Alessandro Moriconi – MATEMATICA E POESIA – Dalle addizioni all’identità di Eulero
Editore: Gruppo Albatros Il Filo
Descrizione del libro-Matematica e poesia sono due discipline apparentemente molto distanti ma che, a ben guardare, si nutrono delle stesse passioni: la sintesi a cui l’una è costretta e a cui sempre l’altra si appella, le regole alle quali la prima è per definizione sottoposta e a cui la seconda piace costringersi, ma anche le emozioni che generano in chi le frequenta da attore o da spettatore, e l’ambizione di rappresentare la realtà nella consapevolezza che non viene loro richiesto di essere vere. È l’idea di contaminazione tra due discipline dal volto così diverso che ha guidato Alessandro Moriconi nella composizione di questa raccolta di sonetti in romanesco che, celebrando il matrimonio tra matematica e poesia, rivisitano molti concetti della scienza dei numeri con l’efficacia del dialetto della Città Eterna. Un progetto audace quanto naturale, nato dal desiderio di un matematico-poeta di sottolineare quanto sia fantastica la razionalità della matematica e razionale la fantasia della poesia. Un libro da gustare con il cuore e con la mente.
Editore Gruppo Albatros Il Filo
Collana Nuove voci I saggi
Recensione
Alessandro Moriconi – MATEMATICA E POESIA
-Fonte –OnlineNew
Premessa. Odio la matematica, mi annoia la poesia. L’accostamento tra i due elementi? Curioso, un gioco intellettuale. Per carattere e mestiere non rifiuto a priori alcuna esperienza. E apro una parentesi personale. Stavo curiosando tra i libri della libreria che ho scelto di frequentare da anni, quando con la coda dell’occhio colgo l’avvicinarsi di una persona con un libro in mano. Ho la mente allenata, fotografa la copertina e contemporaneamente la rivedo assieme ad altre, tutte uguali, esposte in un corner. E’ tutto chiaro, il signore in questione è l’autore in persona. Mi vuole presentare il suo lavoro. Lo ascolto con educazione, poi lo anticipo e mi presento. L’argomento del libro in questa fase è prematuro, mi interessa l’approccio. E’ un gesto di coraggio, va recepito in modo positivo. Mi è già capitato. Sono già pronto a prescindere a prendere in carico l’opera e a sfidarne l’autore: se mi convince lo recensisco sul mio giornale. Nessuna valutazione preconcetta.E l’ opera “Matematica e Poesia” di Alessandro Moriconi, sicuramente originale, non è di mio interesse. Come ho già detto non mi fanno fremere i due elementi separati, l’accostamento voluto o fortuito mi lascia indifferente. Ma Moriconi non è un aspirante scrittore, è un matematico dell’Istituto di ingegneria del mare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Inm) e divulgatore scientifico. E questo accende il mio interesse. Scopriamo anche di avere conoscenze comuni. Ma non mi chiedete di leggere i sessanta “Sonetti matematici” contenute nel libro. Mi spiega che il libro è una raccolta di 60 sonetti in dialetto romanesco che trattano altrettanti argomenti matematici, ognuno dei quali è anticipato da un disegno e da un’introduzione tecnico-storica, che facilita la comprensione dei versi. Le regole usate sono quelle dettate dalla grammatica stilata dall’Accademia Romanesca, aggiunge (arabo per me), che sostanzialmente si ispira alla poesia del Trilussa. Onore al merito, all’impegno, alla fantasia. Lo scrittore è più interessante del libro. E probabilmente proprio per questo il libro va letto e tenuto su uno scaffale della libreria nello studio. Qualcuno lo noterà e lo sfoglierà incuriosito. Un bel successo. Moriconi è un matematico, dicevo, e da 35 anni svolge l’attività di divulgazione scientifica. Ma la passione per le discipline umanistiche lo porta a contaminazioni con altri mondi, a teatro e poesia. Il passo per approdare ai sonetti in romanesco è breve, ma il tentativo di avvicinare i due elementi di cui si parla resta forzato. Più interessante è quello che si può definire un “retrogusto” culturale. Lo scoprire che matematica e poesia hanno cose in comune, la sintesi, le regole, in qualche modo le emozioni (dal rabbioso rifiuto al piacere intellettuale), una concreta astrazione. Si può raccontare la matematica in versi ( in dialetto per di più)? Secondo l’autore è lecito e possibile Gli argomenti matematici trattati spaziano dalle semplici addizioni a concetti più complessi di geometria, di analisi matematica, di insiemistica o di statistica, senza dimenticare temi imprescindibili come ad esempio la filosofia che ha accompagnato per secoli i cosiddetti solidi Platonici. E non mancano alcuni elementi di logica matematica che avvicinano il lettore al concetto di paradosso, uno dei princìpi cardine del lavoro svolto dal più grande logico del Novecento Kurt Gödel. Scoprire la razionalità della matematica attraverso la comunicatività della poesia, è possibile. Provare per credere
Lina Schwarz nacque a Verona il 20 marzo 1876. Fu maestra e poetessa, autrice di molti libri di rime e filastrocche per bambini.Fu una poliedrica donna, colta ed inserita nell’humus culturale dell’Europa del Novecento.Nel 1938, a causa delle leggi razziali, si trasferì da Milano (dove abitava con la famiglia) prima ad Arcisate e poi a Brissago in Svizzera.Fu traduttrice dell’opera dei Rudolf Steiner, portando così il suo pensiero in Italia.In moltissimi libri scolastici del ‘900 apparvero in forma anonima sue poesie e filastrocche di Lina Schwarz. Queste divennero un vero e proprio patrimonio comune tanto che spesso, ancora oggi, sono considerati testi della tradizione popolare.
LINA SCHWARZ
Quanti di voi conoscono la tradizionale “Stella Stellina”?
Stella stellina
La notte s’avvicina
La fiamma traballa
La mucca è nella stalla
La mucca e il vitello
La pecora e l’agnello
La chioccia e il pulcino
Ognuno ha il suo bambino
Ognuno ha la sua mamma
E tutti fan la nanna
In cima a un albero
c’è un uccellino
di nuovo genere…
che sia un bambino?
Felice e libero
saluta il sole
canta, s’arrampica,
fa quel che vuole.
Ma inesorabile
il tempo vola:
le foglie cadono…
si torna a scuola!
La bambola dimenticata
La bimba dorme nel suo lettino,
dorme tranquilla, sogna beata…
E la sua bambola, fuori in giardino,
sta sola sola dimenticata.
Piove a dirotto tutta la notte…
Povera bambola, che infreddatura!
Star lì inzuppata, con l’ossa rotte,
liquefacendosi per la paura.
Ma quella bimba, poi, domattina,
quanti rimproveri farsi dovrà,
quando la cara sua bambolina,
in quello stato ritroverà!
C’è una bimba che spazza davanti alla sua porta:
La bimba è piccola, e la granata è corta:
la neve è tanta tanta che copre la città,
a spazzarla via tutta chi mai ci arriverà?
Ci arriveremo tutti, se ognuno spazza un po’…
la bimba è piccolina, ma fa quello che può.
Quanti giocattoli
Quanti giocattoli
nelle vetrine!
Tutti si fermano
bimbi e bambine.
Ma si divertono
solo a vedere,
san già che tutto
non si può avere!
Povero babbo! Stanco, scalmanato,
tutte le sere torna dal lavoro,
ma per cantar la nanna al suo tesoro
ha sempre un po’ di forza e un po’ di fiato.
Lina Schwarz nacque a Verona il 20 marzo 1876.Si trasferì a Milano nel 1886 con la famiglia (ebrei di origine ungherese) che esercitava attività commerciale e fin dall’adolescenza si interessò a temi filosofici, pedagogici e a tematiche sociali.
Le notizie sulla vita di Lina Schwarz non sono molte e sono spesso abbastanza vaghe.
Al termine della prima guerra mondiale si fece promotrice in Italia dell’antroposofia di Rudolf Steiner che incontrò più volte e delle cui opere fu traduttrice, soprattutto per quanto riguarda conferenze e saggi. Tradusse anche Cronache dell’Akasha e I Punti essenziali della questione sociale.
Insieme a Lavinia Mondolfo fondò la scuola antroposofica di Milano “Leonardo Da Vinci” e nel 1923 rappresentò l’Italia, insieme a Emmelina Sonnino De Renzis, al figlio di lei Giovanni Antonio Colonna duca di Cesarò, ad Alcibiade Mazzarelli e Lamberto Caffarelli al “Convegno di Natale” a Dornach che fu l’evento di fondazione della società antroposofica universale.
Nel 1904 pubblicò il suo primo libro di poesie per bimbi che ebbe grande successo. Già nel 1910 tante sue poesie erano diventate canzoncine per bambini musicate da Oddone e pubblicate da Ricordi. Nel 1935 fu Nino Rota a musicare alcune poesie per bambini della Schwarz. Bemporad ne fece numerose edizioni e la collaborazione con la scrittrice si estese al «Giornalino della domenica» famoso periodico di Vamba.
La sua attività di filantropa si estrinsecò attraverso varie associazioni come l’Unione Femminile, La Fraterna, che seguiva le bambine nella lettura e nei momenti ricreativi, e l’Associazione Scuola famiglia che sosteneva economicamente le famiglie di alunne disagiate.
Guerra, bombardamenti e persecuzioni razziali la indussero a trasferirsi ad Arcisate in provincia di Varese e, da qui, per evitare la recrudescenza della ricerca degli ebrei da deportare in Germania, riuscì a riparare in Svizzera, a Brissago. Rientrata in Italia nel 1945 rimase ad Arcisate dove morì il 24 novembre 1947.
Nel 1963 fu intitolata al suo nome la locale scuola elementare.
Fonti:
I. Drago: La poesia per ragazzi in Italia, Firenze, 1971.
G. De Turris: Esoterismo e fascismo, Roma 2006.
S. Fava: Percorsi critici di letteratura per l’infanzia tra le due guerre, Milano 2004.
Il 2025 al MAXXI: i progetti e le nuove mostre in programma a Roma e L’Aquila-
L’arte al MAXXI di Roma e L’Aquila la relazionale di Nicolas Bourriaud, le monografiche di Rosa Barba e Douglas Gordon, un omaggio al mitico Andrea Pazienza: le mostre e i progetti del 2025 al MAXXI di Roma e L’Aquila –
Una programmazione ambiziosa e interdisciplinare, tra arte, architettura, design e fotografia, per celebrare il quindicesimo anniversario: per il 2025, il MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo rilancia il suo ruolo di laboratorio della contemporaneità, con un ricco palinsesto di mostre e iniziative che spaziano dalle ricerche sui linguaggi visivi del presente alle riletture della storia dell’arte recente, dalle teorie relazionali di Nicolas Bourriaud, alle sperimentazioni di artisti come Rosa Barba e Douglas Gordon.
MAXXI Roma
MAXXI Roma
«Il MAXXI si presenta come uno spazio pluralista per affrontare temi attuali e internazionali. In occasione del suo quindicesimo anniversario, il museo ospiterà importanti mostre personali e progetti collettivi, invitando a riflettere sulle istanze della contemporaneità al di là dei confini delle singole discipline», ha raccontato Francesco Stocchi direttore del MAXXI. «Un ricco programma che prende avvio dalle mostre per offrire approfondimenti e il dialogo, nell’era odierna della tecnologia innovativa, delle conversazioni civiche e delle emergenze ambientali. La realtà va più in fretta dell’arte ma è proprio l’arte che costruisce il domani».
Il 2025 vedrà passa avanti anche per il progetto di ampliamento del Museo: in autunno partiranno i lavori per la realizzazione del nuovo edificio multifunzionale e sostenibile e del nuovo parco fronte via Masaccio. Entro la fine dell’anno, sarà pronta un’ampia area verde, con alberi e la cavea green che farà da quinta scenica alla piazza Alighiero Boetti. Tra le altre novità, un progetto per lo sviluppo di un “assistente virtuale” basato su AI.
«Il 2025 apre nuove prospettive per un MAXXI in continua evoluzione. Arte, architettura, design, fotografia e pensiero critico si intrecciano per ridefinire i confini del possibile, mentre ogni progetto diventa un’occasione per esplorare nuovi orizzonti e tracciare traiettorie inedite, favorendo il dialogo tra discipline, culture e idee contemporanee. In questo spazio dinamico e in divenire, il futuro si immagina, si costruisce e si espande», ha dichiarato Emanuela Bruni, Consigliera reggente Fondazione MAXXI.
Arte, architettura, design
Si inizia il 18 aprile, con Something in the Water, un’esposizione curata dall’artista Oscar Tuazon che esplora l’acqua come metafora di resistenza, metamorfosi e connessione. Le opere esposte, firmate da artisti come Christo, Matthew Barney e Nancy Holt, propongono una riflessione sull’acqua come territorio condiviso e elemento di costante mutamento. La mostra si inserisce nel più ampio progetto Water School di Tuazon, in cui l’arte si espande oltre il museo, diventando strumento di collaborazione e attivazione sociale.
Sempre dal 18 aprile, il MAXXI affronta l’evoluzione dell’architettura con STOP DRAWING: Architettura oltre il disegno, a cura di Pippo Ciorra. Il disegno, strumento essenziale della progettazione architettonica, è qui messo in discussione alla luce dell’avvento di tecnologie digitali, pratiche artistiche e attivismo politico. La mostra, con opere di Carlo Scarpa, Aldo Rossi e Frida Escobedo, racconta la trasformazione della disciplina nel XX e XXI secolo, interrogandosi sul suo futuro.
Dal 23 maggio, il design trova spazio al MAXXI con Nacho Carbonell. Memory, in practice, prima edizione del programma ENTRATE, dedicato alla progettualità contemporanea. L’installazione dell’artista spagnolo Nacho Carbonell trasforma la hall del museo in uno spazio immersivo, dove un grande albero luminoso invita alla partecipazione e alla condivisione, sottolineando il ruolo del design nella costruzione di ambienti relazionali.
Dal 30 maggio, il MAXXI presenta STADI. Architettura e mito. La mostra, curata da Manuel Orazi, Fabio Salomoni e Moira Valeri, analizza l’evoluzione degli impianti sportivi come fenomeni architettonici e sociali, simboli di identità collettiva e cambiamento urbano, proponendo un confronto tra progetti italiani e internazionali e includendo opere d’arte e riferimenti alla cultura popolare.
MAXXI Roma
Douglas Gordon: il cinema come installazione
Sempre dal 30 maggio, per le attività organizzate dal Dipartimento Arte, diretto ad interim da Monia Trombetta, la galleria 5 ospita Douglas Gordon. Pretty much every film and video work from about 1992 until now, una retrospettiva monumentale che riunisce 30 anni di produzione dell’artista scozzese. L’esposizione, concepita come un’installazione immersiva, permette una fruizione non lineare delle opere, tra cui il celebre 24 Hour Psycho (1993) e The End of Civilisation (2012), confermando Gordon come uno dei massimi esponenti della videoarte.
30 anni di Arte Relazionale
Dal 31 ottobre, il MAXXI dedica una grande mostra all’Arte Relazionale con 1+1. The relational years, curata da Nicolas Bourriaud, teorico del movimento. A 30 anni dalla sua formulazione, l’Estetica Relazionale viene riletta attraverso le opere di artisti come Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan, Dominique Gonzalez-Foerster, Carsten Höller, Pierre Huyghe, Philippe Parreno, Rirkrit Tiravanija, tra gli altri, offrendo una panoramica sulla sua influenza nella scena artistica contemporanea.
Rosa Barba: una partitura da attivare
Concepita come una lunga passeggiata immersiva grazie a un display ideato dalla stessa Rosa Barba, la mostra, in apertura dal 28 novembre, presenterà una vasta selezione di lavori dell’artista siciliana, tra cui alcuni inediti, in una prospettiva cinematografica e scultorea. Le opere, attivate seguendo una specifica partitura durante gli orari di apertura del museo, instaureranno con il pubblico relazioni inusuali. L’industria cinematografica e la sua messa in scena plastica – la luce, le pellicole e le macchine in movimento – sono temi cruciali per Rosa Barba, che crea installazioni e “opere filmiche” a metà tra documentario sperimentale e narrativa di finzione, tra memoria e incertezza.
Focus: esperienze storiche da ricordare
Dal 30 maggio 2025, inoltre, il MAXXI presenterà In viaggio per l’arte. La Galleria Pieroni 1975-1992, a cura di Stefano Chiodi, che ripercorre la storia della galleria attraverso il suo archivio, acquisito dal museo nel 2022. Da Pescara a Roma, la galleria ha esposto artisti come Fabro, Kounellis, Merz, Boetti, Richter e Pistoletto. Nello stesso giorno inaugura Classicismo e modernità nel Foro Italico di Enrico Del Debbio, che esplora l’uso simbolico del marmo nelle opere dell’architetto, con un focus sul suo lavoro per il Foro Italico e una rilettura visiva di Begoña Zubero.
Dal 19 settembre, omaggio a Elisabetta Catalano con l’acquisizione di 16 nuove stampe nella Collezione MAXXI, accompagnata da incontri con l’Archivio Catalano. Nella stessa data, Nicola Di Giorgio. Calcestruzzo, curata da Simona Antonacci, approfondisce il progetto vincitore del Premio Graziadei 2022, che riflette sull’impatto del calcestruzzo nel paesaggio italiano.
Dal 28 novembre, il centenario di Luigi Pellegrin viene celebrato con Prefigurazioni per Roma, una selezione di disegni che esplorano la sua visione urbanistica tra utopia e infrastruttura. Contestualmente, Segno. Dentro l’archivio di una rivista, curata da Paolo Balmas, analizza i 50 anni della storica testata d’arte contemporanea, il cui archivio è ora parte del museo.
MAXXI L’Aquila: omaggio a PAZ
Appuntamenti in calendario anche per la sede del MAXXI L’Aquila. Dal 6 giugno, True Colors. Tessuti, movimento, colori e identità, la grande mostra che animerà fino al 16 novembre Palazzo Ardinghelli, con opere realizzate dal 2000 che utilizzano il tessuto. Curata da Monia Trombetta con Chiara Bertini, Fanny Borel, Donatella Saroli e Anne Palopoli per le performance, la mostra presenta opere processuali, installazioni immersive e site-specific provenienti dalla collezione del MAXXI in dialogo con opere in prestito e nuove produzioni realizzate da artisti internazionali. L’ispirazione è rafforzata dal contesto culturale abruzzese nel quale l’arte tessile ha radici antiche nell’ambito dell’economia agropastorale e del virtuoso artigianato.
MAXXI L’Aquila: omaggio a PAZ
La mostra sarà anticipata, nel mese di maggio, da Towards Tomorrow di Kaarina Kaikkonen, potente e poetica installazione allestita nella corte a esedra di Palazzo Ardinghelli, e attivata grazie alla partecipazione dei cittadini che vogliano condividere parte del proprio vissuto attraverso la donazione di abiti usati.
Il 5 dicembre aprirà invece Andrea Pazienza. La matematica del segno, che anticipa la monografica con cui il MAXXI di Roma, nel 2026, celebrerà il settantesimo del mitico fumettista. Il progetto espositivo vuole essere un omaggio al talento di Andrea Pazienza e alla sua influenza nell’arte e nella cultura italiana, celebrando il legame speciale dell’artista con l’Abruzzo, dove trascorse gli anni della giovinezza e della formazione. Curata da Giulia Ferracci e Oscar Glioti, la mostra sarà scandita da circa 40 opere grafiche e pittoriche realizzate ad acquarello, china e pennarello, proponendo alcune tavole centrali per descrivere la struttura compositiva adottata dall’autore nei suoi fumetti.Inizio modulo
CITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San Vittorino
CITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San Vittorino
La chiesa di Santa Maria di San Vittorinola si vuole sorta sui resti di un tempio pagano, sul luogo dove fu martirizzato San Vittorino, e nasce dalla radicale ristrutturazione di una chiesa più antica operata dai vescovi de Padilla e Quintavalle, tra il 1606 e il 1613, per mano del mastro lombardo Antonio Trionfa di Domodossola “de villa Roscie de Val de Premia”, definito nei documenti scarpellinus. L’imponente chiesa, a croce greca, un tempo coperta da volte e piccola cupola centrale, è scandita in altezza da un alto cornicione che corre per tutto il perimetro interno. È ora uno scenografico rudere invaso dall’acqua: la chiesa venne infatti costruita tra due sorgenti ma, agli inizi dell’800, il loro spostamento andò a coincidere con l’area interna dell’edificio. I crolli più importanti si verificarono negli anni ottanta del ’900. La Salaria gli corre alle spalle, e la bella facciata barocca in travertino, rivolta a est, guarda la piana: è articolata in uno pseudo pronao lievemente aggettante, e aperta da tre portali, mentre il timpano di coronamento è crollato. Si legge la data del 1608 sul portale centrale, e quella del 1613 sul fregio del cornicione che divide la fronte in due ordini. L’edificio è ormai fuori asse e semisommerso per circa due metri e mezzo.
CITTADUCALE- chiesa sommersa Santa Maria di San Vittorino
La chiesa di Santa Maria in Vittorino, meglio nota come chiesa di San Vittorino, è un edificio religioso diroccato situato nei pressi delle Terme di Cotilia, nel comune di Cittaducale in provincia di Rieti. È nota anche come “la chiesa sommersa”, “la chiesa nell’acqua” o “la chiesa che sprofon da”.Descrizione
La chiesa si trova al km 88,1 della Via Salaria, nella piccola frazione San Vittorino del comune di Cittaducale, a breve distanza dalle Terme di Cotilia.
È posta all’interno della Piana di San Vittorino (da cui prende il nome di Santa Maria “in Vittorino”): un territorio dove si trovano molte sorgenti mineralizzate e sono frequenti fenomeni carsici come i sinkhole (sprofondamenti improvvisi del terreno).
L’edificio è diroccato, non ha più il tetto ed è parzialmente sprofondato nel terreno. Sono ancora in piedi le mura perimetrali e in particolare la monumentale facciata in calcare giallo.[1] Il suo interno è allagato da una sorgente sotterranea che sgorga nel pavimento, con l’acqua che defluisce per mezzo del portale d’ingresso nella campagna circostante.
L’interno, a tre navate, ospitava diverse opere d’arte. Tra queste sopravvivono un bassorilievo dell’Annunciazione e una fonte battesimale (entrambi risalenti al XIV secolo e conservati nella cattedrale di Cittaducale),[2] un affresco (conservato al museo diocesano di Rieti) e l’altare in pietra (collocato nel cortile del centro anziani di Cittaducale).[1]
Storia
Il tempio pagano
La piana di San Vittorino, per via degli evidentissimi fenomeni carsici che vi avvengono, nell’antichità era considerata punto di accesso agli inferi e pertanto era sin da allora un luogo di pellegrinaggio e di devozione. Infatti già in epoca preromana i Pelasgi e i Sabini, forse testimoni dell’impressionante sprofondamento che diede origine al Lago di Paterno, ritenevano quel territorio sacro e vi compivano sacrifici. La zona mantenne la sua sacralità anche presso i romani (tanto che Varrone la definì Umbilicus Italiae), e in tale epoca acquisì ulteriore importanza grazie allo sfruttamento delle sorgenti nell’impianto termale di Cutilia.
In epoca romana, al posto dell’attuale chiesa, si trovava un tempio dedicato alle ninfe dell’acqua,[2] sorto nei pressi di una sorgente considerata sacra.
La tradizione pagana della sacralità di tale sorgente non finì con l’avvento del cristianesimo ed è sopravvissuta fino ai giorni nostri: ancora oggi gli abitanti del luogo venerano una madonna ospitata in un’edicola sulla parete esterna della chiesa diruta, e attribuiscono miracolosi poteri curativi all’acqua che sgorga dal pavimento.[3]
La costruzione della chiesa
L’edificazione della chiesa sui resti dell’antico tempio pagano si deve al fatto che, proprio in quel luogo, nel 96 d.C. subì il martirio san Vittorino di Amiterno.[1] Il santo fu appeso a testa in giù su una sorgente sulfurea e morì dopo tre giorni, avvelenato dalle emissioni gassose di acido solfidrico provenienti dalla fonte.[4]
Sembra che, già nel IV secolo, nel luogo del martirio del santo sorgesse una piccola cripta, che per un certo periodo ospitò il sepolcro del santo;[4] nel secolo successivo il suo corpo fu trafugato e trasportato nella chiesa di San Michele Arcangelo, ad Amiterno.[4] La piccola cripta lasciò il posto ad una chiesa vera e propria solo diversi secoli più tardi, tra il Trecento e il Quattrocento; è in quel periodo che fu eretta la chiesa di San Vittorino.[2]
L’aspetto attuale della chiesa risale a dei lavori di ampliamento che, come riporta un’iscrizione ancora leggibile sulla facciata, iniziarono nel 1608 e furono completati nel 1613.[2] L’intervento di rifacimento fu voluto dal vescovo di Cittaducale, Pietro Paolo Quintavalle,[1] ed è attribuito da alcuni all’architetto romano Giovanni Battista Soria[5] mentre da altri al domese Antonio Trionfo.[4] Divenne in breve tempo una delle più importanti chiese di Cittaducale.[2]
Tuttavia nell’Ottocento il terreno su cui era stata costruita iniziò a sprofondare e una sorgente sotterranea emersa dal pavimento allagò la chiesa, che pertanto dovette essere abbandonata.[2] L’improvviso sinkhole fu dovuto alla superficialità della falda nel terreno dove la chiesa fu fondata (posta a soli 90 cm dal piano di campagna),[6] e probabilmente innescato dal terremoto del 1703.[7]
Dopo oltre un secolo di abbandono, il terremoto del 1979 causò il crollo del tetto della chiesa. Nel gennaio del 1988 la provincia di Rieti avviò l’esecuzione di lavori urgenti per rallentare l’inabissamento ed evitare ulteriori crolli.[8] All’intervento doveva seguire il recupero completo dell’edificio, che tuttavia non venne mai eseguito. La chiesa è tuttora abbandonata e continua lentamente a sprofondare.
Nel cinema
Per il carattere suggestivo e surreale del luogo, nel 1983 il regista sovietico Andrej Tarkovskij lo scelse per girare una scena del film d’essaiNostalghia. Nella scena il protagonista, dopo un lungo vagabondare solitario, entra nella chiesa dove incontra una bambina e riflette sul valore della felicità, tra la lettura di un libro e bicchieri di liquore; infine il protagonista incendia il libro e si addormenta nella chiesa.[9]
· Andrea Del Vescovo, San Vittorino di Amiterno, su enrosadira.it. URL consultato il 19 agosto 2017.
^Storia di Cittaducale, su webalice.it. URL consultato il 10 giugno 2017 (archiviato dall’url originale il 20 maggio 2017).
^Prone area: Piana di Cotilia – Peschiera, su Italiav Web Sinkhole Database, 31 agosto 2011. URL consultato il 6 luglio 2016 (archiviato dall’url originale il 15 ottobre 2012).
^ Giuseppina Giangrande, Una liberata, un’altra ingabbiata (PDF), in Frontiera, n. 2, Diocesi di Rieti, 16 gennaio 1988, p. 24. URL consultato il 31 maggio 2020.
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La sarda NINETTA BARTOLI fu la prima sindaca d’Italia
Il costume è quello del giorno della festa. Il corpetto bianco con le maniche a sbuffo, la lunga gonna a pieghe ricamata di fiori e il velo, a incorniciare un viso fiero.La sarda Ninetta Bartoli, prima sindaca d’Italia, si fa ritrarre così, nell’abito della tradizione, da solenne investitura.Una mano appoggiata sul fianco e occhi che guardano lontano, a quella scelta che nessuna prima di lei aveva fatto: governare il suo piccolo paese. Alle elezioni dell’Aprile 1946, si presenta come candidata sindaco. Con l’89% delle preferenze, conquistando 332 voti su 371, sbaraglia gli uomini avversari e viene eletta. È votata a furor di popolo, un vero e proprio plebiscito: diventa la prima sindaca della storia dell’Italia repubblicana.
NINETTA BARTOLI- La prima sindaca d’Italia
È mater familias che sulla sua carrozza gira tra Borutta e Sassari per conoscere sempre meglio il territorio che amministra e capire come intervenire per migliorare le cose. Fa costruire l’acquedotto, il sistema fognario e porta l’energia elettrica in paese: una rivoluzione che cambia per sempre Borutta, trasformandola da un povero paese fossilizzato nel passato a un moderno centro civilizzato. Grazie a lei si edificarono case popolari e la scuola. Anche i ruderi della chiesa e del Monastero di San Pietro di Sorres ritornarono all’antico splendore. E se le casse comunali non consentivano di coprire le spese, lei stessa non esitava ad attingere al suo patrimonio pur di realizzare le opere che aveva in mente.Governò Borutta per 12 anni fino al 1958.
NINETTA BARTOLI-La prima sindaca d’Italia
Biografia–Antonia Bartoli detta Ninetta (Borutta, 24 settembre1896 – Borutta, 1978) è stata una politicaitaliana, prima donna ad essere stata eletta sindaca in Italia– Nata da una famiglia nobile, Ninetta Bartoli (alcune fonti sostengono che avesse come secondo nome “Bartola”)[3] ebbe la possibilità di studiare presso l’istituto “Figlie di Maria” di Sassari, la scuola più esclusiva della città.
Avendo deciso di non volersi sposare e di rimanere nel suo paese, si avvicina all’ambiente culturale ecclesiastico locale dopo aver conosciuto il missionario Giovanni Battista Manzella.
Nel 1945, dopo la fine della guerra, divenne segretaria della sezione locale della Democrazia Cristiana. L’anno successivo, quando decise di candidarsi alla carica di sindaco, venne sostenuta dai membri più importanti della DC provinciale, principalmente dalla famiglia Segni.
Vinse le elezioni del 1946 con l’89% dei consensi, 332 voti su 371.[3] A partire da quel momento, restò in carica per 12 anni, fino al 1958, quando il suo partito smise di sostenerla.[7]
Il giorno del suo insediamento scelse di farsi fotografare con indosso il costume tradizionale di Borutta, quello utilizzato nelle occasioni importanti.[8]
Nel corso del suo mandato fece costruire le prime case popolari, le scuole elementari, l’asilo, il cimitero, il Municipio, l’acquedotto e l’impianto fognario. Istituì una cooperativa per la raccolta del latte e per la produzione del formaggio, una casa di riposo, una cooperativa agraria e avviò tutta una serie di iniziative per offrire posti di lavoro qualificati alle donne. Si occupò anche del patrimonio artistico; il restauro del complesso monastico di San Pietro di Sorres avvenne per opera sua, con l’investimento di soldi appartenenti a lei e alla sua famiglia. A partire dal 1955, venne fatta arrivare in quello stesso monastero una comunità di monaci benedettini, l’unica in Sardegna dopo molti secoli.[1][3]
Morì nel 1978 nel suo paese, a Borutta, dopo aver continuato a lavorare per la comunità anche in seguito alla fine del proprio mandato e ruolo istituzionale. Il comune di Borutta le ha intitolato un premio, dedicato a tutte le donne che si sono contraddistinte in ambito sociale, politico, economico o che hanno partecipato al lavoro in generale.[5]
Roma-Al Teatro Lo SpazioAlt Academy presenta:”SIGNORINE NEL TEMPO. L’EPOPEA DELLE SIGNORINE BUONASERA”
Roma-Approda al Teatro Lo Spazio di Roma, Alt Academy presenta dal 19 al 23 marzo, SIGNORINE NEL TEMPO. L’EPOPEA DELLE SIGNORINE BUONASERA, spettacolo scritto da Veronica Liberale e diretto da Pietro De Silva. Torino, gennaio 1954. Sandra Adelini, commessa in prova, in un negozio di elettrodomestici, si ritrova a vivere una giornata storica per il paese e per la comunicazione: l’inizio delle trasmissioni televisive. Alle prese con i clienti accalcati di fronte ai primi televisori e al mondo del lavoro , ancora maschilista e poco possibilista per le donne, Sandra sogna un futuro migliore e lo fa davanti alla scatola magica, di fronte alla quale è destinata a conoscere quello che diventerà il padre di suo figlio, giunto in negozio per comprare una lavatrice Zoppas. Dentro quella scatola magica c’è Nicolina, la prima annunciatrice della TV, un’ apparizione dolce e rassicurante, chiamata per umanizzare la televisione, pioniera in un mondo ancora sconosciuto. Con il televisore che fa da cornice al suo affascinante mezzo busto, Nicolina sa che dovrà guidare per mano i telespettatori annunciando film, rubriche, varietà, spot pubblicitari. Veloce a intervenire in caso di problemi tecnici o interruzioni improvvise.
Alt Academy presenta:”SIGNORINE NEL TEMPO. L’EPOPEA DELLE SIGNORINE BUONASERA”
Sempre rassicurante, sempre sorridente, sempre pronta. In bilico tra le potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione in grado di portare progresso, alfabetizzazione e cultura in tutto il paese, e le sue conseguenze dettate dai limiti del mezzo stesso. ll destino di Sandra e Nicolina si incrocia ed è a legato a doppio filo con quello di una terza signorina, Maria Rosella, annunciatrice del 2003, appena giunta negli studi televisivi per iniziare la giornata più difficile della sua carriera, che si concluderà con una rivelazione: una drastico riduzione di orario di lavoro. La risposta dei dirigenti cerca di indorare la pillola, parlano di ridimensionamento, di altre opportunità, di rinnovo dell’immagine. Ma la realtà è cruda come uno schiaffo in pieno viso : Maria Rosella, insieme ad altre sue colleghe “della vecchia guardia”, è stata sollevata dal suo incarico e sostituita da giovanissime ragazze, in buona parte provenienti dalle fila di concorsi di bellezza.
In scena, la storia delle tre donne, signorine nel tempo, che con la loro dolcezza, la loro professionalità, la loro forza, sfidano le avversità del loro tempo, avviene su tre piani paralleli, sui quali si muove la figura di un narratore, che racconta la loro storia, entrando a farne parte e rappresentando le figure maschili che le tre protagoniste, incontrano nel loro viaggio.
NOTE DELL’AUTRICE : Con questo testo s’intende omaggiare quelle icone che sono state le annunciatrici italiane dagli esordi della televisione fino alla loro graduale scomparsa, specchio di una t.v. non certo perfetta ma sicuramente più garbata e professionale rispetto alla sciatteria, aggressività e superficialità della comunicazione contemporanea.
La storia delle tre donne, i cui nomi di fantasia sono un leggero ricordo di quelli veri, è romanzata, in modo tale che all’interno di queste figure di fantasia possano concentrarsi le caratteristiche, le esperienze lavorative e l’essenza di quello che hanno rappresentato le “Signorine Buonasera” per gli italiani. In questo senso raccontando la loro storia personale si vuole raccontare indirettamente quella del paese.
Gli attori in scena sono quattro. Tre donne protagoniste, supportate da un attore uomo che interpreterà mano a mano tutti i personaggi maschili (dirigenti rai, mariti, ammiratori, colleghi) che ruotano intorno alle indimenticabili “Signorine Buonasera”.
Alt Academy presenta:”SIGNORINE NEL TEMPO. L’EPOPEA DELLE SIGNORINE BUONASERA”
Alt Academy
presenta
SIGNORINE NEL TEMPO
L’EPOPEA DELLE SIGNORINE BUONASERA
di Veronica Liberale
con Camilla Bianchini, Giada Fradeani, Veronica Liberale e Luigi Pisani
Roma- La rassegna “OBIETTIVO DONNA” per festeggiare i 25 anni di Officine Fotografiche-
Roma-Quest’anno, per festeggiare i 25 anni di Officine Fotografiche, rinnoviamo la rassegna OBIETTIVO DONNA, a cura di Emilio D’Itri. Un appuntamento da non mancare con mostre inedite come Martha Grahm di Imogen Cunningham o Il respiro irregolare della vita di Ninni Romeo, e poi proiezione di alcuni episodi di LE FOTOGRAFE di e con Francesco G.Raganato e poi ancora incontri con Alessandra Mauro, Raffaella Perna, Lina Pallotta.
Il programma:
Officine Fotografiche Roma
INAUGURAZIONE il 06 MARZO h. 18:30
MOSTRE: IMOGEN CUNNINGHAM. 91 FOTOGRAFIE A MARTHA GRAHAM
fotografie di IMOGEN CUNNINGHAM (a cura di Samantha Marenzi, Gloria Grandolini) IL RESPIRO IRREGOLARE DELLA VITA
fotografie di NINNI ROMEO(a cura di Lina Pallotta)
07 MARZO h. 18:30 – PROIEZIONE LE FOTOGRAFE (2a stagione) proiezione episodi docu-serie:
CRISTINA VATIELLI – IN MEMORIA DI ME (27min.)
LUDOVICA ANZALDI – CORPI LIBERI (27min.) con Francesco G. Raganato (autore e regista)
LE FOTOGRAFE 2 è la seconda stagione della docu-serie interamente dedicata alle fotografe italiane che trattano temi legati al femminile. Il filo rosso che tiene assieme ogni episodio è la Fotografia intesa come strumento di indagine introspettiva, di esplorazione del reale e di espressione artistica. Nei nuovi episodi si esploreranno concetti più ampi e più stratificati rispetto a quelli della stagione precedente. Si parlerà spiritualità, della ricerca della maternità, di memoria, della scoperta di sé. Ma anche di gender, adolescenza e comunità di appartenenza. Le fotografe non raccontano soltanto tematiche legate al femminile, ma svelano mondi più ampi, più sfaccettati, complessi e affascinanti. Ognuna di loro sta portando avanti la propria ricerca personale, sta crescendo nel proprio lavoro, sta affermando la sua presenza nel mondo della cultura visiva del nostro paese. Ognuna di loro sta contribuendo a cambiare e arricchire l’immaginario fotografico italiano.
LE FOTOGRAFE è una serie antologica, ma non retrospettiva. Lo sguardo e il racconto sono rivolti sempre al presente e al futuro. LE FOTOGRAFE è una serie ideata, scritta e diretta da Francesco G. Raganato, e prodotta da TERRATREMA FILM per SKY ORIGINAL.
14 MARZO h. 18:30 – PROIEZIONE LE FOTOGRAFE (1a stagione) proiezione episodi docu-serie: SIMONA GHIZZONI – TUTTO PARLA DI ME (27min.) ILARIA MAGLIOCCHETTI LOMBI – UN RITRATTO IN DUE (27min.)
con Francesco G. Raganato (autore e regista)
LE FOTOGRAFE (prima stagione) è la prima docu-serie interamente dedicata alle fotografe italiane che trattano temi legati al femminile, creata e diretta da Francesco G. Raganato, prodotta da Terratrema Film in collaborazione con Seriously.
8 episodi, ognuno con una fotografa diversa come protagonista e con un tema specifico: dall’amore alla sessualità, dal ruolo della donna nella società alla body positivity. Il filo rosso che tiene assieme la serie è la fotografia intesa come strumento di indagine, di racconto e di espressione artistica.
Le 8 fotografe non raccontano soltanto tematiche legate al femminile, ma svelano mondi sfaccettati, complessi e affascinanti. Ognuna di loro sta portando avanti la propria ricerca personale, sta crescendo nel proprio lavoro, sta affermando la sua presenza nel mondo della cultura visiva del nostro paese. Ognuna di loro sta contribuendo a cambiare e arricchire l’immaginario fotografico italiano.
In ogni episodio le fotografe sono ritratte nell’atto di creare qualcosa di nuovo. Alcune di loro hanno scatto la foto conclusiva di un progetto fotografico lungo anni, altre hanno cominciato da zero un nuovo progetto. Tutte quante, durante le riprese della serie, hanno scattato fotografie che andranno ad arricchire ed ampliare il loro portfolio artistico.
Alcune tra le 8 protagoniste sono all’inizio della loro carriera, altre stanno crescendo, altre sono già affermate, una rosa variegata di protagoniste, ognuna scelta per la propria specificità.
18 MARZO h. 18:30 – INCONTRI ALESSANDRA MAUROUn enigma surrealista. Lee Miller, le sue fotografie e la sua vita. “Lee Miller è un vero rompicapo surrealista. Cosa che, ne conveniamo, è in sé un enigma”. Così, nel 1933, la rivista d’arte americana Creative Art definiva Lee Miller.
Effettivamente, Lee Miller sfugge a ogni semplice definizione e la sua vita, il suo lavoro, le sue fotografie, la sua vicenda biografica e in qualche modo anche l’immagine del suo corpo, sono elementi che, insieme, compongono il mosaico sfaccettato e a volte contraddittorio della sua personalità: quello di una donna indipendente e di un’artista di talento.
In occasione dell’uscita il 13 marzo del film Lee Miller interpretato da Kate Winslet, con l’aiuto delle sue immagini, delle sue parole e del racconto che su di lei ha composto il figlio, Anthony Penrose, ricostruiamo il suo percorso e cerchiamo, se possibile, di svelarne l’enigma.
21 MARZO h. 18:30 – INCONTRI LINA PALLOTTAArtivismo. Presentazione del libro “Voce ’e Stommache” di Lina Pallotta (Ed. NERO). Voce ‘e stommache di Lina Pallotta è un ritratto personale e intimo della comunità trans napoletana, nato dalla stretta collaborazione con Loredana Rossi, fondatrice e vicepresidente dell’ATN – Associazione Transessuale Napoli, una ONG impegnata a sostenere le persone trans e a tutelarne i diritti, la salute e la dignità.
Il titolo, derivato da un detto napoletano, sta a significare che l’espressione e l’affermazione di sé non nascono solo dall’intelletto ma da un luogo profondo e viscerale, ed è questa l’etica che ha ispirato Pallotta ad avventurarsi per la prima volta nell’uso della fotografia a colori, per catturare le molteplici sfaccettature della ricerca e dell’espressione dell’identità.
Ritratti, scene di strada, interni domestici e istantanee di momenti quotidiani – dall’applicazione del trucco allo shopping e alla condivisione di bevande – le immagini di Pallotta testimoniano un senso di fiducia e comprensione che abbatte le barriere tra artista e soggetto. Voce ‘e stommache si pone quindi come un sentito tributo al potere trasformativo dell’amicizia e dell’espressione di sé, una celebrazione dell’identità e della comunità e uno struggente atto di advocacy.
Il libro è pubblicato nell’ambito della prima edizione del Premio Paul Thorel “L’UNDICESIMA CASA”, con il generoso sostegno della Fondazione Paul Thorel.
28 MARZO h. 18:30 – INCONTRI RAFFAELLA PERNAPolitiche dello spazio domestico nella fotografia femminista italiana. Politicizzare l’ambiente domestico, per superare la dicotomia tra spazio privato e spazio pubblico, è stato uno dei gesti di rottura più radicali agiti dal movimento femminista sin dalle sue origini.
Percepita come luogo altamente simbolico della secolare oppressione femminile, la casa diviene per numerose fotografe un terreno elettivo di sperimentazione, da cui ripartire per ripensare il ruolo della donna e della sua immagine, dentro e fuori dalle mura domestiche. La rappresentazione fotografica del lavoro di cura, il concetto di “doppia presenza”, la riappropriazione della casa come luogo d’incontro e formazione di comunità sono i temi attorno ai quali ruoterà l’incontro.
Ingresso gratuito
Officine Fotografiche si propone di divulgare la cultura della fotografia e dell’immagine agli appassionati di tutte le età, in particolare alle nuove generazioni. Obbiettivo principale dell’associazione è di aumentare la conoscenza tecnica e culturale dell’immagine fotografica, rendendola nel contempo accessibile a tutti.
Via Giuseppe Libetta, 1 – 00154 – Roma
Tel. +39 06 97274721
of@officinefotografiche.org
I nostri orari:
Segreteria dal lunedì al venerdì 9.00/13.00 – 15.00/20.00
Sabato 9.30/12.30 (domenica e festivi chiuso) Spazio espositivo
dal lunedì al venerdì 9.00/13.00 – 15.00/19.45
Sabato 9.30/12.30 (domenica e festivi chiuso) Libreria e Biblioteca
dal lunedì al venerdì 15.00/19.45
Chiuso sabato/domenica e festivi
Breve biografia di Marina Cvetaeva nacque a Mosca il 26 settembre (9 ottobre) 1892, figlia di Ivan Vladimirovič Cvetaev (1847-1913, filologo e storico dell’arte, creatore e direttore del Museo Rumjancev, oggi Museo Puškin) e della sua seconda moglie, Marija Mejn, pianista di talento, polacca per parte di madre. Nel 1910 pubblicò Večernij al’bom (Album serale): poesie scritte dai quindici ai diciassette anni.
Marina Cvetaeva
Il volumetto attirò l’attenzione di poeti come Brjusov, Gumilëv, Vološin. Nella dacia di quest’ultimo, a Koktebel’, in Crimea, Marina incontrò per la prima volta (1911) Sergej Jakovlevič Efron, di origini ebraiche. L’anno successivo Marina lo sposò; di lì a poco comparve la sua seconda raccolta Volšebnyj fonar’ (Lanterna magica) e nel 1913 Iz dvuch knig (Da due libri). Intanto, il 5 settembre 1912, era nata la prima figlia, Ariadna (Alja). Agli inizi del 1916, dopo un viaggio a Pietroburgo si rafforzò l’amicizia con Osip Mandel’štam e si ruppe bruscamente il rapporto amoroso che per circa due anni l’aveva legata alla poetessa Sofija Parnok. Dopo l’ottobre 1917 il marito raggiunse l’esercito dei Bianchi, e la Cvetaeva restò bloccata a Mosca dalla guerra civile. Fra terribili privazioni e lutti (nel febbraio 1920 morì di denutrizione Irina, la figlia nata nel 1917), continuò a scrivere e a mantenere rapporti con il mondo letterario e artistico. Dal 1918 al 1919, nel periodo della sua amicizia con gli attori del II studio del Teatro d’Arte di Mosca, lavorò alle pièces del ciclo “romantico” Metel’ (La tormenta), Feniks (La fenice), Priključenie (Un’avventura), Fortuna, Červonnyj valet (Il fante di cuori), Kamennyj angel (L’angelo di pietra). Nel 1920 scrisse il poema-fiaba Car’devica (Lo Zar-fanciulla) e Lebedinyj stan (L’accampamento dei cigni), un ciclo lirico sull’Armata Bianca. Nel luglio 1921 ebbe per la prima volta la notizia che il marito era vivo e aveva trovato asilo in Boemia. Nel maggio dell’anno successivo lasciò con la figlia l’URSS per Berlino (qui ebbe inizio il lungo e intenso legame epistolare con Boris Pasternak); nell’agosto 1922 la famiglia Efron si stabilì in Boemia, dove visse fino al 1925, tra difficoltà finanziarie, separazioni e continui trasferimenti. Intanto la fama della Cvetaeva si era andata consolidando: nel 1922 erano state pubblicate a Mosca la raccolta Verste (1) e la pièce Konec Kazanovy (La fine di Casanova); a Berlino Stichi k Bloku (Poesie per Blok) e Razluka (Separazione); nel 1923, sempre a Berlino, avevano visto la luce le raccolte Remeslo (Mestiere) e Psicheja (Psiche). Nel 1924, anno in cui nacquero gli splendidi Poema della montagna e il Poema della fine, aveva pubblicato Ariadna (Arianna), prima parte di una progettata trilogia di tragedie in versi, e il poema Mólodec (Il prode). Con queste e altre opere (fra l’altro il poema Krysolov, L’accalappiatopi, 1925 e la tragedia Fedra, 1928) la Cvetaeva era divenuta un’assidua collaboratrice delle riviste dell’emigrazione russa, tra Berlino, Praga, Parigi. In quest’ultima città si trasferì nel novembre 1925 con Alja e Georgij, il bambino nato nel febbraio di quell’anno, e lì la raggiunse il marito. Il carattere intransigente e altero della Cvetaeva, aliena dal viscerale antisovietismo della maggioranza degli immigrati, creò gradatamente intorno a lei una pesante atmosfera di ostilità. L’ultima sua raccolta di versi, Posle Rossii (Dopo la Russia) vide la luce a Parigi nel 1928. Negli anni Trenta la Cvetaeva pubblicò quasi esclusivamente prose: saggi critici e critico-memorialistici, racconti “autobiografici” condotti sul doppio filo dell’invenzione e della memoria. All’inizio del 1937 Ariadna, fervente sostenitrice delle idee del padre, nel frattempo entrato in un’associazione che favoriva il ritorno in patria degli esuli russi, partì per l’Unione Sovietica. Nel settembre dello stesso anno Sergej Efron fu coinvolto in un clamoroso caso politico-spionistico: l’assassino di un ufficiale della polizia politica segreta sovietica che all’estero aveva disertato. Poco più tardi Efron scomparve dalla Francia. Sottoposta a un ormai violento ostracismo da parte della colonia russa, sconvolta dalle prime imprese europee del nazismo, sollecitata dalle insistenze del figlio, anche la Cvetaeva lasciò la Francia nel giugno 1939. A Mosca la attendevano nuove e terribili prove (Alja venne arrestata nel novembre ’39: dopo lager e confino, poté tornare a Mosca solo nel ’55; Efron, arrestato quasi contemporaneamente alla figlia, venne fucilato nell’agosto ’41), nuove privazioni, acuite dalle difficoltà del periodo prebellico. Aiutata da pochissimi amici fedeli, sopravvisse grazie a sporadici lavori di traduzione. Seguendo l’ondata dell’evacuazione, il 21 agosto del 1941 la Cvetaeva raggiunse con il figlio Elabuga, capitale della Repubblica autonoma socialista tatara, dove dieci giorni più tardi si sarebbe suicidata.
Marina Cvetaeva
Eccetto l’amore
Non amavo, ma piangevo. No, non amavo, tuttavia
solo a te ho indicato nell’ombra il volto adorato.
Tutto nel nostro sogno non assomigliava all’amore:
né ragioni, né indizi.
Solo noi ha salutato questa immagine dalla sala serale,
solo noi – tu ed io – le abbiamo portato un verso lamentoso.
Il filo dell’adorazione ci ha legati più forte
dell’innamoramento – degli altri.
Ma l’impeto è passato e dolcemente qualcuno si è avvicinato
che non poteva pregare, ma amava. Non affrettarti a condannare!
Ti ricorderò come la più tenera nota
nel risveglio dell’anima.
Tu vagavi in questo animo triste come in una casa non chiusa.
( nella nostra casa, in primavera…)non definirmi quella che ha dimenticato!
Io ho riempito di te tutti i minuti tranne
il più triste – quello dell’amore .
Marina Cvetaeva
Non penso, non mi lamento, non discuto
Non penso, non mi lamento, non discuto.
Non dormo.
Non aspiro
né al sole né alla luna né al mare
né alla nave.
Non mi accorgo di quanto fa caldo tra queste pareti,
di quanto verde c’è nel giardino.
Da tempo il dono desiderato ed atteso
non aspetto.
Non mi rallegra né il mattino né la corsa
sonora del tram.
Vivo, senza vedere il giorno, dimenticando
la data e il secolo.
Sulla fune, che sembra intagliata,
io – sono un piccolo danzatore.
Io – ombra dell’ombra di qualcuno. Io – sonnambulo
di due oscure lune.
Ai miei versi scritti così presto
мом стихам написанным так рано//
Ai miei versi scritti cosi presto
Ai miei versi scritti così presto,
che nemmeno sapevo d’esser poeta,
scaturiti come zampilli di fontana,
come scintille dai razzi.
Irrompenti come piccoli demoni
nel sacrario dove stanno sogno e incenso,
ai miei versi di giovinezza e di morte,
versi che nessuno ha mai letto!
Sparsi fra la polvere dei magazzini
dove nessuno mai li prese né li prenderà,
per i miei versi, come per i pregiati vini,
verrà pure il loro turno.
Marina Cvetaeva poetessa russa
Alla povera mia fragilità
Alla povera mia fragilità
tu guardi senza dire una parola.
Tu sei di marmo, ma io canto,
tu – statua, ma io – volo.
So bene che una dolce primavera
agli occhi dell’Eterno – è un niente.
Ma sono un uccello, non te la prendere
se è leggera la legge che mi governa.
Il tuo nome -è una rondine nella mano
Il tuo nome è una rondine nella mano, il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua. Un solo unico movimento delle labbra. Il tuo nome sono cinque lettere. Una pallina afferrata al volo, un sonaglio d’argento nella bocca.
Un sasso gettato in un quieto stagno singhiozza come il tuo nome suona. Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni il tuo nome rumoroso rimbomba. E ce lo nomina lo scatto sonoro del grilletto contro la tempia.
Il tuo nome − ah, non si può! − il tuo nome è un bacio sugli occhi, sul tenero freddo delle palpebre immobili. Il tuo nome è un bacio dato alla neve. Un sorso di fonte, gelato, turchino. Con il tuo nome il sonno è profondo.
Marina Cvetaeva
Il tuo nome – rondine nella mano
Il tuo nome è una rondine nella mano,
il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua.
Un solo unico movimento delle labbra.
Il tuo nome sono cinque lettere.
Una pallina afferrata al volo,
un sonaglio d’argento nella bocca.
Un sasso gettato in un quieto stagno,
singhiozza come il tuo nome suona.
Nel leggero suono degli zoccoli notturni
il tuo nome rumoroso rimbomba.
E ce lo nomina lo scatto sonoro
del grilletto contro la tempia.
Il tuo nome – ah, non si può! –
Il tuo nome è un bacio sugli occhi,
sul tenero freddo delle palpebre immobili.
Il tuo nome è un bacio dato alla neve.
Un sorso di fonte, gelato, turchino.
Con il tuo nome il sonno è profondo.
Traduzione Pietro Antonio Zveteremich
Da lontano – il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.
Per pianeti, sogni, segni… Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio. Giacché il suo
è passo di cometa. E negli sparsi anelli
della casualità è il suo nesso. Disperate –
voi che guardate il cielo! L’eclisse del poeta
non c’è sui calendari. Il poeta è quello
che imbroglia in tavola le carte,
che inganna i conti e ruba il peso.
Quello che interroga dal banco,
che sbaraglia Kant,
che sta nella bara di Bastiglie
come un albero nella sua bellezza…
È quello che non lascia tracce,
il treno a cui non uno arriva
in tempo…
Giacché il suo
è passo di cometa: brucia e non scalda,
cuoce e non matura – furto! scasso! –
tortuoso sentiero chiomato
ignoto a tutti i calendari…
Traduzione di Gianni Pannofino-ADELPHI EDIZIONI SPA
SINOSSI
Raymond Chandler –L’aria di Pasadena è «immobile, rovente e profumata» quando Marlowe, sigaretta spenta fra le labbra e cappello calcato sulla fronte, fa il suo ingresso nella sontuosa residenza di Mrs. Elizabeth Murdock. L’incarico che la donna gli prospetta dalla sua chaise-longue di vimini, mentre si scola un bicchiere di porto dopo l’altro, non si direbbe dei più difficili, né dei più pericolosi: ritrovare un’antica e rarissima moneta d’oro – il prezioso doblone Brasher – sottratta alla collezione del defunto marito, probabilmente dalla nuora scomparsa. Ma non appena Marlowe fiuta una pista promettente e sente a portata di mano la soluzione del caso, una serie di omicidi indecifrabili fa calare sull’indagine una fitta coltre di mistero. Per vederci chiaro dovrà spingersi a Bunker Hill – «città vecchia, perduta, fatiscente e piena di balordi» – e frugare palazzi popolati da inquilini sfuggenti, portieri che «sono sempre un po’ cani da guardia e un po’ ruffiani», «uomini anziani dai volti che sembrano battaglie perse». Niente, comunque, che un detective del suo calibro, armato come sempre di laconico cinismo e un’aria imperturbabile da eroe romantico, non possa affrontare, e come sempre nella sua inimitabile maniera, attraversando la nera notte di Los Angeles fra ricatti, night club, pinte di whisky e segreti celati dal tempo.
Negli anni venti conobbe colei che diventò l’amore della sua vita, Cissy Pascal, moglie di un pianista, di 18 anni più grande di lui; per lui divorziò dal marito, ma solo nel 1924, alla morte della madre di Chandler, contraria a quest’unione, Raymond e Cissy si sposeranno. Iniziò un periodo di relativa tranquillità per i due, fino al 1931 circa, Chandler fece carriera in una serie di aziende petrolifere e non scriveva più, nemmeno come giornalista. In una lettera di anni dopo confessò di aver odiato quel lavoro per cui, nonostante il successo, ai primi degli anni trenta entrò in crisi profonda: il matrimonio non funzionava, iniziò ad avere rapporti extra-coniugali con le sue segretarie, ma soprattutto iniziò a bere, avendo problemi al lavoro (come il suo personaggio alter-ego, Philip Marlowe).
Nel 1932 il licenziamento portò Chandler a una crisi esistenziale ed economica, ma fu grazie a questa crisi che trovò una sorta di “disperazione rabbiosa e speranzosa” che gli fece dire: “io sono vivo, attraverso la pagina, attraverso il racconto”. Iniziò quindi a scrivere pulp fiction per guadagnarsi da vivere e pubblicò il suo primo racconto “I ricattatori non sparano” nel 1933, all’età di quarantacinque anni, sulla rivista Black Mask, una rivista che pubblicava racconti di vita vissuta, di indagini della strada, pieni di azione, con inseguimenti e casi risolti con “pugni e pistole”. Chandler era un fervente ammiratore di Dashiell Hammett che, a suo dire, aveva restituito il delitto alla gente, perché “se la gente ammazza qualcuno lo fa per un motivo”. Pur non guadagnando molto, Chandler era soddisfatto, e il rapporto con la moglie tornò sereno.
Nel 1939 pubblicò il suo primo romanzo, Il grande sonno, dove compare per la prima volta il detective Philip Marlowe, che si muove nella Los Angeles bella e corrotta del decennio degli anni trenta. Il libro ebbe un discreto successo, ma solo nel 1942, quando fu scoperto da Hollywood, il successo gli arrise davvero, sia come romanziere che come sceneggiatore, per cui firmò un contratto con la Paramount nel 1943. Scrisse una trentina di racconti nonché otto romanzi e un racconto incompiuto, tutti e nove con il detective Marlowe come protagonista, dal 1939 al 1953, alcuni dei quali sono capolavori, non solo del genere Noir. Come sceneggiatore per Hollywood, Chandler traspose per il cinema molti dei suoi romanzi, con Robert Mitchum ed Humphrey Bogart considerati i migliori interpreti del suo rude detective dal cuore d’oro. Il suo lavoro ad Hollywood incluse anche sceneggiature per altri noir e polizieschi, le più importanti sono quelle de La fiamma del peccato (di Billy Wilder, 1944), Il fantasma (di Lewis Allen, 1945), La dalia azzurra (di George Marshall, 1946) e L’altro uomo (di Alfred Hitchcock, 1951).
Precipitò nuovamente nel tunnel dell’alcolismo e tentò una sorta di suicidio nel 1955, un anno dopo la morte dell’adorata moglie Cissy. Prima di aver ultimato l’ottavo romanzo della saga di Marlowe, morì di polmonite a La Jolla nel 1959. Nel 1988, per il centenario della nascita dello scrittore, venne dato il compito di terminare l’ultima opera di Chandler al giallista Robert B. Parker.
Contatti
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All’inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C’erano solo pochi dati sicuri: l’edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato. Sarebbero stati stampati da Mardersteig, come anche il Nietzsche. Allora ci sembrava normale, quasi doveroso. Oggi sarebbe inconcepibile (costi decuplicati, ecc.). Ci piaceva che quei libri fossero affidati all’ultimo dei grandi stampatori classici. Ma ancora di più ci piaceva che quel maestro della tipografia avesse lavorato a lungo con Kurt Wolff, l’editore di Kafka.
Per Bazlen, che aveva una velocità mentale come non ho più incontrato, l’edizione critica di Nietzsche era quasi una giusta ovvietà. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l’epiteto irrazionale implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni irrazionale non poteva che essere Nietzsche. Per il resto, sotto l’etichetta di quell’incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche una vasta parte dell’essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all’editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante.
In letteratura l’irrazionale amava congiungersi con il decadente, altro termine di deprecazione senza appello. Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido. Già da questo si capirà che l’idea di avere al numero 1 della Biblioteca Adelphi un romanzo come L’altra parte di Kubin, esempio di fantastico allo stato chimicamente puro, poteva anche suonare provocatorio. Tanto più se aggravato dalla vicinanza, al numero 3 della collana, di un altro romanzo fantastico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (e non importava se in questo caso si trattava di un libro che, guardando alle date, avrebbe potuto essere considerato un classico).
Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi – posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, dove Bazlen e Ljuba Blumenthal erano ospiti per qualche giorno –, evidentemente accennò subito all’edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici. E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa.
Françoise Hardy è a Parigi una domenica di ottobre del 1962, la Francia vota per il referendum sull’elezione diretta del presidente della Repubblica. È il momento in cui prende forma compiuta quel sistema istituzionale, la Cinquième République, nato nel 1958 sulle macerie della crisi algerina e che adesso, nel 2024, sta vivendo le sue convulsioni. Quella sera del 1962, mentre si aspettano i risultati, sullo schermo in bianco e nero della televisione c’è una ragazza di diciotto anni. Ha l’aria timida e innocentemente spudorata. È esile, malinconica, bellissima. Si chiama Françoise Hardy. Canta una canzone in cui la sua casa discografica non credeva (troppo triste), che inizia così: tous les garçons et les filles de mon âge. È un brano memorabile, nel senso proprio del termine: non appena lo si è ascoltato, diventa parte indispensabile del mondo ed è impossibile dimenticarlo.In quel preciso istante, la giovinezza diventa una condizione dello spirito. Una categoria culturale. Con i suoi libri, le sue canzoni, i suoi profeti. La nascita della giovinezza era stata preparata, annunciata da molte cose. Il libro fulminante sull’adolescenza di JD Salinger, The Catcher in the Rye, del 1951, il cui titolo quasi intraducibile aveva fatto ammattire i traduttori (che avevano poi ripiegato in italiano su il giovane Holden e in francese su L’Attrape-coeurs).Bonjour tristesse (1954) di Françoise Sagan, che prendeva il titolo dalla poesia À peine défigurée di Paul Eluard. I jeans e il giubbotto di pelle nera portati da Marlon Brando in The wild one, che avrebbero dettato il modo di vestire delle generazioni successive. E presto, nel 1965, arriverà un ragazzo americano, Bob Dylan, a cantare Like a rolling stone, a parlare di come ci si sente with no direction home, se si smarrisce la via di casa.
Françoise Hardy-2012
La canzone di Françoise Hardy diceva : je me demande, quand viendra le jour ? Quel giorno, ora, nell’alba degli anni Sessanta, è arrivato. De Gaulle vince il referendum. Ma la giovinezza prende per sé tutta la scena del mondo. Vola sulle accuse della gente, sopra i tetti e le stazioni, non si cura della vita adulta, accarezza la tragicità, l’insensatezza e la bellezza del vivere. Il mondo è ancora in bianco e nero come lo schermo della televisione, ma presto, nel bene e nel male, sarà a colori.
La giovinezza è come Françoise: allegra e triste, adorabilmente imbronciata, o (come in una canzone italiana) dolcemente complicata. Prima di allora, l’età giovanile era considerata spensierata e fugace, illusoria, breve, una transizione magari dorata ma imperfetta, solo un luogo di passaggio. Stagion lieta è cotesta, (…) come un giorno d’allegrezza pieno, aveva scritto Leopardi. Età fiorita a cui sarebbe inevitabilmente seguita la disillusione. Il sabato del villaggio a cui seguirà una domenica piena di noia, e dopo domenica c’è lunedì. E poi in fondo i nostri nonni (basta guardare le rare fotografie) erano stati terribilmente adulti anche da giovani. Già all’approssimarsi dei venticinque anni, povere stelle, assumevano l’aria di donne e uomini fatti e finiti, vestiti di panni pesanti, incatenati spesso a una vita senza scelta. Madri e padri su cui da subito volteggiavano i segni di una vecchiaia che non sarebbe tardata.
Il viso e il corpo di Francoise Hardy invece raccontavano un’altra cosa: una giovinezza che non è più l’età fiorita leopardiana, che accoglie in sé la malinconia (tristesse, beau visage, diceva appunto quella poesia di Eluard), e che non vuol saperne di essere condannata a farsi sostituire dall’età adulta. Le gambe erano magre e lunghe, il seno accennato, i fianchi così poco accentuati rispetto ai canoni estetici delle forme femminili più rotonde. Il sogno di un ragazzo che al risveglio si tocca e si ritrova (come in un’apparizione, in una teofania) nel corpo androgino della donna bellissima che ha sognato. Con i capelli lisci e lunghi, lo sguardo tagliente dei suoi occhi chiari, Françoise Hardy era la ragazza da guardare (in quei sogni) mentre prende il sole, spogliata su una spiaggia francese silenziosa, allucinata e ventosa. Tra dune di sabbia e rare piante a celarne la vista.
Giovane per sempre, immune da ogni tentazione adulta, Françoise Hardy, nata nel 1944, era malata da vent’anni. Anche per lei il tempo era passato e la vita aveva mostrato il suo inganno più vile, quello del dolore, della malattia che non lascia illusioni, delle cure che devastano il corpo. Maman est partie, ha detto il figlio Thomas Dutronc per annunciarne la morte. Come se un giorno potesse tornare, magari assieme a tous les garçons et les filles de son âge. Di nuovo giovane e bellissima, come era stata e come, per me e molti di noi, sarà per sempre.
Articolo di Maurizio Puppo
Maurizio Puppo nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell’Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa (“Un poeta in fabbrica”), storia dello sport (“Bandiere blucerchiate”, “Il grande Torino” con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E’ editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).
Esordisce nel mondo della musica a 18 anni, ottenendo un successo immediato. Dopo essersi prodotta per sei anni su scena, abbandona le tournée e i concerti e continua una carriera essenzialmente discografica. Caratterizzato da melodie melanconiche, il repertorio di Françoise Hardy si declina in gran parte sull’elaborazione dei dubbi, delle domande e dell’ansietà che suscitano in lei i tormenti delle relazioni sentimentali e della nostalgia in generale.
Parallelamente alla scrittura di canzoni, si interessa di astrologia, da lei appresa in complemento alla psicologia. È autrice di diversi libri, in particolare sull’astrologia; è stata anche attrice, in ruoli minori o in cameo, talvolta in film di genere musicarello.
Al momento della sua nascita, c’era un’allerta aerea in atto, con le finestre della clinica che “esplodevano”. Ha raccontato di essere nata in questo contesto violento con il “temperamento anormalmente ansioso” che ha sviluppato da adulta. Sua madre Madeleine Jeanne Hardy (1920-1991), che proveniva da un ambiente normale, ha cresciuto Françoise e sua sorella minore Michèle, nata diciotto mesi dopo di lei, come genitore single. Suo padre Pierre Marie Etienne Dillard (1899-1981), un uomo sposato che proveniva da una famiglia molto più ricca, ha fatto poco per aiutarle finanziariamente ed è stato in gran parte una figura assente nella loro educazione, visitando le bambine solo un paio di volte l’anno. Madeleine Hardy ha cresciuto le sue figlie in modo rigoroso, in un modesto appartamento in Rue d’Aumale.
Hardy ha avuto un’infanzia infelice e travagliata, e si è dedicata principalmente ad attività solitarie, come leggere, giocare con le bambole o ascoltare la radio. Su insistenza del padre, le ragazze frequentarono una scuola cattolica chiamata Institution La Bruyère, sotto la guida di monache trinitarie.
Tra il 1952 e il 1960, Hardy e sua sorella furono mandate ogni estate in Austria per imparare il tedesco, incoraggiate dal nuovo amante di sua madre, un barone austriaco. Dato che suo padre suonava il piano, Hardy fu incoraggiata a ricevere lezioni di pianoforte da bambina, che abbandonò rapidamente dopo aver provato paura del palcoscenico quando avrebbe dovuto mostrare i suoi talenti sul palco della Salle Gaveau.
Françoise è stata una studentessa disciplinata, ha saltato due anni di istruzione secondaria e ha conseguito il diploma di maturità nel 1960 all’età di sedici anni.
Françoise Hardy
1961-1969
Françoise Hardy esordisce nel 1962 con il singolo Tous les garçons et les filles, che interpreta il 21 settembre nel programma Le Petit Conservatoire de la chanson di Mireille Hartuch e che viene ritrasmessa domenica 28 ottobre alla televisione francese in serata, in uno degli intermezzi musicali nel corso di una diretta elettorale di grandissimo ascolto. La canzone diventa la bandiera del disagio adolescenziale e finisce col vendere più di due milioni di copie in tutto il mondo (nella versione italiana ha il titolo Quelli della mia età e nel Paesi Bassi arriva al quarto posto). Françoise, suo malgrado, diventa uno dei simboli della generazione yéyé e comincia a mietere successi a 45 giri.
Nel 1963 partecipa all’Eurovision Song Contest con L’amour s’en va e si classifica al quinto posto. Nella sua carriera ha cantato spesso in inglese, italiano, spagnolo e tedesco. In Italia ebbe un grande successo nel 1963 con le canzoni È all’amore che penso e L’età dell’amore, che arriva prima in classifica, e con le cover delle sue canzoni francesi Quelli della mia età, che raggiunge la prima posizione per tre settimane, e L’amore va. Nel 1966 ha partecipato anche al Festival di Sanremo con Parlami di te cantata in coppia con Edoardo Vianello. Fra le sue canzoni c’è La Maison où j’ai grandi, cover di Il ragazzo della via Gluck di Adriano Celentano.
Nel 1967 esce la compilation Antoine & Françoise (Vogue/Jolly LPJ 5077) con 6 canzoni di Antoine (sul lato A) e 6 canzoni di Françoise (sul lato B) e nel 1969 esce Il pretesto (CGD FGS 5052), versione italiana dell’album Comment te dire adieu. Nel 1970 nel video musicale Il Pretesto compare anche un giovane Renato Balestra, noto stilista italiano, già famoso all’epoca. Nel 1967, la Hardy crea la propria casa di produzione, la “Asparagus” e rinnova il contratto con la Disques Vogue. Escono quindi 3 album: Ma jeunesse fout le camp… (1967), En anglais (1968, cantato in inglese) e Comment te dire adieu (1968).
Quest’ultimo album contiene la canzone Comment te dire adieu, traduzione di Serge Gainsbourg della canzone “It Hurts to Say Goodbye”, che sarà uno dei grandi successi del 1969; la Hardy interpreterà questa canzone anche in italiano, col titolo Il pretesto (nel 1968), e in tedesco, col titolo Was mach’ ich ohne dich (nel 1970).
Nel 1968, dopo un’ultima tournée in Sudafrica e a Kinshasa, la Hardy abbandona le tournée e i concerti; d’ora in poi le apparizioni in pubblico saranno sul palco di emissioni televisive e radiofoniche. Nel suo tempo libero, la Hardy comincia ad appassionarsi dapprima di psicologia e poi di astrologia, e su quest’argomento ha pubblicato alcuni libri (da sola e in collaborazione con altri autori) ed ha partecipato ad emissioni radiofoniche.
1970-1988
Françoise Hardy nel 1992
Nel 1970, dopo la rottura con Disques Vogue, pubblica tre compilation in Sudafrica con la sua nuova società di produzione “Hypopotam”, distribuite da World Record Co. : Françoise in German (ORC 6071), Françoise in Italian (ORC 6072) e Françoise in French (ORC 6073).
Nel 1970 con la nuova etichetta discograficaSonopresse e la “Hypopotam”, la Hardy pubblica una raccolta dal titolo Françoise e il decimo album dal titolo Soleil. L’anno seguente (1971) esce La Question e un altro album in inglese, dal titolo If you listen (quest’ultimo prodotto da Edition Kundalini, società creata dalla Hardy), che esce dapprima in Sudafrica e poi in Francia. Nel 1972 esce Et si je m’en vais avant toi, sempre con Hypopotam/Sonopresse.
Nel 1978, sull'”onda” della disco music, la Hardy pubblica l’album “Musique saoule”, scritto da Michel Jonasz su musiche di Alain Goldstein e Gabriel Yared, dalle tonalità jazz e funk; benché questi generi non siano quelli privilegiati della Hardy, il singolo J’écoute de la musique saoule è un successo di vendite e resta in classifica quasi un anno.
Nel 1981 e nel 1982 escono rispettivamente À suivre… e Quelqu’un qui s’en va, entrambi prodotti da Gabriel Yared e pubblicati da WEA/Flarenasch. Nel 1988, dopo 26 anni di carriera musicale, la Hardy pubblica il suo 21º album, Décalages, e dichiara che questo sarà l’ultimo della sua carriera; nel frattempo il contratto con la Flarenasch si era concluso con questo album.
L’anno seguente (il 4 ottobre 1997), è invitata a salire sul palco da Julien Clerc, con il quale canta in duetto Mon ange, una canzone scritta dalla Hardy per Clerc (uscita nell’album Les Aventures à l’eau del 1987). Nel 2000, esce Clair-obscur, che le vale il “Grand Prix” della SACEM e due nominations alle Victoires de la musique.
Nell’ottobre 2008 l’artista ha pubblicato la sua autobiografia, Le désespoir des singes… et autres bagatelles (Éditions Robert Laffont, Paris 2008).[2] Nel 2010 esce l’album La Pluie sans parapluie, l’anno seguente è nominata alle “Victoires de la musique” come “artiste interprète féminine”.
Nel novembre 2012, la Hardy compie 50 anni di carriera musicale, dalla pubblicazione del primo album, nel novembre 1962. Per celebrare questo anniversario escono in contemporanea il nuovo album studio L’Amour fou e il romanzo L’Amour fou (Éditions Albin Michel)[3]. Con questo album la Hardy ottiene due nominations alle Victoires de la musique del 2013.
Il 5 marzo 2015 esce il saggioAvis non autorisés…[4], nel quale si esprime sulla società contemporanea, sulle sue passioni e le sue opinioni, e il 3 novembre 2016 esce Un cadeau du ciel…[5], nel quale racconta della sua ospedalizzazione dell’anno precedente.
Il 9 febbraio 2018 è annunciato il suo nuovo (e 28º) album: Personne d’Autre, che esce il 6 aprile. Il primo singolo Le Large – parole e musica di La Grande Sophie – è disponibile dal 16 febbraio e il video del singolo – realizzato da François Ozon – è pubblicato il 20 marzo su YouTube. L’album – prodotto da Erick Benzi – contiene 11 canzoni, di cui 8 scritte dalla Hardy, più un riadattamento in francese (Dors mon ange) della canzone Sleep del gruppo finlandese Poets of the Fall; le altre tre canzoni sono state scritte da Yael Naim (Your’re My Home), Michel Berger (si tratta della reinterpretazione della canzone Seras-tu là ? del 1975) e da La Grande Sophie (Le Large).
Malattia e morte
Nel gennaio 2004 le era stato diagnosticato un linfoma; da allora si è battuta contro la malattia; in particolare è stata ricoverata per diverse settimane della primavera del 2015, in gravi condizioni (tre settimane in stato di incoscienza con otto giorni di coma).[6]
Muore a Parigi l’11 giugno 2024 all’età di 80 anni a causa della malattia.[7]. La notizia è stata annunciata da il figlio Thomas Dutronc nel social media, con queste semplici parole : “Mamam est partie…” (“Mia mamma se ne è andata…)”[8]
Françoise Hardy è stata la compagna del cantante e attoreJacques Dutronc dal 1967 al 1988. La coppia ha avuto un figlio, Thomas Dutronc, nato il 16 giugno 1973, e si è sposata il 30 marzo 1981 a Monticello in Corsica. Dopo la loro separazione, sono rimasti in buoni rapporti e non hanno divorziato; lei viveva a Parigi e lui a Monticello, dal 1997 con una nuova compagna.
Thomas Dutronc è un noto chitarrista jazz e cantante francese che ha tra l’altro collaborato con lei in alcuni album: Clair-obscur, Tant de belles choses e Parenthèses, e col padre Jacques Dutronc nell’album Brèves Rencontres.
Influenze e omaggi
1964: La Hardy è citata in una poesia di Bob Dylan, For Françoise Hardy at the Seine’s Edge, riportata sulla cover dell’LP Another Side of Bob Dylan.
1965: Il poeta Jacques Prévert ha scritto un testo intitolato Une plante verte per il programma del secondo passaggio della Hardy all’Olympia nell’ottobre 1965.
1968: Lo scrittore Paul Guth le rende omaggio nel suo libro Lettre ouverte aux idoles, nel capitolo Lettre ouverte à Françoise Hardy (pagine da 51 a 63).
1974: La cantante giapponese Yumi Arai ha scritto e registrato la canzone La mia Françoise (私のフランソワーズ?, Watashi No Françoise), una canzone in omaggio a Françoise Hardy, contenuta nell’album Misslim (ミスリム?, Misslim).
1995: Carla Bruni e Laurent Voulzy reintrerpretano Tous les garçons et les filles de mon âge nello spettacolo (e poi nel CD) Les Enfoirés à l’Opéra-Comique (Les Enfoirés).
2007: Il gruppo statunitense Shawn Lee’s Ping Pong Orchestra la cita nella canzone Françoise Hardy, pubblicata nell’album Voices and Choices.
2008: La cantante britannica Sharleen Spiteri ha scritto e registrato in omaggio la canzone Françoise, pubblicata nell’ambum Melody.
2009: Il cantante britannico Robbie Williams ha interpretato la canzone You Know Me, traduzione (reprise) in inglese della canzone della Hardy Voilà.
1963 – L’età dell’amore/È all’amore che penso – Disques Vogue (J 35035) – versioni italiane di Le Temps de l’amour e C’est à l’amour auquel je pense
1963 – L’amore va/Il tuo migliore amico – Disques Vogue (J 35041) – versioni italiane di L’amour s’en va e Ton meilleur ami
1963 – Vorrei capirti/Il saluto del mattino – Disques Vogue (J 35043) – versioni italiane di Saurai-je ? e Le premier bonheur du jour
1964 – La tua mano/Vorrei essere lei – Disques Vogue (J 35055) – la seconda è la versione italiana di J’aurais voulu
1965 – Devi ritornare/La notte sulla città – Disques Vogue (J 35067) – versioni italiane di Only You Can Do It e La Nuit est sur la ville
1966 – Parlami di te/Nel mondo intero – Disques Vogue (J 35087) – la seconda è la versione italiana di Dans le monde entier
1966 – Non svegliarmi mai/Ci sono cose più grandi – Disques Vogue (J 35099) – la prima è la versione italiana di Non, ce n’est pas un rêve
1966 – La maison où j’ai grandi/Il est des choses – Disques Vogue (J 35104) – versioni francesi di Il ragazzo della via Gluck e Ci sono cose più grandi
1967 – Gli altri/I sentimenti – Disques Vogue (J 35137) – versioni italiane di Voilà e Et même
1968 – La bilancia dell’amore/Io conosco la vita – CGD (N 9697) – versioni italiane di Tiny Goddess e La fin de l’été
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