Ricerca bibliografica e Fotoreportage di Franco Leggeri
Torre di Acquafredda si trova sulla VIA omonima al civ. 88/a all´interno del parco naturale dell’Acquafredda.Pubblicazione per riassunto e parziale dalla Monografia di Franco Leggeri- Monografia TORRI SEGNALETICHE –TORRI SARACENE- della Campagna Romana – Edizione DEA SABINA-
Il nome di Acquafredda (fundus Aque frigidule) si legge per la prima volta in una bolla del 1176 di Papa Alessandro III che conferisce questa tenuta ai monaci di San Pancrazio. Il nome deriva dal torrente Algidon, ora Acquafredda, che affluisce nel fiume Magliana. La Torre fu costruita nel XIII secolo sui resti di una villa romana. Nel secolo XVI, quando il possedimento era affittato a Giovanni Consolo da Rognano, la torre fu inglobata in un casale.
La Torre ha pianta rettangolare, i muri sono costruiti con pietre di selce miste a spezzoni di marmo. La parte superiore è stata modificata in epoca moderna, come si può desumere dal tetto inclinato. Nella tenuta di Acquafredda, come narra lo storico latino Procopio nel Bellum Gothicum, Totila, il re dei Goti, eresse qui nel 547 d.C. il suo accampamento, prima di sferrare l´attacco contro Roma.
All´interno della tenuta Acquafredda la presenza dell´uomo risale alla Preistoria. Molto probabilmente vi è stata la presenza degli Etruschi: si sta infatti studiando una grotta che, presumibilmente, è una tomba rupestre ipogea. E´ scavata nel tufo ed è costituita da un camerone iniziale, sorretto da un grande pilastro di tufo, da cui parte un lungo corridoio, ai cui lati si aprono a coppia, in forma simmetrica, quattro cappelle laterali. I contadini l´hanno sempre chiamata la “grotta”, ma la struttura è quella di una tomba etrusca del VII secolo a.C.
LA TESTIMONIANZA DI PROCOPIO Secondo una teoria abbastanza diffusa, nel 547 re Totila avrebbe stanziato le truppe gotiche nei pressi della zona oggi conosciuta come Acquafredda (non lontano dal km 10 dell’Aurelia), nel corso delle operazioni per togliere Roma ai bizantini. L’ipotesi è fondata sul brano della Guerra Gotica di Procopio di Cesarea (libro III, 22-23) in cui si narra di quando Totila minacciò di radere al suolo Roma come ritorsione per la sconfitta subita in Lucania. Com’è noto, per evitare questa sventura, il generale bizantino Belisario scrisse a Totila una famosa lettera (che riportiamo per intero nella sezione di Letteratura),che ebbe il felice esito di far demordere Totila dal suo proposito. A quel punto il re goto – o perché irretito dalle parole di Belisario o perché non aveva mai avuto la volontà reale di dare seguito alle minacce ventilate – decise non di attaccare direttamente Roma, bensì di limitarsi a impedire gli approvvigionamenti di viveri provenienti da Portus; per perseguire tale obiettivo, fece dunque accampare il proprio esercito in una località che Procopio chiama Algido (Αλγηδών), ovvero gelido. Giuseppe Tomassetti, sulla scorta di un suggerimento di Carlo Busiri, ritenne dunque che Algidon indicasse proprio (sotto forma di traduzione in greco) la tenuta d’Acquafredda, che trae il nome dal fosso omonimo che sgorga lì nei pressi a una temperatura piuttosto bassa.
LA TESTIMONIANZA DI GREGORIO MAGNO L’intuizione potrebbe in effetti essere giusta, se non fosse che Gregorio Magno (Dialogorum Libri IV, III, 11) scrisse che Totila pose il proprio accampamento ad locum qui ab octavo hujus urbis milliario Merulis dicitur. Noi sappiamo per certo che Campo Merlo (Campo Merule) in realtà non si trova lungo l’Aurelia, bensì sulla Portuense, subito dopo la tenuta della Muratella in direzione di Ponte Galeria, nei pressi del punto in cui il Tevere disegna un sinuoso meandro. Va sottolineato che il brano di Gregorio Magno è ignorato da chi pone l’accampamento nella Tenuta di Acquafredda, mentre è preso in considerazione dal Gregorovius, che però non cita il passo di Procopio (saltiamo a pie’ pari chi poi – anche di recente! – ha incautamente posto l’accampamento gotico sui Colli Albani). Vero è che Gregorio Magno scrive mezzo secolo dopo gli avvenimenti narrati e vero è che il tema trattato (un miracolo avvenuto nel campo gotico) non rassicura affatto sulla veridicità del racconto, però la citazione toponomastica è troppo ben circostanziata per non tenerne conto. Inoltre un aspetto che né il Tommasetti, né gli studiosi che hanno fatto propria la sua ipotesi sembrano aver considerato è che strategicamente non aveva molto senso posizionare le truppe sull’Aurelia per bloccare i rifornimenti da Portus, dato che da qui il modo più rapido e comodo per raggiungere Roma era o la Portuense (soprattutto nella sua diramazione bassa, corrispondente all’attuale via della Magliana) o la navigazione del fiume (magari risalendo la corrente con la tecnica dell’alaggio).
IL FOSSO DI ACQUAFREDDA In realtà non è detto che Gregorio e Procopio siano in contraddizione. È infatti possibile che lo storico palestinese non intendesse indicare con Algido una località specifica, bensì volesse semplicemente dire che le truppe gotiche si stanziarono in un punto – non meglio specificato – lambito dall’Algido inteso sic et simpliciter come corso d’acqua. In verità, quello che noi chiamiamo Fosso di Acquafredda è in realtà parte integrante di un complesso bacino idrico di circa 18 km che ha inizio con il nome di Fosso della Palmarola (dalla zona da cui sgorga, nei pressi della borgata Ottavia); dopo circa due chilometri riceve un affluente da sinistra (il Fosso della Polledrana) e a valle della confluenza assume il nome di Fosso della Maglianella; dopo circa 8 chilometri, riceve infine il Fosso dell’Acquafredda: a valle della confluenza il rivo assume il nome di Fosso della Magliana. Ora, va osservato che il Fosso della Magliana (oggi purtroppo noto per essere il fosso più inquinato del Comune di Roma) è affluente del Tevere e vi confluisce giusto nei pressi del Campo Merlo.
A questo punto non soltanto non è illegittimo identificare l’Algido procopiano con il fosso di Acquafredda e con la sua diretta continuazione (l’attuale Fosso della Magliana), ma anzi possiamo far concordare le testimonianze di Procopio e di Gregorio Magno individuando il luogo dell’accampamento gotico in un’area prossima alle foce del Fosso della Magliana, non lontano da dove oggi sorge il rinascimentale Castello della Magliana; come può facilmente desumersi osservando la Mappa della Campagna Romana di Eufrosino della Volpaia (1547), si tratta di una zona di grande valore dal punto di vista strategico, che ben si accordava all’obiettivo bellico che il re Totila si era prefisso.
Fonte e bibliografia-Franco Leggeri- Monografia TORRI SEGNALETICHE –TORRI SARACENE- della Campagna Romana Edizione DEA SABINA- Giuseppe e Francesco Tomassetti -LA CAMPAGNA ROMANA- sito web WWW.ABCVOX.INFO-Il Suburbio di Roma-GAR-XVIII Circoscrizione – Associazione SestoAcuto-TENUTA DELL’ACQUAFREDDA- MURA LEONINE- INVASIONI BARBARE- Thomas Ashby-Biblioteche private-Biblioteca Nazionale-Fonti e Memorie-dell’Agro Romano- Catasto di Pio VI-
Foto originali di Franco Leggeri per Associazione Cornelia Antiqua-
Breve biografia di Yvette K. Centenoè nata a Lisbona nel 1940 in una famiglia di origine tedesco-polacca. È sposata, ha quattro figli e la musica e la letteratura abitano, da sempre, la sua casa. Si è laureata in Filologia Germanica con una tesi su L’uomo senza qualità di Musil e si è addottorata con una tesi sull’Alchimia nel Faust di Goethe. Dal 1983 è Professoressa Ordinaria all’Universidade Nova de Lisboa, dove ha fondato il Gabinete de Estudos de Simbologia, attualmente parte del Centro de Estudos do Imaginário Literário. Sin da giovane, si è interessata al teatro, ha scritto commedie e racconti e ha fondato il CITAC a Coimbra. Ha pubblicato letteratura per bambini, saggi di ricerca, poesia, teatro e narrativa, con romanzi come Três histórias de amor (1994), Os jardins de Eva (1998) e Amores secretos (2006), con parte della sua opera tradotta in Francia, Spagna e Germania. Tra gli autori che ha tradotto ci sono Shakespeare, Goethe, Stendhal, Brecht, Rilke, Celan e Fassbinder.
UM DIA, DIZ A MULHER
Um dia
também eu sairei porta fora
caminharei nas ruas
ausente de sentido
atravessando esplanadas
e jardins
bairros que não conheço
irei em frente
sem parar nas lojas elegantes
da Avenida
que pouca Liberdade tem
irei assim
perdida e sem destino
descendo
à beira-rio
quando me virem na água
darão então por mim
(in Dizer, 2021, p. 13)
*
UN GIORNO, DICE LA DONNA
Un giorno
anch’io uscirò fuori casa
camminerò per le strade
errante
attraversando piazzali
e giardini
quartieri che non conosco
andrò avanti
senza fermarmi in quei negozi di lusso
dell’Avenida
che poca Liberdade ha
andrò così
persa e senza meta
scendendo
verso la sponda del fiume
quando mi vedranno nell’acqua
si accorgeranno di me
*
AO MODO DE ALBERTO CAEIRO, O MESTRE E ALTER EGO…
Vivemos entre dois mundos.
Um a que chamamos real, objectivo, quotidiano, normal.
Mas que não é nada disso, é tão ilusório, esse mundo real,
como qualquer outro que possamos fantasiar. São palavras, essas que repetimos e que não chegam a convencer: o que é
ser real, o que é ser objectivo, o que é ser normal? Onde
está ela, essa normalidade, que não encontro em ninguém?
Nem em mim nem nos outros, nem sequer no espaço sideral?
Para cada outro há uma palavra que se diz objectiva, real,
com o ar mais natural…
A cada um seu real, e assim cai por terra a ilusão que eu
tinha de um dos mundos…
Quanto ao outro, em que também julgo viver: é mais
íntimo, mais secreto, mais fraterno, será esse afinal o nosso
mundo real? O das escapatórias, das fantasias, dos rebanhos
que são montes de pensamentos por alinhar ao assobio de
um cão? E o cão? É ele elemento real? Ladra, como se deve
ladrar? Abana a cauda a sorrir? Ou vive apenas na ideia do
poeta, uma cabeça que nem ela é inteira…
Disse: vivemos entre dois mundos. Mas serão dois? Serão
mundos? Serão poucos, serão muitos? E como me permito,
eu que tanto hesito e duvido, usar este plural?
(in Dizer, 2021, p. 61)
*
ALLA MANIERA DI ALBERTO CAEIRO , IL MAESTRO E L’ALTER EGO.
Viviamo tra due mondi.
Uno che chiamiamo reale, oggettivo, quotidiano, normale.
Ma che non è nulla di tutto ciò, è così illusorio, questo mondo reale
come qualsiasi altro su cui possiamo fantasticare. Sono parole,
queste che ripetiamo e che non riescono a convincerci: cos’è
essere reale, cos’è essere oggettivo, cos’è essere normale? Dove
si trova lei, questa normalità che non riesco a trovare in nessuno?
Né in me né in altri, nemmeno nello spazio sidereo?
Per ogni altro c’è una parola che si definisce oggettiva, reale,
con l’aria più naturale…
A ognuno il suo reale, e così cade a terra l’illusione che io
avevo di uno dei mondi…
Quanto all’altro, in cui altrettanto credo di vivere: è più
intimo, più segreto, più fraterno, sarà questo alla fine il nostro
mondo reale? Quello delle scappatoie, delle fantasie, delle greggi
che sono mucchi di pensieri da allineare con il richiamo di
di un cane? E il cane? È un elemento reale? Abbaia, come si deve
abbaiare? Scodinzola sorridendo? O vive solo nell’idea del
poeta, una testa che non è nemmeno intera…
Ho detto: viviamo tra due mondi. Ma sono due? Saranno
mondi? Saranno pochi, saranno molti? E come mi sono permessa,
proprio io che esito e dubito tanto, a usare questo plurale?
*
O AMOR O ANJO E O CÃO (para a Ana Maria Pereirinha, 2020)
Havia amor por ali,
uma entrega tão subtil
que não podia ser dita
cortava a respiração
só podia ser vivida
em segredo
e só de dia
quando o Anjo os protegia…
Ainda assim havia a noite,
a floresta e o jardim,
um cão amigo a brincar
um céu com novas estrelas
acesas para o amor
que seria amor sem fim
(in Dizer, 2021, p. 64)
*
L’AMORE, L’ANGELO E IL CANE (per Ana Maria Pereirinha, 2020)
C’era amore lì
una dedizione così sottile
che non poteva essere detta
toglieva il fiato
poteva solo essere vissuta
in segreto
e solo durante il giorno
quando l’Angelo li proteggeva…
Eppure c’era la notte
la foresta e il giardino,
un cane amichevole che giocava
un cielo con nuove stelle
illuminate per l’ amore
che era amore senza fine
*
Traduttore Matteo Pupilloha conseguito la laurea magistrale in Lingua e Letteratura Portoghese presso l’Universidade Nova de Lisboa. A settembre del 2021, ha vinto una borsa di ricerca dottorale in Letterature Comparate e, attualmente, è dottorando presso il Centro de Estudos em Letras dell’Università di Évora, nonché Cultore della Materia in Lingua e Traduzione Portoghese e Brasiliana presso l’Università per Stranieri di Siena. Precedentemente, invece, è stato professore a contratto di Lingua Portoghese. Partecipa attivamente a congressi internazionali e i suoi interessi di ricerca vertono prevalentemente su scrittrici portoghesi e brasiliane e didattica del portoghese per stranieri. È membro dell’Associazione Internazionale dei Lusitanisti (AIL) e socio sostenitore dell’Associazione Italiana di Studi Portoghesi e Brasiliani (AISPEB).
*
Yvette K. Centeno – Inediti (trad. di Matteo Pupillo)
FOTO DI PROPRIETA’ DI Alexandre Almeida.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Adriana Zarri-Poesie di una grandiosa pensatrice spirituale
Adriana Zarri” Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene.Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue.Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano la patria senza senso civico”.
Poesie
Dacci Signore il tuo mantello –
Arriveremo con i piedi sporchi
e ce li laverai,
come facesti con gli apostoli.
Guarda, Signore, al nostro autunno
e raccogli le colpe
come una triste vendemmia.
Lasciaci nudi e soli,
senza consolazioni ambigue,
senza inganni pietosi,
senza grappoli verdi.
Donaci gli occhi di Maria peccatrice
e, scaldaci con il tuo mantello.
I giorni sono brevi
e le nottate lunghe.
Il fuoco si spegne nel camino.
Le castagne
si sono fatte nere,
il letto, è gelido e deserto.
Dacci, Signore, il tuo mantello!
– Adriana Zarri –Tratto da “Il pozzo di Giacobbe. Raccolta di preghiere da tutte le fedi”
Piedi nuovi
Un Gesù biondo
custodirà vuote basiliche
impolverate
di ragnatele.
E l’erba
crescerà sopra le soglie
finché non torneranno
piedi disincantati,
piedi stanchi,
piedi sporchi,
piedi lavati
da te
nella tua ultima cena.
Finché non torneranno
piedi nuovi
sopra ai prati dell’Eden
dell’ultimissimo giorno.
Preghiera d’inverno
Ora è la morte,
Ma non è la morte:
è soltanto l’attesa.
Facci attendere, Dio, senza stancarci,
senza timore di morire per sempre.
Anche i colori sono trapassati
dal verde, al giallo, al viola,
al grigio.
Presto sarà la neve
come un immenso fiore bianco,
grande quanto la terra.
Il mondo è sbocciato di gelo
e il bianco è la somma dei colori
Dopo il fiorire e il declinare della vita,
l’inverno, o Dio, è la tua eternità.
E sulla neve
candide danze di angeli
e carole di santi luminosi,
che non lasciano impronta.
Aprici gli occhi, o Dio,
facci vedere ciò che non si vede,
facci danzare coi beati
e guardare i tuoi occhi:
più vasti
di una pianura innevata
più bianchi
di un gelido novembre
più caldi
di un fuoco acceso
in una notte d’inverno.
[da Il pozzo di Giacobbe. Geografia della preghiera da tutte le religioni, Camunia, Brescia 1985, pagina 260]
Questo è l’epitaffio che Adriana Zarri ha scritto per se stessa
Non mi vestite di nero: è triste e funebre. Non mi vestite di bianco: è superbo e retorico. Vestitemi a fiori gialli e rossi, con ali di uccelli. E tu, Signore, guarda le mie mani. Forse c’è una corona. Forse ci hanno messo una croce. Hanno sbagliato. In mano ho foglie verdi e sulla croce, la tua resurrezione. E, sulla tomba, non mi mettete marmo freddo con sopra le solite bugie che consolano i vivi. Lasciate solo la terra che scriva, a primavera, un’epigrafe d’erba. E dirà che ho vissuto, che attendo. E scriverà il mio nome e il tuo, uniti come due bocche di papaveri.
– Amo pregarti seguendo i ritmi stagionali Adriana Zarri –
In inverno
La preghiera è immersa nella vita e non se ne può scostare
di casa, di fuoco e di memorie.
anche la neve sembra calda guardata dal di dentro.
In Primavera
è timida, fatta di tenerezza e di stupore, come un amor adolescente che riscopre la vita.
La terra si riveste di verde
L’aurora si riveste di luce
abbiamo voglia di rifiorire
di continuare il ritmo della vita:
quel ritmo sempre nuovo
che a volte ci sembra sempre vecchio
In estate
è densa e forte e ha il calore
della passione matura e consumata.
è impregnata di terra e di sole
ha il biondo delle messi e l’odore
del suolo crepitante e delle more mature.
In autunno
prepara il riposo della terra
dove il tramonto s’incrocia con l’aurora
dove il sole si affoga dolcemente nella nebbia,
tempo della fede, del credere
tempo dei tuoi doni..
frasi sciolte di Adriana Zarri tratte dal libro Quasi una preghiera.
Musica “As Music in the Trees”
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori turchini e rossi
e con ali di uccelli.
…
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che ho atteso,
che attendo.
Pregare sei tu che preghi,
tu che respiri,
tu che mi ami;
e io mi lascio amare da te.
Questo verso della poesia “Pregare è un prato d’erba” tratto dalla raccolta “TU – quasi preghiere” rispecchia il rapporto personale ed intimo che legava la teologa Adriana Zarri a Dio. E non solo a Dio, ma a tutto ciò che la circondava e che avesse a che fare con la vita, a cominciare dalle rose del suo giardino e dalla gatta che si accoccolava sul suo grembo per finire alle questioni più scottanti della Chiesa e della politica italiana del secondo Novecento.
Il settore d’attività che diede ad Adriana Zarri maggiore notorietà fu il giornalismo. Da radicale antifascista con una particolare sensibilità per i problemi sociali, difendeva in modo convinto e convincente la libertà di pensiero. Visse in varie città d’Italia, soprattutto a Roma. Si trovò molto giovane a dirigere l’Azione cattolica italiana e scrisse articoli, recensioni e saggi per riviste e giornali come L’osservatore Romano, Rocca, Studium, Politica oggi, Sette giorni, Il Regno, Concilium, Servitium, Anna, Adista, Avvenimenti e MicroMega. Tenne una rubrica settimanale sul quotidiano comunista Il Manifesto dal titolo Parabole, che veniva pubblicata ogni domenica. Partecipò a trasmissioni radiofoniche e televisive per trasmettere ad un pubblico più vasto il frutto dei suoi studi e delle sue riflessioni. Rimangono in tal senso memorabili i suoi regolari interventi a Samarcanda di Michele Santoro. (2)
Dal settembre del 1975 fino alla sua morte, Adriana Zarri visse da eremita in Piemonte. Prima si ritirò in una casa ad Albiano d’Ivrea, poi si trasferì a Fiorano Canavese e infine, a partire dalla metà degli anni ’90, si stabilì a Strambino, in provincia di Torino. Il motivo che la spinse a fare una scelta così radicale non fu certo la delusione o il desiderio misantropo di isolarsi dal resto dell’umanità, quanto piuttosto il suo profondo bisogno di coltivare nella solitudine, nella preghiera e nel silenzio il suo rapporto di vicinanza con Dio e da lì continuare a svolgere la sua attività letteraria, critica e saggistica, perché “la solitudine non è una fuga: è un incontro”. (3)
Seguiva una rigida routine quotidiana: sveglia alle 6, poi colazione e recita delle laudi, disbrigo delle faccende domestiche e cura del giardino. Durante il giorno si occupava della corrispondenza e delle incombenze quotidiane e scriveva articoli per giornali e riviste. Nella sua cappella privata celebrava tutti i giorni la liturgia e a volte riceveva visite da parte di amiche, amici e ospiti. Preparava da mangiare nella sua piccola cucina, utilizzando perlopiù prodotti del suo orto. Nel pomeriggio e dopo cena si riposava, a partire dalle 22 iniziava il suo lavoro vero e proprio – pensare e scrivere – che proseguiva fino alle 3 del mattino.
Da teologa cattolica e attivista comunista riuscì a colmare il varco tra posizioni apparenti inconciliabili e a sviluppare una sua personale, peculiare teologia che convince per l’intrinseca coerenza. Prese le distanza da movimenti religiosi fondamentalisti come Comunione e Liberazione e l’Opus Dei. Forse la si potrebbe definire come rappresentante italiana di una sorta di “teologia della liberazione”. La sua scelta di vivere da eremita si inseriva nel solco della tradizione ascetica. Traeva ispirazione dai padri e dalle madri del deserto e per tutta la vita rinunciò in modo consapevole a titoli e glorie, potere e denaro. Ciò non le impedì tuttavia di dedicarsi allo studio di questioni teologiche e di immischiarsi nei dibattiti di teologia, anche nella sua funzione di membro del consiglio direttivo dell’ “Associazione teologica italiana.” Negli anni ’60 aveva partecipato al Concilio Vaticano II e il suo approccio alle cose religiose spesso non coincideva con quello delle alte sfere vaticane, cosa che da un lato la rese popolare, mentre dall’altro le causò non pochi problemi e inimicizie.
“Vive al di fuori degli “interessi mondani” – che piacciono invece molto ai clericali e al clero stesso – pur restando interessata alle sorti del mondo: non si era mai visto un eremita che apparisse in televisione o che scrivesse sul “manifesto.”, dice di lei la giornalista e politologa Giancarla Codrignani nella Enciclopedia delle donne (4)
La libertà è un concetto chiave che attraversa come un filo rosso tutta l’opera e la vita di Adriana Zarri. Ciò per cui a suo parere vale veramente la pena battersi è la libertà di pensiero svincolata da qualsiasi istituzione o ideologia. Zarri infatti si rifiutò di aderire al partito comunista e non prese mai i voti, anche se da giovane aveva spesso vagheggiato di farlo.
Continua Codrignani: “È diventata, anno dopo anno, esperienza dopo esperienza, una delle più importanti testimoni di quella fedeltà al Vangelo che si coniuga – proprio in virtù di una verità che rende liberi – con la più schietta laicità.” (5)
Zarri nel corso degli anni si espresse più volte sul tema della parità dei sessi e sul cosiddetto “pensiero della differenza” delle femministe italiane. Riteneva che la differenza tra i sessi non dovesse scomparire o appiattirsi, bensì portare ad uno svolgimento dei compiti comuni caratterizzato da una coloritura maschile o femminile. In altre parole: “Fare le stesse cose in modo diverso.” (6) In un suo saggio sulla preghiera, ad esempio, sottopose a dura critica il modo di pregare arido, liturgico, ufficiale e senza cuore che spesso appartiene agli uomini, sostenendo che “lasciare la preghiera ai soli uomini significa distruggere la preghiera” (7); ma non fu tenera nemmeno con le donne, di cui osteggiava l’eccesso di sentimentalismo, secondo lei espressione di sottomissione, vittimismo e superstizione. (8)
Si schierò a favore della regolamentazione legale dell’aborto e nel 1981 sostenne la campagna referendaria a favore della legge 194, che riconosce alle donne il diritto di interrompere la gravidanza a determinate condizioni. A questo tema dedicò anche un libro (Dedicato a).
La sua vita da eremita è al centro del libro “Erba della mia erba. Bilancio di una vita”, pubblicato nel 1981 per i tipi di Cittadella edizioni. In cinque capitoli Adriana Zarri descrive, condensandoli, i pensieri e le esperienze di un intero anno solare – da un autunno all’autunno seguente – passati nella sua casa “Il Molinasso” a Fiorano Canavese. Fin dai titoli dei vari capitoli – »le foglie secche dell’ autunno«, »le stufe e i fuochi dell’ inverno«, »la dolce luna della primavera«, »le messi e il sole dell’ estate«, »i prati verdi dell’ autunno« – si intuisce l’intimo legame di Zarri con le stagioni e il loro carattere che si rinnova e varia di giorno in giorno. La sintonia dell’autrice con la natura traspare evidente da ogni singola riga di quest’opera, in cui ci parla della sua vita insieme alle galline, il cane e il gatto, delle condizioni atmosferiche, del sole, del freddo, della semina, della crescita e del raccolto, dell’eremitaggio, del silenzio, della preghiera, del fuoco, della morte, del lavoro, delle stelle, della luna, della notte.
»E ci sarà il silenzio e il grido, la rilassata immobilità e l’ armonica danza; il momento in cui il corpo non si sente e l’ altro in cui rivela tutta la sua armoniosa consistenza ed accompagna l’ invocazione e la lode; ci sarà la richiesta e l’ offerta, la gratuità e la passione, il momento del pianto e della gioia: atteggiamenti che veranno scelti o creati da noi, volta per volta, in sintonia con il momento che viviamo.« (9)
Nel 2002 lessi il volume »Il respiro delle donne«, in cui Luce Irigaray presenta varie forme di credo al femminile attraverso le voci di teologhe, scrittrici, pensatrici e terapeute. Un articolo di Adriana Zarri intitolato “La teologia della vita” risvegliò il mio interesse nei suoi confronti. Alla fine di novembre dello stesso anno la andai a trovare nel suo “eremo” e vi passai una settimana indimenticabile. Un tardo pomeriggio, mentre ero seduta in cortile con la sua gatta in braccio, Adriana Zarri apparve alla finestra e mi fece cenno di salire al primo piano del suo granaio ristrutturato. In mezzo alla grande stanza c’era un baule che divideva lo spazio in due ambienti abitativi. Sul baule era allineata un’incredibile quantità di civette dei materiali più vari, tutte di ottima fattura. Due di esse erano decorate con dei piccoli specchi che riflettevano la luce del sole al tramonto, creando così un magicamente uno splendido effetto caleidoscopico sulle pareti, cui Adriana mi fece assistere con occhi raggianti.
Negli ultimi anni della sua vita Adriana Zarri si indebolì molto e alla fine non riuscì più ad alzarsi dal letto. Ciò nonostante non smise di pensare e di pubblicare i suoi sagaci commenti e le sue profonde riflessioni, che si trattasse di teologia o di spiritualità, della posizione della chiesa o dei suoi legami con la politica e la società. I toni critici che Zarri spesso usa nei suoi scritti non derivano dalla voglia di provocare, bensì dall’esigenza di esprimere liberamente la sua opinione più intima, maturata nel silenzio e nella solitudine attraverso lo studio dei testi teologici, l’esperienza della vita intorno a lei, la fede e il rapporto con Dio.
Rimase paziente ad aspettare la morte, anche se non riusciva a considerarla un’amica o una salvatrice. Era troppo legata alla vita in tutte le sue molteplici forme e in tutta la sua pienezza.
“Ma non intendo programmare la mia morte: sarebbe l‘ ultimo attaccamento alla vita. La morte non si programma: si aspetta, quietamente, come si aspetta la vita. E sarà come viene: magari nella corsia di un ospedale, o per la strada, o chissà. E sarà sempre impastata con la vita: vita, essa stessa nel suo punto più alto e dirompente.” (10)
Già molti anni prima di morire aveva pubblicato una delle sue belle poesie in cui affronta il tema della propria morte:
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri. (11)
(1) Zarri, Adriana (1985): »Tu« quasi preghiere. Piero Gribaudi editore, Torino, p.17.
(2) http://it.wikipedia.org/wiki/Adriana_Zarri, pagina visitata il 10.12.2010.
(3) http://www.rsi.ch/home/channelslifestyle/personaggi/2010/11/19/adrian-zarri.html, pagina visitata il 10.12.2010.
(4) http://www.enciclopediadelledonne.it, pagina visitata il 10.12.2010.
(5) ibidem.
(6) Irigary, Luce (1997): Der Atem von Frauen. Luce Irigary präsentiert weibliche Credos. Christel Göttert Verlag, Rüsselsheim, p. 119.
(7) Zarri, Adriana (1991): Nostro signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera. Citadella editrice, Assisi, p. 40.
(8) ibidem, p. 49.
(9) Zarri, Adriana (1999): Erba della mia erba. Resoconto di vita. Citadella editrice, Assisi, p.50
(10) ibidem, p. 245.
(11) http://www.enciclopediadelledonne.it, pagina visitata il 10.12.2010.
Premi e onorificenze
1995 Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana,
”Premio speciale Testimone del Tempo” (Premio Acqui Storia),
”Premio Matilde di Canossa” della Provincia di Reggio,
”Premio Minerva 1989” nella sezione “Ricerca scientifica e culturale”,
“Premio Igino Giordani 2002” del comune di Tivoli,
“Premio letterario Domenico Rea” nella sezione “Narrativa” 2008
”Premio letterario Alessandro Tassoni” nella sezione “Narrativa” 2008
Author: Ingrid Windisch
Bibliografia & fonti
Pubblicazioni
Zarri, Adriana (1955): Giorni feriali. Milano. Istituto di propaganda libraria.
Zarri, Adriana (1960): L’ ora di notte. Romanzo. Torino. SEI.
Zarri, Adriana (1962): La Chiesa nostra figlia. Vicenza. La Locusta.
Zarri, Adriana (1964): Impazienza di Adamo. Ontologia della sessualitá. Torino. Borla.
Zarri, Adriana (1967): Teologia del probabile. Riflessioni sul postconcilio. Torino. Borla.
Zarri, Adriana (1970): Il grano degli altri. Meditazioni sull’Isolotto. Torino. Gribaudi.
Zarri, Adriana (1971): Tu. Quasi preghiere. Torino. Gribaudi.
Zarri, Adriana (1975): E piu facile che un cammello … Torino. Gribaudi.
Zarri, Adriana (1978): Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera. Assisi. Cittadella.
Zarri, Adriana (1981): Erba della mia erba. Resoconto di vita. Assisi. Cittadella.
Zarri, Adriana (1989): Dodici lune. Romanzo. Milano. Camunia.
Zarri, Adriana (1990): Apologario. Le favole di Samarcanda. 1. Aufl. Milano. Camunia. (Fantasia & memoria) ISBN 8877671084.
Zarri, Adriana (1991): Il figlio perduto. La parola che viene dal silenzio. Celleno. La Piccola Editrice. ISBN 9788872583012.
Zarri, Adriana (1994): Quaestio 98. Nudi senza vergogna. Romanzo. Milano. Camunia.
Zarri, Adriana (1998): Dedicato a. Milano. Frontiera.
Zarri, Adriana (2007): Il Dio che viene. Il Natale e i nostri Natali. Celleno. La Piccola Editrice.
Zarri, Adriana (2007): In quale dio crediamo? Le povere immagini di Dio. Celleno. La Piccola Editrice. ISBN 9788872583203.
Zarri, Adriana (2007): L’ amante dell’uomo. La preghiera e le preghiere. Celleno. La piccola. ISBN 9788872583197.
Zarri, Adriana (2008): Vita e morte senza miracoli di Celestino 6. Romanzo. Reggio Emilia. Diabasis. ISBN 8881035707.
Fratellanza e amicizia sociale in Francesco: “Fratelli tutti”-
a cura di Monica Simeoni–Prefazione di Alberto Melloni
GABRIELLI EDITORI-San Pietro in Cariano (Verona)
Descrizione del libro ” Fratelli tutt, la terza enciclica di papa Francesco sulla fratellanza, l’amicizia e la giustizia sociale, si consolidano le linee guida del suo cammino ecclesiale
A otto anni dall’inizio del pontificato di Francesco, il primo Papa “venuto da lontano”, in Fratelli tutti, la sua terza enciclica sulla fratellanza, l’amicizia e la giustizia sociale, si consolidano le linee guida del suo cammino ecclesiale: l’attenzione agli ultimi in un rinnovamento spirituale «nel quale l’esperienza interiore, l’espressione dogmatica e le riforme strutturali sono intimamente legate» (Michel de Certeau).
Nell’attuazione del Vaticano II continua l’attenzione al popolo di Dio in un mondo globalizzato, anche nei suoi aspetti drammatici di emergenza sanitaria (Covid-19) che interrogano concretamente, credenti e non credenti, su una giustizia sociale ed economica che possa contribuire a salvare il pianeta. L’attenzione alla vita delle donne e degli uomini, alla loro situazione di vita, per sconfiggere la povertà e le diseguaglianze sempre più presenti, hanno bisogno della politica, di una buona politica, e di istituzioni, anche globali, che contribuiscano al loro superamento. Ecco perché l’impegno di Francesco è sempre su due versanti, quello personale (laico e religioso) e, insieme, quello istituzionale.
Contributi:
Prefazione – Fratelli di Caino, Fratelli di Abele, di Alberto Melloni, Ordinario di Storia del Cristianesimo e delle Chiese, Università di Modena e Reggio Emilia, Direttore della Fondazione per le Scienze Religiose (FSCIRE) di Bologna.
Economia e giustizia sociale in Francesco, di Riccardo Milano, Economista, tra i fondatori di Banca Etica.
Oltre la terza via. Etica della fratellanza e critica dello spirito del capitalismo neo-liberista, di Enzo Pace, Ordinario di Sociologia delle Religioni all’Università di Padova.
Romano Guardini e papa Francesco: potere e responsabilità, di Michele Nicoletti, Ordinario di Filosofia Politica all’Università di Trento.
Un mondo e una politica aperta alla fraternità sociale, di Monica Simeoni, Docente di Sociologia all’Università del Sannio (Benevento) ed Ecclesia Mater (ISSR Laterano), Roma.
Gabrielli editori, la casa editrice di Verona
Siamo una casa editrice che cammina insieme ai suoi autori e autrici, ai lettori e alle lettrici, e cura la relazione con loro.
La nostra casa editrice può configurarsi come una comunità di autori e lettori, di liberi pensatori.
Attraverso i nostri libri desideriamo rispondere alle domande di senso in ambito spirituale, storico ed educativo.
Chi siamo
La nostra casa editrice è il risultato di una trasformazione personale e familiare lungo un percorso pluridecennale a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Affermata da tempo a livello nazionale, nasce a Verona nel 1978 con Emilio Gabrielli e Lidia Bertocci Magrini (in basso nella foto). Oggi siamo noi figlie Maria Cecilia e Lucia a portarla avanti cercando di rispondere, come fin dagli inizi dell’attività, alle perenni domande di senso con nuove visioni e nuove aperture in ambito religioso, spirituale, storico ed educativo. Sono domande che condividiamo con i nostri lettori e lettrici e li ringraziamo per questo. Così come ringraziamo i nostri autori e autrici perché abbiamo imparato molto e da sempre abbiamo cercato di avere cura della relazione con loro. La medesima cura va ai contenuti veicolati dai libri che editiamo e allo stile. Di fatto, la nostra casa editrice, “i Gabrielli”, nata da una famiglia e sviluppatasi in un clima familiare, ha cercato di costruire una comunità di pensiero e di cambiamento con autori e lettori.
Ci caratterizzano delle parole: creatività, autonomia e libertà… è possibile dire questo anche di molti dei nostri autori, veri e propri outsider che “osano”, fuori dagli schemi consueti. Persone con le quali condividiamo il desiderio di offrire nutrimento spirituale, nella consapevolezza che un libro può cambiare la vita di una persona.
La nostra visione
Amiamo che le pubblicazioni siano percorsi di armonia e di unità, non di separazione, mettendosi sempre in una dimensione di dialogo e ascolto.
La “novità” o la “visione”, per noi, ha bisogno di essere accompagnata, raccontata, anche con audacia, ma sempre con rispetto.
La creatività nel suo stile grafico rappresenta l’individualità di ogni singolo libro ma anche quel contenitore unico da dove nasce.
Il cuore del nostro catalogo
La base fondante di ogni progetto è la relazione, con l’Autore/Autrice e con il mondo che lo circonda. Questa relazione ha poi una continuità all’interno del nostro catalogo, dove ogni singolo libro è collegato l’un l’altro da questo sguardo intimo che va al cuore. Al cuore del testo e al cuore del lettore.
Ci impegniamo a proporre testi che siano “pezzi unici”, che siano in grado di avviare una trasformazione, nella consapevolezza del tempo che stiamo vivendo, un tempo di kairós.
Cosa proponiamo
Con l’insieme del nostro Catalogo intendiamo offrire una visione dove:
le diverse aree tematiche – religioni e teologia, spiritualità, scienze umane, educazione, storia, filosofia, narrazioni – convivono in armonia, in una tensione sempre verso un “oltre” che sia di garanzia a una nostra scelta di non identificarci con l’ultima parola pubblicata, restando in un movimento verso la “parola ultima”;
questo approccio promuove l’apertura a nuovi paradigmi che possono fin dalle radici smuovere convinzioni che non reggono il passo con le grandi trasformazioni culturali in atto;
allo stesso tempo, in questa apertura all’innovazione, cerchiamo di accompagnare e valorizzare processi di rinnovamento in ambiti più tradizionali, per fare “ponte”.
Contattaci
Gabrielli editori – Via Cengia 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona – Italia)
tel. 045 7725543
Orari ufficio e libreria dal lunedì al venerdì, 9 – 12.30; 14 – 17.30
sabato mattina previo contatto
DEASCRIZIONE-In Metafisica concreta Giovanni Maria Sacco compie un affascinante viaggio fotografico attraverso l’Italia. Il libro è ricco di fotografie in bianco e nero, molte su pellicola di grande formato, che ricostruiscono i tratti dell’architettura razionalista italiana e di luoghi misteriosi e stranianti.
Sono immagini caratterizzate da un forte impatto emotivo, nonostante edifici, monumenti e chiese siano privi di decorazioni, completamente nude, a significare la loro vera essenza, che va oltre il tempo perché la verità delle cose è eterna. L’autore si avvicina alle cose attraverso la fotografia per rivelare ciò che esiste oltre l’apparenza. La metafisica si occupa di ciò che va oltre l’universo fisico che noi percepiamo: in questo lavoro la macchina fotografica diventa uno strumento per creare metafore e per descrivere quella che per l’autore è la metafisica o, come suggerisce il titolo attraverso un ossimoro, una metafisica concreta. I vari archetipi architettonici, dall’arco ai pilastri e le colonne, sono immuni allo scorrere del tempo.
Infine, la condizione umana. Nelle fotografie di Metafisica concreta spiccano le architetture – gli edifici razionalisti di Tresigallo, il cretto di Burri o la terrazza Mascagni di Livorno – ma è assente l’uomo.
Giovanni Maria Sacco (nato a Roma nel 1954) è stato professore universitario di informatica per trent’anni, fino a quando si è dimesso per seguire la sua passione per la fotografia. Le sue fotografie abbracciano molti temi diversi: rovine moderne (grandi fabbriche, soprattutto), architettura, nature morte, ritratti, nudi, ecc. In tutti questi temi, ciò che Sacco cerca è la bellezza che trova sia nell’impermanenza e nel declino delle umane cose, sia nell’impassibilità delle costruzioni architettoniche. Applica alle sue immagini il rasoio di Ockham: tutto e solo ciò che serve, niente di più, niente di meno. La composizione delle sue fotografi e è anche profondamente influenzata dal suo interesse per la pittura, da Duccio ai pittori contemporanei. Nel 2023 ha pubblicato il libro Silent Theaters con Kehrer Verlag. Dal 2015 ha ricevuto più di cento premi nei più importanti concorsi internazionali: Architecture Master Prize, International Photo Awards (IPA), Fine Art Photography Awards (FAPA), Prix de la Photographie Paris (PX3), tra gli altri. Le sue opere sono state esposte a Torino, Milano, Roma, Trieste, Venezia, Arles, Glasgow, New York, Miami, Dali (Cina), Dubai, Tokyo e Zurigo. Utilizza macchine fotografiche digitali e a pellicola da 6×6 a 20x25cm.
Angelo Maria RIPELLINO-“Lo splendido violino verde”
a cura di Umberto Brunetti-Editore Artemide
DESCRIZIONE-“Lo splendido violino verde” è la raccolta della piena maturità di Ripellino, pubblicata con Einaudi nel 1976, due anni prima della morte prematura. Concepito sotto forma di un diario in cui «si riflette, associandosi ai crucci privati, il malessere, l’inclemenza dell’epoca», il libro orchestra i principali Leitmotive dello scrittore siciliano: la teatralità dell’esistenza, la poesia come talismano per ‘tenere a bada’ la morte, la «buffoneria del dolore». Il commento che accompagna i testi, grazie anche alla consultazione delle agende manoscritte di Ripellino, tenta di districare il fitto tessuto di rimandi e citazioni, che sconfinano nelle arti più disparate, dalla pittura di Chagall all’opera lirica di Donizetti, dal teatro di Čechov e Brecht, filtrato attraverso le regie strehleriane, fino al cinema di Keaton, Chaplin e Fassbinder. Alternando slanci di gioia a note di profondo dolore e giocando sul labile confine tra arte e vita, Ripellino intesse una poesia capace di trasformarsi essa stessa in spettacolo e di rifrangere, come un prisma, i raggi del suo sconfinato orizzonte culturale in un «ribaldo trappolío di colori». Con due scritti di Corrado Bologna e Alessandro Fo.
Sergio Solmi-Opere, I – Poesie, meditazioni e ricordi
Tomo I: Poesie e versioni poetiche- A cura di Giovanni Pacchiano-
ADELPHI EDIZIONI
Risvolto del libro di Sergio Solmi “Opere , Poesie e meditazioni”-Con questo volume diamo inizio alla pubblicazione delle Opere di Sergio Solmi, impresa che si propone non solo di presentare sotto un’unica veste scritti che hanno molto sofferto per la dispersione dei luoghi in cui apparivano, ma vuole soprattutto rivendicare l’opera di Solmi come una delle più alte e durature di tutta la nostra letteratura del Novecento. Questo primo volume raccoglie l’intera opera poetica, includendo una importante zona di liriche sparse o inedite e tutte le traduzioni in versi (anch’esse in parte inedite). Come scrisse Solmi stesso in un testo di autopresentazione, «la poesia di Solmi ha avuto il destino di una situazione appartata e solitaria, spesso fraintesa dalla critica per la sua difficoltà a essere classificata, di volta in volta, fra le correnti del tempo». Natura di rêveur nella più limpida accezione romantica del termine, Solmi sembra aver scelto fin dall’inizio un paradossale classicismo in equilibrio sul vuoto – essendo ormai sprofondati i grandi canoni che lo reggevano – sotto la tutela della «cara ombra» di Leopardi e insieme di alcuni grandi maestri del moderno, quali Rimbaud, Mallarmé, Valéry. E grazie a questa scelta, la cui singolarità restò forzatamente mimetizzata durante il periodo ‘rondista’, egli è riuscito col tempo ad assorbire in ugual modo, nella misura del suo verso, i mondi del fantastico (di cui è emblema, nella splendida Levania, una fantomatica reincarnazione lunare del poeta) e della quotidianità più dura (si pensi alle esperienze di carcere del «Quaderno di Mario Rossetti»). Seguendo le più ambigue linee di confine fra le apparenze, abbandonandosi senza contrarsi al «vento improvviso» che muove, talvolta, la vita, ascoltando i desideri «anonimi e diffusi come foglie», questa poesia ha trovato un timbro, una malinconica lucidità, una fluidezza del disegno, dinanzi a una persistente angoscia. Ha scoperto infine un parlare sommesso per dire cose essenziali, che emergono dalla «buca d’ombra» e sostano un attimo alla luce in parole diafane. Le novità presentate in questa edizione, sia nelle poesie giovanili sia in quelle tarde, non faranno che confermare la sconcertante coerenza di quest’opera, così discreta ma così ferma nelle sue inclinazioni e nei suoi rifiuti. «Esule disperato della vita» dicono le prime parole della prima lirica raccolta, che risale al remoto 1917, e danno subito il segno di una poesia che ha sempre un piede in qualche altro mondo. Fra quei mondi molteplici appariranno alla fine, nelle poesie inedite degli ultimi anni, la terra immaginale di Hûrqalyâ, svelata dalla mistica iranica, o i giardini di Babilonia, ma anche la pianura platonica dove l’anima sceglie quel «difficile viluppo» che sarà il suo destino. In questa visione sembra concludersi il lungo itinerario del flâneur cosmico, che si inchina alla necessità mentre contempla, attonito, «la mano che mi scrive».
Breve Biografia di Sergio Solmi– Critico e poeta italiano (Rieti 1899 – Milano 1981); fondatore, con G. Debenedetti e altri, della rivista torinese Primo tempo (1922–23); socio corrispondente dei Lincei (1968). La sua notevole produzione saggistica ha spaziato dalla letteratura francese (Il pensiero di Alain, 1930; La salute di Montaigne e altri scritti di letteratura francese, 1942; Saggio su Rimbaud, 1974) alla paraletteratura (Della favola, del viaggio e di altre cose. Saggio sul fantastico, 1971), da Leopardi (Studi e nuovi studi leopardiani, 1975) alla letteratura contemporanea, che ha penetrato con fine intelligenza (Scrittori negli anni, 1963). È stato poeta tanto originale quanto radicato nella tradizione italiana (Fine di stagione, 1933; Poesie, 1950; Levania e altre poesie, 1956; Dal balcone, 1968; Poesie complete, 1974), nonché felice traduttore (Versioni poetiche da contemporanei, 1963; Quaderno di traduzioni, 1969; Quaderno di traduzioni II, 1977); da ricordare anche la raccolta di prose poetiche Meditazioni sullo scorpione (1972). L’edizione completa delle Opere di S. S. è stata avviata nel 1983 (il 5°vol. è uscito nel 2000).
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
OTTO DOZZINE DI VERSI PER IL COMPAGNO VENUTO A TENERE LA RIUNIONEI
Il compagno è senza un soldo Senza un soldo di lontano
E’ venuto con la pioggia
Con la pioggia e per le strade Di collina e poi del piano Con la moto e con la giubba Con la giubba sua di cuoio Che è solcata dalla pioggia Come a marzo una vallata
Il compagno è qui venuto
E ha tenuto
La riunione.
II Ha tenuto la riunione
Han parlato dei bollini
Dei bollini delle tessere
Dei problemi del Comune Hanno messo insieme i soldi Per la rata che si deve
Che si deve al fornitore
Che ha fornito il ciclostile
Poi qualcuno ha detto andiamo Chè alle cinque debbo alzarmi.
III Alle cinque hanno da alzarsi Per andare a lavorare
Al padrone non puoi dire Questa notte ho fatto tardi Nel Partito Comunista
Per discuter dei problemi Dei problemi del Comune Dei bollini delle tessere Delle rate da pagare
Se poi dice il ciclostile
Cose invise
Al padrone.
IV Ma quest’anno è un mostro il tempo Se pioveva un’ora fa
Marzo adesso è freddo e nevica
Il compagno che è venuto
Pioggia e fango ha già passati
Con la giubba e con la moto
Fango e pioggia può passare
Ma se nevica è un disastro
E’ un disastro da finire
Da finire dentro un fosso
Con al neve nei due occhi.
V Con al neve nei due occhi
Nei due occhi che hanno sonno Il compagno resta qui
Resta qui ma senza un soldo
A dormire dove va
La locanda che fa credito
Ma il portone già sprangato Sulla via che è bianca, è nero
Il portone, è nero il muro
Il compagno senza un soldo Non può andare
Nell’Hotel
VI Non può andare nell’Hotel Questo è chiaro a tutti quanti
Tutti quanti son persuasi
Che il compagno che è venuto Non può andare e non può stare E continuano a parlare
Dei problemi del Paese
Della guerra e della pace
Del Congresso del Partito
Del Partito dell’Unione
Della Cina
Della vita.
VII Della Cina della vita
Nelle strade che son bianche Lungo i muri che son neri Questi qui vanno parlando Come un tempo già i poeti
I poeti che ora stanno
Chiusi e freddi e muti e stanchi Senza un soldo dentro il cuore Con la resa dentro gli occhi Con la stizza sulla pelle
Di domani
Non si sa.
VIII
Di domani non si sa
Ma lo sanno questi qui Questi qui lo sanno, ché Ogni giorno un po’ lo fanno Il domani un po’ lo fanno Anche adesso che si parla Del lavoro e della vita Mentre portano il compagno A dormire sopra un tavolo Del Partito, con la testa Appoggiata al
Ciclostile.
LETTERA AI MEMBRI DEL CC E DELLA CCC DEL PCI
ascolto i vostri dibattiti come si ascolta il gorgo dei cassoni dell’acqua durante
le notti d’insonnia
reumatica.
(stando al piano delle lavanderie
com’io sto da quando ho memoria
si potrebbe anche tentare d’essere lucidi e assegnare più origini
a questi singulti del ferro
ma tutto
arriva qui col medesimo tuono) scusate dunque
la confusione che i vostri canali mettono nelle mie arterie infreddolite
non è un caso
che proprio il mio reuma più acuto sia accaduto insieme
con i vostri dibattiti
siamo stati aggrediti
da un medesimo vento
che le mie ossa ricevono gelido
e che molti di voi definiscono caldo vedete
che per poco che i miei versi
si prolunghino nella notte
come larve di antichi dolori
c’è rischio che anch’io entri tra voi a dibattere
sulla qualità
da dare
a quel vento
ora
ciò che manca nei vostri dibattiti (perché tutti noi si sappia che fare) è proprio
quel che una gran base
del Partito
vi addita
(se voi foste più logici)
un pizzico di
silenzio dicembre 1961
TEMPO E MAREE –da Continuum 1962-1963
Will it bloom this year?T.S.Eliot
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
vola un piccione grigio alla lavagna
del cielo di Charing Cross
i più vecchi tra noi
hanno strani ricordi
a quest’ora
nella piana di Pimlico
la Luna alza le strade
e sul Ponte di Londra
le acque umane si gonfiano
da un limo all’altro del fiume
se la memoria indugia
è sommersa
questo è l’ultimo tonfo della chiatta
alla chiatta che attracca
c’è il sottoterra e le domeniche
per covare i ricordi
noi viviamo in un tempo
che la Morte è sospesa
e i più vecchi tra noi
non hanno il cuore facile
se qualcuno verrà dopo di noi
in questi cunicoli
dove i treni biforcano
e i nostri giorni in piena ebbero pausa
sotto il crinale
ventoso della brughiera di Hampstead
non badi alle nostre ossa
ma alla vita che avemmo
per toglier di mezzo la Morte
questo è un tempo che torce ogni nostra ora
è lontano lo sparo
del suicida alla prua della sirena
il futuro è a portata di mano
ma nessuno verrà dopo di noi
a ruspare nel limo
delle basse maree vetri di guinness
o qualche magro rame
d’Elisabetta la Seconda
se al pelo morto delle acque
approda solitario un coccio bianco
dell’umano deterrent
corriamo un Sole basso all’orizzonte
sopra spalti di neve e sulla Terra obliqua
un cielo freddo si schiaccia
fino al ventre delle nostre memorie
………………
Londra, gennaio-febbraio 1963
ZONA
Ad Anna.
Nell’officina che ha le finestre sulla campagna
e lontano si vede il muretto
del cimitero ov’è la tua tomba,
quest’oggi tuo padre ed io litigavamo;
tra i ferri e le incudini
noi si gridava e scherzava
con queste giornaliere passioni,
come quando tu eri tra noi
ancora nel giuoco della vita.
Larve inconsapevoli
e accalorate
noi parlavamo di guerre
e di padroni del mondo;
e non capivamo che il tumulto
di questa età
è il rimbombo delle nostre voci
nel cavo del vostro silenzio.
Bra, settembre 1935.
A DORA
Qualche volta un ricordo mi rosica il cuore in silenzio
Puškin
Tu mi domandi perché amor non sciolga
mai la tristezza nel mio solitario
e pigro sangue. Non sai quale ossario
di alterchi è la memoria in me. Si volga
pure ogni anno: non c’è ch’io non mi dolga
di affrettati abbandoni. Era un orario
di scontri e buie morti e di afe il vario
apparir dell’età. Vuoi tu ch’io tolga
melanconica carne ormai dal cuore
che gli anni irosi han chiuso in questa dura
maschera? È segno che scordi il dolore
che mi costò anche il tuo dono; e ho paura,
se tu scordi, che il poco e lento amore
si perda ancor nella mia vita oscura.
Roma, 14 ottobre 1946
ISPEZIONE
Ho fatto per tanti anni la vita di trincea
in camere sudice con qualche libro
e un letto disfatto da mesi,
che neanch’io so più da che parte sia il nemico.
So che se tento un’uscita,
non vedo che facce pronte e ostili
a un mio passo sbagliato.
Né mi è valso mutar stanza e città,
ché mi trovo assediato nella polvere
con un sorso di grappa.
Tuttavia ho sempre guardato con piacere
nel vetro delle finestre
questa dura cosa
che è ancora la vita d’un uomo.
E un giorno
morirò nella strada.
Roma, dicembre 1948
A DORA, DURANTE UNA SUA LONTANANZA
Quando io muoio
vorrei che tu mi chiudessi gli occhi
e mi lasciassi sulle labbra
la pressione di un bacio.
Ci siamo incontrati a vivere
in questi
dei molti anni, da che esiste l’uomo
sopra la Terra;
e abbiamo avuto gli stessi giri di Sole
e le stesse piogge e gl’inverni
e gli umori primaverili.
Con qualche leggera fatica
abbiamo anche avuto gli stessi moti,
poiché insieme imparammo a conoscere
quali sono
questi dei molti
anni da che esiste l’uomo.
Andrò nella terra senza rimpianto.
E se i posteri dei posteri
scaveranno le nostre tombe,
vorrei che trovassero
accanto alla nostra polvere
la palla di gomma con cui giocavamo
un’estate
nelle ore di bassa marea.
Questa mia volontà
anche se immagino che non sarà rispettata,
fa capo al mio più gaio ricordo:
di te che corri lontana sulla riva
e che torni ridendo con gli occhi,
in uno degli anni
che ci siamo trovati a vivere
e a muoverci insieme.
Bra, 15 settembre 1955
DISINTOSSICAZIONE
Uno di questi giorni mi vedrai sparire,
inghiottito dai ricordi.
Quando i veleni quotidiani
cominciano a venir meno,
la memoria diventa un oceano.
Per qualche istante sarò anche buffo da vedere,
mentre mi dimeno
sulla cresta d’un ricordo più alto degli atri;
poi il risucchio sarà così forte,
che colerò per sempre a picco
nelle profondità della memoria.
Novara, aprile 1959
POESIE DI MAO
……………………..
Questa poesia, che tanti voli d’anatre
ha visti ai confini dello sguardo nel sud,
e dal massiccio K’un Lun
da cui il cielo dista non più di tre pollici
ha guardato
tutti i colori e i tempi della Cina,
deve farsi ora più esile e obliqua,
come dopo la pioggia torna obliquo il sole,
per attraversare i gioghi dell’Appennino
e la grigioverde Provenza
e le coste del Levante di Spagna,
fino a posarsi sui tetti infuocati d’Alicante
dove vive il mio amico.
Io da Roma,
quale un agente dei re della droga,
travaso in cartine di sillabe
questa polverina azzurra e dorata.
La poesia di Mao, come la Rossa Armata,
non ha temuto la difficile lunga marcia,
ha passato diecimila fiumi e mille montagne
e ha disteso il volto al sorriso.
Ora però deve ricordare
che la visuale cresce secondo la misura dell’occhio,
e mettersi ancora in cammino
senza perdere un segno
per le forre e le crepe di quelle arse pianure.
MUSEO DELLE FACCE CHE DANNO SPAVENTO AGLI UOMINI
a Bertolt Brecht
…………………………..
In questo Museo
non cercate le facce
di ladri, assassini,
briganti o bari.
Ci sono al mondo, badate,
facce cattive,
facce mostruose,
facce che non promettono nulla di buono,
ma sono facce umane,
facce che si esprimono,
e di fronte alle quali
uno che per disgrazia si trovi a passare
sa subito
che deve difendersi
e magari perire in quel punto
per mano di uno
che porta scritto in viso
il nome della sua solitudine.
Ma di fronte a una faccia
di quelle che danno spavento agli uomini,
non è un solitario, né un misero,
che abbiamo davanti:
è un essere superiore,
che è sicuro di essere meglio
di te e di me,
e sa che ogni ragione
è dalla sua,
perchè sente di avere dietro di sé
una forza, la forza
dei suoi padroni, capace di far prediligere
le sue viltà più discordi,
da chiunque.
Anche se non ricorda,
nel punto che ci schiaccia,
di essere un servo, un braccio, un’unghia
di padroni,
che non vogliono mostrare la faccia
e hanno preso la sua.
E così,
se sorride,
dà spavento agli uomini.
————————-
Ma il giorno che avremo finito
di toglier di mezzo la forza
dei padroni di facce che danno spavento,
e avremo messo le altre
che ancora potrebbero crescere,
a far da custodi
nel Museo delle loro antenate,
con la mansione di tenere,
sia pure di pessimo umore,
spolverate le facce
che diedero spavento agli uomini,
quel giorno i ragazzi,
senza un’ombra,
giocheranno sui prati.
Bra, 29 settembre 1955
DELL’AMORE E DI QUALCHE ALTRA PASSIONE
Il giorno che le mie stanche ossa
e i nervi
cadranno in terra,
alle marcite gore del sangue
andranno i volti amati
e le ore
e i paesi più cari.
Anche se snervi
tutto questo la morte,
è questo il cuore
che sospinto m’avrà
sotto protervi cieli,
che tanto odiai.
Ti perderò per sempre,
amato volto del padre!
E tu
da quell’alba lontana,
che sopra un colle di ulivi
alla piana fresca del mare
il fiato ultimo hai colto,
in fondo agli occhi miei avrai fine.
Ascolto
le tue sbiadite tracce,
in questa frana
che fa il mio tempo;
e se incontro una tana
più calda al viver mio,
qui c’è più folto
un ricordo di te.
Sempre che ai vecchi portici io torni,
troverò ai miei passi
il tuo braccio affettuoso.
Anche al quartiere
dove ira ci spezzò,
son vivi i sassi.
E con noi scherzerà le estreme sere
il calabrone intorno agli arti secchi.
È raro che io t’incontri, o madre.
Vaghi
tu in età più remote;
e se a parlarti mi scopro,
è antico vizio.
Alle tue parti
spira un vento leggero e chiaro:
draghi luminosi di carta, le ansie;
e laghi docili d’acque, i giorni.
Ma se rasento il ciglio ove ti apparti;
giovane madre, e sconsolata indaghi
negli ultimi anni tuoi
cosa è che strugge
la fresca vita,
io ti vedo che ancora
pieghi il capo
a nascondere una lacrima.
Vuoi
che allegri io ricordi gli occhi,
e di acri tuoi pensieri non sappia!
Ma una ruggine
ogni costrutto tuo
presto divora.
——————–
E pur se il capo
ci confuse una tenebra,
or che stesi, e con i corpi stretti,
alle tue palpebre accosto
le mie labbra,
il sangue ha un caldo
che arde anche i più tristi arnesi
delle nostre paure;
e a me fa dolce
il tempo che verrà dopo queste ore,
e il ricordar gli amici che eran vivi
or son pochi anni,
e riguardar le cose
che lasceremo in breve.
Così andiamo alla notte
abbracciati,
o moglie mia;
e io sento ancora il tuo bel viso acceso,
che in me dileguerà l’ora ch’io muoio.
Roma, maggio 1960
QUEST’UOMO
conoscete quest’ uomo
a quale perielio
bruci la domanda
e quale fossa del tempo
sempre un attimo sfiori
conoscete quest’ uomo
quale che sia le tenebra
a cui d’un alito fugge
e da che cieli defunti
guardi ancora la fine
bianca
d’una qualsiasi notte
conoscete quest’uomo
come che sia la specie
ancora accesa e la piazza
dove il saluto o il ricordo sta inciso
nella polvere delle pietre
come un incontro all’angolo
o come una storia estinta
dietro fogli d’alluminio
che presto un vento sopra la città
farà volare pesanti
…………………………
in quale mai folgore di tempo
conoscete quest’uomo
perchè sia necessario entrare
in orbite più minute
o cercare tra rughe
d’uno spazio meno feroce
ognuno potrà a prima vista distinguere
mané i bicchieri toccati al vertice dell’allegria
né le ruote dei primi carri
sapranno da soli tirarci dal groviglio
dei giri
che ci confondono
…………………………..
conoscete quest’uomo
è una domanda che mozza
il fiato delle galassie
e qui scatta a ripetersi
come un segmento
di monotone dinastie terrestri
in cui l’insipienza dei gesti
è il solo universo
cocciuto di qualsiasi gendarme abbia ordine
e maschera
d’intersecare una traccia
……………………..
nell’insieme degli uomini
dalle caverne agli astri
sola grandezza
che le galassie lascino
a ciascuno di noi ch’è niente
tra le scorie
di qualche stagione
che si mescoleranno forse alle ore
sempre incerte da vivere
se non odia e non lotta
con l’insieme degli uomini
a dare fossa
ai secoli che ci dànno la caccia
su un grumo di terra sperduto
in fondo agli universi
per questa nostra folgore di tempo
Parigi-Basilea-Roma, gennaio-febbraio 1962-
Welso Giovanni Mucci (Giòanin per gli amici) nacque a Napoli il 29 maggio del 1911 da Ranieri, abruzzese e maestro di musica nel Regio Esercito, e Domenica Boglione di Bra. Rimase affezionato a questa cittadina tutta la vita, passandovi nell’età matura lunghi periodi.
Da ragazzo dovette seguire le peregrinazioni per tutta Italia del padre, fino a stabilirsi a Torino, dove si laureò in filosofia estetica. Durante il periodo dell’Università giocò nelle riserve della Juventus, bohémien nel cosiddetto fascismo di sinistra. Romano Bilenchi ricorda nel suo libro “Amici” l’epico pestaggio a cui fu sottoposto allora con Primo Zeglio da parte di alcuni esagitati del Guf.
Fu proprio a Torino che esordì sul “Selvaggio” di Maccari come critico musicale (si firmava ancora Welso),e conobbe gli artisti che rimasero i suoi amici per tutta la vita (Spazzapan, Menzio, Cremona, Rosso e tanti altri)
Nel 1934 si trasferì a Parigi, dove aprì con il cugino Sandrino Alberti una libreria antiquaria. Qui tennero anche mostre dei loro amici pittori fino allo scoppio della guerra che pose fine a tutto. A Parigi poterono frequentare le avanguardie artistiche e letterarie del tempo.
Pubblicò in quel periodo i suoi scritti e le poesie giovanili in brochures semiclandestine oggi introvabili.
Ma fu a Roma, nel dopoguerra, che iniziò il suo periodo creativo più felice.
Insieme a Leonardo Sinisgalli, Nicola Ciarletta e Aldo Gaetano Ferrara fondò la rivista bimestrale “Il Costume politico e letterario”, dove per cinque anni raccolse le firme migliori dell’Italia letteraria di allora.
Poi ideò con Dora, la sua moglie-donna-compagna, le tredici superbe cartelle del “Concilium Lithographicum”, dove alle litografie di De Chirico, Maccari, De Pisis, Fazzini e altri erano affiancati gli scritti di Ungaretti, Palazzeschi, Cardarelli, Sinisgalli.. Dora gliel’aveva presentata Maccari nel ’39 a Roma, e lo amò sempre, fino all’ultimo.
La moglie di Sinisgalli, Giorgia de Cousandier, rievocherà nel 1965 in un commosso ricordo di Mucci sulle pagine della rivista “La botte e il violino” anche la gestazione del “Concilium” e del “Costume”.
Sempre negli anni cinquanta venne la sua collaborazione con il ”Contemporaneo”, la rivista politico-letteraria di ispirazione marxista diretta da Antonello Trombadori. (Mucci aveva preso la tessera del PCI nel ’45). Diresse anche “La Voce“ di Cuneo, e pubblicò i suoi saggi nel volume “L’azione letteraria 1.”
Ma fu solo nel 1962 che una grande casa editrice, la Feltrinelli, pubblicò per la prima volta le sue poesie in “L’età della Terra”. Ne scrisse la prefazione Natalino Sapegno, e vinse il premio Chianciano ex-aequo con Andrea Zanzotto. Fu anche in Spagna a prendere contatti per il PCI con l’opposizione antifranchista, e da questo viaggio nacque uno storico numero del Contemporaneo. Sempre nel 1962 fu inviato dall’Unità al Giro d’Italia, e ne fu il cronista attento e polemico.
La sua ultima stagione iniziò a Londra, dove si era trasferito per imparare l’inglese alla perfezione. Ufficialmente era per poter leggere l’Ulisse di Joyce in lingua originale, che aveva già scoperto a Torino in francese tanti anni prima. Il suo vero sogno, però, era di andare come inviato dell’Unità a Pechino. Aveva cominciato a coltivarlo nel ’58 a Tashkent, quando aveva partecipato alla Conferenza degli scrittori afro-asiatici e conosciuto Nazim Hikmet, il grande poeta turco che aveva tradotto in italiano. In quell’occasione aveva conosciuto i compagni del Partito comunista cinese, con i quali aveva fraternizzato.
A Londra scrisse le 200 cartelle del suo romanzo, “L’uomo di Torino”. Ci mise sei mesi, dal 7 novembre del 1963 all’aprile seguente. A maggio lo colse il primo infarto. Dora disse che non smise di fumare dopo questo. Il secondo, la notte fra il 5 e il 6 settembre 1964, gli fu fatale.
Le sue opere uscirono postume, lentamente, nell’arco di quasi quindici anni. Feltrinelli pubblicò nel 1967 “L’uomo di Torino” e l’anno dopo la raccolta di tutte le sue poesie “Carte in tavola”. Nel 1973 uscirono le sue “Carte di un italiano dell’11”, e l’antologia dei suoi saggi filosofici e letterari curata da Mario Lunetta fu pubblicata nel 1977 con il titolo “L’azione letteraria”. Poi più nulla fino al 2009, quando uscì una plaquette con una scelta delle sue poesie a cura di Massimo Raffaeli.
Lo conobbe e lo apprezzò praticamente tutta la critica militante italiana del ‘900, dalla quale non ricevette quasi mai stroncature, anche se lui invece non le risparmiò. Clamorose furono quelle di Louis Aragon che lodava il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e del Dottor Zivago di Pasternak. Nel 2008 gli fu conferito, postumo, il premio letterario Feronia.
Biografia di Velso Mucci (Napoli, 29 maggio 1911 – Londra, 5 settembre 1964)è stato uno scrittore italiano. Durante gli anni del fascismo, per le idee politiche comuniste, è costretto a peregrinare in molte città italiane dove alternò la passione per le lettere alla professione di libraio. pur nelle difficoltà del periodo, continuò a scrivere (“Scartafaccio” viene pubblicato nel ’48 ma è presumibilmente scritto nei primi anni Trenta), fondando e dirigendo nel ’45 la rivista “Il costume politico e letterario”. Negli anni Cinquanta si trasferisce a Bra dove ha modo di proseguire la sua attività letteraria ed impegnarsi politicamente. Nel 1956 viene eletto consigliere comunale, carica che manterrà fino al 1960, ed è chiamato a dirigere il settimanale politico cuneese “La Voce”. Il suo capolavoro letterario è il romanzo “L’uomo di Torino”, che offre uno spaccato della realtà cittadina ai tempi delle prime industrie conciarie negli anni Venti.
Visse in diverse parti d’Italia a seguito degli spostamenti del padre, militare e maestro di musica, fino a stabilirsi definitivamente nel 1924 a Torino, dove frequentò il Liceo classico Cavour, conoscendovi, tra gli altri, Giancarlo Pajetta. All’inizio degli anni ’30 entrò come critico musicale nella redazione de “Il Selvaggio”, dove conobbe, oltre al direttore Mino Maccari, personaggi come l’architetto Carlo Mollino e artisti come Carlo Carrà, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi e Luigi Spazzapan, che ospitò poi nella libreria antiquaria aperta sulla Rive Gauche a Parigi, dove si era trasferito nel 1934. Il suo profilo letterario, legato nelle prime esperienze degli anni ’20 soprattutto alla personalità di Vincenzo Cardarelli, di cui più tardi curerà le edizioni delle Lettere non spedite (Roma, Astrolabio, 1946) e dei Prologhi viaggi favole (Milano, Mondadori, 1946), si arricchì a Parigi grazie alla frequentazione di intellettuali come Paul Éluard, Tristan Tzara, Nazim Hikmet, di cui tradusse più tardi le Poesie (Roma, Editori riuniti, 1960). Dopo la guerra si trasferì a Roma, dove fondò e diresse Il costume politico e letterario, bimestrale dove pubblicarono, tra gli altri, Leonardo Sinisgalli, Umberto Saba, Giorgio Bassani, Mario Tobino, Giuseppe Raimondi, Giuseppe Ungaretti. Nel 1947, dopo essersi iscritto al Partito comunista italiano, entrò in contatto con scrittori quali Niccolò Gallo, Mario Socrate, Giuseppe Dessì, e venne chiamato nel 1958 a far parte del comitato direttivo del Contemporaneo.
Opere principali
Esercizi: 1927-1933 (liriche), Torino, Il Portico, 1935
Le carte (prose e versi liberi), Roma, Il Selvaggio, 1936
Scartafaccio 1930-1946 (versi e prose), Roma, Tip. Ist. Grafico Tiberino, 1948
L’ umana compagnia, con un disegno di Giorgio De Chirico e due incisioni di Mino Rosso, Roma, Il Costume editoriale, 1953
L’ azione letteraria, Roma, Il Costume editoriale, 1958
L’ età della terra (versi), Milano, Feltrinelli, 1962 (premio Chianciano ex aequo con Andrea Zanzotto)
L’ uomo di Torino (romanzo), Milano, Feltrinelli, 1967, ripubblicato nel 2012, Milano, Scalpendi ed.
Carte in tavola (versi), prefazione di Natalino Sapegno, Milano, Feltrinelli, 1968
L’azione letteraria (raccolta di saggi filosofici e letterari, a cura di Mario Lunetta), Roma, Ed. riuniti, 1977
Bibliografia
Dizionario generale degli autori italiani contemporanei, vol. II, Firenze, Vallecchi, 1974, ad vocem
Quest’uomo: Velso Mucci: contributi sulla figura e l’opera, Cosenza, Mondo Nuovo, 1974
Alberto Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1992, ad vocem
Conoscete quest’uomo (Atti del convegno in occasione del centenario della nascita, a cura di Alberto Alberti) Milano, Scalpendi ed., 2012
Mercato delle pulci – Scritti inediti e rari 1930-1963, a cura di Alberto Alberti, prefazione di Massimo Raffaeli, Scalpendi ed., Milano maggio 2015
C’è ancora molto sulla terra – Antologia poetica di Velso Mucci, a cura di Alberto Alberti e Nicola Vacca, Collana “Agorà”, L’Argolibro ed. giugno 2021
Roma va in scena all’ Altrove Teatro Studio “LE SORELLASTRE”
spettacolo scritto da Ottavia Bianchi- regia di Giorgio Latin
Roma-Torna in scena a grande richiesta per la sesta stagione, dall’8 al 10 novembre all’Altrove Teatro Studio, LE SORELLASTRE spettacolo scritto da Ottavia Bianchi e diretto da Giorgio Latini, vincitore del Primo premio nella sezione “Opera teatrale inedita” di “Castrovillari città cultura”; Primo premio alla Drammaturgia Brillante Silvano Ambrogi, Pubblicato dalla Casa Editrice MDS Editore con il patrocinio dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”.
Le Sorellastre è una commedia dai risvolti drammatici che racconta la storia di quattro sorelle Emma, Emilia, Elvira e Ughetta che, lontane e in cattivi rapporti da molti anni, sono improvvisamente obbligate a passare insieme ventiquattro ore in occasione della veglia alla morte della vecchia madre. Infatti è in ballo un’inaspettata eredità che permetterà alle Sorellastre di rimettere a posto alcuni aspetti della loro esistenza. Tuttavia, c’è una condizione per riceverla: dovranno giocare a un gioco inventato dalla madre stessa, una sorta di gioco dell’oca con l’indicazione di cose da fare e cose da dire. L’obbligo è di dire la verità. L’eredità in palio diventa l’innesco di un vero e proprio gioco al massacro fatto di rappresaglie, antichi rancori e desideri di vendetta mai sopiti. Il ritmo è brillantissimo; i colpi di scena si susseguono in modo sorprendente fino a rendere esilaranti e paradossali tutte le enormi e comiche bugie su cui le Sorellastre hanno basato le loro esistenze.
“Il testo è stato in parte ispirato da una serie di interviste molto personali fatte alle attrici stesse della compagnia ma anche a persone di età ed estrazione culturale delle più disparate_ annota Ottavia Bianchi. “ Il risultato di queste intime conversazioni è stata una divertente conferma: la casa natale non è sempre un bel posto dove crescere e imparare le cose del mondo e di questo, per sopravvivere, si può ridere attraverso il meraviglioso genere della commedia. Per famiglia intendo non solo i vincoli di sangue che spesso non rendono giustizia al diritto di ognuno di noi all’amore e all’accoglienza. Famiglia è un qualsiasi gruppo di persone accomunate da un bisogno, un desiderio, un problema importante che le tenga legate. L’essere umano in sé è un animale che repelle e attrae allo stesso tempo proprio perché, nonostante secoli di evoluzione, non ha imparato ancora le regole del vivere. La società cambia, l’uomo no. Le pareti di una stanza chiusa, come chiuso e segreto può essere lo spazio intimo della famiglia, sono il ring ideale per smascherare, attraverso il riso, il mito dell’evoluzione umana.”
LE SORELLASTRE
Venerdì e sabato ore 20
Domenica ore 17
Biglietti: Intero 15€_ Ridotto 10€
Altrove Teatro Studio – Via Giorgio Scalia 53, Roma
Ortona (Chieti)- Bando VII Concorso Internazionale di Canto “F.P.TOSTI”2024-
Ortona( CH), 1-novembre 2024-La grandezza della semplicità, del sentimento d’amore che abbraccia e unisce: c’è nelle Romanze di Francesco Paolo Tosti un’attualità vibrante, sganciata dalle convenzioni e profondamente umana. Così il concorso a lui intitolato dalla sua città natale, Ortona, rappresenta un’opportunità che prova a superare il perimetro della sola qualità tecnica e offrire ai concorrenti il palcoscenico privilegiato della presenza di una giuria con personalità di spicco in diversi ambiti della vita musicale. “Di un concorso è certamente importante il giudizio in gara che determina i vincitori, ma per tutti i concorrenti assume particolare significato anche il rilievo da parte dei giurati del loro talento e delle loro potenzialità, indipendentemente dal risultato e dal fatto che nella competizione, come può succedere, non abbiano dato il meglio di sé”, sottolinea il presidente della giuria Nazzareno Carusi, pianista e consigliere di amministrazione del Teatro alla Scala.
Il concorso di canto intitolato a Francesco Paolo Tosti si svolge ogni quattro anni, e non è un caso. La scelta è ponderata dalla consapevolezza del tempo necessario alla maturazione artistica dei giovani talenti. Il patrimonio universale delle Romanze tostiane, infatti, ha radici profonde nella più alta cultura, non solo musicale. “Tosti sviluppa con assoluta maestria gli insegnamenti della Scuola napoletana – dice ancora Carusi – e dipinge l’animo umano e i suoi sentimenti nelle loro mille sfaccettature, nei toni più luminosi o più oscuri, con melodie e armonie che vestono a meraviglia i testi utilizzati, a cominciare da quelli dell’amico Gabriele d’Annunzio”. Cosa si aspetta dai giovani del concorso? “La preparazione che sola è capace di far brillare il talento”, risponde Carusi. “E poi la semplicità, che è specchio di equilibrio laddove la complicazione non sempre è prova del valore. Tosti ne è perfetto esempio. Poche note e brevi testi rivelano universi dispiegati in ogni canto. Perché se complessa è la natura umana, non deve forzatamente esserlo il suo racconto”. Cosa consiglia a chi vuole iniziare un percorso artistico? “Lo studio senza fine, ma prima sincerandosi d’averne il talento necessario. Il solo impegno, per quanto appassionato, non basta. La qualità musicale, e non solo quella, non è una somma di addendi bensì un prodotto di fattori, dei quali il talento è il primo. Poi, vengono gli altri. Ma se il talento manca, se il talento è zero, per quanto grande voglia essere il numero degli altri fattori, il prodotto sarà sempre e comunque uguale a zero”.
La giuria del settimo Concorso Internazionale “Francesco Paolo Tosti”, presieduta da Nazzareno Carusi è composta da Giorgio Battistelli (compositore, direttore artistico del Festival MiTo e dell’Orchestra Haydn di Bolzano); Eleonora Buratto (soprano); Carlo Fontana (presidente di Impresa Cultura Italia, già sovrintendente del Teatro alla Scala); Michele Gamba (direttore d’orchestra e pianista); Paola Leolini (docente di canto); Alberto Mattioli (critico musicale); Fortunato Ortombina (sovrintendente della Fenice di Venezia e sovrintendente designato del Teatro alla Scala di Milano) e Antonio Poli (tenore).
Le iscrizioni al concorso si possono effettuare solo online al link www.istitutonazionaletostiano.org.
Note biografiche –Francesco Paolo Tosti (Ortona, 9 aprile 1846 – Roma, 2 dicembre 1916) è stato un compositore italiano, conosciuto per essere stato l’autore di celebri romanze da salotto o da camera.
Quinto dei cinque figli sopravvissuti di Giuseppe, commerciante ortonese, studiò col maestro Saverio Mercadante presso il Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, dove si diplomò in violino e composizione nel 1866.
Iniziò a lavorare organizzando spettacoli e dirigendo opere per gli impiegati della ferrovia adriatica, seguendo i lavori tra Ortona e Ancona; si trasferì poi a Roma dove, sfruttando la sua voce tenorile, iniziò ad esibirsi come cantante: grazie a questa attività divenne una celebrità e iniziò a frequentare gli ambienti mondani della capitale, venendo assunto come maestro di canto di Margherita di Savoia, la futura regina d’Italia. Qui strinse amicizia con altri due grandi abruzzesi Gabriele D’Annunzio, uno dei massimi poeti italiani del tempo, e Francesco Paolo Michetti, noto pittore.
Alla fine degli anni 1870 si trasferì a Londra dove, grazie al Lord Mayor e all’appoggio del celebre violoncellista Gaetano Braga, suo corregionale, nel 1880 entrò alla corte della regina Vittoria come maestro di canto: mantenne la sua posizione anche sotto il suo successore, Edoardo VII, che nel 1908 gli conferì il titolo di baronetto: intanto, pur riluttante, aveva accettato anche la cittadinanza britannica (1906). Per tutto il suo periodo inglese continuò ad aver rapporti con l’Italia, dove trascorreva regolarmente alcuni periodi.
Alla morte di Edoardo VII (1910) decise di rientrare definitivamente in Italia e di stabilirsi a Roma, dove morì presso l’Hotel Excelsior nel 1916.
Tra le sue oltre cinquecento romanze per canto e pianoforte, i cui testi vennero scritti anche da poeti come Antonio Fogazzaro, Rocco Pagliara, Naborre Campanini e Gabriele d’Annunzio, e sono stati interpretati dalle voci di Enrico Caruso, Tito Schipa, Giuseppe Di Stefano, Alfredo Kraus, Jussi Bjorling, Luciano Pavarotti, Mina e José Carreras, si ricordano brani tuttora molto eseguiti, quali: L’alba separa dalla luce l’ombra, Malìa, Vorrei morir, Non t’amo più, L’ultima canzone, Ideale e A Marechiare, su testo di Salvatore di Giacomo, divenuto un classico della canzone napoletana.
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