CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito. La mostra a Bologna-
Che Guevara Tú y todos un percorso espositivo per raccontare un personaggio chiave della storia del ‘900, attraverso una ricca e inedita documentazione e con il supporto dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università IULM nella ricostruzione del contesto storico. Il progetto è stato ideato e realizzato da Simmetrico Cultura, prodotto da ALMA e dal Centro de Estudios Che Guevara de l’Avana, il cui archivio è stato inserito nel 2013 nel registro UNESCO del programma Memoria del mondo.
La mostra è curata da Daniele Zambelli, Flavio Andreini, Maria del Carmen Ariet Garcia e Camilo Guevara, scomparso nel 2022, a cui la mostra è dedicata, ed è accompagnata da una “colonna sonora” originale composta da Andrea Guerra. Il percorso espositivo si sviluppa filologicamente su tre livelli di racconto, attraverso cui i visitatori rivivranno i giorni e i luoghi, gli stati d’animo e i pensieri, le azioni personali e gli eventi storici che hanno visto protagonista il Che.
Un livello di narrazione di stampo giornalistico ricostruisce il clima geo-politico; un secondo livello sarà dedicato al contesto biografico con i discorsi pubblici, ai pensieri sull’educazione e sulla politica estera, sull’economia e gli accadimenti privati e pubblici di Ernesto Guevara. Il terzo livello, a-temporale e intimistico, rivelerà gli scritti più personali – dai diari alle lettere a familiari e amici, sino alle inedite registrazioni di poesie – dove dubbi, contraddizioni, riflessioni prendono corpo. Da questo livello narrativo emerge l’uomo, l’intensità delle domande che il Che poneva a sé stesso, la difficile scelta fra l’impegno nella lotta contro l’ingiustizia sociale e la dolorosa rinuncia agli affetti e a una vita di certezze.
Un viaggio straordinario nella vita di uno dei personaggi chiave della storia più recente: Ernesto Guevara, il Che, che si racconta in prima persona.
Centinaia di pensieri, di diari, di lettere ci rivelano intimamente una delle personalità che più profondamente hanno segnato un’epoca.
Il percorso espositivo si chiude con l’installazione dell’artista americano Michael Murphy, uno dei pionieri della Perceptual Art, che ha realizzato appositamente per questa mostra un’enorme ricostruzione multidimensionale, una scultura che si trasforma in un passaggio continuo, dall’immagine del volto del Che a quella della sua firma iconica.
La mostra ha impegnato un team di autori, curatori, cattedratici e archivisti. Negli oltre 24 mesi di lavoro, di cui 3 spesi a Cuba presso la sede del Centro de Estudios Che Guevara, sono stati vagliati oltre 2000 documenti tra fotografie, lettere, cartoline, scritti e manoscritti e sono state visionate oltre 97 ore di documentari e 14 di registrazioni dei discorsi ufficiali.
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
Che Guevara: Tú y todos è realizzata da Simmetrico.
Simmetrico Cultura crea e gestisce mostre in Italia e all’estero, mettendo al centro l’uomo, la storia e l’attualità. I suoi progetti espositivi uniscono rigore scientifico, storytelling e tecnologie immersive per un’esperienza coinvolgente. Grazie a contenuti interattivi e social media, le mostre offrono percorsi di approfondimento e condivisione. Simmetrico collabora con istituzioni e enti per eventi culturali su scala internazionale.
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Info:
Museo Civico Archeologico
CHE GUEVARA tú y todos Museo Civico Archeologico Via dell’Archiginnasio 2, Bologna Fino al 30 giugno 2025 Catalogo Edizioni Pendragon www.mostracheguevara.com
Biografia di Marina Casado- (Madrid, 1989) è docente di Lingua e Letteratura spagnola a Madrid. Laureata in Giornalismo e dottore di ricerca in Letteratura spagnola, è autorice di cinque raccolte poetiche: Los despertares (Ediciones de la Torre, 2014), Mi nombre de agua (Ediciones de la Torre, 2016), De las horas sin sol (Huerga y Fierro, 2019), Este mar al final de los espejos (Torremozas, 2020) y Los ojos fríos del vals (BajAmar, 2022). Ha pubblicato due saggi: El barco de cristal. Referencias literarias en el pop-rock (Líneas Paralelas, 2014) e La nostalgia inseparable. Oscuridad y exilio en la obra de Rafael Alberti (Ediciones de la Torre, 2017). Del 2021 è il suo primo romanzo, Los doce reinos del Tiempo (Ediciones de la Torre). Ha coordinato diverse antologie, come De viva voz. Antología del Grupo Poético Los Bardos (Ediciones de la Torre, 2018). È stata finalista al Premio Adonáis de Poesía nel 2018, 2019 e 2020; nel 2019 ha vinto il Segundo Premio de Poesía Jóvenes Creadores del Ayuntamiento de Madrid e, nel 2020, il Premio Carmen Conde de Poesía para Mujeres con la silloge Este mar al final de los espejos. Tra gli altri, ha ricevuto il Primer Premio del VI Certamen Literario SER Madrid Sur e quello del XV Certamen de Relato Corto Eugenio Carbajal. Alcuni dei suoi componimenti sono apparsi in riviste come Ærea, Piedra del Molino, El Coloquio de los Perros. È stata tradotta in francese e in portoghese e ha preso parte a festival di poesia internazionali: Versalados (Cádiz), Raias Poeticas (Portugal), Voix Vives (Toledo), ELVA (Gran Canaria) e Primavera Poética (Lima). Scrive con frequenza per El País.
Traduzione di Francesca Coppolaha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Letteratura spagnola presso l’Università di Salerno. Attualmente lavora come docente a contratto presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” e l’Università eCampus. I suoi interessi di ricerca, a cui ha dedicato contributi scientifici di vario genere, vertono prevalentemente sulla poesia spagnola del Novecento. È autrice di una monografia dal titolo: Lo perdido en la poesía del exilio de Rafael Alberti: “objetos, cosas y fetiches” en Pleamar, Retornos de lo vivo lejano, Ora marítima, Baladas y Canciones del Paraná, (Madrid, Visor, 2021).
L’oblio
“Ma io non sono più io, né casa mia è la mia casa”. (F. García Lorca)
Non riconosco gli angoli di casa:
sospendono fiori invisibili,
che mai ho guardato.
Fiori neri come il dolore di un astro
o come la memoria lacerata
che assassina il presente.
L’oblio ha la forma infetta
di una fisarmonica abbandonata,
di una qualche stanza vuota
dove i raggi lunari non giungono.
Le pareti confessano che mi hanno vista piangere
e una bimba, in lontananza, si accomiata in silenzio.
Tutto è silenzio adesso.
L’oblio pende dalle pareti
come un astro invisibile,
eppure inconfutabile.
Non ci sono più gatti a Roma
A Rafael Alberti.
Non ci sono più gatti a Roma.
Li ho cercati inutilmente
nelle aurore di Trastevere
tra le rovine cadenzate del Colosseo.
Ci sono però artisti di strada
che mai hanno toccato un pennello,
che espongono in vie decadenti d’estate
identici paesaggi di incerta attribuzione,
con una casa accanto al fiume e un cielo afono
stanco di far piovere.
Ci sono caffè gialli, disabitati quasi,
che servono cappuccini a sei euro
presso la stazione Termini;
pellegrini diretti alle gelaterie;
turisti mascherati da cristiani,
esausti e accaldati,
seduti nei banchi di San Pietro,
vicino a un cartello che recita: “Ingresso riservato ai fedeli”.
Ci ricordo invasi da fantasmi
sotto la luna piena del Foro di Traiano.
L’amore sulle labbra, una canzone lontana di Battiato
che non colmava la solitudine del paesaggio.
Ognuno è il signore della propria sconfitta – “Guarda Nerone dal Monte Tarpeio[1]” –
e anche le più gloriose civiltà
serbano il precipizio tatuato in cima.
No; non ci sono più gatti a Roma.
Non è possibile che nessuno rimanga
Ho imparato molto presto
l’ingranaggio dell’assenza.
Essere triste consiste
nell’inventare un bosco
in cui potersi rifugiare
quando nessuno rimane,
riempirlo di leoni e di baci
e di tutti i racconti
che un tempo ci narrarono
per farci addormentare.
Ho spinto la porta lentamente
con la speranza di trovare
qualcuno ad aspettarmi.
Tra me e la pioggia c’era solo il tuo corpo e questa malinconia che mi brucia e la schiera di leoni che scordasti di piantare sulle rive del mio pianto.
Qualcuno canta lontano e mi ricorda che la morte
è una casa mite con pareti azzurre
dove le logiche della paura si dimenticano presto.
Di questo nulla è possibile? Lo comprendi?
Non ho ancora imparato
l’ingranaggio dell’assenza.
Biografia di Marina Casado- (Madrid, 1989)è docente di Lingua e Letteratura spagnola a Madrid. Laureata in Giornalismo e dottore di ricerca in Letteratura spagnola, è autorice di cinque raccolte poetiche: Los despertares (Ediciones de la Torre, 2014), Mi nombre de agua (Ediciones de la Torre, 2016), De las horas sin sol (Huerga y Fierro, 2019), Este mar al final de los espejos (Torremozas, 2020) y Los ojos fríos del vals (BajAmar, 2022). Ha pubblicato due saggi: El barco de cristal. Referencias literarias en el pop-rock (Líneas Paralelas, 2014) e La nostalgia inseparable. Oscuridad y exilio en la obra de Rafael Alberti (Ediciones de la Torre, 2017). Del 2021 è il suo primo romanzo, Los doce reinos del Tiempo (Ediciones de la Torre). Ha coordinato diverse antologie, come De viva voz. Antología del Grupo Poético Los Bardos (Ediciones de la Torre, 2018). È stata finalista al Premio Adonáis de Poesía nel 2018, 2019 e 2020; nel 2019 ha vinto il Segundo Premio de Poesía Jóvenes Creadores del Ayuntamiento de Madrid e, nel 2020, il Premio Carmen Conde de Poesía para Mujeres con la silloge Este mar al final de los espejos. Tra gli altri, ha ricevuto il Primer Premio del VI Certamen Literario SER Madrid Sur e quello del XV Certamen de Relato Corto Eugenio Carbajal. Alcuni dei suoi componimenti sono apparsi in riviste come Ærea, Piedra del Molino, El Coloquio de los Perros. È stata tradotta in francese e in portoghese e ha preso parte a festival di poesia internazionali: Versalados (Cádiz), Raias Poeticas (Portugal), Voix Vives (Toledo), ELVA (Gran Canaria) e Primavera Poética (Lima). Scrive con frequenza per El País.
Traduzione di Francesca Coppolaha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Letteratura spagnola presso l’Università di Salerno. Attualmente lavora come docente a contratto presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” e l’Università eCampus. I suoi interessi di ricerca, a cui ha dedicato contributi scientifici di vario genere, vertono prevalentemente sulla poesia spagnola del Novecento. È autrice di una monografia dal titolo: Lo perdido en la poesía del exilio de Rafael Alberti: “objetos, cosas y fetiches” en Pleamar, Retornos de lo vivo lejano, Ora marítima, Baladas y Canciones del Paraná, (Madrid, Visor, 2021).
[1] Il verso appartiene al romance “Mira Nero de Tarpeya”, in cui si narra di come Nerone assistesse indifferente allo spettacolo della capitale divorata dalle fiamme che lui stesso aveva appiccato.
POESIE ORIGINALI
El olvido (De las horas sin sol, Huerga y Fierro, 2019)
“Pero yo ya no soy yo, ni mi casa es ya mi casa.” (F. García Lorca)
No reconozco los rincones de mi casa.
Cuelgan de ellos flores invisibles
que nunca había mirado:
flores negras como el dolor de un astro
o como la memoria malherida
que asesina el presente.
El olvido cobra la forma infecta
de un acordeón abandonado,
de alguna habitación vacía
donde no llegan los rayos de la luna.
Las paredes confiesan que me han visto llorar
y una niña, muy lejos, se despide en silencio.
Todo es silencio ahora.
El olvido cuelga de las paredes
como un astro invisible,
pero tan cierto.
Ya no hay gatos en Roma (Este mar al final de los espejos, Torremozas, 2020)
A Rafael Alberti.
Ya no hay gatos en Roma.
Los busqué inútilmente
entre las madrugadas del Trastevere
y por las ruinas cadenciosas del Coliseo.
Hay en cambio pintores ambulantes
que jamás manejaron un pincel,
que exponen en las calles ruinosas del verano
idénticos paisajes de dudosa autoría,
con una casa junto al río y un cielo afónico
cansado de llover.
Hay cafés amarillos, casi deshabitados,
que sirven capuchinos a seis euros
cerca de la estación de Termini;
peregrinos camino de las heladerías;
turistas que camuflan su ateísmo,
calurosos y exhaustos,
en las bancadas de San Pedro,
junto a un cartel que reza: “Entrada solo para fieles”.
Nos recuerdo invadidos de fantasmas
bajo la luna llena del Foro de Trajano.
El amor en los labios, una canción lejana de Batiatto
que no llenaba la soledad de aquel paisaje.
Cada uno es el poseedor de su propia derrota
–“Mira Nero de Tarpella…”– y hasta las civilizaciones más gloriosas
llevan el precipicio tatuado en la cumbre.
No; ya no hay gatos en Roma.
No es posible que no quede nadie (Los ojos fríos del vals, BajAmar, 2022).
He aprendido muy pronto
el mecanismo de la ausencia.
Estar triste consiste
en inventar un bosque
al que poder marcharnos
cuando no quede nadie,
cubrirlo de leones y de besos
y de todos los cuentos
que un día nos contaron
para poder dormir.
He empujado la puerta muy despacio
con la esperanza de encontrarme
a alguien que me esperara.
Entre la lluvia y yo solo estaba tu cuerpo y esta melancolía que me abrasa y los racimos de leones que olvidaste plantar a orillas de mi llanto.
Alguien canta a lo lejos y me recuerda que la muerte
es una casa dócil con paredes azules
donde pronto olvidamos las razones del miedo.
Nada de esto es posible, ¿lo comprendes?
Aún no he aprendido
el mecanismo de la ausencia.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
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Roberto Fiorini- Dietrich Bonhoeffer- Testimone contro il nazismo
GABRIELLI EDITORI – San Pietro in Cariano (Verona)
Descrizione- Questo libro di Roberto Fiorini lo si legge tutto d’un fiato. Per tre motivi. Il primo è che il suo contenuto – la storia di Dietrich Bonhoeffer, qui raccontata nei suoi momenti cruciali – possiede un grande potere di attrazione ed esercita su chi ne viene a conoscenza un fascino unico: non ci si stanca di sentirne parlare e non è facile staccarsi da una figura come la sua. Il secondo motivo è che in questo libro Bonhoeffer è molto più soggetto che oggetto. L’Autore, ovviamente, parla di lui, ma, soprattutto, fa parlare lui; e quando Bonhoeffer parla, è difficile non stare ad ascoltarlo; la sua parola è avvincente tanto quanto la sua vita, anche perché, mentre lo si ascolta, si ha l’impressione che ci parli non dal passato, ma dal futuro, come se quest’uomo fosse oggi più avanti di noi, ci precedesse e anticipasse: il suo discorso sul futuro del cristianesimo dopo la «fine della religione» (che in realtà non sembra finita), resta oggi più ancora di allora di un interesse palpitante. Ma c’è un terzo motivo per cui questo libro lo si legge tutto d’un fiato: è lo speciale punto di vista, inconsueto, ma accattivante, di chi ha imparato a «guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, di chi non ha potere, degli oppressi e dei derisi – in una parola dei sofferenti» in un itinerario che lo ha portato sino al “caso limite”, cioè alla sua diretta opposizione alla politica distruttiva del nazismo e alla conseguente salita sul patibolo 75 anni fa, il 9 aprile 1945.
Ora, in diverse parti d’Europa ritornano simboli, messaggi e organizzazioni politiche che evocano quei tempi oscuri nei quali la disumanità raggiunse dei picchi inimmaginabili. La chiarezza, la determinazione e l’intelligenza della fede con le quali Dietrich Bonhoeffer affrontò quell’”ora della tentazione” sono preziosi anche oggi per un discernimento più che mai necessario. Il suo amico e confidente Eberhard Bethge disse: «Bonhoeffer non è alle nostre spalle, ma è ancora davanti a noi». Bonhoeffer è stato e resta un testimone per chiunque si accinga a percorrere la «via stretta» (Matteo 7,14) della fede e della vita cristiana. Questo libro di Roberto Fiorini lo conferma in maniera egregia. (Dalla Prefazione del prof. Paolo Ricca)
Roberto Fiorini-
Biografia di Roberto Fiorini, ordinato prete a Mantova nel 1963.Dal 1966 al 1972 ha svolto l’incarico di assistente provinciale delle Acli e dal ’68 al ’72 insegnante di religione nelle scuole superiori. Nel 1972, dopo un corso di infermiere generico, scelse di entrare nel mondo del lavoro. Fu assunto nel 1973, come dipendente all’Ospedale Psichiatrico di Mantova. Dopo il diploma di infermiere professionale ha operato nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitario e infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Negli anni ’80-‘90 ha insegnato etica professionale nei corsi di formazione degli infermieri allora gestiti dalla CRI di Mantova. Dal 1983 al 1989 è stato segretario dei preti operai italiani e dal 1987 è responsabile della rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsi di studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su “Theologia crucis in Dietrich Bonhoeffer”. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teologico del Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) di Mantova. Dal 2010 ricopre l’incarico di assistente spirituale delle Acli provinciali. Nel 2015 ha pubblicato “Figlio del Concilio. Una vita con i preti operai”. Con altri (G. Miccoli, F. Scalia, R. Virgili, A. Rizzi), “Servizio e potere nella chiesa”, Gabrielli editori 2013.
GABRIELLI EDITORI – Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)
«una certa dose di meledicenze, un po’ di veleno, alcuni aneddoti e pettegolezzi… Scrivo del mio tempo» Sergej M. Ejzenstejn
«Ma c’è stata la vita?…Si direbbe ci sia stata. Vissuta in modo acuto, allegro, doloroso, addirittura vivida in alcuni momenti,indubbiamente pittoresca, e tale che non la cambierei con nessun’altra» Sergej M. Ejzenstejn
La corazzata Potëmkin
Il bisogno di scrivere prende forma precocemente in Ejzenstejn, che sin dal 1917-1918 annota in quaderni e su foglietti improvvisati ogni sorta di riflessione: da considerazioni sul teatro a impressioni tratte dalle letture fatte, da divagazioni filosofiche a piccoli aneddoti buffi.
Nel 1946, sulla soglia dei cinquant’anni, mentre si accinge a scrivere le proprie memorie, egli nota come per tutta la vita, nel suo lavoro, si sia occupato «di opere à thèse» dimostrando, spiegando, insegnando. Mentre «qui», dichiara, «voglio girovagare per il mio passato, come amavo fare per antiquari e rigattieri del mercato Aleksandrovskij a Piter, per i bouquinistes dei lungosenna a Parigi, per Amburgo o Marsiglia di notte, per le sale dei musei delle cere».
Ecco allora che in queste pagine letture e stralci di vita vissuta s’intrecciano; Dumas e Hugo, Zola e Balzac si profilano nelle sale borghesi della casa paterna, Maeterlinck e Schopenhauer si stagliano sullo sfondo della guerra civile, le città d’Europa e d’America sono evocate ora attraverso incontri fortuiti con artisti di fama, da Pirandello a Cocteau, da Zweig a Joyce, ora tramite associazioni libere con temi ed eventi storici legati ai luoghi visitati: la polizia americana e francese e le tecniche del romanzo giallo, le millenarie piramidi dello Yucatan e la Chiesa ortodossa medievale, gli esordi teatrali e cinematografici a Riga e Pietrogrado, i ricordi d’infanzia sul Baltico, le prime impressioni della Rivoluzione, il fronte e la guerra civile nella Russia bianca, le emozioni per i successi professionali all’estero e in patria, i viaggi… Così la vita del grande regista «sfreccia nella memoria come un film con dei vuoti, dei pezzi spariti, con scene incollate in modo sconnesso, come un film la cui “idoneità alla distribuzione” sia pari al trentacinque per cento».
Eppure, lo scrittore Ejzensˇtejn non ci ha mai parlato in modo così chiaro. Giacché solo qui, e forse nei primi giovanili appunti «per sé», egli scrive senza altra finalità se non quella, appunto, di «scrivere». Nei suoi intenti c’è dunque l’idea di afferrare, tramite la scrittura, episodi, incontri, attimi,
immagini di quella vita che spesso noi tutti «percorriamo al galoppo, senza guardarci intorno, come un trasbordo dopo l’altro», e dalla quale, «come dal finestrino di un treno, sfrecciano via frammenti d’infanzia, pezzi di gioventù, scampoli di maturità».
È lui stesso, in apertura delle Memorie, ad annotare: «Come vorrei esaurire il capitolo riguardante la mia vita con tre parole! “Visse, meditò, si appassionò”. E che queste pagine possano servire a descrivere ciò di cui ha vissuto, su cui ha meditato e a cui si è appassionato l’autore».
Sergey Michajlovic Ejzenstejn
Biografia di Sergey Michajlovic Ejzenstejn (1898-1948), massimo interprete del cinema russo e geniale innovatore della teoria cinematografica, iniziò il suo lavoro creativo come scenografo e regista teatrale (Il messicano, 1920-21; Anche il più saggio sbaglia, 1923; Mosca ascolti?, 1923; Maschere antigas, 1923-24). Il suo primo film è Sciopero (1924). Seguono: La corazzata Potëmkin (1925); Ottobre (1924); Il vecchio e il nuovo (La linea generale) (1926-29); Qué viva Mexico! (1930-31), incompiuto; Il prato di Bezin (1937), incompiuto; Aleksandr Nevskij (1938); Ivan il Terribile (I parte 1944, II parte, nota col titolo La congiura dei Boiardi, 1946). Dal 1928 fu anche insegnante di regia all’Istituto statale di cinematografia. Nel 1940 mise in scena La Valchiria di Wagner al teatro Bol’soj di Mosca. Al lavoro creativo di Ejzenstejn si affianca, fin dall’inizio, una straordinaria produzione di testi teorici nei quali l’indagine sul cinema si svolge, di regola, nel contesto di una penetrante riflessione sull’arte che oggi possiamo considerare senz’altro come uno degli episodi salienti del pensiero estetico moderno.
FRANCO LOI poesie scelte a cura di Nelvia Di Monte –
Questo era il compito assegnato alla poesia da Franco Loi che, per oltre mezzo secolo, ha scritto poesie e si è dedicato a diffondere la poesia di autori della nostra letteratura e a sostenere giovani poeti. Molteplici aspetti del vivere, individuale e sociale, della storia e dell’attualità, trovano espressione nei suoi testi, e lo stile asseconda un dire che spazia dalle corde più narrative ad una più intima liricità. Una voce libera e schietta, la sua, così prossima al dialogo e al canto.
Poesie di FRANCO LOI-Rivista FINE SECOLO -6-7 giugno 1985
“Poesia è un costante modo per confrontarci col mistero di noi stessi e delle cose. In un’epoca come questa, tutta protesa all’esterno e intenta a stordirsi, la poesia è fondamentale per richiamare l’uomo alla propria inermità, all’attenzione a sé, agli altri, alla speranza, che, come dice Dante mettendo in versi Paolo di Tarso «è sostanza di cose sperate»”.
FRANCO LOI-
Che dì, ragassi! In depertütt balera!
Baler in strada, baler den’ di curtìl…
L’è la mania del ballo! Milan che balla!
Gh’è ’n giögh de bocc, un prâ… Sü tri canìcc,
e, tràcheta, la sala bell’e prunta…
Un’urchestrina… Tri balabiott pescâ
föra Lambrâ… E via volare! El Nait
’na lüsa sula! Basta che pénden
chi quatter lampedìn de carta rösa…
Gardenia, Miralago, Stella Russa,
el Lido, Lago Park, la Capannina…
Fina nel Trotter… E ogne nòm ’na storia,
ché basta dì «l’era ’l Quarantacinq»
e pö «Quarantases», e a tanta gent
s’indrissa i urègg, ghe vègn i furmigun…
… Vegnivum da la guèra, e per la strada
gh’evum passâ insèma amur, dulur.
Amô sparaven, amô gh’eren i mort,
ma serum nüm, serum class uperara,
nüm serum i scampâ da fam e bumb,
nüm gent de strada, gent fada de mort,
nüm serum ’me sbuttî dai fòpp del mund,
e, nun per crüdeltâ, no per despresi,
mancansa de pietâ, roja de nüm,
ma, cume ’na passiun de sû s’ciuppada,
anca la nott nüm la vurevum sû…
Ciamila libertâ, ciamila sbornia,
ciamila ’me vurì… Festa ai cujun!
… ma nüm, che l’èm patida propri tüta,
anca la libertâ se sèm gudü!
Che giorno, ragazzi! Dappertutto balera!
Balere in strada, balere nei cortili…
È la mania del ballo, Milano che balla!
C’è un gioco di bocce, un prato… Su tre cannicci,
e, tràccheta, la sala è già pronta…
Un’orchestrina… Tre strapelati pescati
fuori Lambrate… E via volare! Il Night
è una sola luce! Basta che pendano
quelle quattro lampadine di carta rosa…
Gardenia, Miralago, Stella Rossa,
il Lido, Lago Park, la Capannina…
Perfino nel Trotter… E ogni nome una storia,
ché basta dire «era il Quarantacinque»
e poi «Quarantasei», e a tanta gente
si drizzano le orecchie, gli vengono i formiconi…
… Venivamo dalla guerra, e per la strada
ci avevamo passato insieme amori, dolori.
Ancora sparavano, ancora c’erano i morti,
ma eravamo noi, eravamo classe operaia,
noi eravamo gli scampati dalla fame e dalle bombe,
noi, gente di strada, gente fatta di morte,
noi eravamo come germinati dalle fosse del mondo,
e non per crudeltà, non per disprezzo,
mancanza di pietà, vomito di noi,
ma, come una passione di sole esplosa,
anche la notte noi la volevamo sole…
Chiamatela libertà, chiamatela sbornia,
chiamatela come volete… Festa ai coglioni!
… ma noi, che l’abbiamo patita proprio tutta,
anche la libertà ci siamo goduti!
(Angel, 1994 – Parte Prima. IX)
FRANCO LOI-
Nüm ciàmum natüra quèl che sèmm, vedèmm
e tùccum, vìvum, màgnum… forsi pénsum…
Ma lé sé l’è? Un quìss. Forsi sustansa
de quèl che ne la vita l’è ’l pensà,
forsi quèl vöj ch’al mar de la bundansa
la furma scund nel vel del sò passà…
Oh che natüra matta! Un giögh del nient.
Te vöret stàgh nel cör e sbandunàss,
e lé la buffa, se fa d’aria, e ’l vent
te tira denter e l’è ’me ’n sluntanàss,
e l’è ’na vöja che te strèppa dent
e dumâ curr te fa sensa fermàss…
E alura a chi dà atrâ? A la natüra?
la sciensa? religiun? el farnesià
che fa filusufìa? o a chi trascüra
la faccia d’un quaj diu e i sò creà?
Mì, per mè cünt, û truâ la cüra:
natüra lé, natüra mì, el parlà…
E dunca stèmegh dent sensa paüra
e del sò bèll lassìm ’me ’n ciucch cantà.
Noi chiamiamo natura quel che sappiamo, vediamo,
e tocchiamo, viviamo, mangiamo… forse pensiamo…
Ma lei cos’è? Un enigma. Forse sostanza
di quello che nella vita è il pensare,
forse quel vuoto che in un mare così grande
la forma nasconde al velo del suo passare…
Oh che natura pazza! Un gioco del niente.
Tu vuoi starci nel cuore e abbandonarti,
ma lei sbuffa, si fa d’aria, e il vento
ti attira dentro ed è come un allontanarsi,
ed è un desiderio che ti dilania dentro
e soltanto correre ti fa senza riposo…
E allora a chi dar retta? Alla natura?
alla scienza? la religione? il farneticare
della filosofia? o a chi trascura
la faccia d’un qualsiasi dio e le sue creazioni?
Io, per mio conto, ho trovato la cura:
natura lei, natura io, il parlare…
Dunque stiamoci dentro senza paura
e del suo bello lasciatemi da ubriaco cantare.
(Angel, 1994 – Parte Quarta. III)
FRANCO LOI-
Sù pü né quèl che sun né quèl che seri,
sù nient de quèl sarà che me recorda,
e alter me vègn sü, cum ’una storia
che vègn de la memoria del cantà..
Oh vurarìa.. Che gran parola storba!
Quèl che la vita dìs sa pü parlà.
J öcc.. oh dì di öcc! che gran fortüna
vèss in quj öcc un spegg del respirà..
La nott l’era la nott, e mì nel venter
me sun nascost de lé per mai turnà.
Non so più quel che sono né quel che ero,
non so niente di quel futuro che già mi ricorda,
e l’altro mi vien su, come una storia
che torna dalla memoria del cantare..
Oh vorrei.. Che gran parola disturbata!
Quel che la vita dice non sa più parlare.
Gli occhi… oh dire degli occhi! Che gran fortuna
essere in quegli occhi uno specchio del respirare..
La notte era la notte, e io nel ventre
mi son nascosto di lei per non tornare.
(Verna, 1997)
Sbianca la nott la ghe tegniva in scoss,
e la citâ despersa dré di spall
e l’aqua sott i câ la se perdeva
e i gent che nel passà rideven matt,
e lé l’era la nott che ghe purtava
tra i strâd ne la belessa de l’andà,
che mì e tì, nel perdèss del stà insèma,
anca la nott, l’umbrìa, èm smentegâ.
Pallida la notte ci teneva in grembo,
e la città dispersa dietro le spalle
tra le acque che sotto le case si disperdevano
e le genti che nel passare ridevano strambe,
e lei la notte ci portava
tra le strade nella bellezza dell’andare,
ché io e te, nel perdersi dello stare assieme,
anche la notte, l’ombra, abbiamo dimenticato.
(Verna, 1997)
FRANCO LOI-
*
Sü ’n tram û ’ist in faccia la belessa,
un tram südâ, de cappell e giacch,
de impiagâ cuj facc de la tristessa,
e de dònn grass, de bamburín cuj tacch;
û ’ist la faccia che ghe brusava el cör
in ’na Milan che la slisava aj fracch
de câ indurment, de òmm che par che mör,
de auto, buss, sirènn e gas ne l’aria,
e ’stu scappà del temp föra del vör..
L’era ’na faccia franca, lüs ne l’aria,
nel rídd al blö di öcc culur del vent,
un vestî flosc d’un rösa che par svaria
al trèm del corp al tucch del sentiment..
Mí l’û beüda nel bèll del so vardà
e lé s’è fada festa tra la gent.
Su un tram ho visto in faccia la bellezza,
un tram sudato, di cappelli e giacche,
di impiegati con le facce della tristezza,
e donne grasse, e ombelichi sui tacchi;
ho visto la faccia che le bruciava il cuore
in una Milano che scivolava tra mucchi
di case addormentate, di uomini che sembrano morire,
di auto, bus, sirene e gas nell’aria,
e questo fuggire del tempo oltre la volontà..
Era una faccia franca, luce nell’aria,
nel ridere blu di occhi color del vento,
un vestito floscio d’un rosa che pare cangiante
al tremare del corpo al tocco del sentimento..
Io l’ho bevuta nel bello del suo guardare
e lei si è fatta festa tra la gente.
(Amur del temp, 1999)
Stu mancament del mund me fa paüra,
stu vöj de carna che par restreng j òmm,
quèl gran silensi che passa ne la sera
e se mí ciami l’è silensi amô.
Questo mancamento del mondo mi fa paura,
questo vuoto della carne che pare stringere gli uomini,
quel gran silenzio che passa nella sera
e se io chiamo è silenzio ancora.
(Amur del temp, 1999)
FRANCO LOI-
*
Sun lí che pensi e me vègn de piang,
a l’impruísa, per un quaj magun
che sta sòta la pèll, cume la vita
che mai la pénsum e l’umbra l’è de nüm.
L’è del giardín che vègn de caragnà,
ché passa in aria un sfrís che par de nüm
e se scunfund aj àrbur nel vardà:
un vestî vècc, di facc, un nòm luntan,
el sentiment d’un grupp de desgrupà,
una fenestra che se derva pian.
Chissà sé te scartàscia den’ nel corp?
Se varda el sû e te boja un can.
Sono lì che penso e mi viene da piangere,
all’improvviso, per un qualche magone
che sta sotto la pelle, come la vita
che mai la pensiamo ed è l’ombra di noi.
È del giardino che ci viene da piangere,
ché passa nell’aria una scalfittura che sembra noi
e si confonde agli alberi nel guardare:
un vestito vecchio, delle facce, un nome lontano,
il sentimento d’un nodo da sciogliere,
una finestra che si apre piano.
Chissà cosa ti fruga tra le carte del corpo?
Si guarda il sole e ti abbaia un cane.
(Isman, 2002)
Dent la paròla persa mí me pèrdi,
deventi i ròbb del mund, l’aria che passa,
quèla parola che sta dedré de l’aria
e se fa ciara aj ögg che stan nel temp;
e se mí parli sù no chi l’è a parlà,
l’è ’l vent che parla nel mè d’un sentiment,
che nient se fa del nient, e nel pensà
la vûs che mí me ciama me vègn dent.
Dentro la parola persa io mi perdo,
divento le cose del mondo, l’aria che passa,
quella parola che sta dietro l’aria
e si fa chiara agli occhi che stanno nel tempo;
e se io parlo non so chi è a parlare,
è il vento che parla nel mio sentimento,
che niente si fa dal niente, e nel pensare
la voce che mi chiama mi viene dentro.
(Isman, 2002)
FRANCO LOI-
*
“Mì quan’ camini mai me volti indré
e se me volti l’è per tirà la vita,
chì, in due sun, in tra i brasc del temp.”
“Io quando cammino non mi volto mai indietro
e se mi volto è per attrarre la vita,
qui, dove sono, tra le braccia del tempo.”
(Voci d’osteria, 2007)
J öcc în loffi ne l’aria dré la mort,
la man de palta sura un linsö tütt bianch
mè pàder varda el sû cume a vèss nott…
Mè trèma d’aqua el cör de rana verd…
Due l’è? sé l’è mè pàder? cusa l’è ’ndâ?
sé restarà de lü nel vègn del verd
sü ’l gran linsö rescî? Mì sun passâ
nel spègg che scund la giuentü tra i vent
che sbuffa secch i föj de l’òm s’cincâ…
Chi trèma? chi se möv orb de la ment?
chi denter mì par rìdd del frècc d’inverna?
Sun chì a vardà un scunussü fâ nient
e pian se pèrd del pàder la mia eterna
fadiga de capì l’aria, el sò temp.
Gli occhi sono sciocchi nell’aria dietro la morte,
la mano di palta su un lenzuolo tutto bianco
mio padre guarda il sole come fosse notte…
Mi trema d’acqua il cuore di rana verde…
Dov’è? cos’è mio padre? cosa se n’è andato?
Cosa rimarrà di lui nel venire del verde
sul gran lenzuolo spiegazzato? Io sono passato
nello specchio che nasconde la gioventù tra i venti
che soffiano secchi le foglie dell’uomo spezzato…
Chi trema? chi si muove cieco di mente?
chi dentro mi sembra ridere del freddo invernale?
Sono qui a guardare uno sconosciuto fatto di niente
e adagio si perde del padre la mia eterna
fatica di capire l’aria, il suo tempo.
(Voci d’osteria, 2007)
*
Se möv in nüm quajcoss: l’è la cansun
che sentirèm nel scür de la tua stansa
l’è la belessa in mì del tò bèl fiâ?
o la memoria d’i dì che l’û cercada
e süj mè strâd pereva un sogn luntan?
Quajcoss se ciama amur, quajcoss vergogna,
quajcoss l’è libertà de vèss al mund.
Si muove in noi qualcosa: è la canzone
che sentiremo nel buio della tua stanza?
è la bellezza in me del tuo respiro?
o la memoria dei giorni che l’ho cercata
e sulle mie strade pareva un sogno lontano?
Qualcosa si chiama amore, qualcosa vergogna,
qualcosa è libertà d’essere al mondo.
(Voci d’un vecchio cantare, 2017)
Per Antonio Stagnoli
Sé l’è el giögh? L’è libertà, amur,
gioia de vìv, stà ’nsèma ne la vita,
dàss aj so angiul, tràss föra del dulur,
e alura dèm aj òmm sta cumparsita
de pulverina che je fa insugnà,
stu bèll brüsà de l’anfa de la vita
che cun l’amur te ciama al sumenà…
Se pensi ’l Paradîs nient l’è pü bèll
del sant enamuràss e del giügà,
e alura, cume dîl?… Squasi un barbèll
me vègn se stu a pensà al mè giügà…
e inscì me sun decìs: un bèll carèll
de palla prigioniera, un gran saltà
de corda e cun la lippa, e squasi in fund
la toppa e ’n te-ghe-lét che fa palpà…
L’è ’l mè regâl, el testament al mund.
Dopu tantu parlà, e cüntâv sü la storia
de l’angiul che sun stâ e vagabund,
me resta dumâ ’l temp de cantà i gloria,
svelià l’umbra d’un Diu nel vòster piatt
e pö mis’cià la mia vostra memoria
e fâv balà fra i stell, returnà matt.
Che cos’è il gioco? È libertà, amore,
gioia di vivere, stare insieme nella vita,
darsi ognuno al proprio angelo, tirarsi fuori dal dolore,
e allora diamo agli uomini questa ballata
di polverina magica che li fa sognare,
questo intenso bruciare l’affanno della vita
che con l’amore ti chiama al seminare…
Se ripenso il Paradiso niente è più bello
del santo innamorarsi e del giocare,
e allora, come dirlo?… Quasi un tremore
m’insorge se sto a pensare al mio giocare…
e così mi sono deciso: un bel carrello
di palla prigioniera, un gran saltare
alla corda e con la lippa, e quasi in fondo
la toppa e rincorrersi e toccarsi…
È il mio regalo, il testamento al mondo.
Dopo tanto parlare, e raccontarvi la storia
dell’angelo che sono stato e vagabondo,
mi rimane soltanto il tempo di cantare i Gloria,
svegliare l’ombra d’un Dio nella vostra vita
e poi mescolare la vostra e la mia memoria
e farvi infine ballare fra le stelle, ritornare matto.
(Voci d’un vecchio cantare, 2017)
Me piâs la vûs, me piâs la lüs del fiâ,
me piâs quèl camenà sensa paüra
giò per i piass felsin due ch’j straad
portenl’antiga vöja mai madüra
di gent ch’a la fadiga san cantà…
me piâs la niula che se fa ciara e scüra
sia nel silensi sia nel tò parlà,
me piâs l’amur de Diu che te consüma
sensa che mai fenìss el tò ciamà.
Mi piace la voce, mi piace la luce del respiro,
mi piace quel camminare senza paura
giù per le piazze felsinee dove le strade
portano l’antica voglia mai esaurita
delle genti che nella fatica sanno cantare…
mi piace la nuvola che si fa chiara e scura
sia nel silenzio che nel tuo parlare,
mi piace l’amore per Dio che ti consuma
senza mai esaurire il tuo chiamare.
(Voci d’un vecchio cantare, 2017)
FRANCO LOI-
Franco Loi (Genova 1930 – Milano 2021) ha scritto molte raccolte di poesia, a partire da I cart (Edizioni 32, 1973). Tra queste: Stròlegh (Einaudi 1975), Teater (Einaudi 1978), L’angel (San Marco dei Giustiniani 1981 e, in edizione accresciuta, Mondadori 1994), Liber (Garzanti 1988), Verna (Empiria 1997), Amur del temp (Crocetti 1999), Isman (Einaudi 2002), Aquabella (Interlinea 2004), Voci d’osteria (Mondadori 2007), I niül (Interlinea 2012). Voci d’un vecchio cantare (Il Ponte del Sale 2017) è l’ultima raccolta edita. Diverse anche le opere in prosa, come i racconti di L’ampiezza del cielo (Ignazio Maria Gallino 2001), Milano. Lo sguardo di Delio Tessa (Unicopli 2003), Il silenzio (Mimesis 2012).
Itzhak Katznelson “Il canto del popolo ebraico massacrato”
Itzhak Katznelson- poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto
Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Itzhak Katznelson (Karėličy, 1º luglio 1886 – campo di concentramento di Auschwitz, 1º maggio 1944) è stato un poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto.-tradotto da Helena Janeczek
Il canto del popolo ebraico massacrato
I Canta
1
«Canta! Prendi in mano la tua arpa, vuota, svuotata e misera,
sulle sue corde fini getta le dita pesanti
come cuori, come cuori afflitti. Canta l’ultimo canto,
canta degli ultimi ebrei in terra d’Europa».
2
– Come posso cantare? Come posso aprir la bocca,
se sono rimasto io da solo –
mia moglie e i miei due bambini- orrore!
Inorridisco d’orrore…si piange! Sento ovunque un pianto-
3
«Canta, canta! Alza la tua voce afflitta e rotta,
cerca, cerca lassù in alto, se c’è ancora Lui,
e cantagli…cantagli l’ultimo canto degli ultimi ebrei,
vissuti, morti, non sepolti e non più…»
4
– Come posso cantare? Come posso alzar la testa?
Deportata mia moglie e il mio Benzion e il mio Yomele- un bimbo –
Non li ho più qui con me e non mi lasciano più!
O ombre oscure della mia luce, o ombre fredde e cieche.
5
« Canta, canta un’ultima volta qui sulla terra,
getta indietro la testa, fissa gli occhi su di Lui
e cantagli un’ultima volta, suonagli la tua arpa:
qui non ci sono più ebrei! Massacrati, e non più qui!».
6
– Come posso cantare? Come posso fissare gli occhi e alzar la testa?
Una lacrima ghiacciata mi si è appiccicata all’occhio…
vorrebbe staccarsi, strapparsi via dall’occhio
– e non può cadere, Dio mio!
7
«Canta, canta, alza il tuo sguardo cieco al cieli alti,
come ci fosse un Dio lassù nei cieli…salutalo, saluta con la mano-
come se da lassù una grande fortuna ci splendesse e ci illuminasse!
Siedi sulle rovine del tuo popolo massacrato e canta!
8
– Come posso cantare? Se il mondo per me è deserto?
Come posso suonare con le mani rotte?
Dove sono i miei morti? Io cerco i miei morti, Dio, in ogni rifiuto,
in ogni mucchio di cenere…O, ditemi dove siete.
9
Gridate da ogni pezzo di terra, da sotto ogni pietra,
da ogni grano di polvere, da tutte le fiamme, tutto il fumo-
è il vostro sangue e succo, è il midollo delle vostre membra,
è la vostra anima e carne! Gridate, Gridate forte!
10
Gridate dai visceri delle fiere nel bosco, dai pesci nello stagno-
Vi hanno mangiati. Gridate dai forni, gridate grandi e piccoli:
voglio uno strepito, un lamento, una voce, voglio una voce da voi,
gettare uno sguardo muto, ammutolito sul mio popolo massacrato-
e voglio cantare…sì…datemi l’arpa- io suono!
3-5.10.1943.
IX Ai cieli
1
Così ebbe principio, incominciò…Cieli, dite perché, dite per chi?
Perché sulla terra tutt’intera ci tocca essere tanto umiliati ?
La terra, sordomuta, ha come chiuso gli occhi…Ma voi, voi cieli, voi avete visto,
stavate a guardare voi, lassù dall’alto; eppure non vi siete capovolti!
2
Non si è rannuvolato il vostro azzurro, scontato azzurro, splendeva falso come sempre,
il sole rosso come un boia crudele ha continuato a girare in tondo,
la luna, vecchia sgualdrina peccatrice, andava a passeggiare in voi la notte,
e le stelle sconce brillavano, strizzavano gli occhietti come topi.
3
Via! Non voglio alzar lo sguardo, non voglio vedervi, non voglio saper nulla di voi!
O cieli falsi e bugiardi, o lassù nell’alto bassi cieli! Quanto mi addolora:
Io vi credevo un tempo,vi confidavo gioia e tristezza, riso e pianto,
ma voi non siete meglio della schifosa terra, del grande mucchio di letame!
4
Io vi lodavo, cieli, io vi inneggiavo in ogni mia canzone, ogni mio canto-
io vi amavo come si ama una moglie; lei non c’è più, disciolta come schiuma.
io somigliavo sin dalla mia infanzia il sole in voi, il sole fiammeggiante del tramonto
alla mia speranza: “così svanisce la mia speranza, così muore il mio sogno!”
5
Via!Via! Vi siete fatti beffa di noi tutti, beffati il mio popolo, beffata la mia stirpe!
Da sempre voi ci sbeffeggiate: già i miei padri, i miei profeti sbeffeggiavate!
A voi, a voi – alzavano gli occhi, alla vostra fiamma si accendevano,
i più fedeli a voi qui sulla terra che sulla terra si struggevano per voi.
6
A voi anelavano….a voi per primi esclamavano: haazinu!- Ascoltate!
E solo poi la terra. Così il mio Mosè e cosi Isaia, il mio Isaia: shimu!- Udite!
E shomu! gridava Geremia: shomu! A chi, se non a voi? Perché d’un colpo vi siete estraniati?
O aperti e vasti cieli, luminosi e alti cieli! voi siete tali quali alla terra.
7
Non ci conoscete, non ci riconoscete più- perché? Saremo poi
tanto diversi, tanto cambiati? Ma se siamo gli stessi ebrei di sempre-
e anche molto migliori…Io no! Non voglio paragonarmi ai miei profeti, non devo,
ma loro, tutti quegli ebrei portati a morire, i milioni massacrati ora –
8
Loro sì, sono migliori: più provati, purificati dall’esilio! E quanto vale
uno dei grandi ebrei di allora di fronte a un piccolo, semplice, qualsiasi ebreo di oggi
in Polonia, Lituania, Volinia, in ogni terra d’esilio, – in ogni ebreo si lamenta e grida
un Geremia, un Giobbe disperato, un re deluso intona il Qohelet.
9
Non ci conoscete, non ci riconoscete più, nessuno: come fingessimo di essere altri.
Ma noi siamo gli stessi, gli ebrei di sempre, e come sempre pecchiamo contro noi stessi,
e come sempre rinunciamo alla nostra felicità e vogliamo ancora salvare il mondo-
E voi, com’è che siete così azzurri, voi cieli azzurri, mentre ci stanno massacrando, com’è che siete così belli?
10
Come Saul, il mio re, nella mia pena cercherò la maga,
troverò la strada disperata e scura per Endor,
e chiamerò fuori dalle tombe tutti i miei profeti e tutti implorerò: guardate, guardate in alto
ai vostri chiari cieli e sputate loro in faccia: “che siate maledetti, maledetti!”
11
Voi cieli stavate a guardare da lassù quando hanno portato i bambini del mio popolo
– per navi, su treni, a piedi, in pieno giorno e nella notte scura- a morire,
milioni di bambini, mentre li ammazzavano, hanno alzato le mani a voi- non vi siete commossi,
milioni di nobili madri e padre- non si è accapponata la vostra azzurra pelle.
12
Voi avete visto i Yomele di undici anni, semplice gioia! gioia e bontà,
e i Benzion, i piccoli geonim così seri e studiosi…consolazione di tutto il creato!
Avete visto le Hanne che li hanno avuti e consacrati a Dio nella sua casa,
e siete rimasti a guardare…Non avete nessun Dio in voi, cieli! Cieli da niente, cieli smagliati!
13
Non avete nessun Dio in voi! Aprite le vostre porte, cieli, aprite e spalancate
e lasciate entrare tutti i bambini del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato,
aprite per la grande ascensione: tutto un popolo crocefisso con gravi sofferenze
deve entrare in voi…Ciascuno dei miei bambini massacrati può essere il loro Dio!
14
O cieli desolati e vuoti, o cieli come un deserto vasti e desolati,
io ho perso in voi il mio unico Dio, e a loro averne tre non basta:
il Dio degli ebrei, il suo spirito e l’ebreo della Galilea che giustiziarono, sono pochi:
ci hanno spediti tutti quanti in cielo, – o schifosa e vigliacca idolatria!
15
Rallegratevi, cieli, rallegratevi!- Eravate poveri, adesso siete ricchi,
che messe benedetta- tutto, tutto un intero popolo, che gran fortuna, vi è stato regalato!
Rallegratevi cieli lassù con i tedeschi, e i tedeschi si rallegrino quaggiù con voi,
e un fuoco dalla terra salga fino a voi e divampi un fuoco da voi fino alla terra.
26.11.1943
Breve Biografia-Yitzhak Katzenelson nacque nel 1886 in Bielorussia, ma presto si trasferì con la famiglia a Lodz, in Polonia, dove aprì una scuola e si dedicò alla Letteratura, scrivendo sia in yiddish, sia in ebraico. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Varsavia, dove assisté all’agonia del ghetto.
Nel 1943 la moglie e i suoi due figli minori furono uccisi. Lui, insieme al figlio maggiore, fu portato a Vittel, in Francia. Qui scrisse Il canto del popolo ebraico massacrato. Il 29 aprile 1944 fu deportato ad Auschwitz, dove fu subito eliminato.
La voce di Yitzhak Katzenelson è la voce di Giobbe, un Giobbe della modernità. Una voce dinnanzi alla quale l’intera umanità si arresta turbata. Si tratta di un’opera che non può essere paragonata a nessun’ altra nella storia della Letteratura mondiale: è la voce di un condannato a morte, fra centinaia di migliaia di condannati a morte, consapevole del suo destino di uomo e del destino del suo popolo.
La voce di Yitzhak esce dal grembo di “cieli nulli e vuoti”, impassibili al compiersi del massacro insensato e ingiustificato della
Poesie di Tove Ditlevsen – Poetessa e scrittrice danese-
Poesie di Tove Ditlevsen (1917-1976) Poetessa e scrittrice danese, è stata una delle personalità più eminenti della letteratura danese del Novecento. Il suo debutto avvenne nel 1939 con la raccolta Pigesind [Anima di fanciulla]. La crescita nel quartiere operaio di Vesterbro a Copenaghen ha inciso su tutta la sua attività letteraria. Attraverso poesie, romanzi, racconti, saggi e storie per bambini, Tove Ditlevsen ha cercato e ritrovato, per tutta la vita, il mondo della sua infanzia lì collocato. Amore e matrimonio, fragilità e divorzio, scrittura e morte sono stati tutti immortalati nello stile semplice e sobrio, e insieme doloroso e umoristico, che caratterizza la sua scrittura. Amata dai lettori e criticata dai letterati, la sua notorietà in patria fu enorme al pari della sua produzione. Con più di trenta libri pubblicati, Tove Ditlevsen ha dato un’incisiva testimonianza sulla condizione di essere donna e scrittrice nel ventesimo secolo. Di recente è stata tradotta in vari paesi la cosiddetta Trilogia di Copenaghen, romanzi fondamentali in cui Tove Ditlevsen ripercorre la sua vita, dando ai diversi stadi di essa tre titoli esemplari: Infanzia [Barndom], Gioventù [Ungdom] e Dipendenza [Gift]. Questa è la prima edizione italiana che presenta una selezione delle sue poesie.
Tove Ditlevsen
Poesie di Tove Ditlevsen
DOMENICA
*
La domenica non succede mai niente.
La domenica non si trova mai un nuovo amore.
È il giorno degli infelici.
Giorno della pensione o giorno della famiglia.
Le ore più dolorose dell’amante
quando immagina l’amato
con i figli sulle ginocchia
mentre sua moglie, sorridendo,
entra ed esce con vassoi invitanti.
Un giorno maledetto.
Una volta doveva essere diverso.
Perché altrimenti dovremmo tutti
aspettare con ansia la domenica per tutta la settimana?
Forse quando eravamo a scuola?
Ma già allora le campane suonavano
tristi e grigie come la pioggia e la morte.
A quel punto le voci degli adulti
erano deboli e silenziose come se cercassero
invano le parole della domenica.
L’odore di umidità e di pane ammuffito,
del sonno, di stivali di gomma e cicoria
già invadeva le scale allora
e la strada, che era dura, vuota e diversa
in modo desolato.
L’odore della domenica ci riempiva
con lo spesso strato di delusione
che segue un’aspettativa
senza un obiettivo specifico.
E quando, allora? In un luogo prima della memoria
C’era felicità, un’attesa irresistibile
che nessuno era ancora riuscito a deludere.
Allora le campane significavano che papà era a casa,
i baffi, le sopracciglia nere e l’odore del tabacco masticato
erano lì e lì rimanevano, vicino,
e – chissà – la risata della tua giovane madre
sembrava più felice rispetto agli altri giorni.
È domenica. Non troverai mai
un nuovo amore quel giorno.
Siedi in soggiorno
stordita e rigida come un ritaglio di cartone
agli occhi dei bambini.
Scavano con i piedi
e combattono senza energia.
“Dovremmo fare qualcosa”, dici.
«Sì», dice una voce da dietro il giornale.
Allora restate entrambi in silenzio, perché tutto ciò che volete
fare è nascosto e segreto
e sarebbe inaccettabile per l’altro.
Le campane della chiesa suonano. i nasi dei bambini
si riempiono di un odore ereditato.
Sui loro dolci volti scivola
una bruttezza passeggera.
Una luce appassita
sorge dai loro occhi.
Ma tutti aspettiamo con ansia la domenica
tutta la settimana, tutta la vita,
Aspettiamo l’emozione di centinaia
di domeniche lunghe, vuote, estenuanti.
Giornata della famiglia, giornata della pensione,
l’inferno degli amanti segreti.
Quel giorno in cui il grigiore nauseabondo degli adulti
impregna i bambini e stabilisce
l’incomprensibile malinconia domenicale degli anni a venire.
—————————————————–
Tove Ditlevsen
Avvertimento
Mi ami? Allora devi anche conoscere
lo strano gioco del mio cuore esigente
che può sognare, ma non sa struggere
per il desiderio di qualcosa d’esistente.
Ti conduce per strade oscure e insapute
che ti graffiano a sangue in cinte selvagge.
Ha il suono pesante di melodie perdute
e ama di notte i temporali e le piogge –
e se resti con me, si chiude e ti forza
via via più lontano da ogni strada e sentiero;
senza ali solo scioccamente svolazza,
e fa male saperlo come io so che è vero.
* * *
Autoritratto 1
Non so:
fare da mangiare
camminare col cappello
far star bene la gente
indossare gioielli
ordinare fiori
ricordare appuntamenti
ringraziare per i regali
dare vere mance
trattenere un uomo
mostrare interesse
agli incontri coi genitori.
Non so
smettere di:
fumare
bere
mangiare cioccolato
rubare ombrelli
svegliarmi in ritardo
dimenticare di ricordare
compleanni
e pulire le unghie.
Allisciarmi
la gente
svelare segreti
amare
posti strani
e psicopatici.
So:
stare da sola
lavare i piatti
leggere libri
formare frasi
ascoltare
ed essere felice
senza sensi di colpa.
* * *
Gli eterni tre
Ci sono due uomini al mondo, che
costantemente m’incrociano la strada:
uno è colui che io amo,
l’altro colui che mi ama.
Uno è in un sogno notturno
che abita nel mio pensiero più tetro,
l’altro alla porta del cuore sta attorno
ma io lo lascio al chiuso sul retro.
Uno mi ha dato un soffio di primavera
di quella felicità che presto scolora,
l’altro mi ha donato la sua vita intera
e non ne ha riavuta neppure un’ora.
Uno freme nel canto del sangue
dove l’amore è libero e puro,
l’altro è tutt’uno col giorno che langue
in cui i sogni non hanno futuro.
Ogni donna sta tra questi due uomini
innamorata, amata, e pura –
una volta ogni cent’anni può accadere
che essi si fondano in uno.
Tove Ditlevsen
Tove Ditlevsen
The Art Life
The first English-language translation of Tove Ditlevsen’s poetry distills the intensity and mordant humor that make her one of Denmark’s most revered exports.
“Our imaginary home, the home we share.”
— Roberto Bolaño, “Dance Card,” tr. Chris Andrews
How does Art Arrive on Earth?
In the months since filmmaker David Lynch left the planet, under the deep freeze and then the toxic thaw here by the Great Lakes, where they’ve reinforced the disused industrial roads to truck in heavy equipment for the foundation of an inestimably massive black site that locals aren’t supposed to know about, some poets and I huddled in our separate beds, so late in the work day it was almost the work morning, and shared links to interviews with the always-elder Lynch, parables of how Art entered his life, and thereby, our own.
Here’s one. It takes place circa 1961 in Alexandria, Virginia. It’s about ten o’clock at night when fourteen-year-old Lynch opens his eyes in the dark:
Well, I was on the front lawn of my girlfriend’s house in the ninth grade, and I was meeting a fellow named Toby Keeler who didn’t go to my high school, went to—he went to a private school, and he was telling me that his father was a painter. I thought at first his father was a house painter. But he said, no, a fine art painter. And a bomb went off in my head, a bomb that changed my life. In a millisecond completely changed my life. From that moment on, I wanted to be a painter—only that.
In another version, the elder Lynch attests on behalf of the younger: “And I wanted to live the art life.”
Even now, when it’s so late, or even then, in 1961, at the bombsite somewhat closer to the beginning of the end of the world, “the art life” opens up from the slightest aperture: a single word slipped into the adolescent ear on a suburban lawn at night. The word “painter” is excised from its familiar context, both professional and domestic, and inserted into a strange one—”fine art.” Precise as a bomb, it restarts the clock.
Lynch repeats and repurposes the nocturnal lighting and scenography of his initiation into the Art Life in accounting for his transition from painting to film:
I had a painting going, which was of a garden at night. It had a lot of black, with green plants emerging out of the darkness. All of a sudden, these plants started to move, and I heard a wind. I wasn’t taking drugs! I thought, Oh, how fantastic this is!
And I began to wonder if film could be a way to make paintings move.
In this parable, Art enters from elsewhere, and through the ear: I heard a wind. A cosmic soundtrack arrives out of synch but then adheres to the sticky picture track prepared for its arrival. A new phase of the Art Life begins. Art severs the artist from the mundane, but sticks around, like a severed ear in the grass, as its own uncanny aperture.
For the young Lynch, the Art Life begins with the word “painter,” uttered on the lawn at night. For the Korean modernist Kim Haekyŏng, it began with the first two words from the title of the film beloved by his Francomaniac occupiers, Cocteau‘s Le sang d’un poète; Le sang became Yi Sang, the alias under which he undertook a farcical campaign of art-as-crime which ended in his internment and death. For the queer Helsinki poet Gunnar Björling, it was the obnoxious term “dada,” and for the teenaged Kurt Cobain, the adjective “punk.” For the young Kazuo Ohno, a poster of the flamenco dancer La Argentina provided the form, stance, costume, and demeanor for the exacting postwar Japanese dance practice Butoh—the same La Argentina who provided the emblem of the theory and practice of the duende for Lorca.
So Art arrives on Planet Killer, to a species that most needs and mostly doesn’t deserve it, slipping its dubious toxin or glitchy bug into the brain of the waking artist through the slightest of apertures: an advertising poster, a movie title, a chance encounter, a magic word. Yet from that smallest of openings issues the new life, the Art Life.
Tove Ditlevsen
The Art Life of Tove Ditlevsen
Born in 1917 to working-class parents, Tove Ditlevsen was a celebrated voice—and a celebrity—in Danish literature for nearly four decades. She debuted at 21 with the poetry collection Pigsend, variously translated as Girl-soul or A Girl’s Mind. Published during the Nazi occupation and bearing a drawing of a “chaste” naked maiden on its cover, the book became a sensation, as did its author. (According to her translators Sophia Hersi Smith and Jennifer Russell, Ditlevsen claimed to be 20, so as “to seem extra precocious.”) Three decades of publishing in an ever-expanding array of forms and media followed, from novels, poems, and essays to radio plays, lifestyle features, advice columns in women’s magazines, and even wittily composed personal ads planted like bombs in the newspaper edited by her (fourth) ex-husband.
Literature, money, popularity, photography, and circulation in media are all mutually reinforcing elements of Ditlevsen’s singular, and singularly modern, career. In her foreword to a new selection of Ditlevsen’s poems, There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die (Farrar, Straus and Giroux, 2025), translated by Hersi Smith and Russell, the contemporary Danish author Olga Ravn further reckons that “Ditlevsen was one of Denmark’s most photographed writers. Her fame helped keep her financially afloat.” This is emblematized by Ravn’s remark that, after Ditlevsen’s early death by suicide at fifty-eight, “photographs of her funeral procession show a sea of working-class women trailing behind her coffin through the streets of Copenhagen.”
Literature, money, popularity, photography, and circulation in media are all mutually reinforcing elements of Ditlevsen’s singular, and singularly modern,
career.
So how did Ditlevsen arrive at such an exceptionally robust Art Life? By her own account, hers was not a birth starred for Art. Her father, a committed socialist, was a stover in a factory, though frequently unemployed; a habitual reader, he was inconsistent in his support for his daughter, insisting, “Fool, a girl can’t be a poet!” Her favored older brother was waylaid in his attempt to attain the higher economic and social rank of “skilled worker” when the cellulose to which he was exposed at his apprenticeship permanently damaged his lungs. Her mother was a vivacious but frequently vindictive figure whose constant refrain, settling like shrapnel in the flesh of her young daughter, was “Everything written in books is a lie.” As a practical concern, the young Ditlevsen was not permitted to enter high school, but rather left for a series of domestic jobs meant to prepare her for gift, which in Danish translates as both marriage and poison.
How Art came for young Ditlevsen provides both the theme and the plot of her novelistic-memoirs, presented to anglophone readers as the Copenhagen Trilogy but really made up of three separate volumes: Barndom (Childhood, 1967), Ungdom (Youth, 1967) and Gift (Marriage/Poison, 1971, rendered in English as Dependency.) The packaging of these works as a handsome single-volume edition under the export-only title Copenhagen Trilogy in 2021 appears to be an invention of the marketing team at Farrar, Straus and Giroux. Yet such cunning engineering is felicitous, as it has allowed the anglophone reader to meet Ditlevsen as an artist, and literally on her own terms: the early Art Life as she conceived of it toward the end of her own.
Childhood opens with a defining scene of Art’s arrival. Here the not-yet-school-aged Ditlevsen is seated at the kitchen table, looking past her unreliable mother—”Beautiful, untouchable, lonely, and full of secret thoughts I would never know,” the girl sentimentally supposes.
Behind her on the flowered wallpaper, the tatters pasted together by my father with brown tape, hung a picture of a woman staring out the window. On the floor behind her was a cradle with a little child. Below the picture it said, ‘Woman awaiting her husband home from the sea’. Sometimes my mother would suddenly catch sight of me and follow my glance up to the picture I found so tender and sad. But my mother burst out laughing and it sounded like dozens of paper bags filled with air exploding all at once.
The mother unleashes scornful laughter in the attempt to break Art’s spell on the daughter, but somehow is also converted, in this moment, to Art’s uncanny purposes. She begins to sing a saucy ditty “with a clear and defiant little-girl voice that didn’t belong to her.” Next comes a transcription in full of the ditty, in which an unfaithful wife leans out the window to warble at her lover “Can’t I sing / Whatever I wish for my Tulle? / Visselulle, visselulle, visselulle.” Thus the child fulfills Art’s imperative, transcribing the scene in the library of memories; the author, on the page.
Young Ditlevsen’s acolyte-like attendance on Art is rewarded as this opening chapter concludes:
I carried the cups out to the kitchen, and inside of me long, mysterious words began to crawl across my soul like a protective membrane. A song, a poem, something soothing and rhythmic and immensely pensive, but never distressing or sad, as I knew the rest of my day would be distressing and sad. When these light waves of words streamed through me, I knew that my mother couldn’t do anything else to me because she had stopped being important to me. My mother knew it, too, and her eyes would fill with cold hostility.
If the opening scene establishes the sightlines and eerie acoustics of Art’s arrival in Ditlevsen’s life, here Art enforces an even more startling adjustment in circumstance. The “light waves of words” transform the child’s sense of her own place in the world, temporarily neutralizing immediate axes of violence and control—her mother “had stopped being important to me.” The rest of the Trilogy—and the rest of Ditlevsen’s life and work—will be spent devising ways to parry the world’s hostility and step into the power of the Art Life.
As Ditlevsen enters her schoolyears, both “the grownups” and her schoolmates can easily detect her attunement to Art’s presence; she cries, for example, at the unexpected beauty of rote school hymns. Yet the same class, gender, and family pressures which attempt to reform her abnormal connection to Art ultimately offer a thrilling and unexpected solution when the girls in her class begin buying and circulating “Poetry Albums,” something between an autograph album and a yearbook, which girls are expected to tote around, exchange, and inscribe insipid quotes in. Even Ditlevsen’s mother consents to buy her one.
The arrival of the Poetry Album represents a true turning point for Ditlevsen; for the first time, she has a designated place to collect her own poetry. At first, the album provides her with a way to hide her nascent poetry in plain sight, though she conceals the album itself under a pile of folded towels, in her underwear, even taking it to the hospital with her under the pretense of collecting autographs. But it also becomes a means of “publishing” her work—at first unintentionally, when her brother finds the album and both praises Ditlevsen’s facility and jeers her “lies,” and then purposefully, as she begins to show it to other youths and then, finally, to possible editors. In fact, rather than entrust the precious album to a mutual acquaintance so he can approach an editor on her behalf, she heads for an editor’s office herself, poetry album in tow. This heroic self-belief does lead to publication, first of an individual poem, then a book of poetry, then a novel, and finally a fully realized, very public Art Life.
Crucially, the miraculous arrival of the Poetry Album transforms Copenhagen Trilogy itself into a kind of poetry album. Here, amid the alternately grim, drab, and highly thrilling scenes of her childhood, youth, and dependency, Ditlevsen inscribes snippets of poems, whether by herself or others. Considering that these memoirs were written some three decades later, the keenness and delight with which Ditlevsen recalls these early poems amplifies their power; the reader discovers them along with the young poet, whether it be a verse by Baudelaire (“the pitchers are filled with wine, / the twilight-veiled earth”), a lyric passage by the Nobelist Johannes V. Jensen (“And now like the evening star, then like the morning star, shines the little girl who was killed at her mother’s breast”), or a draft of what will become Ditlevsen’s own first publication, in 1939, the poem “To My Dead Child”:
I never heard your little voice,
Your pale lips never smiled at me.
And the kick of your tiny feet
is something I will never see.
These poems hang like amulets amid the velvet-draping of the prose. They mark Art’s path, the path the girl must follow: the dazzling coordinates of the Art Life.
There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die
With the newly selected poems, anglophone readers who came to know Ditlevsen through the Trilogy will feel a strong sense of familiarity, delight, and allegiance. The opening selection from Pigsend (especially “To My Dead Child”) will cause the fangirl’s heart to leap. The decision to title the volume There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die seems to ratify a readerly inclination to imagine the “extra precocious” girl-poet of the Trilogy as the ghostwriter of this entire selection, even though it collects verse written well into middle age. Ravn makes this connection in her foreword and draws out its political implications:
You could say that Ditlevsen’s so-called sentimentality is a poetic anachronism that functions as a subversive tool, an anachronism on a par with a woman’s emotional life. There live girls in us that will not die.
A more ambivalent reading of the title, however, redoubles its power. The girl who will not die haunts and unsettles the poet. The opening poems, written in Ditlevsen’s youth, place the female speaker at the center of the roles Romantic poetry assigns the young girl: that of dying, or dead, or ideal. In “Ritual,” Ditlevsen’s girl-speaker seizes and redecorates this convention: “When I am dead, please lay me / to rest in a jet-black coffin, / and dress me in a crimson gown / with long sleeves made of velvet.” The funeral procession shall be accompanied, improbably enough, with the 1925 Dixieland-pastiche “Dinah” (popularized by one Fanny Rose Shore, who became so identified with the song she made her stage name Dinah!) By the final quatrain, the party is over, and the speaker rests in her desired coffin.
This jet-black coffin with its young, speaking girl—now alive, now dead—forms a persistent, uncanny battery in the book. We encounter the young girl and her dead, alive, dead-alive progeny again and again. In a consistent trope, the adult woman-speaker reflects on the lost dreams of girlhood, yet the thick, conventional nostalgia is pierced by a startling image:
It was on a night like this
I must have been seventeen—
are the red shards of my love
still there in the tall grass?
Here the scene of love becomes the scene of the crime.
In a poem titled “Recognition,” the grave becomes a place where adult women apprehend their shared plight: “Wordlessly we understood— / with dead leaves in our eyes and hair.” The next poem, “The Children’s Eyes,” begins, “I dread the children’s eyes.” The conventionally tender maternal gaze which Ditlevsen’s speakers frequently assume when addressing children, however hypothetical and/or dead, is now reversed; it is the children who gaze at the speaker, and their gazes are piercing, haunted, dreadful, strange.
Translators Hersi Smith and Russell render the persistent intensity, deepening tone, and gradually shifting forms of Ditlevsen’s work with the immersiveness of a ghost story, converting this Selected Poems into a nimble page-turner. The poems lose the rhyme and boxy shape of the early quatrains, assuming an addictive free verse with short lines that refuse to telegraph their intentions; meanwhile, risen from her youthful coffin, that is, from the coffin of youth, the young girl is no longer identical with the speaker but instead haunts her, while the aging speaker’s attitude toward the girl grows more troubled. A poem toward the end of the volume, “Self-Portrait 4,” describes with disgust a former neighbor, an old lady who misremembers the speaker-Tove as a noisy, heedless child:
I don’t remember
the old woman
from my childhood …
She knows something
about me she won’t divulge
a secret I’ve never told.
It fills her up
and keeps death at bay
she tells lies and intends
to outlive me.
I never took the stairs in bounds
I was a quiet child.
I hate her.
Here the speaker wishes to disavow the “old woman” but ends up assigning her a power which seems stored in the pronoun she—a witchy power which the adult speaker also accesses. “She knows something / about me she won’t divulge / a secret I’ve never told.” Facing each other across the mirror of that unpunctuated enjambment, “She” and “I” are disturbingly close; they seem to wear each other’s faces. Moreover, “she tells lies and intends to outlive me,” the speaker complains, but we know from Childhood that lies are what authors write, and in fact young Ditlevsen defends her poems by vowing allegiance to such lies: “I know that sometimes you have to lie in order to bring out the truth.”
So, who lies? Who lives? Who hates? Who dies? By the last line, through the fluid and felicitous ambiguity of the translation, that “her” is so porous, so capacious, it’s as much a yielding grave as a pronoun; like any grave or woman, it can hold all the hate. Does the speaker hate her child-self? Does she hate the old neighbor-lady who lies about her? Maybe the titular girl-who-will-not-die has now uncannily assumed the role of speaker, casting the adult Ditlevsen as a lying old lady, trying to outlive her child-self. Well, this undead girl will not let that happen. There is a young girl who will not die. And she will have the last word, as she had the first.
Ditlevsen, like David Lynch, pursued the Art Life to the end. In the version she relates in the Trilogy, she has children, husbands, and lovers, but she refuses to keep house, exchanges one husband for another, and seems most at peace when a nanny or female friend is nearby to attend to the babies. All the while, poems rise like stars, novels rise in clouds of racket from the typewriter, sorrow rises from illness, and bliss from drugs; all while she fashions and refashions the scenes, props, and personages of early inspiration into an oeuvre as luminous and haunted as a department store mirror in which the young girl studies her possible futures and the aging woman searches the black pools of her pupils for the little doll who used to live there. That girl will not die, though Ditlevsen does.
And, later, twelve-year-old Olga Ravn encounters Ditlevsen’s poems on a shelf in her grandfather’s study and pictures her “wander[ing] through a forest of pop songs, picking shiny, bright-red plastic apples for her poems”—which is to say, she pictures a version of herself, wandering the grove of Art. Her, her, her. Who encounters, who wanders, who picks, who dies? Still later, Ravn edits and publishes I Wanted to Be a Widow, and I Wanted to Be a Poet: Forgotten Texts by Tove Ditlevsen (2015), and the author and translator Michael Favala Goldman spots Gift in an airport gift store and begins it. Still later, the Copenhagen Trilogy is summoned into being, featuring previously published translations of Childhood and Youth by Tiina Nunnally and culminating in Goldman’s translation, Dependency. And later, thousands of anglophone readers will read it, and still later, which is to say now, now we can clutch There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die to our chests, just as young Ditlevsen held to the miracle of her Poetry Album.
Joyelle McSweeney’s collections of poetry include The Red Bird (2002), winner of the 2001 Fence Modern Poetry Series, The Commandrine and Other Poems (2004), Percussion Grenade (2012), Toxicon and Arachne (2020), a finalist for the 2021 Kingsley Tufts Award, and Death Styles (2024). She is also the author of the novels Nyland, the Sarcographer (2007) and Flet (2007); the prose work Salamandrine, 8…
L’Altrove -Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Uno dei giganti della poesia britannica del XX secolo è senza dubbio Ted Hughes
Ted Hughes nacque a Mytholmroyd, nello Yorkshire, nel 1930. Dopo aver prestato servizio nella Royal Air Force, frequentò Cambridge, dove studiò archeologia e antropologia, interessandosi in particolare di miti e leggende. Nel 1956 conobbe e sposò la poetessa americana Sylvia Plath, che lo incoraggiò a presentare il suo manoscritto a un primo concorso di libri organizzato dal The Poetry Center. Giudici dal calibro di Marianne Moore, WH Auden e Stephen Spender assegnarono il primo premio a TheHawk in the Rain (1957) cosa che assicurò a Hughes la reputazione come poeta di statura internazionale.
Secondo il poeta e critico Robert B. Shaw la poesia di Hughes ha segnato un drammatico allontanamento dalle modalità prevalenti del periodo. La poesia stereotipata dell’epoca era determinata a non rischiare troppo: educatamente domestica nell’argomento, sobria e leggermente ironica nello stile. Al contrario, Hughes ha schierato un linguaggio di risonanza quasi shakespeariana per esplorare temi che erano mitici ed elementari.
La lunga carriera di Hughes include volumi di successo senza precedenti come Lupercal (1960), Crow (1970), Selected Poems 1957-1981 (1982) e The Birthday Letters (1998), oltre a molti amati libri per bambini, tra cui The Iron Man (1968). Con Seamus Heaney curò due popolari antologie. Nominato esecutore testamentario del patrimonio letterario di Sylvia Plath, curò diversi volumi del suo lavoro. Fu anche traduttore di alcune opere di autori classici, tra cui Ovidio ed Eschilo.
Poeta, traduttore, editore e autore di libri per bambini incredibilmente prolifico, Ted Hughes venne nominato poeta laureato nel 1984, incarico che ha ricoperto fino alla sua morte. Tra i suoi numerosi riconoscimenti, la nomina all’Ordine al Merito, una delle più alte onorificenze britanniche.
Il paesaggio rurale della giovinezza di Hughes nello Yorkshire ha esercitato un’influenza duratura sul suo lavoro. Leggere la poesia di Hughes significa entrare in un mondo dominato dalla natura, soprattutto dagli animali. Questo vale per quasi tutti i suoi libri, da The Hawkin theRaina Wolfwatching (1989) e MoortownDiary (1989), due delle sue ultime raccolte. L’amore di Hughes per gli animali è stato uno dei catalizzatori nella sua decisione di diventare un poeta. Secondo il London Times, Hughes una volta ha confessato “di aver iniziato a scrivere poesie nell’adolescenza, quando si rese conto che la sua precedente passione per la caccia agli animali nel suo nativo Yorkshire si era conclusa con il possesso di un animale morto o, nel migliore dei casi, con una trappola. Voleva catturare non solo animali vivi, ma la vitalità degli animali nel loro stato naturale: la loro natura selvaggia, la loro quiddità, la volpe della volpe e il corvo del corvo. Tuttavia, l’interesse di Hughes per gli animali era generalmente meno naturalistico che simbolico. Utilizzando figure come “Crow” per approssimare un mitico uomo comune, il lavoro di Hughes parla della sua preoccupazione per i poteri vatici, persino sciamanici, della poesia. Lavorando in sequenze ed elenchi, Hughes ha spesso scoperto una sorta di lingua inglese autoctona, ma letteraria. Secondo Peter Davisonnel New York Times, “Mentre abita i corpi delle creature, per lo più maschi, Hughes si arrampica di nuovo lungo la catena evolutiva. Cerca in profondità anche negli enigmi del linguaggio, quelli che precedono ogni lingua data, lingua che puzza di foresta o addirittura di giungla. Tali poesie spesso contengono un tocco, o più di un tocco, di melodramma, delle brutali tragedie di Seneca che Hughes ha adattato per il palcoscenico moderno.
Le pubblicazioni postume di Hughes includono Selected Poems 1957-1994 (2002), una versione aggiornata e ampliata dell’edizione originale del 1982, e Letters of Ted Hughes (2008), che sono state curate da Christopher Reid e mostrano la voluminosa corrispondenza. Secondo David Orr le “lettere di Hughes sono immediatamente interessanti e accessibili a terzi a cui non sono indirizzate” , e le sue osservazioni disinvolte sulla poesia possono essere sorprendentemente perspicaci. La pubblicazione di Collected Poems (2003) ha fornito nuove intuizioni sul suo processo di scrittura. Sean O’Brien ha osservato: “Hughes ha condotto più di una vita come poeta”. Pubblicando entrambi i volumi singoli con Faber, Hughes ha anche pubblicato un’enorme quantità di lavoro attraverso piccole macchine da stampa e riviste. Queste poesie spesso non venivano raccolte e sembra che il poeta considerasse i suoi sforzi di piccola stampa come esperimenti per vedere se le poesie meritassero di essere collocate nelle raccolte. O’Brien ha continuato: “Chiaramente [Hughes] aveva bisogno di scrivere tutto il tempo, e molte delle poesie fino a quel momento non raccolte hanno l’aria provvisoria di riposare per un momento prima di essere portate a termine, tranne per il fatto che metà del tempo non è stato completato. e non era nemmeno il problema… per quanto riguarda l’intero corpus di lavoro, Hughes sembra essere stato più interessato al processo che al risultato”.
Sebbene Hughes sia oggi inequivocabilmente riconosciuto come uno dei più grandi poeti del XX secolo, la sua reputazione di poeta durante la sua vita fu forse ingiustamente incorniciata da due eventi: il suicidio di Sylvia Plath nel 1963 e, nel 1969, il suicidio della donna per la quale lasciò Sylvia, Assia Wevill, che a sua volta tolse la vita alla loro giovane figlia, Shura. In qualità di esecutore testamentario di Plath, la decisione di Hughes di distruggere il suo diario finale e il suo rifiuto dei diritti di pubblicazione delle sue poesie infastidirono molti nella comunità letteraria. Plath fu presa da alcuni come simbolo del genio femminile soppresso nel decennio successivo al suo suicidio, e in questo scenario Hughes fu spesso scelto come cattivo. Le sue letture furono interrotte da grida che lo indicavano come “assassino” e il suo cognome, che compare sulla lapide di Plath, fu ripetutamente deturpato. Le decisioni impopolari di Hughes riguardo agli scritti di Plath, su cui aveva il controllo totale dopo la sua morte, erano spesso al servizio della sua definizione di privacy; rifiutò perfino di discutere del suo matrimonio con Plath dopo la sua morte. Fu quindi con grande sorpresa che, nel 1998, il mondo letterario ricevette il ritratto piuttosto intimo di Plath di Hughes sotto forma di Birthday Letters, una raccolta di poesie in prosa che coprono ogni aspetto del suo rapporto con la sua prima moglie. La raccolta ricevette elogi e censure dalla critica; Il desiderio di Hughes di rompere il silenzio intorno alla morte della moglie venne accolto con favore, anche se le poesie stesse furono spesso esaminate. Tuttavia, nonostante le riserve, Hughes ricevette recensioni positive e in queste la raccolta venne definita come “emozionante e diretta”, le poesie più forti del libro come “tranquille, riflessive e colloquiali” e lo stesso poeta come “un vecchio marito che sfoglia un album di fotografie con un fantasma.”
Sebbene segnato da un periodo di dolore e polemiche negli anni ’60, la vita successiva di Hughes fu trascorsa scrivendo e coltivando la terra. Sposò Carol Orchard nel 1970 e con lei visse in una piccola fattoria nel Devon. Continuò a scrivere e pubblicare poesie fino alla sua morte, di cancro, il 28 ottobre 1998. Nel 2011 venne inaugurato un memoriale a Hughes nel famoso Poets Corner of Westminster Abbey.
Ted Hughes -Poeta inglese
TED HUGHES – 5 POESIE
TRATTE DA “PENSIERO-VOLPE E ALTRE POESIE” (MONDADORI – 1973)
DONNA CHE HA PERSO LA CONOSCENZA
Russia e America girano intorno l’una all’altra;
minacce dan di gomito a un atto che era senza dubbio
uno sciogliersi della matrice nella madre,
pietre in scioglimento intorno alla radice.
Spento il vivo della terra:
la fatica di tutte le nostre epoche una perdita
fino alla foglia e all’insetto. Tuttavia un pensiero fugace
(da non ritenersi ridicolo)
schiva il nero che cancella il mondo
nel gioco della sua ombra: ha imparato
che non vi sono date cui affidarsi (affidate alla fortuna)
quando è stabilito che il mondo brucerà;
che il futuro non è calamitoso mutamento
ma adesso un simulare malattia,
storie, città, volti che nessuna
malignità o disgrazia sconvolgono molto.
Sebbene bombe si contrappongono a bombe,
sebbene l’umanità intera spira e nulla sopravvive –
la terra finita in una vampata fulminea –
una minor morte giunse
sul bianco letto d’ospedale
dove una, stordita oltre i suoi ultimi sensi,
chiuse gli occhi sull’evidenza del mondo
ed affondò la testa nel guanciale
QUATTRO LUGLIO
Le calde secche e i mari da cui rechiamo il nostro sangue
scemarono adagio; raffreddate
in estuario d’acque di scolo, in laghetto vivaio di trote.
Persino il Rio delle Amazzoni è vessato e perlustrato
per stabilire leggi da parte di poche mascelle –
piranha e giaguaro.
Il fiato da venditore ambulante di Colombo
soffiò all’interno attraverso l’America del Nord
uccidendo l’ultimo dei mammut.
Le mappe giuste non hanno mostri.
Ora i vaneggianti spiriti della mente
scacciati dalle loro a detta di viaggiatori
irraggiungibili isole,
dai loro paradisi e dai loro brucianti inferi,
attendono ottusamente al semaforo,
o si curvano sui titoli, senza assimilare nulla.
LA PORTA
Fuori sotto il sole s’erge un corpo.
È crescita del mondo solido.
È parte del muro di terra del mondo.
Le piante della terra – quali i genitali
e l’ombelico infloreo
vivono nei suoi crepacci.
Pure alcun creature della terra – quali la bocca.
Sono tutte radicate nella terra, o mangiano terra, terrose,
ispessendo il muro.
Ma c’è un ingresso nel muro –
un nero ingresso:
la pupilla dell’occhio.
Per quell’ingresso giunse Corvo.
Volando da sole a sole, trovò questa dimora.
ESSERINO
O esserino, che ti nascondi dai monti tra i monti
ferito dalle stelle e che perdi ombra
che mangi la terra medicinale.
O esserino piccolo senz’ossi piccolo senza pelle
che ari con la carcassa di un fanello
che mieti il vento e trebbi le pietre.
O esserino, che tambureggi nel cranio di una mucca
che danzi con le zampette di un moscerino
col naso d’un elefante con la coda d’un coccodrillo.
Diventato così saggio diventato così terribile
suggendo i muffiti capezzoli della morte.
Siediti sul mio dito, cantami nell’orecchio, o esserino.
PENSIERO-VOLPE
Immagino la foresta di questo momento di mezzanotte:
altro è vivo
oltre la solitudine dell’orologio
e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita.
Attraverso la finestra non vedo stelle:
qualcosa più vicino
sebbene sia più profonda entro l’oscurità
sta penetrando la solitudine:
freddo, delicatamente come la neve scura,
il naso di una volpe tocca un ramoscello, una foglia;
due occhi servono un movimento che adesso
e ancora adesso e adesso e adesso
depone chiare tracce sulla neve
tra gli alberi, e cautamente un’ombra
storpia si trascina tra ceppi e nell’incavo
di un corpo che ha l’audacia di giungere
attraverso radure, un occhio,
un verde fondo e dilatato,
brillante e concentrato,
che se ne viene per i fatti suoi
sino a che, con improvviso acuto caldo puzzo di volpe
non penetri la buca nera della testa.
Ancora senza stelle è la finestra; batte l’orologio,
la pagina è tracciata.
5 poesie di Ted Hughes (Mytholmroyd, 17 agosto 1930 – Londra, 28 ottobre 1998)
tratte da “Pensiero-volpe e altre poesie”, a cura di Camillo Pennati (Mondadori, 1973).
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Articolo di Venceslav Soroczynski-RAI-Cultura-Letteratura
Articolo di Venceslav Soroczynski -Il libro di Albert Camus “Lo straniero” Bompiani Editore-C’è qualcosa che mi dice vai a cercarlo, perché ha cose da dirti. E io, di solito sordo alle chiamate dell’intuizione e cieco a quelle della coscienza, mi avvicino al secondo scaffale, quarto ripiano dall’alto. Lo trovo, subito: sarà uno dei pochi libri che leggo per la seconda volta. Ma devo andare dal medico e, fra malati immaginari e sani bisognosi di una carezza, mi aspetta un’attesa lunga, quindi mi serve un libretto breve, che mi stia nella tasca e nella testa.
Albert Camus
Invece, i doloranti sono pochi e sembrano avere dolori epidermici, quindi sfilano in fretta e non riesco ad arrivare alla fine del romanzo. Eppure già sento il bisogno di aprire la porta e raccontare qualcosa. Sapete, io vivo in campagna: anche se spalanco le finestre e parlo ad alta voce del libro, mi sentono al massimo le monache di clausura della Comunità di Gesù di Nazareth – che poi non mi dispiacerebbe intervistarne una, non dico la badessa, che quella ne parlerebbe bene come il promotore dei fermenti lattici al supermercato. Piuttosto, una monachella, l’ultima arrivata, o la più anziana.
Ma sto divagando (a scuola mi accusavano di andare fuori tema. È il tema che non è in tema, avrei dovuto rispondere, ma da ragazzino non avevo la battuta pronta – mentre adesso non sono pronti quelli che dovrebbero capirla). Lo straniero è uno di quei romanzi che pensi essere uno dei dieci libri che andrebbe assolutamente letto. Poi ti rendi conto che l’hai già detto di altri venti e ti scopri essere un esaltato e perdi credibilità anche di fronte a te stesso (figuriamoci davanti alle monache).
Perché leggerlo? Perché lo straniero del 1942 è un corpo morto senza il certificato di morte che somiglia al corpo sociale del terzo millennio (sovviene immediata la battuta di Kraus: “La condizione in cui viviamo è la vera fine del mondo: quella cronica.”). È un uomo che non vive, si lascia vivere. Non gli si può attribuire il concetto heideggeriano: “Noi non parliamo un linguaggio, ma siamo parlati dal linguaggio” soltanto perché egli, quasi, non parla. “Non aprivo la bocca per non dir nulla”, pensa, infatti, mentre gli chiedono se vuole aggiungere qualcosa durante il suo processo. Vive per inerzia, come un’auto lanciata in folle in una discesa sull’autostrada. E, infatti, la sua vita è una discesa e, proprio perché non si aggrappa a nulla, scivola nel suo destino come un dito in un vasetto di miele.
Albert Camus- “Lo straniero”
Ma è miele di fiori amari, poiché il nostro uomo non pare provare dolore nelle cose brutte (“Mi ha chiesto se avevo sofferto [della morte della madre] e ho risposto che tanto io che la mamma non ci aspettavamo più nulla l’uno dall’altro e del resto neppure dal prossimo e che ci eravamo abituati tutt’e due alle nostre nuove vite”), né felicità nelle cose belle (“La sera Maria è venuta a prendermi e mi ha chiesto se volevo sposarla. Le ho detto che la cosa mi era indifferente, e che avremmo potuto farlo se lei voleva. Allora ha voluto sapere se l’amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un’altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che ero certo di non amarla.“Perché sposarmi, allora?” mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. Del resto era lei che me lo aveva chiesto e io non avevo fatto che dirle di sì. Allora lei ha osservato che il matrimonio è una cosa seria. Io ho risposto “no”. È rimasta zitta un momento e mi ha guardato in silenzio. Poi ha parlato: voleva soltanto sapere se avrei accettato la stessa proposta da un’altra donna cui fossi stato legato allo stesso modo. Io ho detto: “naturalmente”. Allora si è domandata se lei mi amava, e io, su questo punto, non potevo saperne nulla. Dopo un altro istante di silenzio, ha mormorato che ero molto strambo, che certo lei mi amava a causa di questo, ma che forse un giorno le avrei fatto schifo per la stessa ragione. Siccome io tacevo, non avendo niente da dirle, mi ha preso il braccio sorridendo e ha detto che voleva sposarmi”).
Mersault è del tutto singolare, ma assolutamente credibile. Per amicizia, o solo per non turbare un rapporto, continua a frequentare un uomo che ha picchiato la propria compagna per non essergli stata fedele.E quando gli chiedono com’è Parigi, risponde solo: “È sporco. Ci sono dei piccioni e dei cortili bui. La gente ha la pelle bianca”. Camus stende il suo personaggio su un giaciglio di indifferenza che perfino m’innervosisce come lettore. Ma quella indifferenza è la sua condanna, poiché, in un paio d’ore, il Pubblico Ministero nel processo in cui è imputato la trasforma agli occhi dei giurati in insensibilità e poi, con la retorica dell’accusatore che tanto solletica chi gode della disgrazia altrui, converte quella insensibilità in condotta criminale. Immediatamente, mi ritorna la scena di un bel film in cui l’avvocato dice: “Tutti sono fatti da una certa porzione di fango. Tutti hanno la fogna dentro. Per questo bisogna cercare nella vita delle persone. L’indagine è come un temporale: acqua, acqua, acqua, acqua, acqua finché si intasano i tombini, le fognature scoppiano e esce tutta la merda che c’è sotto.”
Questo fa il tribunale allo Straniero. Processa una vita, non un atto. Un uomo, non un’azione (triangolazione disonesta e violenta, che attraversa il subconscio per titillare le corde dei deboli. E che si vede tutti i giorni – i nostri inclusi). Quanto c’è del nostro mondo del nostro tempo e del nostro io, ne Lo straniero! Straniero sono anche io per il luogo dove sono nato, poiché da esso sono andato via molto tempo fa. E lo sono nel luogo in cui ora vivo, poiché vengo da altrove. E sono straniero anche in casa mia, poiché i miei quattro nonni vengono da quattro posti diversi d’Italia e d’Europa. E sono straniero in me, poiché mi vedo ogni giorno di più come un terzo, un testimone, dall’alto muovermi come un animale da abitudine, o dal basso come un uomo alla ricerca dell’estintore dell’inquietudine. Mi osservo, cerco la distanza ma, per non impazzire e per convenienza, trasporto la mia duplicità in un pezzo unico senza apparenti fessure, che so essere cucito male e rapidamente deperibile.
Straniero è già pirandellianamente l’uomo in quanto, agli occhi degli altri, è diverso da come appare ai propri. Mentre, però, l’uomo di Uno, nessuno e centomila, pensa, decide, reagisce, sovverte, rivoluziona, quello di Camus subisce, come fosse addormentato. Come se aspettasse che qualcuno lo salvi dall’alto. O come se non gli importasse neppure di questo. Che disonore, l’evoluzione, se penso che, più di trecento anni prima, Amleto, a Guildestern, che vorrebbe manovrarlo, aveva risposto: “Qualunque strumento io sia, anche se puoi strimpellarmi, non mi puoi suonare!”). Ma è inutile rimpiangere le età degli imperi: viviamo il nostro esistenzialismo puntando a qualcosa che sta a metà fra il desistenzialismo e l’assistenzialismo: ci guardiamo esistere. La vita fuga dalla vita. Il piano B pensato prima del piano A. Eppure, abbiamo avuto decenni per approfondire il declino. Scuola per tutti, università per tutti, medicina per tutti, reddito di cittadinanza per tutti – ma è scuola, non educazione; è università, non conoscenza; è medicina, non sanità; è reddito, non cittadinanza. Quindi, è un ripiego continuo. Siamo peggiori dell’uomo di Camus, il quale, almeno, esiste fortemente, con distacco e noia, senza finzione, poiché è se stesso dalla prima all’ultima riga del romanzo. Dal bagno in mare alla prigione, non ha mentito una sola volta. Non ha pronunciato, in sua propria difesa, un solo verbo che si discostasse dalla verità. La verità è che ha premuto il grilletto contro un uomo che ha guardato in faccia: lo straniero è un assassino. Ma lui stesso non ha compreso il perché. Quando articola una proposizione per spiegare i fatti, l’aula intera ride, ma egli ha detto esattamente il vero. Non sa spiegare le cose al giudice, né al suo avvocato. Eppure, è proprio vero che la causa è stata il sole troppo forte, il caldo, il fuoco che precipitava dal cielo, lo stordimento di un paese troppo caldo, troppo lontano, troppo straniero anch’esso. Ma Mersault apre la bocca solo per dire cose che abbiano importanza. E forse quelle non ne avrebbero.
Eppure, non si riesce a odiarlo: è come un bambino che ha fatto del male per qualcosa che è un po’ più dell’istinto e un po’ meno della necessità, sotto un sole troppo forte. È limpido come l’acqua di un lago in cui è vietata la balneazione per non inquinarlo, per non svegliarlo. Quindi, nessuno può entrare. E io non sono neanche arrivato alla riva. Sto leggendo, come si dice nel poker, mentre Mersault non ha ancora lasciato l’aula, il processo non è terminato e io, per fortuna, non ricordo com’è andata a finire. Mi sono fermato a queste parole, lette le quali ho chiuso gli occhi: “Dalla strada, attraverso tutte le sale e le aule, mentre il mio avvocato continuava a parlare, ha risuonato fino a me la trombetta di un venditore di panna. Mi hanno assalito i ricordi di una vita che non mi apparteneva più, ma in cui avevo trovato le gioie più povere e più tenaci: odori d’estate, il quartiere che amavo, un certo cielo di sera, il riso e gli abiti di Maria. Allora tutta l’inutilità di ciò che facevo in quel luogo mi è rimontata alla gola e ho avuto una fretta soltanto di farla finita presto e di ritrovare la mia cella e il sonno.”
Angelo Sommaruga articolo scritto per la Rivista PAN N°2 del 1934-
Giosuè Carducci nasce il 27 luglio 1835 a Valdicastello, vicino Lucca, e fino al 1839 vive immerso nel meraviglioso paesaggio toscano della Maremma. Nella sua esperienza personale, questi anni in Toscana rivestono un ruolo fondamentale per la formazione della sua sensibilità: l’immagine di una natura incontaminata, energica e vitale accompagnerà tutta la sua produzione poetica. Dopo i primi studi, nel 1853 viene ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa dove uscirà, laureato in Filologia, nel 1856.
Giosuè CARDUCCI
Passando da Pisa a Firenze, negli anni successivi all’Università, partecipa agli incontri della società “Amici Pedanti” che si batteva per un immediato ritorno al classicismo della letteratura contro la modernità e le nuove idee del Romanticismo, un dibattito molto sentito in Italia all’epoca in quanto ogni intellettuale e letterato del tempo si schierava – e lottava – a favore o contro il classicismo in contrasto con le idee romantiche. Sua la frase: «Colui che potendo esprimere un concetto in dieci parole ne usa dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni.» Arrivano anni duri, però, per il giovane Carducci. Suo fratello muore suicida e presto anche il padre passa a miglior vita lasciando Carducci responsabile per la madre e per l’altro fratello. Sono comunque anni di intensa attività editoriale, non si da per vinto, cura varie edizioni di classici italiani e, negli stessi anni, sposa Elvira Menicucci da cui ebbe quattro figli. Nel 1859 cade il Granducato di Toscana, evento questo che suscita in lui un grande entusiasmo in vista dei moti risorgimentali, e fino agli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia insegnerà prima in un liceo di Pistoia poi all’Università di Bologna, dove vive a partire dal 1860. In questo periodo sale in lui una crescente delusione verso la nuova classe dirigente dello Stato Unitario – è soprattutto insofferente verso la mancata liberazione di Roma – e comincia ad appoggiare ideali repubblicani e giacobini fino ad un aspro anticlericalismo, tutti atteggiamenti questi che lo metteranno in cattiva luce davanti al governo ufficiale che arriverà addirittura a sospenderlo dall’insegnamento. Il 1870 si apre per Giosuè Carducci con altri gravi lutti: perde la madre e uno dei figli avuti nel primo matrimonio. Si accompagna però a questo dolore un grande successo come poeta, pubblica una raccolta di poesie e comincia una nuova relazione amorosa con una donna intellettuale entrata in contatto con lui, inizialmente, attraverso scambi epistolari: Carolina Cristofori Piva. Intanto il suo atteggiamento giacobino si affievolisce gradualmente e nel 1876 viene candidato come democratico alle elezioni parlamentari. Pian piano comincia ad accettare il ruolo dei monarchici Savoia come garanti dell’Unità italiana e, dopo l’incontro con la regina Margherita a Bologna, nel novembre del 1878, fu tanto grande per lui il fascino esercitato dalla donna che scrisse un’ode Alla regina d’Italia avviandosi così, definitivamente, verso gli ideali monarchici. Non solo: Giosuè Carducci diventa il vate dell’Italia umbertina e viene nominato, nel 1890, senatore del Regno. Gli ultimi anni continuano ad essere caratterizzati da una febbrile attività editoriale e poetica consacrando la sua posizione di poeta ufficiale dell’Italia monarchica. Vince il premio Nobel per la letteratura nel 1904 e a pochissimi anni da questo meritato successo muore a Bologna, per una broncopolmonite, il 16 febbraio del 1907.
Curiosità
Giosuè Carducci così descriveva se stesso: «Sono superbo, iracondo, villano, soperchiatore, fazioso, demagogo, anarchico, amico insomma del disordine ridotto a sistema; e mi è forza fare il cittadino quieto e da bene.» Era notoriamente amante del buon cibo e del vino, organizzava mangiate con gli amici che iniziavano la mattina e terminavano la sera e pare che la sua collaborazione con la rivista “Cronaca Bizantina” venisse pagata con barili di Vernaccia!
Lo stile di Carducci
Un nuovo tipo di Classicismo da opporre al RomanticismoIn Italia, nonostante la diffusione di alcune delle idee romantiche circolanti in Europa nel corso dell’Ottocento, il classicismo non si è mai spento: l’educazione scolastica lo mantiene in vita e l’esempio di poeti come Monti, Foscolo e Leopardi garantiscono degli esempi autorevoli e dei modelli a cui rifarsi soprattutto per imitare il linguaggio aulico e latineggiante. A dispetto di questo, però, il classicismo ha assunto un aspetto stantio e chiuso: il mondo latino è divenuto solo un repertorio di figure a cui attingere e un linguaggio da imitare in modo sterile. Carducci invece ripropone un classicismo vitale ed energico che viene ad imporsi nella cultura italiana come un modello elevato di comunicazione poetica che si mescola con un grande bisogno di realismo. La poesia deve, attraverso un linguaggio e tematiche riprese dal mondo greco e latino, raccontare la realtà contemporanea senza introdurre elementi surreali o inquietanti come quelli del romanticismo.
Fonte- Studenti-Mondadori Media S.p.A. – Via Gian Battista Vico 42 –
CARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINABiblioteca DEA SABINA- IL CARDUCCI E LA BIZANTINA -RIVISTA PAN FEBBRAIO 1934 19
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