto privilegiato
e mio nonno, era un contadino
né ben cresciuto, né ben nato!
Mi ha insegnato l’orgoglio del sole
Prima di insegnarmi a leggere,
e la mia casa è come la guardiola di un sorvegliante
fatta di vimini e paglia:
siete soddisfatti del mio stato?
Ho un nome senza titolo!
Ricordate!
Sono un arabo.
E voi avete rubato gli orti dei miei antenati
E la terra che coltivavo
Insieme ai miei figli,
Senza lasciarci nulla
se non queste rocce,
E lo Stato prenderà anche queste,
Come si mormora.
Perciò!
Segnatelo in cima alla vostra prima pagina:
Non odio la gente
Né ho mai abusato di alcuno
ma se divento affamato
La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.
Prestate attenzione!
Prestate attenzione!
Alla mia collera
Ed alla mia fame!
PROFUGO
Hanno incatenato la sua bocca
e legato le sue mani alla pietra dei morti.
Hanno detto: “Assassino!”,
gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere
e lo hanno gettato nella cella dei morti.
Hanno detto: “Ladro!”,
lo hanno rifiutato in tutti i porti,
hanno portato via il suo piccolo amore,
poi hanno detto: “Profugo!”.
Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effimera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando
riempiranno la valle di grano.
UNA LEZIONE DI KAMASUTRA
Con la coppa incastonata d’azzurro
aspettala
vicino alla fontana della sera e ai fiori di caprifoglio,
aspettala
con la pazienza del cavallo sellato,
aspettala
con il buon gusto del principe raffinato e bello
aspettala
con sette cuscini pieni di nuvole leggere,
aspettala
con il foco dell’incenso femminile dappertutto
aspettala
con il profumo maschile di sandalo sui dorsi dei cavalli,
aspettala.
E non spazientirti. Se arriva in ritardo
aspettala,
se arriva in anticipo
aspettala
e non spaventare gli uccelli sulle sue trecce,
e aspettala
chè si sieda rilassata come un giardino in fiore,
e aspettala
chè respiri un’aria estranea al suo cuore,
e aspettala
fino a che non sollevi il suo vestito scoprendo le gambe
nuvola dopo nuvola,
e aspettala
e portala su un balcone per vedere una luna annegata nel latte,
e aspettala
e offrile l’acqua prima del vino e non
guardare il paio di pernici che le dormono sul petto,
e aspettala
e accarezza lentamente la sua mano
quando poggia la coppa sul marmo
come se sollevassi la rugiada per lei,
e aspettala
e parlale come il flauto
alla coda spaventata del violino,
come due testimoni di ciò che il domani vi prepara,
e aspettala
e leviga la sua notte anello dopo anello,
e aspettala
fino a che la notte non ti dica:
Al mondo siete rimasti soltanto voi due.
Allora portala dolcemente alla tua morte desiderata
I suoi libri sono stati tradotti in più di venti lingue e diffusi in tutto il mondo. Solo una minima parte della sua produzione letteraria è stata tradotta in italiano.[2]
Biografia
Mahmoud Darwish (Maḥmūd Darwīsh) nacque nel 1941 nel villaggio di al-Birwa, situato in Alta Galilea a est della città di Akko (Acri). Il suo villaggio natale fu distrutto nel corso del conflitto arabo-israeliano del 1948, e dichiarato unilateralmente zona militare inaccessibile nel 1951.[3] Nel 1948 – durante il primo conflitto arabo-israeliano – i genitori di Mahmoud per sfuggire ai rischi della guerra cercarono rifugio in Libano con il resto della popolazione, ma furono tra i pochissimi che riuscirono a rientrare nel loro paese, illegalmente, dopo appena un anno. Nel frattempo però la loro terra d’origine era diventata parte dello stato di Israele e i loro beni erano stati confiscati. In questa condizione fin da bambino Darwish si trovò nello status legale di “alieno”, cittadino che risiede come “ospite illegale”.
Da giovane fu arrestato e condannato più volte a pene detentive, per la sua presenza in Israele senza permesso e per aver recitato poesie sovversive in pubblico. Studiò peraltro la lingua ebraica israeliana. Cominciò l’attività pubblicistica a diciannove anni, iscritto all’università non ebbe la possibilità di laurearsi a causa delle interruzioni degli studi nei periodi trascorsi in prigione, anche se in Unione Sovietica, a Mosca, si costruì nel 1971 una solida preparazione linguistico-letteraria. Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Uccelli senza Ali, a diciannove anni nel 1960. L’opera che lo rese famoso, “Foglie D’Ulivo“, fu pubblicata nel 1964. È un’opera che trasfigura in quadri di forte impatto l’identità nazionale palestinese. Divennero famose alcune poesie che raccontano la condizione dolorosa e folle dell’esilio. La carriera poetica di Mahmoud Darwish, dall’epoca della prima pubblicazione, mantiene legami ideali con la lotta armata del popolo palestinese per il ritorno alla sua terra (l’attività dei gruppi armati cominciò anch’essa nel 1964). La poesia di Darwish assumeva un ruolo di riferimento collettivo per la causa palestinese.
Fu direttore del quotidiano locale “Ittiḥād” (Unità) fino al 1970. In quell’anno abbandonò definitivamente la Palestina/Israele per un periodo di studio in Unione Sovietica. Da allora trascorse la sua vita risiedendo per periodi diversi nelle principali città del mondo arabo: Il Cairo, Beirut, Tunisi, Amman. A Beirut diresse un mensile palestinese (Shuʿūn Filasṭīniyya, “Affari Palestinesi”), quindi divenne direttore della rivista letteraria palestinese “al-Karmel”, pubblicata da un dicastero dell’OLP. Visse per un lungo periodo a Beirut fino al 1982, quando la città fu assediata dall’esercito israeliano. Darwish dovette abbandonare il Libano insieme allo Stato Maggiore e al Comitato Esecutivo dell’OLP (l’organo di governo dell’OLP). Dopo un periodo di esilio a Cipro, visse tra Beirut e Parigi. Lavorò anche al Cairo presso il quotidiano nazionale “al-Ahrām”.
La seconda metà degli anni ottanta furono l’epoca del suo maggiore impegno politico. Nel 1987 fu eletto nel Comitato Esecutivo dell’OLP. Sempre nel 1987 Darwish partecipò a Firenze alla rassegna “Poeti del Mediterraneo per la Pace”, con lo spagnolo Goytisolo, l’italo-jugoslavo Damiani, l’israeliana Ravilovich, il greco Apostolatos, rassegna organizzata dagli enti locali e dalla rivista culturale Collettivo R.
I suoi spostamenti dell’epoca e particolari della sua vita sono in parte segreti (per ragioni di sicurezza ciò valeva per tutti gli esponenti di organizzazioni palestinesi). Darwish era stato una figura politica fin dalla metà degli anni sessanta, quando entrò nel Partito Comunista di Israele. La sua carriera politica si svolse però nell’OLP, di cui divenne uno dei quadri. Al momento della sua elezione nell’organismo decisionale era considerato un rappresentante dell'”ala dura”, la corrente che difendeva maggiormente il principio del diritto al ritorno dei profughi e la “distruzione” dello Stato di Israele. Si dimise dal Comitato Esecutivo sei anni dopo, nel 1993, perché contrario agli accordi di Oslo (accusò Yasser Arafat di eccessiva arrendevolezza nei negoziati).
Solo nel 1996, dopo 26 anni di esilio, ottenne un permesso per visitare la sua famiglia nello stato di Israele. Divenne nuovamente direttore di “al-Karmel” (rifondata nel frattempo) e venne eletto nel Consiglio legislativo palestinese nei Territori occupati.
Mahmoud Darwish è morto all’età di 67 anni a Houston (Texas) il 9 agosto 2008, per le complicanze di un delicato intervento al cuore (già ne aveva subiti nel 1984 e nel 1998)
Mahmoud Darwish è la prima e unica personalità palestinese dopo Arafat alla quale sono stati concessi i funerali di stato.
Per commemorarne la figura, il 5 ottobre 2008 è stata organizzata a Berlino una lettura contemporanea mondiale delle sue poesie.[4]
Opere pubblicate in italiano
Versi di fuoco e di sangue: dei poeti arabi della Resistenza, versione italiana di Issa Naouri (Editrice EAST, 1969), poesie di Mahmoud Darwish e altri poeti palestinesi.
Meno rose, trad. Gianroberto Scarcia e Francesca Rambaldi (Ca’ Foscari, 1997)
Inni universali di pace della Palestina. Elogio dell’ombra alta, trad. Saleh Zaghloul (Jouvence, 2020), con testo arabo a fronte.
La saggezza del condannato a morte e altre poesie, trad. di Tareq Aljabr e Sana Darghmouni, riadattamento dei testi poetici in italiano Emiliano Cribari (Emuse, 2022).
Con la lingua dell’altro, trad. di Francesca Gorgoni (Portatori d’acqua, 2023).
Pensa agli altri, illustrazioni di Sahar Abdallah, introduzione di Simone Sibilio, trad. di Alessandra Amorello (Lorusso, 2023).
Non scusarti per quel che hai fatto, a cura di Sana Darghmouni e Pina Piccolo, premessa di Monica Ruocco (Crocetti, 2024), con testo arabo a fronte.
Vasco Pratolini , scrittore di grande prestigio e insieme di umilissime origini.
Vasco Pratolini Nacque a Firenze, nel 1913, in via de’ Magazzini, uno di quei vecchi quartieri simili a formicai, all’epoca ancora isolati dal contesto del centro storico, brulicanti di operai e artigiani.Il padre era un cameriere e la madre una sartina. Vasco Pratolini rimase orfano a neanche cinque anni di vita, quando la madre morì poco dopo aver dato alla luce il secondo figlio. Questo evento segnò a lungo, negli anni, l’animo dell’autore e si sviluppò nelle pagine di Cronaca familiare.
Quando il padre si risposa, Vasco va a vivere con la nonna materna; si allontana precocemente, suo malgrado, dalle figure genitoriali, per frequentare i coetanei, dediti a scorribande e bravate. L’atmosfera e lo spirito di questo periodo è ben espressa in uno dei suoi racconti più compiuti, Una giornata memorabile, contenuto in Diario sentimentale, del 1947 (Mondadori, 1962 e seguenti).
Imparò a leggere quasi da solo, impratichendosi con le lapidi delle vecchie case fiorentine e le tabelle stradali.
Erano marmi con incise terzine dantesche, una vera folgorazione per un ragazzo del popolo. Leggere Dante divenne un passaggio naturale: dalle note della Commedia si debordava nella Storia, si raggiungevano i biografi, si approfondivano i cronisti e i critici.
In casa del pittore Ottone Rosai ebbe modo di affinare le sue letture: Dickens, London, Dostoevskij, Manzoni e Tozzi.
La passione per la lettura e un forte processo di identificazione con i suoi autori di riferimento («Döblin era ciò che avrei voluto essere. Scambiavo Berlin – Alexanderplatz per Piazza Vittorio a Firenze») lo indussero a scrivere racconti: «Scrivevo racconti congestionati, di sommosse, di grandi prostitute, e così via, mettendoci dentro tutte le cose che conoscevo allo stato embrionale, per averle vissute, o come supponevo di viverle, e attraverso una fantasia piuttosto esaltata».
Pratolini si accorse ben presto di mancare di una struttura, di una formazione scolastica, perciò di giorno fece i lavori più diversi, dal vice portiere in un albergo al tipografo, o il rappresentante di commercio, e la sera si mise a studiare con metodo, fino a diplomarsi in lingua francese. In seguito frequentò sporadicamente l’Università, come uditore.
Si manteneva – e nel frattempo stava facendo la sua gavetta di scrittore – compilando tesi di laurea per studenti pigri.
Era una vita intensa e stressante, senza riposo, e finì per minare il suo stato di salute, tanto che nel 1935 venne dato per spacciato, a causa di una malattia polmonare.
Si ricoverò di sua volontà a Villa Bellaria, ad Arco di Trento. Il luogo era placido e suggestivo, circondato dalle montagne e con un lago; vi era nato il pittore Segantini, un grande dell’Ottocento. A villa Bellaria, Vasco vive una vita tranquilla, scandita da lunghe passeggiate e da letture ordinate i cui frutti si concretizzeranno nelle sue prime produzioni.
È importante sottolineare quanto Pratolini fosse un carattere fiero e impulsivo.
La sua spavalderia e tutti i suoi atteggiamenti irruenti e dispersivi si ridimensionano, ad Arco, a contatto con la sofferenza e la pacatezza del luogo, che favorisce anche un ripensamento della sua infanzia.
Dimesso da villa Bellaria, rientra a Firenze e incappa in uno degli incontri più cruciali della sua vita, quello con Elio Vittorini.
Fu Vittorini a cercarlo, come spiega lui stesso raccontandosi a Ferdinando Camon.
Vittorini aveva un fiuto per il talento e introduce Pratolini nel mondo letterario.
Dal 1935 al 1938 il nostro diviene redattore, con lo stesso Vittorini e Romano Bilenchi, del periodico «Il Bargello», organo della Federazione dei Fasci di Combattimento di Firenze.
Gli articoli della rivista erano ispirati a una partecipe ma confusa interpretazione populista e rivoluzionaria del fascismo.
Il sodalizio fra i tre autori si rinforzò, prodigo di idee letterarie e politiche che forgiarono il giovane Pratolini.
A seguito della guerra di Spagna i giovani più critici e sensibili cominciarono ad aprire gli occhi sulle nefandezze del regime: «Ad esser fascisti di sinistra come noi, s’era nell’imbroglio. La Spagna chiarì che eravamo contro gli operai e la cultura, ci percosse come una realtà fisica. Non fu la via di Damasco, ma la controprova dei nostri dubbi». Furono anni di persecuzione degli agitatori socialisti e comunisti; ogni incontro o intesa con le masse popolari era soffocato sul nascere dal regime, e l’anelito alla democrazia era espresso da una parte della borghesia ancora vitale ma incapace di organizzarsi, arroccata nella speculazione letteraria.
Nel 1938 Pratolini ebbe un secondo incontro decisivo nella sua vita, quello con Alfonso Gatto, arrivato a Firenze dopo la persecuzione subita a Milano.
Con Gatto, Pratolini fonda la rivista «Campo di Marte», dove ha modo di rinsaldare le sue convinzioni politiche e maturare la sua vocazione letteraria, con interventi filosofici, con recensioni, corsivi e diari.
All’inizio degli anni ’40 si trasferisce a Roma, dove per qualche tempo lavora al Ministero per l’Educazione Nazionale, nell’ufficio per l’arte contemporanea, accanto a compagni di lavoro come Manlio Cancogni e Antonio Giolitti.
Le sue mansioni dovevano essere mortificanti, e l’ambiente squallido, nonostante il nome altisonante.
Pratolini cercava di leggere e studiare; trascorreva molte notti insonne, a scrivere.
Lo scrittore esordisce con una silloge di racconti, Il tappeto verde (1941, ristampata nel 1981), dove compaiono le figure della madre, della nonna, di suo padre e della matrigna, ma anche i compagni di gioco e di risse, a recuperare un’infanzia ferita. Anche il suo secondo libro, Via de’ magazzini (1941) è imperniato sulla sua vicenda personale e tratta della sua infanzia e della scoperta del mondo, della convivenza non gradita con la matrigna Matilde, della morte del nonno e del ricordo trasognato e struggente della madre perduta.
Seguiranno Le amiche, del 1943, una raccolta di racconti che altro non sono che ritratti di ragazze, più o meno amate, ricordate con fervore e passione dalla voce narrante.
In La prima avventura, uno dei racconti, il giovane fugge di casa e procede nella sua scoperta della notte, immerso in una Firenze lunare: il duomo bianco, l’incontro con una prostituta sul lungofiume e una conversazione nel parco, portandosi dietro una pesante valigia con pochi indumenti, un libro di Dostoevskij, uno di London e la grammatica francese delle edizioni Sonzogno.
Se nei primi libri gli spunti narrativi di Pratolini sono per lo più dettati dalla quotidianità e dalla rievocazione autobiografica, con Il quartiere (1943) si ampliano le tematiche: fanno capolino il motivo dell’amicizia, della solidarietà e dell’amore come un sentimento che richiede impegno, altruismo e pazienza.
Il “quartiere” diviene il punto di convergenza di tutte le attività umane; il romanzo è un evento corale e un’esaltazione lirica ed eroica della sofferenza in tempo di guerra.
Pratolini ha la capacità di ordire le sue narrazioni in tempi brevissimi, e anche il libro successivo, Cronaca familiare (1947), viene imbastito in poco più di una settimana.
In una nota anteposta al romanzo l’autore stesso avverte che non si tratta di un’opera di fantasia ma del suo colloquio con il fratello morto, per depurarsi l’animo, in una sorta di catarsi, riavvicinandosi al fratello (causa della morte prematura della madre) in punto di morte, cercando motivi di condivisione laddove, negli anni, lo aveva percepito così remoto e diverso da sé.
In contemporanea lavora a Cronache di poveri amanti, dove la necessità interiore è quella di rappresentare la vita nel dettaglio, vissuta ora per ora, del popolo fiorentino tra il 1925 e il 1926.
Il romanzo si apre con una visione d’insieme di via del Corno; di primo mattino escono sulla scena Ugo, Maciste il maniscalco, Osvaldo Liverani, rappresentante di commercio, Peppino e Antonio terrazziere.
E questo è solo l’inizio di una galleria di personaggi che viene arricchendosi pagina dopo pagina.
La politica entra con prepotenza nel romanzo: Ugo riferisce a Maciste che ci sarà una spedizione punitiva; i fascisti hanno organizzato dei tribunali rivoluzionari e molti popolani ne faranno le spese, nel sonno.
Maciste parte con la moto per avvertire gli sventurati e la sua corsa diverrà uno degli episodi più alti per stile e scrittura sui quali si impernia il libro.
I migliori di via del Corno cadono sotto i colpi fascisti, la strada è una scena fissa, una rappresentazione che brilla per i dialoghi, per la stratificazione degli episodi e per un’epoca che fluisce per mezzo loro.
La partecipazione di Pratolini alla Resistenza fu il bisogno spontaneo e sincero di essere il cronista di un evento irripetibile.
La sua presenza di autore, dopo il riconoscimento del premio Libera Stampa conferito a Cronache di poveri amanti, si avvicenda a quella di collaboratore della stampa di sinistra: da «Milano Sera» al «Nuovo Corriere» (diretto dal suo vecchio amico Bilenchi) a «Paese Sera».
Il libro successivo, Un eroe del nostro tempo (1949) è, con tutta probabilità, uno dei suoi libri meno convincenti.
Racconta la storia di una giovane vedova, Virginia, che ha subito un’educazione autoritaria e repressiva. La donna si trasferisce in un quartiere di Firenze dove non conosce nessuno e, data la sua vulnerabilità, diviene la facile preda di Sandrino, un fascista sedicenne che abita con la madre in un appartamento stipato di sfollati. Sandrino circuisce la donna, ne diviene l’amante e poi fugge a Milano con tutti i suoi averi, per costituire un gruppo di azione fascista.
Quando rientra a casa, dopo varie peripezie, Virginia gli rivela di aspettare un figlio suo.
Il finale è una spirale di violenza; l’autore sviscera il male e condanna chi fa violenza a se stesso e agli altri.
Alberto Asor Rosa bolla il romanzo come una prova di mestiere che deriva da un’elaborazione esterna, da Moravia e gli americani. Siamo negli anni di piena affermazione del neorealismo, corrente alla quale Pratolini fu molto vicino e che pensava potesse portare a una presa di coscienza storico-collettiva.
Le ragazze di San Frediano (1952) è invece improntato a un registro burlesco, una sorta di balletto di ragazze attorno alla figura di un dongiovanni, Bob, prima conteso da tutte e in seguito esposto al pubblico ludibrio della contrada, mortificato in quegli attributi per i quali era stato in un primo tempo tanto ricercato.
Tutto il racconto sembra convergere, fin dall’inizio, sulla punizione da impartire al Bob «dalle belle ciglia».
Ogni incontro, dialogo e appuntamento del libro non fanno che progredire verso l’esplosione di collera, rancori e gelosie ma anche di gioia liberatrice ch’è la vendetta delle ragazze.
Ma Pratolini non riesce a essere spietato con gli ultimi, e anche se Bob è stato l’emblema della vergogna, in una pagina finale un po’ sbrigativa, dopo il sospetto di impotenza, vi è il perdono e la riabilitazione da parte di tutto il quartiere.
Della vasta e successiva produzione pratoliniana va senza dubbio ricordata la trilogia di Una storia italiana, iniziata con Metello (1955), col quale l’autore vinse il premio Viareggio.
L’idea era di programmare quello che lo stesso Pratolini definì «uno specchio in tre tempi della storia dell’uomo. […] di fare un lungo esame di coscienza a partire dal 1875 ed arrivare a oggi […]».
Metello Salani è un orfano allevato da contadini, che si trasferisce ancor ragazzo a Firenze, per trovare lavoro.
Nonostante l’intento programmatico dell’opera il romanzo è colmo di pagine felici e convincenti. La presa di coscienza del giovane Metello, come lavoratore e come militante nelle fila del partito operaio, è la storia di Pratolini, scrittore di umile estrazione, autodidatta, che si riscatta con fatica e con perseveranza dalla miseria.
Del secondo romanzo,Lo scialo (1960), colpiscono la lunghezza e lo sfilacciamento degli episodi e dei micro-temi che reggono la narrazione. «La vita è questo scialo di triti fatti» scrive Montale, e Pratolini lo erige a titolo di un racconto che vuole essere un affresco globale dell’ingiustizia della vita, del male e della corruzione che imperversava in particolare nella piccola borghesia italiana arrivista e amorale tra il 1919 e il 1926.
Il testo è costituito da un alternarsi di monologo interiore e di forma diaristica; gli scioperi al Pignone e l’ambiente rurale sono invece descritti in uno stile più tradizionale.
Il libro successivo, La costanza della ragione (1963), sospende il ciclo dei tre libri sulla “storia italiana”, e nelle dichiarazioni dello scrittore appare come un romanzo anticipato, una risposta agli interrogativi rimasti aperti sulle pagine dei due libri precedenti.
Il titolo deriva dalla Vita Nova dantesca, ed è una storia di giovani e della loro scoperta delle virtù e delle colpe dei padri, sulla scorta del recupero di un passato condiviso, dove si definisce per gradi la realtà contemporanea al momento della stesura, che ha per fondale Firenze. I fatti privati si stagliano sulle prospettive aperte a un possibile futuro anche sociale, di lavoro e di affetti.
C’è un riavvicinamento ai temi di Cronaca familiare e Il quartiere, ma mentre là c’era la reticenza e il pudore delle emozioni e dei sentimenti, qui trabocca la carica ideologica.
Le oltre 600 pagine di Allegoria e derisione (1966), il “terzo capitolo” di Una storia italiana, sono ancora all’insegna della memoria: Valerio, il protagonista, assomiglia a Vasco Pratolini ancor più del suo omonimo di Via de’ Magazzini e de Il quartiere. I riferimenti autobiografici sono davvero molti, e vi prevale l’indagine della realtà, sopra ogni accento sentimentale e lirico.
Allegoria e derisione è la storia di un intellettuale e delle sue traversie esistenziali per affermarsi come uno scrittore di prestigio. In una tavolozza variegata di registri e tecniche narrative, che comprendono l’apologo, le epistole, il diario e il monologo interiore sono diversi i passaggi improntati a una critica polemica della controversia sorta tra le due guerre a proposito dell’impegno in letteratura.
Pur inviso a una certa fazione della critica di professione, che non ha mancato di puntualizzarne gli aspetti più pretestuosi e ideologici, la maggior parte dei recensori concordò, fin dall’apparire delle prime opere, che la prosa più valida di Pratolini fosse quella ancorata al mondo noto e familiare dell’autore.
La realtà del quartiere è una realtà cruda, di continuo rielaborata e filtrata, ma non è il singolo a essere colpevole: i deboli, coloro che sbagliano, sono travolti dagli eventi della Storia e vengono sempre giustificati con una superiore pietas, attraverso l’indagine psicologica e d’ambiente.
La memoria che scava nel privato non è mai, in Pratolini, un’operazione sterile, bensì una sincera passione che travalica il particolare per divenire ricerca del passato e condizione della società.
In questo Vasco Pratolini, a 30 anni dalla scomparsa, rimane un pregiato cantore della cronaca del quotidiano, degli episodi famigliari e dei fantasmi dell’auto- finzione.
Se l’Italia cestina i suoi poeti: il caso Piero Bigongiari
Proprio così. In questo Paese i poeti, come Piero Bigongiari, all’improvviso, affogano nelle sabbie mobili. Senza mobilitazioni popolari, i poeti scompaiono dall’orizzonte editoriale, e chi se li ricorda più. Uno dopo l’altro, assistiamo a una lenta, inesorabile, macelleria dei nostri ‘grandi’. Questa volta a soffocare in soffitta è finito Piero Bigongiari. Morto a Firenze il 7 ottobre del 1997, nessun giornale ‘nazionale’ ha rammentato i vent’anni dalla scomparsa di “uno dei più grandi poeti del Novecento” (così la didascalia di uno dei suoi libri, afferrato a casaccio). Insomma, hanno scavato la fossa a Bigongiari e non lo tirano fuori nemmeno per far finta di onorare la ricorrenza. Peccato. Peccato perché Bigongiari è stato un grande poeta, certo, ma soprattutto un poeta anomalo, inquieto, proteiforme. Nato a Navacchio, in provincia di Pisa, Bigongiari fa l’Università a Firenze, dove fa amicizia con i grandi di allora, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Tommaso Landolfi. Esordio poetico nel 1942, con La figlia di Babilonia, subito eletto, insieme a Mario Luzi, il più talentuoso e risolto tra gli ‘ermetici’, Bigongiari ha scritto tanto, ha tradotto tanto, è stato un raffinato prof e un acuto studioso di cose d’arte. La sua arguta generosità ha sedotto una generazione: Roberto Carifi, Paolo Roberto Iacuzzi e Alessandro Ceni sono, diversamente, suoi allievi. Già, ma dove lo leggiamo, oggi, Bigongiari, poeta sempre in cerca di sé, audacemente filosofo, impenitente narratore? Non possiamo leggerlo, semplice. La raccolta Dove finiscono le tracce (1958-1996) edita da Le Lettere si trova in biblioteca, idem per le poesie ultime, raccolte come Il silenzio del poema (Marietti, 2003). Il resto, è disperso in piccoli editori, per piccole, amorevoli, iniziative. Di fatto, di Bigongiari, uno dei grandi poeti del secolo, oggi, vent’anni dopo, in libreria, c’è nulla. Figuriamoci allestire un ‘Meridiano’ Mondadori – l’han fatto a Eugenio Scalfari e ad Andrea ‘Montalbano’ Camilleri – a chi importa della parola poetica, l’unica importante? Per capire la grana lirica di questo poeta immenso cercate qualcosa in rete. Una poesia tra le più belle si chiama Daffodils, è tra le ultime, scritte nel gennaio del 1997. Per Bigongiari la poesia è un diario perpetuo, è dissezionare il mondo con il bisturi della propria anima.
I cammini del senso sono strani
deviano spesso misericordiosi
in altri, e vani, i suoi significati,
daffodils chiamammo per il resto
del viaggio il mistero oculare
di una felicità che non ha nome
se non nella più ampia identità
sfuggente a ogni sguardo. Tu ricordi
come si chiama ciò che non si sa?
E il tuo sorriso rispondeva: Daffo-
dils, mi pare daffodils. Forse
fu quella la definizione più
precisa, che incisa su un sorriso,
pietrificò l’enigma e lo smentì
in uno scoppio improvviso di risa.
Questa è una stanza di Daffodils. I daffodils sono una variante del narciso, che il poeta scopre a South Kensington. Il riferimento letterario dotto (“seppi che ne aveva parlato anche Wordsworth”) aumenta, chissà, il sentore di enigma. Il fiore, ad ogni modo, diventa figura di ciò che è inesprimibile. E la poesia è di una bellezza che dobbiamo solo tatuarcela nel cuore.
Quest’anno, poi, inoltre, scocca un altro anniversario che riguarda Bigongiari. Settant’anni fa, nel 1947, Bigongiari ospita nella sua casa fiorentina Dylan Thomas, il poeta gallese che è già leggenda – e che per fortuna nostra viene ancora pubblicato e letto. In Dylan Thomas (biografia tradotta in italiano nel 2008 per Mattioli) Paul Ferris ricostruisce il viaggio italiano del poeta – naturalmente, per eccesso di anglocentrismo, dimenticando di citare Bigongiari. “I Thomas si recarono in Italia in aprile”: prima attraccano a San Michele di Pagana, nei pressi di Rapallo, meta prediletta di Ezra Pound e di William B. Yeats, poi arrivano a Firenze, patria dell’intelligenza italiana. Bigongiari porta Thomas, che ha già pubblicato le poesie più belle, alle Giubbe Rosse, mitico bar fiorentino. Da lì il gallese verga una delle sue lettera strappalacrime indirizzate alla moglie (giocavano, entrambi, a fare i fedifraghi): “Caitlin mia cara, cara, cara: ti scrivo questa inutile lettera a un tavolino delle Giubbe Rosse dove, dopo averti vista salire su un tram, mi sono recato, più triste di chiunque al mondo, a sedermi ad aspettare. Posso solo dire che ti amo come non mai; questo significa che ti amo per sempre, con tutto il cuore e tutta l’anima, ma questa volta come un uomo che ti ha perso”. Thomas rimpiangeva la nebbia di Londra, le praterie gallesi, i bar d’Albione. “Qualche volta andava in centro a Firenze a passare una serata nei caffè. Attorno si radunavano gli intellettuali. Thomas fissava il vuoto e si addormentava. Una fonte attendibile racconta che una volta si nascose nel guardaroba per evitare di incontrare uno scrittore italiano venuto a fargli visita”. Solo Bigongiari era ammesso nell’arco rapido dell’amicizia di Dylan Thomas. Bigongiari andò in brodo per Thomas, che influì sulla sua ricerca poetica, fatta di divagazioni liriche, di esplosioni linguistiche. Lo tradusse, pure. Una delle poesie più celebrate di Thomas, And death shall have no dominion, diventa, “E morte non regnerà/ E morte non regnerà./ I morti nudi saranno una cosa sola/ Con l’uomo nel vento e la luna occidentale”. Magnifico. Il dialogo tra i vivi e i morti è continuo, una fioriera di sorprese. Invece, in Italia, ci ostiniamo a dimenticare i nostri grandi, una volta ficcati nella bara. Sia lode, ora, a Bigongiari.
È considerato uno degli autori che furono alla base dell'”avanguardia non codificata”, come lui stesso definiva l’ermetismo.[1] Con i poeti Luzi e Parronchi costituì quella che Carlo Bo definì la “triade dei poeti ermetici toscani”.[2] Come esponente austero e rigoroso dell’ermetismo purista, ne accentuò la tendenza metafisica con una trattazione predominante del tema dell’assenza, accompagnata da un forte anelito religioso.[3] In un secondo tempo, indicativamente dai primi anni settanta, la sua poesia raggiunse maggiore consapevolezza ed equilibrio tra il richiamo della realtà e la sua trasfigurazione simbolica.[1]
La giovinezza
Piero Bigongiari nacque il 15 ottobre 1914 a Navacchio, in provincia di Pisa, dove la sua famiglia si era trasferita nel 1911 da Livorno. Era il quarto dei cinque figli di Alfredo Bigongiari, ferroviere, e di Elvira Noccioli.[4]
A Pistoia conobbe Roberto Carifi: vivevano a pochi metri di distanza ed ebbero importanti momenti di scambio intellettuale.
Nel 1936 si laureò con il professor Attilio Momigliano, discutendo una tesi su Leopardi, “L’elaborazione della lirica leopardiana”, pubblicata pochi mesi dopo dall’editore Le Monnier.
Nel 1941 Bigongiari sposò Donatella Carena, figlia del pittore Felice Carena, e si trasferì a Firenze, in Piazza dei Cavalleggeri 2, zona Santa Croce, dove vivrà fino alla morte. Ebbero un figlio, Lorenzo, ma il matrimonio naufragò quasi subito e si arrivò addirittura alla dichiarazione di nullità.[4]
Nel 1942 pubblicò il suo primo volume di poesie, “La figlia di Babilonia”. Nello stesso anno ebbe inizio la sua amicizia con Giuseppe Ungaretti, solitamente considerato l’ispiratore e il primo vero poeta dell’ermetismo.
Nel 1948 conobbe Elena Ajazzi Mancini, la donna che diventerà la sua seconda moglie e dalla quale avrà un secondo figlio, Luca, nato nel 1952. Con Elena il poeta condivise, fino agli ultimi giorni, l’esistenza, le amicizie e le passioni, soprattutto quelle per l’arte (in particolare per il “Seicento fiorentino”, di cui furono grandi collezionisti e di cui Bigongiari fu anche esperto critico) e per la cultura francese.[4]
Negli anni cinquanta iniziò la collaborazione ai programmi radiofonici della RAI“L’Approdo” e “L’Approdo letterario” e, su invito dell’amico Romano Bilenchi, iniziò a fornire il suo contributo ai quotidiani Il Nuovo Corriere e, in un secondo momento, La Nazione. Nel 1951 iniziò la traduzione e la cura dell’opera completa di Joseph Conrad (che completerà nel 1966, in ventiquattro volumi) e diventò redattore della rivista Paragone, appena fondata dallo storico dell’arte Roberto Longhi (incarico che manterrà per circa dieci anni e che abbandonerà nel 1960 in polemica con Giorgio Bassani[4]).
Benché si definisse «un sedentario che si sposta»[10], Bigongiari, soprattutto nei primi anni cinquanta, compì una serie di viaggi in Francia e in Medio Oriente, e lunghi soggiorni in Grecia e in Egitto con l’amico Giovanni Battista Angioletti, e con il giornalista Sergio Zavoli, traendone suggestivi reportage, poi pubblicati con i titoli “Testimone in Grecia” (1954) e “Testimone in Egitto” (1958).[10] Nel 1952 uscì il suo secondo libro di versi “Rogo”, seguito tre anni dopo da “Il corvo bianco” (1955) e, dopo altri tre anni, da “Le mura di Pistoia” (1958). Sulla rivista La Palatina comparve il suo primo importante saggio d’arte contemporanea, su Jackson Pollock.
La maturità e l’ultimo periodo
Nel 1965 vinse il concorso per la cattedra universitaria in Letteratura italiana moderna e contemporanea e cominciò a insegnare alla Facoltà di Magistero dell’Università di Firenze, incarico che mantenne fino al 1989. Nel 1977 dette vita alla rivista di “studi e testi” Paradigma, pubblicata internamente alla Facoltà di Magistero, chiamando a collaborarvi i suoi assistenti e allievi dell’Istituto di Letteratura italiana moderna e contemporanea.[4]
Dal punto di vista dell’attività letteraria, il periodo che va dai primi anni sessanta fino alla sua morte, vide Bigongiari impegnato in un’incessante ed eterogenea produzione, che mette in luce la molteplicità dei suoi interessi e la sua versatilità.
Tra le principali opere poetiche di questo periodo si segnalano le raccolte “La torre di Arnolfo” (1964), “Antimateria” (1972), “Moses” (1979), “Col dito in terra” (1986), “Diario americano” (1987), “Nel delta del poema” (1989), “La legge e la leggenda” (1992). Nel 1985 pubblicò anche la selezione antologica “Autoritratto poetico”.[7] Nel 1994, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi fu pubblicato il primo volume (poesie del 1933–1963) della raccolta antologica‘Tutte le poesie’ , ed insieme la raccolta inedita degli anni 1933-1942, con il titolo “L’arca”. Come ultime opere poetiche di Bigongiari sono da considerare le due raccolte “Dove finiscono le tracce” e “Nel giardino di Armida” (entrambe uscite nel 1996).
fu sempre affiancata da quella di traduttore, che riguardò testi di Rainer Maria Rilke, dei francesi René Char e Francis Ponge (“Poesia francese del Novecento”, 1968), oltre ai già citati Joseph Conrad e Dylan Thomas. Fu anche autore di importanti studi critici, tra i quali “Poesia italiana del Novecento” (1960), “Leopardi” (1962), in cui riunì tutti i suoi saggi scritti fino a quel momento sul poeta di Recanati, “La poesia come funzione simbolica del linguaggio” (1972), “Visibile invisibile” (1985) e “L’evento immobile” (1987).[4]
Collezionista e studioso di pittura, nel 1975 pubblicò il testo d’arte “Il Seicento fiorentino”. I suoi numerosi saggi brevi su temi artistici furono riuniti nel 1980 in “Dal Barocco all’Informale”, che è la testimonianza del suo costante interesse per la pittura contemporanea (da Paul Klee a Giorgio Morandi, da Max Ernst a Ennio Morlotti, da Jackson Pollock a Balthus).[4]
La vedova Elena Ajazzi Mancini donò, con lascito testamentario alla sua morte, la biblioteca (oltre 6.000 volumi) alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia, dove la maggior parte dei volumi sono conservati in una saletta intitolata al poeta.[12][13]
Sempre a Pistoia, presso i Musei dell’Antico Palazzo dei Vescovi,[14] è conservata la collezione dei quadri del Seicento Fiorentino, messa insieme negli anni dai coniugi Bigongiari e acquisita dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia alla morte della signora Ajazzi Mancini.
«Con la sua parola calma, discreta, impastata in quel silenzio da dove provengono le parole vere, Bigongiari raccontava la sua poesia. Poche esperienze poetiche e di pensiero di questo secolo sembrano al pari di quella di Bigongiari, la parola donata nella comune memoria del Bene. Un cammino in cui la poesia, nota che accomuna maestro e discepolo, è un luogo dove nessuno sarà mai a tal punto straniero da non potervi trovare l’accoglienza.»
Archivio
Il fondo Piero Bigongiari[16] è stato donato nel 2007 alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia in base alle disposizioni testamentarie di Elena Ajazzi Mancini, vedova di Piero Bigongiari. Il versamento è stato curato da Paolo Fabrizio Iacuzzi, curatore delle opere di Bigongiari, che si è occupato anche dell’ordinamento del fondo e ha redatto un Inventario topografico. L’archivio contiene materiale relativo a Bigongiari poeta, traduttore e narratore, traduttore e scrittore: autografi, dattiloscritti, minute, materiali preparatori, bozze manoscritte e dattiloscritte, fogli volanti, pubblicazioni in riviste ed opuscoli, suddivisi a seconda dei libri pubblicati e in cartolari cronologici di inediti dal 1972 al 1997.
Opere
Poesie
La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1942
Rogo, Ed. della Meridiana, Milano, 1952
Il corvo bianco, Ed. della Meridiana, Milano, 1955
Le mura di Pistoia (1955-1958), Mondadori, Milano, 1958
Il caso e il caos, Ediz. Salentina, Lecce, 1960
Antimateria, Mondadori, Milano, 1972
Moses, Mondadori, Milano, 1979
Autoritratto poetico, Sansoni, Firenze, 1985
Col dito in terra, Mondadori, Milano, 1986
Diario americano, Amadeus, Montebelluna, 1987
Nel delta del poema, Mondadori, Milano, 1989
La legge e la leggenda, Mondadori, Milano, 1992
L’arca, Le Lettere, Firenze, 1994
Dove finiscono le tracce (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996
Nel giardino di Armida, Le Lettere, Firenze, 1996
Tra splendore e incandescenza, Pezzini Editore, Viareggio 1996
Saggi
L’elaborazione della lirica leopardiana, Le Monnier, Firenze, 1937
Il senso della lirica italiana e altri studi, Sansoni, Firenze, 1952
Poesia italiana del Novecento, Vallecchi, Firenze, 1960
Leopardi, Vallecchi, Firenze, 1962
Torre di Arnolfo, Mondadori, Milano, 1964
Capitoli di una storia della poesia italiana, Ediz. Felice Le Monnier, Firenze, 1968
La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano, 1972
Andrea Zucchinali-Jacques-André Boiffard. Storia di un occhio fotografico
Premessa di Elio Grazioli-Editore Quodlibet srl
Il libro-Fotografo eclettico e surrealista della prima ora, Jacques-André Boiffard (1902-1961) è una figura inafferrabile e affascinante, rimasta sinora nella penombra nonostante il ruolo significativo svolto nella storia delle avanguardie. Solo dal 2011, grazie alla collezione che Christian Bouqueret ha donato al Centre Pompidou, è possibile avere una visione d’insieme della sua opera di cui questo volume si propone di tracciare le tappe fondamentali. Dall’apprendistato presso l’atelier di Man Ray alle enigmatiche fotografie di Parigi scattate per Nadja di André Breton, dalle perturbanti immagini realizzate per «Documents» sotto la guida di Georges Bataille alle collaborazioni con Man Ray, Jacques Prévert e Lou Tchimoukow, questo libro, che esce in concomitanza con la prima mostra fotografica interamente dedicata a Boiffard dal Centre Pompidou di Parigi, è il primo a fornire, oltre alla biografia, l’analisi di un percorso artistico che si pone come la «storia di un occhio» in grado di interpretare visivamente la complessa esperienza surrealista.
In copertina Jacques-André Boiffard, Renée Jacobi, «Documents», n. 8, 1930, dettaglio.
Volume disponibile anche in versione elettronica. Acquista su: torrossa.it
L’autore-Andrea Zucchinali
Andrea Zucchinali, studioso del Surrealismo, con questo volume su Jacques-André Boiffard porta a termine un lavoro di ricerca svolto presso l’Università degli Studi di Bergamo.
Recensione Una delle migliori intuizioni di Susan Sontag sulla fotografia è certamente quella sul connaturato surrealismo dell’immagine ottica, dovuto alla sua capacità di creare una “realtà di secondo grado”. Si tratta però di una scoperta che avevano fatto gli stessi surrealisti, reclutando tra le loro file un fotografo insospettabile come Eugène Atget, che aveva rivelato nelle sue passeggiate parigine una realtà misteriosa nascosta sotto le apparenze. Ma per la curiosa impermeabilità delle discipline umanistiche la fotografia surrealista non ha riscosso, al di là delle rituali attenzioni all'”artista” Man Ray, l’attenzione che meriterebbe per il ruolo da essa svolto nel movimento. Da qualche anno autori come Rosalind Krauss e Georges Didi-Huberman, insieme, sul piano espositivo, al Centre Pompidou, hanno però approfondito la vicenda creativa di Jacques-André Boiffard, giovane ex-studente di medicina, che fece “atto di surrealismo assoluto” fin dalla pubblicazione, nel 1924, del Manifesto di Breton.
Un attento studio sulla vicenda di questo fotografo ricorda oggi anche al pubblico italiano quanto lo studio del surrealismo non possa prescindere dalla “sua” fotografia. Le radicali affermazioni dei surrealisti contro la razionalità in nome del sogno, della poesia, del meraviglioso sembrano in effetti evocare alcune proprietà che la fotografia, sia pur stretta finallora nei vincoli dei generi ottocenteschi, aveva già dimostrato di avere; e tuttavia il nuovo spirito fotografico non ha nulla in comune con l’idea di fotografia e anche con il tirocinio dei fotografi di genere: Man Ray, presso cui Boiffard si forma, non è certo un educatore tipico (“Non posso insegnarvi nulla. Guardate e aiutatemi”). Il giovane apprendista si specializza in ritratti mentre affianca il maestro anche nel suo percorso cinematografico che lo porterà alla definizione di un cinema surrealista (Emak Bakia, 1926, L’étoile de mer, 1928, Les Mystères du Chateau de Dé, 1929). Il passaggio decisivo sarà però la collaborazione con Breton per il suo Nadja (1928), in cui l’esigenza dello scrittore di una narrazione oggettiva (“clinica”) della vicenda e la sua ostilità alla descrizione del romanzo tradizionale trovano nella fotografia una perfetta alleata; ma non solo: le strade deserte di Parigi in cui si svolge la vicenda sono descritte da immagini “banali”, quasi amatoriali, e allo stesso tempo enigmatiche, incapaci di fornire alcuna rivelazione, ma dove è sempre sottesa una dialettica tra ordinario e meraviglioso.
Parte del gruppo, tra cui Boiffard, si allontana da Breton per subire l’influenza di Bataille; per il fotografo sarà l’inizio dell’esperienza nuova e decisiva, dal 1929, alla rivista “Documents”, il cui elemento centrale, il concetto di informe di Bataille (non assenza di forma, ma apertura alla possibilità di forme molteplici), sarà illustrato soprattutto dalle sue straordinarie fotografie: due enormi, sproporzionati, alluci maschili riprodotti a tutta pagina su fondo nero (un rovesciamento dell’estetica del dettaglio che il fotografo proseguirà anche negli anni successivi) accompagnano l’articolo di Bataille sulla polarità tra alto e basso, ma senza “rendere surrealista” l’immagine, semplicemente mostrando il soggetto nella sua realtà; e così i monumenti parigini fotografati per evidenziarne la materialità, la pesantezza; o le maschere grottesche indossate da un uomo in posizioni ordinarie, che vogliono mostrare l’ipocrisia di una società fondata sull’omologazione. Suggerisce l’autore che le immagini di Boiffard non vanno apprezzate per un loro “stile” (sostanzialmente assente), ma per la loro coerenza al progetto complessivo della rivista: sono “catalizzatori di senso”, acquistano forza in relazione all’articolo che accompagnano e a questo danno forza. Banale e insieme inquietante, oggettiva e insieme conturbante, la fotografia surrealista rivela la natura stessa di ogni fotografia; nel 1940 Boiffard conclude gli studi di medicina e abbandona l’arte, fino alla fine della sua vita sarà radiologo, una specializzazione “fotografica” per nulla estranea alla rivelazione surrealista.
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L’Artista Silvano Campeggi ha reso indimenticabili alcuni film di Hollywood
L’Artista Silvano Campeggi (1923-2018)- Nella memoria collettiva che alcuni classici del cinema di Hollywood siano rimasti impressi proprio per l’efficacia della locandina, qui sta l’arte di Silvano Campeggi che ha reso indimenticabili alcuni film di Hollywood.
” Via col vento ” non avrebbe avuto lo stesso pathos senza Clark Gable che bacia Vivien Leigh sullo sfondo di Altanta in fiamme ma questo mostra anche un genere tipico degli illustratori di quel periodo presente in molta stampa italiana, dal Corriere della sera fino a Grand Hotel, ovvero l’enfasi con cui drammi e storie pubbliche venivano presentate, con tutto il carico emotivo privo di ogni leggerezza. Era l’eleganza dell’estremo in cui ogni bacio pareva l’ultimo, ogni abito quello dell’unica occasione della vita, ogni incontro una fatalità ineluttabile.
Uno stile che ha segnato non solo un arte visiva ma un modello di sensazioni di cui ancora subiamo il fascino.
La sua fama è principalmente dovuta alla sua attività di cartellonista per le case di produzione cinematografiche di Hollywood nell’epoca d’oro del cinema (1945/1970): negli Stati Uniti è considerato tra i più importanti artisti grafici nella storia del cinema americano.
Il padre, tipografo e stampatore, introduce il giovane Silvano alla grafica e al design. Campeggi frequenta l’Istituto D’Arte di Porta Romana, a Firenze, e studia con Ottone Rosai e Ardengo Soffici.
Alla fine della Seconda guerra mondiale riceve un incarico dalla Croce Rossa Americana per dipingere alcuni ritratti di soldati prossimi al congedo; in questo modo entra in contatto con la cultura, la musica e il cinema d’oltreoceano.
Dopo la guerra si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con il pittore Orfeo Tamburi e con il cartellonista Luigi Martinati e definisce il suo interesse per la cartellonistica cinematografica. Il suo primo manifesto è del 1946, per il film Aquila nera di Riccardo Freda.
Dopo poco tempo viene contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del manifesto del film Via col vento, al quale seguiranno oltre 3000 lavori, oltre che per la MGM anche per Warner Brothers, Paramount, Universal, Columbia Pictures, United Artists, RKO, Twentieth Century Fox.
Fra i cartelloni più famosi: Casablanca, Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi, West Side Story, La gatta sul tetto che scotta, Vincitori e vinti, Exodus, Colazione da Tiffany.
Molte delle immagini create da Nano per i film più famosi hanno assunto valore iconico e sono immediatamente riconoscibili, come i quattro cavalli bianchi su sfondo rosso di Ben Hur e il volto di Leslie Caron utilizzato come puntino sulla prima lettera I di Gigi (che compare anche sulla copertina dell’album Ummagumma, del Pink Floyd).
Silvano Campeggi
Biografia di Silvano Campeggi-Nato a Firenze nel 1923, frequenta la scuola d’arte come allievo di ottone Rosai e Ardengo Soffici, iniziando poi a lavorare come illustratore di libri e giornali per diverse aziende grafiche.
Trasferitosi a Roma nel dopoguerra, entra nello studio del pittore Orfeo Tamburi e conosce il cartellonista Luigi Martinati, venendo attratto dalla cartellonistica cinematografica. Per la sua abilità nel ritratto e l’inventiva che gli è congeniale, lavora, firmandosi ‘Nano’, per le maggiori case cinematografiche americane come Metro Goldwyn Mayer, Universal, Paramount, Warner Bross, RKO, Dear Film, realizzando più di 3.000 manifesti, tra i quali Via col Vento, Un americano a Parigi, Singin’ in the Rain, West Side Story, Gigì, Ben Hur, Bambi.
Tornato a Firenze negli anni Settanta, realizza per l’Arma dei Carabinieri otto grandi quadri di battaglie del Risorgimento e il ritratto di Salvo d’Acquisto, eroe della Resistenza, che nel 1975 è utilizzato come francobollo commemorativo dalle Poste Italiane. Sempre dagli anni Settanta comincia a trascorrere molta parte dell’anno all’Isola d’Elba, dove fonda una scuola di ceramica per i giovani elbani. I sassi e le pietre dell’isola diventano protagonisti dei suoi quadri e della natura antropomorfa che essi rappresentano.
La personale fiorentina del 1988, intitolata Il Cinema nei manifesti di Silvano Campeggi, segna l’inizio di una nuova attenzione e valorizzazione dell’attività di Campeggi come autore di manifesti e locandine per il cinema, sancendone definitivamente l’importanza come artista in grado di contribuire alla definizione e costruzione di un immaginario visivo diffuso. Le sue opere sono richieste in tutto il mondo, espone a più riprese in Italia, in Francia e negli Stati Uniti, dove si impone come uno degli artisti più apprezzati nel suo campo (nel 2005 viene premiato dallo Stato del New Jersey e nel 2007 il Lincoln Center di New York gli dedica una nuova mostra monografica).
Nel corso degli anni è coinvolto anche nella creazione di dipinti e opere per eventi e manifestazioni quali il Palio di Siena, la commemorazione della battaglia di Campaldino, il Calcio storico fiorentino, la Corsa del Saracino a Arezzo, fino ai ritratti delle protagoniste pucciniane per la Fondazione Puccini. Nel 2000 riceve dalla Città di Firenze il Fiorino d’oro, e tra dicembre 2017 e gennaio 2018 Palazzo Vecchio ospita l’importante antologica intitolata Nano tra divi e diavoli.
Si spegne a Firenze il 29 agosto 2018. Il suo autoritratto è esposto insieme a quello dei più grandi artisti nel Corridoio Vasariano degli Uffizi, testimonianza di una lunga vita dedicata con amore all’arte.
Firenze ricorda Silvano “Nano” Campeggi. Suoi gli storici manifesti di “Via col vento” e “Colazione da Tiffany”
Articolo di Costanza Baldini-Lunedì 23 gennaio per un giorno la sala d’Arme di Palazzo Vecchio diventerà sede di una mostra con pezzi esclusivi e originali, un evento speciale per celebrare il grande autore di locandine per i film di Hollywood. L’iniziativa per celebrare il Maestro scomparso nel 2018 a cento anni dalla nascita
Il 23 gennaio 1923 nasceva a Firenze Silvano Nano Campeggipittore e insuperabile cartellonista, autore cioè di manifesti che hanno fatto letteralmente la storia del cinema, tra cui: Casablanca, Cantando sotto la pioggia, Via col Vento, Ben Hur, La gatta sul tetto che scotta, Colazione da Tiffany, West Side story, Un americano a Parigi, Exodus, Vincitori e Vinti e molti altri.
Campeggi, scomparso il 29 agosto del 2018, compirebbe 100 anni lunedì 23 gennaio, in questa data Palazzo Vecchio lo vuole ricordare con un evento speciale.
La sala d’Arme diventerà sede per un giorno di una mostra con pezzi esclusivi e originali della collezione della famiglia Campeggi e contenuti multimediali.
Dalle 10 alle 18, saranno esposte le tele dei più importanti cartelloni cinematografici realizzati per Hollywood, mentre sulle pareti un video mapping immersivo realizzato da Art Media Studio ripercorrerà tutta la carriera artistica di ‘Nano’, dall’inizio fino alle ultime opere realizzate.
Oltre alla mostra alle 17 si terrà il ricordo dell’artista alla presenza della vicesindaca Alessia Bettini, del presidente della Regione Toscana Eugenio Giani, di Elena Campeggi, moglie di ‘Nano’, di Riccardo Nencini, scrittore e politico, di Cristina Acidini, presidente dell’Accademia delle arti e del disegno e Matteo Cichero organizzatore dell’evento. L’iniziativa, ad ingresso libero, è stata promossa dall’associazione Fuori scena e fatta propria dall’amministrazione comunale.
L’avventura nel cinema di Nano Campeggi
Negli Stati Uniti Nano Campeggi è considerato tra i più importanti artisti grafici nella storia del cinema americano.
La sua fama è principalmente dovuta alla sua attività di cartellonista per le case di produzione cinematografiche di Hollywood nell’epoca d’oro del cinema dal 1945 al 1970.
Impara grafica e design dal padre, tipografo e stampatore, poi frequenta l‘Istituto D’Arte di Porta Romana, a Firenze, e studia con Ottone Rosai e Ardengo Soffici.
Alla fine della Seconda guerra mondiale riceve un incarico dalla Croce Rossa Americana per dipingere alcuni ritratti di soldati prossimi al congedo; in questo modo entra in contatto con la cultura, la musica e il cinema d’oltreoceano.
Dopo la guerra si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con il pittore Orfeo Tamburi e con il cartellonista Luigi Martinati e definisce il suo interesse per la cartellonistica cinematografica. Il suo primo manifesto è del 1946, per il film Aquila nera di Riccardo Freda.
Dopo poco tempo viene contattato dalla Metro-Goldwyn-Mayer per la realizzazione del manifesto del film Via col vento, al quale seguiranno oltre 3000 lavori, oltre che per la MGM anche per Warner Brothers, Paramount, Universal, Columbia Pictures, United Artists, RKO, Twentieth Century Fox.
Con la crisi del cinema, Campeggi torna a Firenze, dove prosegue l’attività pittorica. Nel 1997 realizza 35 dipinti ispirati al calcio storico fiorentino, esposti poi in una mostra al Palagio di Parte Guelfa in Firenze e a Lione, in Francia. Nel 2001 realizza il drappellone per il palio dell’Assunta, a Siena.
Nel 2006 disegna la sua ultima locandina per il Peter Pan il Musical opera con le musiche tratte dall’album Sono solo canzonette di Edoardo Bennato, e riarrangiate in versione musical dallo stesso cantautore.
Nel 2008, in occasione del 150º anniversario della nascita di Giacomo Puccini, Campeggi espone a Torre del Lago una serie di ritratti immaginari delle protagoniste dell’opera del compositore, in una mostra dal titolo Puccini e le sue donne.
Nel 2018 gli è stato dedicato un documentario in cui appare per l’ultima volta in pubblico, dal titolo As Time Goes By – L’uomo che disegnava sogni, diretto da Simone Aleandri e prodotto da Clipper Media e Istituto Luce.
È stato presentato alla Festa del cinema di Roma 2018 e ha vinto il Tiburon International Film Festival 2018 come miglior documentario.
Mostra collettiva che affianca artisti emergenti ad altri già affermati-
Roma Capitale-Galerie Nathalie Obadia per Rhinoceros Gallery propone una mostra collettiva che affianca artisti emergenti ad altri già affermati, mettendo in comunicazione ricerche che creano nuove interferenze artistiche.
Nelle sale progettate da Jean Nouvel espongono insieme Seydou Keïta fotografo e ritrattista attivo in Mali dal 1948, testimone della vivacità e della modernità presenti nella società africana post coloniale e Laure Prouvost, che propone un corpus di opere – tra le quali arazzi dalle imponenti dimensioni – che creano un archivio di visioni e catturano il flusso di immagini e testi dal quale quotidianamente siamo investiti.
Romana Londi presenta opere del 2024 nelle quali si riflette il suo approccio alla pittura basato sulla sperimentazione che esplora l’immediatezza della vita, fondendo realtà contrastanti in opere ibride.
Antoine Renard con le sue sculture sintetizza una ricerca legata al corpo, alla giovinezza e alla tradizione culturale – il suo David cita apertamente l’opera di Donatello – insieme a esplorazioni della sfera olfattiva e sensoriale.
Andres Serrano si rifà all’estetica classica e attraverso la struttura e la colorazione trasforma i soggetti delle sue fotografie in elementi monumentali. Qui l’effetto è amplificato dalla scelta di alcuni soggetti legati all’Italia, come il michelangiolesco Mosè di San Pietro in Vincoli, proprio a Roma.
Di Joris Van De Moortel, musicista e performer, oltre che pittore e scultore, sono visibili a rhinoceros gallery tele di grandi dimensioni, acquerelli e tempere, densi di riferimenti letterari che spaziano da William Blake a L’arbre des batailles, trattato di diritto militare scritto alla fine del XIV secolo per il giovane re di Francia Carlo VI.
Le opere di Agnès Varda sono quasi un ritorno alle origini. Alle sue celebri regie la cineasta anticipatrice della Nouvelle Vague ha sempre accompagnato, sin da giovanissima, l’attività di fotografa. Sono presenti in mostra undici immagini della serie Patates Coeurs, soggetto che l’artista affronta a più riprese considerandolo “simbolo di una vita che si rinnova costantemente”.
Breve biografia di Nicole Brossard-Poetessa, narratrice e saggista del Québec, Nicole Brossard è nata a Montréal nel 1943. A partire dal 1965 ha elaborato un’opera – nei vari campi della scrittura – tra le più importanti del periodo contemporaneo, riuscendo ad immergersi in modo dirompente nel tumulto della modernità. L’autrice ha infatti rinnovato, in modo radicale, con rigore e lucidità, il campo letterario precedentemente esistente, diventando “l’emblema stesso della nuova scrittura quebecchese” (Pierre Nepveu, ndr). Non meno importante l’attività di divulgatrice e teorica della letteratura del Québec.
La voce di Nicole Brossard, definita in un primo tempo “femminista”, è quella sontuosa e mai scontata di una cittadina del pianeta che naviga al di sopra della questione dei generi, nei mari aperti della parola piena e consapevole. È colei che osa dire: “ascolto ancora / al confine delle lingue / il rumore degli incendi / le domande, l’arte”. Sa benissimo che l’inferno è qui “sul bordo rovesciato di vivere”, ma continua per la sua strada avendo davanti a sé l’infinito da esplorare, per quel desiderio inarrestabile di “spargere baci tra i continenti” e forse per l’utopia di lenire il dolore del mondo.
Va detto, in conclusione, che Nicole Brossard non si compiace nei propri sogni, va oltre, tuffandosi “nel gran vivaio dei mormorii” (non a caso nella sua poesia appaiono Joyce e Svevo) per donare una parola d’eclissi e di riflessi capace di fondare le relazioni tra le cose, tra gli esseri.
Nicole Brossard ha pubblicato una trentina di libri tra i quali Le Centre blanc, La lettre aérienne, Le désert mauve, Hier, Cahier de roses et de civilisation. I più recenti sono: Je m’en vais à Trieste (2003) e L’horizon du fragment (2004). Le è stato conferito due volte il Prix du Gouverneur Général (1974, 1984) per la poesia. Ha cofondato nel 1965 la rivista letteraria “La Barre du Jour” e, nel 1976, il giornale femminista “Les Têtes de Pioche”. Ha corealizzato il film Some American Feminists (1976). Nel 1991, ha pubblicato insieme a Lisette Girouard Anthologie de la poésie des femmes au Québec (Des origines à nos jours), e nel 2002 l’antologia Poèmes à dire la francophonie. Nel 1991, le è stato conferito il Prix Athanase-David, la più alta onorificenza letteraria del Québec, e nel 1994 è entrata a far parte della Académie des Lettres du Québec. Nel 1999, ha ricevuto per la seconda volta il Grand Prix du Festival International de la Poésie de Trois-Rivières per le raccolte poetiche Musée de l’os et de l’eau e Au présent des veines. Premio W.O. Mitchell (2003). Inoltre: Prix Molson del Conseil des Arts du Canada (2006) e il titolo di Chevalier de l’Ordre de la Pléiade e Membre de la Société Royale du Canada.
L’insieme della sua opera, tradotta in molte lingue, fa di Nicole Brossard una scrittrice di livello internazionale.
ogni sete è una conca di luce
nel dolore ancestrale
nel grande casellario dei pronomi
dimmi se la mia morte va veloce dall’uno
all’altro secolo se con gli anni dovrò dimenticare
l’orchidea, aggiornare il delirio
dimmi se questa fame che ho dell’alba
si aggirerà tra i campi
tremante come un’ossessione, un orizzonte
*
non sarà facile dire io
se tutto questo gira male, valanga
o eternità e malinconia
so che abbiamo toccato
troppi orizzonti
l’infinito nelle nostre bocche
tradotto con pazienza
*
non ho ancora parlato di scomparsa
qualche detrito a monte di tutti i pronomi
la vita prende delle decisioni
e sotto la pelle ci prepara
ruote della fortuna e rompicapi
futuro e funerali
adesso ecco i ghiacciai
qualche materiale
di alba e sofferenza
*
essere là tutta una vita nella specie flessibile
con questo riflesso che persiste a volere
rappresentare tutto dell’ebbrezza e dei gesti
i morsi, le camere con le loro nicchie
di ombra soffice, le fronti preoccupate
nostra fragilità
e certo siamo senza risposta
ad ogni bacio!
*
idee di caduta e labirinto
come se al fondo delle nostre braccia
tutto quello che esiste fosse
fatto nell’attesa di spostare l’alba
scoprire il velo sopra il regno animale
allora io resto sveglia
tra temperini e cenere
*
non ci sarà ritratto
di mia madre né un’acquaforte o un gesto
né frase memorabile
o resisterà una scena ancora in piedi
nella città e nel vento
un fruscio di sciami che l’alba
avrà rapito veloce e intenso
*
e se l’angoscia se ciò che anima
le tue notti di letture e sogni
if dust on you fingers vibrates
avvolgiti nell’ombra
in un posto con del blu e del vuoto
ci sarà certo dell’acqua nei tuoi occhi
modernità e paura nei tuoi vestiti
*
stringiti al silenzio
all’alba il verbo essere pulsa più veloce
dentro le vene, fila una cometa
come dopo l’amore o un granello di sale
sulla lingua di mattina, gusto d’immensità
che ci riporta
dentro la primigenia umidità
abbracciami
l’acqua può fare di noi due
lo stesso luogo
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