Roma Capitale-Gabriele Lavia va in scena al Teatro Argentina con Re Lear di William Shakespeare-
Roma Capitale al Teatro Argentina va in scena Gabriele Lavia, tra i più grandi maestri del teatro italiano, torna al Teatro Argentina con uno dei ruoli più rappresentativi della drammaturgia shakespeariana: Re Lear di William Shakespeare. In scena con lui un cast imponente, per indagare la fragilità del potere, la follia e la devastazione delle passioni umane.
Re Lear dal 26 novembre – 22 dicembre 2024
di William Shakespeare
traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari
regia Gabriele Lavia e con Gabriele Lavia
e con Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Federica Di Martino, Silvia Siravo, Giuseppe Benvegna, Ian Gualdani, Giovanni Arezzo, Jacopo Venturiero, Beatrice Ceccherini, Eleonora Bernazza, Gianluca Scaccia, Jacopo Carta, Lorenzo Volpe
Lo spettacolo
Re Lear è una storia di “perdite”.
Perdita della ragione, perdita del Regno, perdita della fraternità.
Non resta che vivere in una tempesta. Ma la tempesta di Lear è la tempesta della sua mente. La tempesta della mente dell’umanità, la morte dell’uomo che ha abbandonato il suo Essere. Ed ora vive il suo non-Essere nella Tempesta della mente, nella Tempesta che lo travolge. E tutti sono travolti. Tranne colui che più degli altri ha sofferto e può “essere-Re” della sofferenza come percorso di conoscenza. Gabriele Lavia
Crediti
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
luci Giuseppe Filipponio
musiche Antonio Di Pofi
suono Riccardo Benassi
assistenti alla regia Matteo Tarasco, Enrico Torzillo
assistente alle scene Michela Mantegazza
assistente ai costumi Giulia Rovetto
suggeritore Nicolò Ayroldi
foto di scena Tommaso Le Pera
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera s.r.l, LAC – Lugano Arte e Cultura
Info e orari
prima, martedì, venerdì, mercoledì 27 novembre e giovedì 12 dicembre ore 20.00
mercoledì e sabato ore 19.00
giovedì e domenica ore 17.00
lunedì riposo
INFO BIGLIETTERIA
Teatro Argentina – Largo di Torre Argentina
Biglietteria aperta dal lunedì al sabato dalle ore 11.00 alle ore 19.00 e la domenica tre ore prima dell’inizio dello spettacolo. In assenza di spettacolo la domenica la biglietteria resterà chiusa. (biglietteria@teatrodiroma.net – tel. 06 684000311/314)
Nella biglietteria è sempre possibile acquistare i biglietti per tutti gli spettacoli del Teatro di Roma in programmazione.
La biglietteria, come consuetudine, si dedicherà da un’ora prima dell’inizio degli spettacoli alla sola vendita dei biglietti degli spettacoli in scena. La biglietteria è dotata di terminale POS.
Biografia di Gabriele Lavia
Nasce a Milano da genitori siciliani, ma cresce a Torino, dove il padre — dipendente del Banco di Sicilia — era stato trasferito per lavoro dopo il breve lasso di tempo trascorso nel capoluogo lombardo.[1] Figura tra le più rappresentative del teatro italiano degli ultimi quarant’anni, debutta come attore teatrale nel 1963 dopo il diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Si rivela al grande pubblico recitando nello sceneggiato televisivoMarco Visconti (con Raf Vallone e Pamela Villoresi), per la regia di Anton Giulio Majano, nella parte di Ottorino Visconti. Ha preso altresì parte allo sceneggiato Aut Aut – Cronaca di una rapina (1976), interpretando un rapinatore protagonista di un colpo a una banca.
Misakh Metzarents, l’eterno talento della poesia armena
– Pangea-Rivista avventuriera di cultura & idee
Il Poeta armeno Misakh Metzarents -Ogni paese si rispecchia nel bambino d’oro, l’infante che divora tutti i doni nell’arco di una stagione, il poeta perpetuamente giovane, che svanisce, in un lascito di nostalgia, dissipato dalle sue ispirazioni. Che sia Thomas Chatterton o John Keats, Novalis o Antonia Pozzi, Rimbaud – che muore alla poesia poco più che ventenne – o Shelley o Sergej Esenin, poeti dai tratti sempre inediti, vigorosi di una solitudine del sangue, tra il capriccio e l’estasi. Stagliati in teca, questi poeti dalla giovinezza infinita, a monito, moneta di scambio per popoli dalla creatività disseccata, sempre troppo precoci, cioè troppo ingenui. Tanto al di là da trovarteli sotto al letto, coi coltellini in tasca.
Per l’Armenia, il poeta per sempre bambino, rovinato da una tragedia che diventa lirica, si chiama Misakh Metzarents. Nato nel gennaio del 1886, è stato di recente onorato con un francobollo celebrativo, quasi che, addentellato, pronto per l’affrancatura, il poeta sia più potente e prono alla patria, nella zona franca di chi può tutto e nulla. La vita di Metzarents è priva di eventi clamorosi, di ornamenti che diano al profilo onore di leggenda: tutto, in lui, è lotta con il male, la tisi, che comincia ad agguantarlo quattordicenne. Nel 1902, dopo gli studi presso il collegio di Merzifon, il ragazzo si trasferisce a Costantinopoli: si orienta alla poesia, pronto a recintare in verbi i singoli sintagmi dell’anima, con talento da paesaggista.
Il ragazzo, roso dall’infermità, amante della poesia simbolista francese, muore nell’estate del 1908, a 22 anni. L’anno prima, riesce a pubblicare due raccolti di versi, Tziatzan (“Arcobaleno”) e Nor Tagher (“Odi nuove”), accolte con stupore: c’è chi, in questi versi devoti e ‘moderni’, rintraccia una specie di eversione. Con delicata furia, Misakh porta la poesia armena nella modernità; devoto a Gregorio di Narek, il grande monaco-poeta armeno vissuto intorno al Mille, scrive salmi di irrequieta limpidezza. Ecco, ad esempio, alcuni versi da Madre di Dio:
“Ecco mi accingo ad arrampicarmi sul monticello del mio dolore;
dissipa tu le nuvole dalla via di madreperla dei sogni…
Nella notte discende ancora il ruscello di luce,
una goccia di latte della tua santità divenuta un mare;
e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino!
e vedi, sto diventando bambino in mezzo alla notte,
in cui sentii discendere la divina voce,
che echeggiava per la mia anima permeata da Dio”.
Nel volumeLa mistica cristiana (Mondadori, 2020), Boghos Levon Zekiyan installa Misakh Metzarents tra gli ultimi protagonisti della Mistica armena: “Anima di una sensibilità assai delicata ed elevata, di una religiosità consapevole e profonda, è autore di composizioni che, oltre all’altissimo valore poetico, sono intrise di un vissuto religioso così singolare e originale da rasentare lo spessore di un’esperienza mistica vera e propria”.
In Metzarents le immagini liriche sembrano acqua tra le dita, riflessi che danno l’idea di un falò, chiostri in assedio, il tempo in un elmo: tutto è trasfigurato dalla disciplina della solitudine, da una riservatezza senza riserve, una preparazione all’addio in danza, potremmo dire, avvento di contrari venti. D’altronde è questo il genio dei poeti morti giovani: si giunge all’appuntamento con loro in ritardo di un secolo; la giacca sull’attaccapanni sembra appartenergli, la riconosci dai polsi e dai bottoni, ma è preparata per te, perché non ti turbi il tormento, il freddo di un oggi con le chele.
Veglia domenicale
Della sera che lentamente fugge è gioiosa la luce purpurea.
Fili d’oro avvolti nella nebbia di velluto dell’incenso,
frange azzurre, l’arcobaleno, voci fluttuanti, una mistica rosa,
lacrime di luce dei ceri che nella quiete si consumano.
La mia anima, assetata d’incenso, s’imbeve dell’attimo quieto,
mentre oscillano i turiboli dagli occhi oro fuoco.
Un torpore d’incanto mi lascia là immobile,
sento il bacio del tulle di zaffiro che l’animo mi avvolge.
Tinte di ametista ungono le volute dell’incenso,
m’inginocchio al mistero le braccia incrociate,
e attendo che spunti dalla mia anima la domenica di luce.
Tutto di smeraldo e di rubino è ora il sogno delle fiaccole,
dagli archi, dall’altare spuntano luce e risa,
adagio la mia anima in questo meraviglioso sogno si tuffa.
Della sera che lentamente fugge, è gioiosa la luce purpurea.
Traduzione di Boghos Levon Zekiyan
*
La sera
Come una ragazza che cammina sotto i pini
che va dove soffia la brezza serale
presso un bosco di melograni in fiore
la sera passa, il giorno si allontana.
Cade la sera come un fiore appassito
in varie sfumature di blu, cammina,
muore lentamente, si piega,
fragile stame di speranza, luce che fluttua infima.
Poi è buio: come la mia anima, incassata
nella solitudine, che fermenta nell’oscurità –
la lampa dei sogni si è sbriciolata, tempo fa,
abbandonando lo spirito sotto la pioggia –
cerca una casa.
*
Canto d’amore
Il vento ha sentimento sufficiente
per illuminare i fiori
piccole torce di luce.
Questa notte la festa illumina le strade
dolce è il balsamo, dolce hashish
nel vento – ne divento ebbro.
Come baci i fiori riempiono il tempo
con petali e semi – tutto è in eccesso
tutto è nel delirio
ma a me manca il solo bacio che desidero.
*
Se potessi conservare qualcosa
terrei quest’ora come un pezzo di me;
distillerei questa singola ora
come fosse un’essenza;
se potessi scegliere, vorrei
che questa singola ora
diventasse tutta la mia vita –
confuso e benedetto,
potrei scrivere per sempre
di questa singola ora con te
e lucidare nel suo lavacro
la mia esistenza, purificato
finalmente di tutto.
*
L’acqua scorre
Barba d’argento sul fiume
che sbatte contro le rocce sterili:
sboccia nel golfo dove l’acqua
è calda e il sole è un nascituro.
I montanari si arrampicano oltre
il villaggio dai ponti sospesi.
Nel cortile del monastero anche
gli alberi si chinano in preghiera.
Il silenzio inghiotte le lacrime del mattino:
questo è il momento in cui bagnano gli orti
e i novizi restano in piedi, in piena luce.
Le chiuse vengono aperte, le vanghe
incurvano il corpo serpentino delle acque.
Le pale girano senza fermarsi, come richiami:
una ragazza intona una canzone – un giorno
si scoprirà donna. La terra mette una mano
sulla bocca del fiume, che chiacchiera ancora:
soltanto lo stolto si lamenta in anticipo
del suo futuro.
*
Delirio
Buio costruito ad arte dalla strega: sono
in delirio – è Amore che mi crolla sul corpo –
un frutto fatato innesta nell’anima
ricordi che voglio dimenticare.
Le luci si spengono ma io amo
la tenebra che fa germinare agonia:
il dolore è largo, è un lago, ed espelle
il mio cuore – berrò il nero calice della vita triste.
È troppo buio e non posso più sognare:
smetto di vogare intorno ai miei amori.
Gli occhi hanno unghie, lampi d’alba
ed è lì che le mie pene, selvagge, si consumano.
*
Le api
I miei desideri sono api:
scavano cinture d’oro
fanno piovere
i loro favi, volano, sciamano,
ronzano, riempiono il sentiero,
strappano il velo della nebbia
ricamato e trasparente
ovunque portano il sole.
Misakh Metzarents
Fonte-Pangea-Rivista avventuriera di cultura & idee
Misak Metsarents or Medzarents (Armenian: ; 18 January 1886 – 5 July 1908) was a leading Armenianneo-romantic poet.
Biography
Misak Metsarents was born Misak Metsadourian in the village of Pingian [hy], near Agn in the Vilayet of Kharpert. In 1886, he moved with his family to Sepastia, where he attended the Aramian School. Until 1902, he attended the Anatolia Boarding School in Marzvan, which was run by American missionaries. From 1902 to 1905, he attended the Central School in Constantinople. However, tuberculosis forced him to leave his education, and he later died from the ailment July 5, 1908, at the age of 22.[1]
Poetry
Metsarents began writing in 1901, with his first verses published in 1903. He also collaborated with many Armenian publications such as “Masis”, “Hanragitak”, “Eastern Press”, “Light”, “Courier”, “Manzumei Efkiar”, “Buzandion”.[2] Much of his poetry discussed the despair of his inevitable mortality.
Legacy
The poet enriched Armenian poetry with his lyrical and genuine masterpieces, although Metsarents only managed to publish two volumes of poetry in his lifetime: “Dziadzan” (Rainbow) (1907) and “Nor dagher” (1907). He was commemorated in 2012 by his portrait appearing on an Armenian postal stamp.[3]
Fabio Zuffanti -Sacre sinfonie. Battiato: tutta la storia-
-Editore IL CASTELLO-
Descrizione –Lo scrittore, critico musicale e musicista Fabio Zuffanti racconta Battiato in un’ampia biografia che si legge come un romanzo. Agevolato da una larga serie di interviste e dichiarazioni rilasciate da Battiato nel corso del tempo e dal contributo di diversi personaggi che lo hanno conosciuto e frequentato, il volume mostra l’evoluzione di un personaggio molto diverso dal “maestro” che tutti conoscono. Il viaggio comincia negli anni 40 del Novecento con l’infanzia in Sicilia, il rapporto con la famiglia e la scoperta della musica. Poi, nel 1964, il trasferimento a Milano, la gavetta, gli incontri, le grandi crisi e i pensieri suicidi, la sperimentazione, l’esperienza con le droghe, la scoperta del misticismo e della meditazione, le amicizie, l’affetto per la madre, la scelta di passare la vita da solo e il successo. Da qui tante altre esperienze lungo i decenni, con sfide sempre nuove che lo portano a confrontarsi con il cinema e la pittura, fino alla malattia e agli ultimi anni della sua vita.
Contatti
IL CASTELLO SRL a socio unico
VIA MILANO 73/75, 20010 CORNAREDO (MI)
Tel. 02 / 99.76.24.33
Fax 02 / 99.76.24.45
info@ilcastelloeditore.it
Il Castello è nata come derivazione della Menotti Libri, una agenzia libraria fondata nell’immediato dopoguerra da Aldo Menotti, che distribuiva le pubblicazioni di case editrici di Roma e del sud Italia.
Nel 1948 al figlio Mosè, che collaborava nell’agenzia, veniva l’idea di stampare un libro. Era l’epoca in cui si stava diffondendo il cinema passoridotto, e così nacque ilVademecum del cinedilettante, tradotto dall’inglese: 1000 copie (per prudenza), che furono vendute in 15 giorni. Un successo! E se ne fece una decina di ristampe.
Al Vademecum seguirono altri manuali di cinema, poi di fotografia e di pittura. Il Castello andava sempre più imponendosi perché non sbagliava un titolo.
Una nota curiosa che può spiegare il successo del Castello. Al signor Menotti furono preziosi l’esempio e i consigli di Italo Briano, un simpatico e validissimo editore genovese che stampava e legava i libri in casa, tutto da sé: titoli specializzati, poche copie, molto cari. “Tanto – diceva – , una tabella o una nozione di un mio libro valgono ben il suo prezzo! E poi vendo i libri al 25% di sconto, così i librai smetteranno di far sconti al pubblico! E per finire, regola base: qua le palanche, ecco il libro”. Che tempi!
Fotoreportage di Franco Leggeri -La Cappella di Santa Brigida di Svezia è stata costruita nel territorio di Castelnuovo di Farfa, si accede dall’Agriturismo Zucchegni, proprio sui ruderi dell’antico “ripostiglio” o “capanno”, dove Santa Brigida aveva trovato posto nel periodo in cui si trovò a Farfa. Quei ruderi, sopravvissero alle intemperie dei secoli successivi, e nel 2007 furono portati a termine i lavori per la costruzione della Cappella, che è ora luogo di culto per i gruppi che frequentano la Casa e per quanti desiderano recarsi sulle orme di Santa Brigida.
Nel corso di questi anni, le suore hanno continuato a pregare e a lavorare in questo luogo e il ricordo della figura di Santa Brigida è andato sempre più crescendo; nel 1993 il Santo Papa Giovanni Paolo II, visitando la Diocesi di Sabina-Poggio Mirteto, il 19 marzo, si fermò a Farfa, dove benedisse una statua di Santa Brigida. La statua è posta sul piazzale antistante la Cappella delle Suore, presso la foresteria del monastero.
Breve biografia della Santa-
Santa Brigida di Svezia, Brigida o Brigitta o Birgitta, nacque nel giugno 1303 nel castello di Finsta presso Uppsala in Svezia; suo padre Birgen Persson era ‘lagman’, cioè giudice e governatore della regione dell’Upplan, la madre Ingeborga era anch’essa di nobile stirpe. la prima parte della sua vita fu quella di una laica felicemente sposata,ebbe ben otto figli. Il suo ceto sociale le permise di studiare. La vita di corte la mette in contatto con la travagliata vita sociale del suo tempo e con la politica europea. Ebbe grande influenza sui giovani sovrani e finché fu ascoltata, la Svezia ebbe buone leggi e furono abolite ingiuste ed inumane consuetudini, come il diritto regio di rapina su tutti i beni dei naufraghi, inoltre furono mitigate le tasse che opprimevano il popolo. Ma poiché non ha mai smesso di pensare alla vita religiosa, studia la letteratura mistica, legge molto, principalmente le Sacre Scritture. Questa fu la sua vita per oltre vent’anni, finché il marito morì nel 1344. Dopo un pellegrinaggio a Santiago de Compostela Brigida diventa una grande mistica, è anche una donna molto pratica, quindi non appena stabilita a Roma nella casa di piazza Farnese, la adattò per i pellegrini che fossero giunti dai paesi scandinavi, a cui si offrivano ospitalità e alta spiritualità. La sua vita era molto austera, totale la sua povertà. Brigida ha una natura forte e volitiva.Per il Papa e per l’Europa si sentirà spinta a partire alla volta di Roma in occasione dell’anno santo del 1350 e da lì non se ne andrà più.
Per Brigida ora è il momento della svolta. Decide di indossare l’abito cinerino del Crocifisso della Verna, simbolo di povertà e penitenza. Ha fondato un Ordine contemplativo femminile e maschile, l’Ordine Suore Brigidine del SS.Salvatore – la cui Regola venne approvata nel 1370 – che disgraziatamente fu spazzato via in seguito alla Riforma protestante in Europa. Profetessa dei tempi nuovi, questa grande santa scandinava, lavorò instancabilmente per la pace in Europa. Morì dopo lunga malattia nel 1373.
Fonte Suore Brigidine dell’Abbazia di FARFA (RIETI)-
Mario Luzi-Un viaggio terrestre e celeste. Con un’appendice di scritti dispersi-
A cura di: Baioni Paola, Savio Davide-Edizioni di Storia e Letteratura – Roma
A cent’anni dalla nascita di Mario Luzi, il volume curato da Paola Baioni e Davide Savio ricorda la figura del grande poeta raccogliendo una serie di interventi che ne indagano l’eredità, tuttora viva e operante sulla letteratura italiana. È soprattutto l’ultima stagione dell’opera luziana, quella “paradisiaca”, a porsi come centro dell’attenzione: sotto l’insegna di Frasi nella luce nascente, Luzi ha sviluppato un coerente percorso di ricerca, che mirava ad approssimare i «fondamenti invisibili» dell’esistenza, secondo i modi dell’interrogazione e della lode a Dio. Pur consapevole della finitudine del linguaggio, Luzi ha intessuto un discorso frammentario ma aperto alle manifestazioni dell’essere, tale da trasformare la poesia in epifania, l’enigma in kerigma. Oltre a ospitare i contributi dei maggiori studiosi di Luzi, il volume è impreziosito da sette scritti dispersi, taluni inediti, reperiti da Stefano Verdino, e dalla riproduzione di alcune carte del taccuino che ospita i lacerti embrionali di un’opera epocale, Nel magma, esaminati da Daniele Piccini. È presente inoltre una sezione di Testimonianze, dove i poeti stessi raccontano Luzi: Milo De Angelis, Franco Loi, Guido Oldani, Silvio Ramat, Davide Rondoni e Cesare Viviani recano un tributo di amicizia e di riconoscenza all’uomo e al maestro, faro insostituibile nelle acque agitate del Novecento.
Edizioni di Storia e Letteratura
via delle Fornaci, 38
00165 Roma
tel. 06.39.67.03.07
Edizioni di Storia e Letteratura
Fondate da don Giuseppe De Luca, le Edizioni di Storia e Letteratura diedero alle stampe il loro primo volume nel 1943. In un periodo tragico della storia italiana, durante il quale era però anche giunta a maturazione l’esigenza di un profondo rinnovamento culturale, De Luca intendeva tener «alta l’indagine storica e letteraria, e risollevare erudizione e filologia», convinto che solo l’attenta ricognizione di tutte le testimonianze e il rigoroso accertamento dei fatti avrebbero potuto promuovere una corretta valutazione del patrimonio sia di ambito civile sia di ambito religioso. Da qui il carattere distintivo delle Edizioni, con un catalogo imperniato sulle scienze umanistiche dove da sempre convive con la voce e la scrittura dei ‘maestri’ la ricerca dei giovani studiosi, a cominciare da Lo scrittoio del Petrarca di Giuseppe Billanovich.
Rilevate negli anni Novanta del secolo scorso da Federico Codignola, le Edizioni di Storia e Letteratura hanno tenuta fissa la prua sulla rotta di un’editoria che si sostanzia di ricerche di valore e rigorosa attenzione al libro, portando la barca con i dolia – il simbolo della casa editrice – a navigare sicura nelle acque per certi versi ignote del nuovo millennio. Il catalogo mantenuto sempre vivo, ben oltre i termini usuali nello scenario editoriale odierno, spazia dalla filologia classica e umanistica alla storia medievale, moderna e contemporanea, dalle scienze documentarie alla filosofia, dalla storia delle religioni alle letterature europee; si distingue per l’attenzione alla memorialistica, per le nutrite collane di carteggi – da Croce e Palazzeschi a Prezzolini, Sturzo e Ungaretti – e per le edizioni nazionali di pregio – Svevo, Tozzi, Verri, Vico, Marino.
La tradizione esemplificata nei nomi degli autori presenti nella collana maggiore – Billanovich, Campana, De Sanctis, Dionisotti, Kristeller, Momigliano tra gli altri – e dalle collane di ampio respiro create da De Luca – Letture di Pensiero e d’Arte, Sussidi eruditi, Temi e testi – si rinnova nei progetti degli ultimi anni avviati con la collaborazione di prestigiose istituzioni culturali, ma anche come contributo indipendente ad un’auspicabilmente viva editoria di cultura. Così, a completare un percorso, sono nate la collana di filologia e letteratura greca Pleiadi e la riproposizione della celebre serie dei Papiri Greci e Latini; a colmare una lacuna è sorta Biblioteca del XVIII secolo. Alle tradizionali collane in anastatica della casa editrice si sono affiancate le Edizioni Gobettiane che ripropongono al lettore contemporaneo l’intero ‘catalogo’ dell’intellettuale-editore torinese. Per un pubblico più ampio, invece, Civitas raccoglie testi brevi e pregnanti corredati da nuove introduzioni. Bites inaugura un nuovo percorso che ambisce a portare rigore filologico ed edizioni critiche nel campo dell’open access e dell’editoria digitale.
Infine, in anni recentissimi argomenti ha aperto la casa editrice alla ‘varia’ con una collana orientata in primis alla storia del pensiero e alla memorialistica, mentre Ricerca filosofica si propone come il contenitore che mancava per la filosofia contemporanea.
Nasce nel 2023, in concomitanza con l’ottantesimo anniversario delle Edizioni di Storia e Letteratura (1943-2023), Il tempo ritrovato. Destinata ad un pubblico ampio e non specialista, per la prima volta dalla fondazione, la collana apre le porte ad opere di narrativa mai pubblicate in Italia. Accoglie anche saggistica e recuperi dal catalogo storico, in una nuova veste grafica. Non si configura come una serie tematica, ma come un cantiere aperto che restituisce al lettore un nuovo tempo, autentico e non misurabile: il tempo della coscienza e della riflessione. Le Edizioni di Storia e Letteratura continuano così la loro navigazione spinte dallo stesso spirito di libertà, alieno ad ogni preclusione ideologica e culturale.
Aaron Edward Hotchner -Papà Hemingway. Racconti personali
– Pgreco editore-
Sinossi-“Aaron Edward Hotchner non è solo autore di Papà Hemingway, la più accreditata biografia dell’autore americano, ma è stato anche tra i suoi più cari amici.” Susanna Nirenstein, “la Repubblica”
Nel 1948 Aaron Edward Hotchner va all’Avana per chiedere a Ernest Hemingway di scrivere un articolo per la rivista “Cosmopolitan”. L’articolo non si materializza, ma da quel primo incontro fino alla morte di Hemingway, nel 1961, Hotchner e l’autore vincitore del premio Nobel sviluppano una profonda e duratura amicizia. Fanno baldoria a New York e a Roma, corrono con i tori a Pamplona, cacciano in Idaho e pescano nelle acque di Cuba. Ogni volta che si incontrano, Hemingway parla di una sorprendente varietà di argomenti, dall’arte del daiquiri perfetto alla Parigi degli anni ’20 fino alla sua infanzia a Oak Park, Illinois. E, fortunatamente, Hotchner prende nota di tutto. In questo libro, dunque, egli ci racconta dettagli affascinanti sulla vita quotidiana di Hemingway e documenta i suoi ricordi di Gertrude Stein, Francis Scott Fitzgerald, Martha Gellhorn, Marlene Dietrich e molti dei più importanti artisti e delle celebrità del Ventesimo secolo. Negli ultimi anni, quando la cattiva salute dello scrittore comincia a influenzare il suo lavoro, Hotchner ritrae teneramente e onestamente i valorosi tentativi di Hemingway di sconfiggere la depressione che lo porterà a togliersi la vita. Profondamente compassionevole e molto divertente, questa biografia “fa vivere Hemingway come nessun’altra”.
Aaron Edward Hotchner (1917-2020) è stato un editore, romanziere, drammaturgo e biografo statunitense. Ha scritto molte sceneggiature televisive, oltre alle note biografie di Doris Day ed Ernest Hemingway.
Pgreco editore–Marchio editoriale distribuito da:
MIM Edizioni Srl
Piazza Don Enrico Mapelli 75
20099 Sesto San Giovanni (MI)
Telefono (+39) 02 24861657
E-mail info@mimesisedizioni.it
Breve biografia di Ernest Hemingway ,Scrittore statunitense (n. Oak Park, Illinois, 1899 – m. Sun Valley, Idaho, 1961). Romanziere tra i più celebri del Novecento, tema ricorrente di tutta la sua opera è la sfida alla morte, carattere distintivo anche di un percorso di vita singolare, conclusosi con il suicidio. In posizione polemica contro ogni abbandono emotivo, con i suoi laconici dialoghi e il tono verbale sempre un po’ al disotto della situazione, volontariamente implicante più di quanto dice (understatement), H. inaugurò quella narrativa sconcertante (hard–boiled) che ha avuto tanti seguaci e imitatori. Autore del più importante romanzo sulla prima guerra mondiale, A farewell to arms (1929), tra le sue opere principali occorre citare anche For whom the bell tolls (1940) e The old man and the sea (1952), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1954.
Vita e opere
Figlio di un medico, iniziò, non ancora ventenne, a collaborare con un giornale di Kansas City. Durante la prima guerra mondiale combatté sul fronte italiano e rimase ferito, guadagnandosi la medaglia d’argento al valor militare. Fu a Parigi (1921-26) col gruppo degli espatriati americani e subì l’influenza dello stile di G. Stein (Three stories and ten poems, 1923; In our time, 1925); i ricordi del soggiorno francese sono stati pubblicati postumi in A moveable feast (1964). I primi libri che inaugurarono quel dialogo laconico e quel tono verbale sempre un poco al di sotto della situazione, implicante più di quanto dice (understatement), e quel conseguente carattere sconcertante della narrativa (cosiddetta hard- boiled), che in lui nascevano da una polemica contro ogni abbandono emotivo, furono The sun also rises (1926) e A farewell to arms (1929). Con Death in the afternoon (1932), e Green hills of Africa (1935) diede incremento a tutta la contemporanea narrativa anglosassone di reportage. Al centro del suo mondo interiore sta l’esigenza di una norma individuale, di un personale codice d’azione come unico valore riconosciuto. Così anche nelle sue novelle, raccolte insieme con una commedia (The fifth column and the first forty-nine stories, 1938). Al principio di monotonia che tale situazione interiore sembra determinare non si sottraggono neanche, nonostante maggiori contatti umani, i personaggi delle opere successive: To have and have not (1937), For whom the bell tolls (1940). Sono anche da ricordare: The torrents of spring (1926), Across the river and into the trees (1950), e uno dei suoi più felici racconti: The old man and the sea (1952).
Descrizione del libro di Michela Monferrini-Dalla parte di Alba-Un’anziana scrittrice riceve nel suo appartamento parigino una studentessa di Lettere e nel dialogo con lei riaccende le stanze dell’infanzia, le avventure della giovinezza, le pagine della maturità. Figlia di un diplomatico cubano e di un’ammirata donna della borghesia romana, Alba de Céspedes ha trascorso una vita in bilico tra continenti e rivoluzioni, all’inseguimento dei suoi genitori, alla ricerca dei suoi personaggi, alla conquista di una stanza tutta per sé per dedicarsi a ciò a cui si sentiva destinata fin da bambina: scrivere, scrivere, scrivere. Carica di storia ― il nonno, poeta e combattente, è stato il primo presidente in armi di Cuba ― ha attraversato il Novecento in prima persona, prestando la voce alla Resistenza e il cuore a uomini che non potevano capirla fino in fondo. Intrecciati a zie e maggiordomi, amanti e conoscenti, amici e cartomanti, fanno la loro comparsa tra le righe Natalia Ginzburg e Simone de Beauvoir, Thomas Mann e Fidel Castro, Benedetto Croce e Italo Calvino, ma soprattutto le ombre letterarie dei suoi personaggi femminili. Alba de Céspedes diventa qui a sua volta protagonista di un romanzo che è anche una riflessione sul senso della scrittura come eredità di una vita.
Michela Monferrini (Roma, 1986)è autrice di due guide letterarie dedicate alla Napoli di Raffaele La Capria (Conosco un altro mare, Perrone 2012) e al Portogallo di Antonio Tabucchi (Cercando Tabucchi, Postcart 2016), e del ritratto Grazia Cherchi (Ali&No, 2015). Ha pubblicato il romanzo Chiamami anche se è notte (Mondadori 2014, finalista Calvino 2012 e Zocca 2015) e, per ragazzi: L’altra notte ha tremato Google Maps (Rrose Sélavy 2016, Premio Simpatia per l’impegno nel sociale 2017 e finalista Gigante delle Langhe 2018) e Charlotte Brontë, tre di sei (rueBallu, 2018). Il suo ultimo libro è Muri maestri (La nave di Teseo, 2018). È stata finalista al Premio Subway Poesia 2005 e Campiello Giovani 2008. Ha curato la biografia del critico Walter Mauro, La letteratura è un cortile (Perrone, 2011) e la miscellanea di scritti su Antonio Debenedetti Quasi un racconto (Edilet, 2009). Autrice della guida letteraria Conosco un altro mare. La Napoli e il Golfo di Raffaele La Capria (Perrone 2012), il suo romanzo d’esordio è uscito per Mondadori nel 2014: Chiamami anche se è notte, finalista Premio Calvino 2012 e finalista Premio Zocca Giovani 2015.
Descrizione -Prefazione-Quando incontrai per la prima volta Zygmunt Bauman a casa sua, la cosa che mi colpì soprattutto fu lo stridente contrasto fra la persona che mi trovai davanti e la sua opera. Il più autorevole sociologo d’Europa, che in ogni riga dei suoi scritti lascia trasparire l’irritazione per le situazioni di vita e le società esistenti, incantava col suo spirito arguto, col suo charme disarmante e con la sua contagiosa gioia di vivere.
Dopo aver lasciato per raggiunti limiti di età la cattedra all’Università di Leeds nel 1990, Zygmunt Bauman pubblicò in successione un libro dopo l’altro, a una velocità davvero prodigiosa, su un ampio ventaglio di argomenti che andavano dalla vita intima alla globalizzazione, dalla tv dei reality all’Olocausto, dal consumismo al cyberspazio. Letto in tutti i continenti, lo studioso indicato come «capo dei nemici della globalizzazione», «guida del movimento Occupy» e «profeta del postmoderno», ha rappresentato un fenomeno straordinario nel mondo delle scienze dello spirito. Animato dalla curiosità insaziabile di un uomo del Rinascimento, egli ignorò la frammentazione del sapere in specializzazioni nettamente definite e accanitamente difese. Nelle sue riflessioni, il politico e il personale non sono separati; i motivi per cui stiamo disimparando ad amare o per cui non ce la caviamo agevolmente con i giudizi morali, sono questioni che Zygmunt Bauman scandaglia con pari profondità tanto nei loro aspetti sociali quanto in quelli individuali. I suoi risultati non sono affatto tranquillizzanti come non lo è l’ammonimento che lo sterminio di massa attuato con metodo industriale non è una barbarie relegata in un passato che non può tornare.
Fu la visione epica del mondo che mi affascinò, quando cominciai a leggere i suoi libri. Quello che Zygmunt Bauman scrive non lascia mai indifferenti, anche se il lettore non concorda con lui su questo o quel punto o addirittura dissente del tutto con la sua visione. Chi si confronta con la sua opera, è indotto a vedere il mondo e sé stesso in maniera diversa da prima. Per lui, questo appunto era il suo compito: di rendere non familiare ciò che è familiare, e familiare ciò che è non familiare; che è poi, secondo Bauman, il compito della sociologia in generale.
E questo lo può fare solo chi si preoccupa di avere davanti agli occhi tutto l’uomo, di guardare al di là della propria specializzazione, ha conoscenza di filosofia e psicologia, di antropologia e storia, di arte e letteratura. Zygmunt Bauman non è uomo dei dettagli minuti, delle analisi e inchieste statistiche, delle cifre, dei nudi dati e dei sondaggi. Egli dipinge con pennellate larghe su ampia tela, propone asserzioni, lancia tesi nel dibattito e provoca discussioni. Nella famosa distinzione stabilita da Isaiah Berlin ispirata a un antico detto del poeta greco Archiloco tra due categorie di pensatori e scrittori – «La volpe sa molte cose, ma il riccio sa una grande cosa» –, Zygmunt Bauman è insieme riccio e volpe. Egli ha coniato l’espressione «modernità liquida», che con una rapidità finora sconosciuta muta tutti i rapporti di vita – amore, amicizia, lavoro, libertà, famiglia, comunità, società, religione, politica e potere. «La mia vita», dichiarò una volta, «consiste nel riciclare l’informazione». È una dichiarazione che suona modesta, non appena ci si rende conto di quale portata siano le trasformazioni in gioco.
In un tempo di paura e incertezza, in cui tanti si lasciano abbagliare dalla panacea del populismo, l’analisi critica dei problemi e delle contraddizioni della nostra società e del mondo è più che mai necessaria. È il presupposto perché si possa pensare ad alternative, anche se magari al momento sono fuori della nostra portata. Nonostante tutte le speranze deluse, Zygmunt Bauman, da buon comunista, non ha mai rinunciato a credere nella possibilità di una società migliore. Il suo interesse era concentrato non sui vincitori ma sui perdenti, sugli sradicati e su quelli spogliati di diritti, sul numero crescente di sottoprivilegiati, di cui fanno parte ormai non più solo povere persone di colore di terre lontane, ma anche molti lavoratori occidentali. La paura di vedersi sfuggire da sotto i piedi il terreno, che nei prosperi anni del dopoguerra appariva di solida roccia, è oggi un fenomeno di massa a raggio mondiale: nemmeno il ceto medio ne è risparmiato. In un clima che richiede di fare i conti con la realtà e di accettare questo mondo come il migliore dei mondi possibili nel senso di Leibniz, Bauman difende l’utopia. Non come manuale per la costruzione di un castello in aria del futuro, ma come stimolo al miglioramento delle condizioni in cui viviamo qui e ora.
Zygmunt Bauman mi ricevette per quattro lunghe conversazioni sull’opera complessiva della sua vita nella casa di Leeds, in Inghilterra. Un piccolo giardino incantato davanti all’edificio, con sedili sovrastati dal muschio e il tavolo ingoiato dagli arbusti, separa l’abitazione da una strada molto trafficata, quasi a indicare plasticamente che solo il contrasto mette nel giusto risalto le cose. Fisico asciutto, alto, coi suoi novant’anni Bauman era vivacissimo e lucidissimo; con ampi movimenti delle mani disegnava nell’aria le sue considerazioni, come se dirigesse un’orchestra, o picchiava col pugno sul bracciolo della poltrona, per dare forza a una affermazione. Quando ogni tanto parlava della morte vicina, lo faceva con la serenità di uno che, soldato nella Seconda guerra mondiale, ebreo polacco profugo in Unione Sovietica e vittima della «pulizia etnica» antisemitica della Polonia nel 1968, ha sperimentato sulla propria carne il lato oscuro della «modernità liquida», di cui è diventato il teorico.
Il tavolino era sempre ingombro di vassoi con croissant e fette biscottate, pasticcini e dolcetti alla frutta, tartine e crema di scampi, accompagnati da bevande calde e fredde e succhi di frutta come il «kompot» polacco, e il padrone di casa conduceva il suo ospite lungo il percorso dei suoi pensieri, senza dimenticare di sollecitarlo ripetutamente a servirsi e assaggiare un po’ di tutte quelle prelibatezze che aveva preparato.
Bauman parlò della vita, dei tentativi di costruirla continuamente frustrati dal destino, e dello sforzo di rimanere ciononostante un uomo che può guardarsi negli occhi. Alla fine delle nostre conversazioni, a mo’ di congedo, tenendo strette le mie mani nelle sue, mi disse che mi augurava di vivere a lungo come lui, ma che comunque ogni età, pur con tutte le difficoltà, ha i suoi lati belli.
Zygmunt Bauman è morto il 9 gennaio di quest’anno nella sua casa di Leeds.
Questi ultimi colloqui che io ho avuto con lui vogliono essere un invito alle lettrici e ai lettori, a proseguirli dove e con chi meglio credono.
gennaio 2017
Peter Haffner
Amore e sesso
Scelta del partner: perché stiamo disimparando ad amare
Peter Haffner Cominciamo con la cosa più importante: l’amore. Lei afferma che stiamo disimparando ad amare. Come è arrivato a questa conclusione?
Zygmunt Bauman Dopo la tendenza a fare shopping su internet, è venuta subito la tendenza a cercarvi un partner. Anche io personalmente non amo girare per negozi, e compro la maggior parte delle cose online – libri, film, vestiti. Se vuoi una giacca nuova, ecco il sito del commercio online che ti propone un catalogo. Se cerchi un partner, ecco ugualmente il sito di incontri online che ti offre un catalogo. Il modello dei rapporti fra clienti e merci diventa il modello delle relazioni fra gli uomini.
P.H. Che differenza c’è rispetto a prima, quando uno conosceva la propria futura compagna di vita a una festa del villaggio o a un ballo in città? Non si facevano anche in quel caso delle scelte secondo le proprie preferenze?
Z.B. Per le persone timide, internet può essere di certo un aiuto. Qui infatti non sono costrette a doversi fare forza per trovare il coraggio di rivolgere la parola a una ragazza, non hanno timore di arrossire. Sono agevolate nell’allacciare un legame, non si sentono troppo bloccate. Certo, nei siti di incontri c’è da fare lo sforzo di indicare le qualità del partner che corrispondono ai propri desideri e alle proprie aspettative. Lo si sceglie per colore dei capelli e della pelle, per statura, aspetto, dimensioni del seno, età, interessi e hobby, propensioni e avversioni. Dietro tutto questo c’è l’idea che si possa comporre l’oggetto d’amore come un puzzle con un certo numero di qualità fisiche e sociali misurabili. Così si perde di vista l’elemento essenziale: la persona umana.
P.H. Ma anche quando uno si costruisce a questa maniera il tipo corrispondente alle proprie fantasie, le cose cambiano non appena incontra la persona in carne e ossa. Che è sempre molto più della somma di quei tratti esteriori.
Z.B. Il pericolo è che in questo modo il modello dei rapporti assuma i connotati della relazione con un oggetto d’uso. A una sedia non si giura fedeltà. Perché mai dovrei giurare che siederò su questa sedia fino alla morte? Quando non mi piace più, ne compro un’altra nuova. Non si tratta di un processo cosciente, ma diventa la modalità in cui impariamo a vedere il mondo e gli uomini. Che succede quando incontriamo qualcuno che ci colpisce e attrae? È come con la bambola Barbie. Arriva sul mercato una nuova versione, e cambiamo la vecchia con la nuova.
P.H. Intende dire che ci si separa in maniera precipitosa?
Z.B. Intraprendiamo una relazione perché ci ripromettiamo una soddisfazione. Se ho l’impressione che un altro partner può darmi di più, tronco la relazione in corso e ne avvio una nuova. Per far nascere una relazione, serve l’accordo di due persone. Per spezzarla, basta una sola. Il che significa che i due partner vivono nella paura costante di essere lasciati. Di essere buttati via come una giacca passata di moda.
P.H. Ma questo è nella natura di ogni accordo.
Z.B. Certo, ma in passato era difficile spezzare un legame, anche quando non dava più soddisfazione. La separazione era complicata, era l’alternativa a un matrimonio – diciamo così – inesistente. Si soffriva, ma si rimaneva insieme.
P.H. E allora la libertà di potersi lasciare è peggio della costrizione a vivere insieme in uno stato di infelicità?
Z.B. Si guadagna qualcosa, ma si perde anche qualcosa. Uno è più libero, ma purtroppo deve subire il fatto che anche il partner è più libero. E questo porta a una vita in cui le relazioni e le unioni vengono formate secondo il modello del leasing. Chi può sciogliersi dai legami, lo farà subito senza fare alcuno sforzo per mantenerli. Le persone contano solo fin tanto che producono soddisfazione. Dietro di questo c’è la convinzione che i legami duraturi siano in contrasto con la ricerca della felicità.
P.H. E sarebbe un errore, come Lei scrive in Amore liquido, il Suo libro sull’amicizia e i legami affettivi.
Z.B. È il problema dell’amore liquido. In tempi turbolenti ognuno ha bisogno di amici e partner che non lo abbandonino. Che siano presenti nel momento del bisogno. I 16 miliardi di dollari nelle casse di Facebook non fanno che capitalizzare questa esigenza di non essere soli. D’altronde, tutti sentiamo l’urgenza di affidarci a qualcuno e di legarci. Temiamo di perdere qualcosa. Cerchiamo un porto sicuro, ma allo stesso tempo vogliamo avere le mani libere.
P.H. Lei è stato sposato con Janina Lewinson, deceduta nel 2009, per 61 anni. Dal momento del vostro primo incontro – scrive Sua moglie nelle sue memorie Un sogno di appartenenza – Lei non si staccò mai dal suo fianco. Ogni volta che la chiamava al telefono, «guarda caso!», Lei aveva un impegno che La portava proprio là dove Sua moglie voleva andare. E quando Janina Le comunicò che era incinta, Lei si mise a ballare per strada e la baciò, nonostante fosse in uniforme da capitano dell’esercito polacco, cosa che fece scalpore. Ancora decenni dopo il matrimonio, scrive Janina, Lei continuava a mandarle lettere d’amore. In che consiste il vero amore?
Z.B. Quando incontrai Janina, capii subito che non avevo bisogno di cercare ancora. Fu amore a prima vista. Nel giro di nove giorni le feci la proposta di matrimonio. Il vero amore è quel piacere – difficile da capire, ma travolgente – dell’«io e tu», dell’esserci l’uno-per-l’altro, del diventare uno. Il godimento che trovo in qualcosa che non è importante solo per me. Essere usato o diventare addirittura insostituibile è un sentimento che dà felicità! Arrivarci non è facile. Diventa irraggiungibile se uno continua a rimanere nella solitudine dell’egoista, interessato solo a sé stesso.
P.H. L’amore, dunque, impone un sacrificio.
Z.B. Se l’essenza dell’amore sta nell’attitudine a prendersi cura dell’oggetto d’amore in tutto e per tutto, vuol dire che colui che ama deve essere pronto a mettere in secondo piano la preoccupazione per sé stesso rispetto a quella per la persona amata. Dev’essere disposto a trattare la propria felicità come secondaria, come un effetto collaterale della felicità della persona amata. Per essa, colui che ama – per dirla col poeta greco Luciano – «ipoteca il suo destino». In una relazione d’amore, altruismo ed egoismo non sono, come si pensa di solito, in antinomia inconciliabile. Si legano, invece, si mescolano tanto che alla fine non si possono più distinguere fra loro o essere separati.
P.H. L’americana Colette Dowling ha chiamato la paura delle donne davanti all’indipendenza «complesso di Cenerentola». La voglia di sicurezza, di calore e di sentirsi accudita è un’«emozione pericolosa», afferma Dowling e ammonisce le donne a non rubarsi da sole la loro libertà. Che cosa non la convince in questo ammonimento?
Z.B. Dowling metteva in guardia dalla spinta a preoccuparsi degli altri col rischio di perdere la possibilità di balzare a piacimento su un nuovo carro. È tipico delle utopie private di ragazzi e ragazze dell’età consumistica rivendicare per sé enormi spazi di libertà. Si ritengono l’ombelico del mondo e pensano di poter giocare sempre da solisti. E non ne hanno mai abbastanza.
P.H. La Svizzera, in cui sono cresciuto, non era una democrazia. Fino al 1971 le donne, cioè la metà della popolazione, non avevano il diritto di voto. A tutt’oggi continua a non esserci uguaglianza retributiva a parità di lavoro, e ai livelli dirigenziali delle imprese le donne sono sottorappresentate. Non hanno dunque le donne tutti i motivi per affrancarsi dalle dipendenze?
Z.B. La parità negli ambiti citati è importante. Ma nel femminismo vanno distinte due correnti. Una, è quella che vuole rendere le donne indistinguibili dagli uomini. E così le donne vogliono essere arruolate nell’esercito e partecipare alle guerre, e si domandano: perché non ci è permesso di uccidere persone, come è consentito fare agli uomini? L’altra corrente mira a rendere il mondo più femminile. La vita militare, la politica, tutti gli organismi istituzionali che sono stati creati, sono stati fatti da uomini per uomini. Se molte cose oggi vanno male, è conseguenza di questo fatto. Uguali diritti, certo. Ma è proprio necessario che le donne seguano anche valori che sono stati creati da uomini?
P.H. In una democrazia, non si dovrebbe forse lasciare questa decisione alle stesse donne?
Z.B. In ogni caso, non credo proprio di potermi aspettare che il mondo migliori di molto, se le donne ricalcano pari pari quello che hanno fatto e fanno tuttora gli uomini.
P.H. Nei primi anni del Suo matrimonio Lei fu un casalingo ante litteram. Cucinava, accudiva i due figli piccoli, mentre Sua moglie lavorava in ufficio. Era piuttosto insolito per la Polonia di allora, non è vero?
Z.B. Non era tanto insolito, anche se la Polonia era di stampo conservatore. Sotto questo aspetto i comunisti erano rivoluzionari, nel senso che consideravano uomini e donne come lavoratori senza distinzione. La novità nella Polonia comunista fu che erano moltissime le donne che andavano in fabbrica o in ufficio. Per portare avanti una famiglia c’era bisogno all’epoca di due salari.
P.H. Ciò ebbe come conseguenza un cambiamento della posizione della donna e quindi un cambiamento nel rapporto fra i sessi.
Z.B. Fu un fenomeno interessante. Le donne cominciarono a guardare a sé stesse come fattore economico. Nella vecchia Polonia il marito era l’unico ad assicurare il sostentamento, responsabile dell’intera famiglia. Ma in realtà il contributo delle donne all’economia era enorme. Le donne svolgevano tutta una serie di lavori, che però non venivano considerati e non erano valutati in termini economici di mercato. Un esempio: quando in Polonia fu aperta la prima lavanderia pubblica, divenne possibile portarvi la propria biancheria sporca per farla lavare, cosa che ovviamente significava un enorme risparmio di tempo. Mi ricordo che mia madre passava due giorni a settimana per lavare, asciugare e stirare la biancheria per la famiglia. Ma le donne erano restie a fare uso della nuova possibilità. I giornalisti si chiedevano perché, e dicevano alle donne che far lavare la biancheria costava loro molto meno che lavarla personalmente. «Non è possibile!?», gridavano le donne, e facevano i conti davanti ai giornalisti: i costi dei detersivi, del sapone e del combustibile per la stufa per far bollire l’acqua sommati insieme erano inferiori a quanto pagavano per far lavare la biancheria dalla lavatrice della lavanderia. Non mettevano minimamente in conto il loro lavoro. Non veniva loro in mente che esso pure ha un prezzo.
P.H. In Occidente le cose non andavano diversamente.
Z.B. Ci vollero parecchi anni perché la società si abituasse al dato di realtà che anche le prestazioni delle donne nelle attività casalinghe hanno l’etichetta con un prezzo. Ma dal momento in cui questo fatto entrò nella coscienza, ben presto in Polonia diventarono pochissime le famiglie con donne casalinghe tradizionali.
P.H. Nelle sue memorie Janina scrive che Lei si occupò di tutto quando, dopo la nascita delle due gemelline, lei fu colpita da febbre puerperale. Si alzava di notte, quando le due bambine Lydia e Irena strillavano, dava loro le poppate, cambiava le fasce, che poi lavava al mattino nella vasca da bagno e appendeva ad asciugare dietro la stufa. Portava Anna, la primogenita, all’asilo, andava a riprenderla e faceva la fila pazientemente davanti ai negozi per fare le compere. Tutto ciò, mentre al contempo svolgeva tutti i Suoi compiti di docente, seguiva i Suoi studenti, scriveva la Sua tesi di dottorato, e partecipava agli incontri politici. Come è riuscito a star dietro a tutti questi impegni?
Z.B. Com’era consuetudine nella vita accademica dell’epoca, avevo ampia possibilità di organizzarmi da solo il mio tempo. Andavo all’università, quando dovevo tenere un seminario o una lezione. A parte questo, ero totalmente libero. Potevo rimanere nella mia stanza, andarmene a casa, a passeggiare, a ballare o a fare quel che volevo. Janina invece lavorava in un ufficio. Doveva valutare copioni, fare traduzioni e redazioni presso la società cinematografica statale polacca. Era tenuta a timbrare il cartellino, ed era quindi necessario che io rimanessi a badare ai bambini e a fare le faccende domestiche, quando lei era in ufficio o ammalata. Era una cosa ovvia… Non ci furono conflitti di sorta.
P.H. Janina e Lei siete cresciuti in contesti differenti. Janina proveniva dalla famiglia benestante di un medico, mentre in quella che era la Sua famiglia, quella in cui è nato, il denaro era sempre scarso. Probabilmente Janina non era preparata a fare la donna di casa, a cucinare, fare le pulizie, sbrigare tutte le faccende alle quali nella casa dei genitori provvedevano dei collaboratori familiari.
Z.B. Io sono cresciuto in cucina: cucinare per me era una attività normale. Janina pure cucinava, ma solo quando era necessario. Lei cucinava secondo le ricette, tenendo un libro di cucina davanti agli occhi, una cosa terribilmente noiosa. Per questo non le piaceva nemmeno, farlo. Io invece avevo osservato giorno dopo giorno mia madre, in che modo faceva miracoli ai fornelli, creava manicaretti con niente. Non avevamo molto denaro, ma lei, partendo da prodotti alimentari molto scadenti, riusciva a preparare piatti gustosi. Così ho assorbito l’abilità in cucina in modo naturale. Non è un talento, e non mi è stato nemmeno insegnato. Semplicemente avevo osservato come si facevano le cose.
P.H. Janina diceva di Lei che era una perfetta «madre ebrea». Ancor oggi Lei ama cucinare, anche se non dovrebbe più mettersi ai fornelli.
Z.B. Mi piace farlo, perché la cucina è creatività. Mi sono reso conto che quello che si fa in cucina assomiglia molto a quello che si fa davanti al computer, quando si scrive: si crea qualcosa. È un lavoro creativo, interessante, nient’affatto noioso. D’altronde: una buona coppia non è la combinazione di due persone identiche. Una buona coppia è quella in cui i due partner si completano a vicenda. Quello che manca a uno, ce l’ha l’altro. Janina e io eravamo così. Lei non amava cucinare, io sì, e così ci completavamo reciprocamente.
Esperienza e memoria
Destino: come facciamo la storia, da cui siamo fatti
Peter Haffner Lei aderì al Partito del Lavoro polacco PPK, il partito comunista della Polonia, nel 1946, un anno prima di Leszek Koakowski, il filosofo deceduto nel 2009, che una volta espatriato si era dedicato alla ricerca presso l’All Souls College di Oxford. Lei uscì dal partito nel 1968, lui ne era stato espulso due anni prima. A differenza di Lei, Koakowski fu in seguito un dichiarato antimarxista.
Zygmunt Bauman Koakowski e io non abbiamo concordato fra noi la nostra adesione al partito comunista. All’epoca, non sapevamo nulla l’uno dell’altro, non ci conoscevamo. Quando, in seguito, cercammo di richiamare alla memoria retrospettivamente i nostri sentimenti di allora, prima in Polonia poi in esilio e infine dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, ci trovammo d’accordo su un punto: entrambi avevamo creduto che il programma dei comunisti polacchi del 1944-45 fosse l’unico in grado di tenere viva la speranza di far uscire il nostro paese dall’arretratezza d’anteguerra e dalla devastazione della guerra. L’unico programma che potesse portare la nazione fuori dalla distruzione morale, dall’analfabetismo, dalla povertà e dall’ingiustizia sociale. I comunisti volevano distribuire la terra ai contadini impoveriti, volevano migliorare le condizioni di vita dei lavoratori nelle fabbriche, nazionalizzare le industrie. Volevano occuparsi di assicurare l’istruzione per il più ampio numero di persone possibile, e questa promessa in effetti l’hanno mantenuta. Ci fu una rivoluzione nel campo della formazione, la cultura fiorì, nonostante i favoritismi; il cinema polacco, il teatro, la letteratura raggiunsero vette altissime. Tutto questo oggi non c’è più in Polonia. Nel mio volumetto L’arte della vita…
P.H. …un libro stupendo, il mio preferito fra quelli da Lei scritti…
Z.B. …in questo libro, dunque, discutevo l’idea che il cammino della vita umana poggia su due fattori che interagiscono fra loro. Uno è il destino. Il destino è l’etichetta sintetica con la quale indichiamo tutto ciò che è al di là del nostro controllo. L’altro fattore è costituito dalle opzioni realistiche, che il destino consente. Una ragazza di New York nata a Harlem ha un destino diverso da quello di una ragazza nata a Central Park. Perché il set di opzioni disponibili per ciascuna di esse è diverso.
P.H. Entrambe, comunque, hanno un set di opzioni, hanno da scegliere. Che cosa decide, dunque, quale delle loro possibilità ciascuna di esse cercherà di realizzare?
Z.B. Il carattere. Il fascio delle opzioni realistiche, offerte a ognuno dal destino, non può essere superato. Ma persone diverse opereranno una scelta diversa, e questa è questione di carattere. C’è quindi motivo allo stesso tempo per il pessimismo e per l’ottimismo. Per il pessimismo, perché ci sono limiti insuperabili alle possibilità che ci vengono offerte, e questo è ciò che chiamiamo destino. Per l’ottimismo, perché ciascuno può lavorare sul proprio carattere, cosa che non può fare sul destino. Per il mio destino io non porto alcuna responsabilità, è decisione di Dio, se vogliamo. Porto invece la responsabilità per il mio carattere, perché questo è qualcosa che può essere formato, purificato e migliorato.
P.H. Come questi due elementi hanno giocato nella Sua vita personale?
Z.B. Anche il mio cammino, come quello di chiunque altro, è stato una combinazione di destino e carattere. Contro il destino non potevo fare nulla. Quanto a quello che chiamiamo carattere: non pretendo che sia perfetto, ma io mi assumo la responsabilità di ogni decisione che ho preso. Tutto questo è irreversibile. Ho fatto quello che ho fatto, e il destino da solo non può spiegarlo.
P.H. Guardando indietro alla Sua vita, che cosa avrebbe fatto diversamente?
Z.B. Che cosa avrei fatto di diverso? Oh no, a questo tipo di domande non rispondo.
P.H. D’accordo.
Z.B. Che cosa avrei fatto di diverso? Da giovanissimo, anzi ancora ragazzo, scrissi un romanzo, una biografia dell’imperatore romano Adriano. Nel corso della ricerca preparatoria mi imbattei in una frase che non ho più dimenticato. Parlava di quanto fosse insensato riflettere su interrogativi come questo, che cosa avresti fatto in maniera diversa. La frase è questa: «Se il cavallo di Troia avesse figliato, il sostentamento dei cavalli sarebbe costato pochissimo».
P.H. Potenza e impotenza della parolina «se».
Z.B. Il punto, naturalmente, è che il cavallo di Troia non poteva avere figli, perché era fatto di legno. Questa è la risposta alla domanda, che cosa avrei fatto di diverso. Come si sarebbe sviluppata la storia successiva, se avessi fatto scelte differenti? Non attribuisco alle mie decisioni una particolare importanza. Seguirono la logica del momento. Svolte molto importanti nella mia vita si verificarono senza che io avessi fatto nulla, non furono frutto della mia iniziativa. Che io fuggissi da Pozna, che fossi costretto ad abbandonare la Polonia quando arrivarono i nazisti, non fu mio desiderio né mia volontà. Da solo ho deciso, dopo la guerra, di aderire al partito comunista. Nelle circostanze date e dopo l’esperienza che avevo fatto questa era la cosa migliore che potessi immaginare e fare. In questa convinzione non ero solo: molti di quelli che più tardi sarebbero diventati accesi anticomunisti, fecero la mia stessa scelta, ad esempio Leszek Koakowski.
P.H. Janina, che sotto la Sua influenza aderì al partito comunista, descrive l’orrore da cui Lei fu colto quando si rese conto che le informazioni su una collega che aveva dato a un compagno, avevano portato alla destituzione di quella collega. A Janina Lei spiegò in quella occasione che il partito era purtroppo «ancora pieno di individui che non meritavano fiducia, di carrieristi senza scrupoli e gente immatura», ma che esso era tuttavia «la più potente forza motrice della giustizia sociale». In seguito, Koakowski e Lei non avete voluto mai più trincerarvi dietro giustificazioni del genere.
Z.B. I nostri processi individuali di disinganno, di presa di coscienza – lenta, e tuttavia inarrestabile – dell’abisso che separa la teoria dalla prassi, di conoscenza dei deleteri effetti morali dell’ipocrisia che vi era connessa, andarono avanti più o meno in parallelo. Fino a un punto: l’illusione che il partito potesse pur sempre essere riportato sulla retta via, da cui si era allontanato, che i suoi grandi errori potessero essere corretti dall’interno, durò in me uno o due anni più a lungo che in Leszek, e di ciò continuo a vergognarmi. In seguito, in esilio, i nostri percorsi si divaricarono ampiamente. A differenza di Leszek, io non feci mai nessun passo verso la controparte politica, e ancor meno mostrai mai alcun entusiasmo per essa. Io rimango ancor oggi un socialista.
P.H. Lei militò come soldato nella divisione polacca dell’Armata Rossa e, dopo la guerra, come ufficiale nel Korpus Bezpieczestwa Wewntrznego (KBW), il corpo della Sicurezza interna. Vi erano previsti, accanto all’addestramento militare, anche corsi di formazione politica o, come sarebbe meglio dire, di indottrinamento?
Z.B. Finché la nostra guerra fu contro gli occupanti tedeschi, non ci fu molto di tutto ciò. L’unico obiettivo era mettere fine all’occupazione, mentre il pensiero di come la Polonia dovesse essere organizzata dopo la guerra, rimaneva in secondo piano. Le cose cambiarono quando le operazioni militari finirono. I soldati del KBW rappresentavano una sezione trasversale della popolazione. I modi di vedere e le preferenze erano quindi diversi, uno specchio delle tensioni esistenti all’interno della società polacca. L’argomento principale dell’istruzione politica affiancata alle consuete virtù militari era la questione sempre aperta: «di quale Polonia i polacchi hanno bisogno con la massima urgenza?». Il «marxismo-leninismo» contro la «filosofia borghese» era forse il tema principale nel mondo accademico. Ma coi soldati io discutevo di interrogativi come: «A chi appartengono le fabbriche?», «A chi appartiene la terra coltivabile?».
P.H. Nel 2007 lo storico tedesco-polacco Bogdan Musia La attaccò per il fatto che Lei aveva lavorato per il KBW. Ma Musia non trovò alcuna prova che Lei avesse avuto a che fare con gli assassinii, le torture e lo spionaggio di partigiani anticomunisti, che vengono rimproverati al KBW.
Z.B. Quel che è vero nell’articolo di Musia pubblicato dalla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» non era nuovo. Tutti sapevano che ero stato comunista, e precisamente dal 1946 al 1967, e anche che avevo prestato servizio per diversi anni nella cosiddetta «Armata Interna». Quel che c’era di nuovo in quell’articolo era semplicemente che avevo lavorato anche per il servizio di spionaggio militare. All’epoca avevo 19 anni, e vi rimasi solo tre anni. Non ho mai reso pubblico questo fatto perché avevo sottoscritto un impegno a tenere il segreto.
P.H. E qual era il compito che vi svolgeva?
Z.B. Niente di particolare, banale lavoro d’ufficio. Facevo parte della sezione per la propaganda e l’agitazione. Dovevo preparare il materiale per la formazione teorica e politica degli arruolati al servizio militare di leva, compilare pamphlet ideologici. Per mia fortuna, finì presto.
P.H. In un documento, citato da Musia, si parla dell’«informatore Semjon», che era il Suo nome di copertura: «Le sue informazioni sono preziose. Data la sua origine semitica, non può essere impiegato in ruoli operativi». Il Suo compito era di raccogliere informazioni sui nemici del regime?
Z.B. Era, con ogni probabilità, quello che si aspettavano da me, ma non ricordo assolutamente di aver mai fornito materiale del genere. Io stavo nell’ufficio e scrivevo, non proprio il luogo più adatto per raccogliere simili informazioni. Quello che Musia non dice è che ho lavorato è vero per tre anni nei servizi segreti militari, ma io stesso sono stato perseguitato per quindici anni dai servizi segreti. Fui spiato, furono compilati rapporti su di me, fu intercettato il mio telefono, furono installate cimici nella mia abitazione ecc. Poiché ero un critico del regime, fui prima espulso dall’esercito e poi dall’università e quindi dalla Polonia.
P.H. Dal tempo della rivoluzione ungherese del 1956 Lei fu inserito nella categoria dei ribelli del partito. Janina racconta al riguardo come Lei e la Sua famiglia foste incalzati con varie molestie. Per sposarsi, doveva avere l’autorizzazione del Suo superiore militare, il colonnello Zdzisaw Bibrowski. Che era come Lei comunista, ma anche lui chiaramente non troppo fedele alla linea del partito.
Z.B. Da Bibrowski imparai a distinguere le parti sane della società dalle formazioni cancerose. Mi aprì gli occhi davanti all’abisso che si apriva fra l’idea socialista, cui aderivo con tutto il cuore, e il «socialismo reale», che facevo non poca fatica ad accettare, già molto prima che il dissidente tedesco-orientale Rudolf Bahro nel 1977 coniasse l’espressione. E molto prima che fossi costretto ad abbandonare la Polonia. Bibrowski mi mostrò che la fedeltà all’idea del socialismo richiede che si lotti con le mani e con i piedi contro il suo annacquamento e la sua corruzione. Una volta imparata questa lezione, non l’ho più dimenticata.
P.H. Janina scrive che Bibrowski nel 1952 fu allontanato dal suo incarico perché ebreo.
Z.B. Credo che, considerate le sue opinioni, prima o poi se ne sarebbe andato via comunque. Era un intellettuale di altissimo livello, un uomo di spirito aperto e critico, che aveva raccolto intorno a sé ufficiali con analoghe qualità e li aveva protetti dalle «epurazioni». Fu giudicato inadattto a realizzare la rapida professionalizzazione della Sicurezza dello Stato. Bibrowski non era anticomunista, al contrario. In nome della propria fede, in nome del comunismo, si ribellava al cattivo uso che di esso si faceva, al suo screditamento e alla sua perversione. Era un uomo che voleva servire il regime ma insieme conservare la sua umanità, per proteggere l’umanità degli altri. Ma per l’appunto: Amicus Plato, sed magis amica veritas, come recita il detto attribuito ad Aristotele. Amo Platone, ma ancora di più amo la verità. Bibrowski ritornò alla sua professione di ingegnere. Di lì a poco il piccolo gruppo, che aveva sotto le sue ali, ne seguì l’esempio, e con esso anch’io che ne facevo parte.
P.H. Lei pure non lo fece spontaneamente. Nel gennaio 1953 fu congedato dall’esercito come politicamente inaffidabile. Due mesi dopo morì Josif Stalin, allora ammirato anche in Occidente come «grand’uomo», il quale, come Janina ricorda, «con pugno di ferro [aveva] sfracellato la mostruosità del fascismo». Come visse Lei la morte di Stalin?
Z.B. Lo choc fu forte. In fondo, per 13 anni avevo vissuto, e con me molti altri ben più intelligenti di me avevano vissuto, all’ombra gigantesca di quest’uomo, totalmente fiduciosi nella sua saggezza e abbandonati al suo giudizio. Ancor oggi faccio fatica a comprendere appieno come sia stato possibile accettare quel vero e proprio soffocamento spirituale, nonostante tutte le conoscenze che nel frattempo ho acquisito sulla psicologia del totalitarismo. Sono stati scritti volumi sul culto di Stalin e di Hitler. Il fenomeno è stato descritto con acume, ma continua ad essere riconosciuto come disperatamente inafferrabile. Chi voglia farsi una chiara idea dell’esperienza di questo culto della personalità, non può far di meglio che leggere il libro Tempo di seconda mano, di Svetlana Aleksievi, premio Nobel per la letteratura. Anche se non è in grado di spiegarlo, l’autrice si avvicina il più possibile al fenomeno. Illumina il mistero e consente a chi non ha vissuto personalmente quell’esperienza di percepirne la complessità. Al momento presente, peraltro, mi perseguita l’incubo che un simile culto possa tornare in auge in un futuro forse non troppo lontano.
P.H. Quanto La attirava il marxismo come teoria, come edificio concettuale intellettualmente impegnativo?
Z.B. Non credo che una qualsiasi riflessione sui rapporti di produzione e le forze produttive, sulla legge del valore o sulla emancipazione della classe operaia e cose simili abbia avuto un’importanza decisiva nell’orientarmi verso il comunismo. Non vi entrai attraverso le porte della filosofia o dell’economia politica. Fu piuttosto il frutto di un esame della situazione esistente, unito a una concezione romantica, ribellistica, della storia, e del ruolo che noi giovani dovevamo giocare nella realizzazione di quella concezione. Come scrisse splendidamente nel 1956 Leszek nel suo saggio La morte degli dei, ci affascinava il «mito di un mondo migliore», il sogno di un «regno di uguaglianza e libertà», il sentimento di essere «fratelli dei comunardi parigini, dei lavoratori della Rivoluzione russa, dei soldati della guerra civile spagnola».
P.H. Dopo che fu congedato dall’esercito, ci risulta dalle memorie di Janina che la contraddizione fra le parole e i fatti del «socialismo reale» La portò a concepire l’idea che anche la teoria marxista avesse bisogno di essere reinterpretata, a cent’anni di distanza della sua formulazione. Come la pensa oggi, che cosa rimane valido di Marx?
Z.B. La sua analisi dei meccanismi economici, naturalmente, è superata. Marx scriveva nella metà del XIX secolo, in una situazione del tutto diversa. E tuttavia ci sono osservazioni molto importanti da lui enunciate, che mi guidano ancora oggi nel mio lavoro. Una di esse, quella che è la mia preferita, è la giustificazione che egli dava della sociologia, l’individuazione di quel che era la sua vera ragion d’essere. Marx afferma: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». In questa considerazione trova il suo fondamento l’esistenza della sociologia come scienza. Uno può passare tutta una vita ad approfondire questo fondamento. Le situazioni sono date, non le abbiamo scelte noi. La domanda è: come sono nate e a che cosa ci costringono, come ci confrontiamo con esse e come possiamo cambiarle. Come possiamo noi, sotto la pressione delle condizioni esistenti e con la conoscenza che ne abbiamo, fare storia in maniera consapevole? Qui è il segreto della nostra esistenza.
P.H. Che cosa significa questo per la Sua sociologia in particolare?
Z.B. Mi ha ispirato soprattutto il modo in cui Antonio Gramsci, filosofo, marxista e fondatore del Partito comunista italiano, ha utilizzato questo pensiero di Marx. Lo seguo nella forma che io chiamo «ermeneutica sociologica», da non confondere con la sociologia ermeneutica, che è una scuola della sociologia. Si tratta di ragionare sulle idee di fondo che le persone adottano, le linee guida che seguono. L’ermeneutica sociologica riflette su quelle che sono le condizioni, le circostanze e la concezione della società. Noi siamo una specie all’interno della Natura, quella di Homo sapiens, condannata a pensare, noi facciamo esperienza di qualcosa (erfahren) e la viviamo (erleben) non soltanto a livello fisico. Le esperienze (Erfahrungen) sono pezzettini di informazione e disinformazione, da cui noi cerchiamo di ricavare un senso, di concepire idee, di elaborare piani. L’ermeneutica classica invece fa derivare le idee attuali da idee precedenti, le interpreta sulla base del loro passato, mette in luce come si moltiplicano, producono nuovi germogli, si prostituiscono. Ma secondo me le cose non funzionano così. Dalle idee che dominano lo spirito umano, che vanno a impattare sul corpo della società, dobbiamo cercare di capire come si legano il primo con la seconda. È qui il problema: perché ci dividiamo in campi politici, partiti, appartenenze e lealtà differenti? Per la semplice ragione che interpretiamo in maniera diversa la medesima esperienza. La concezione di Gramsci era quella della filosofia egemonica, comunemente chiamata buon senso. La filosofia egemonica non è filosofia nel senso della critica filosofica: nessuna discussione su Kant, Leibniz ……
Autore-Zygmunt Bauman è stato uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, maestro di pensiero riconosciuto in tutto il mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida». Ha insegnato Sociologia presso l’Università di Leeds. Laterza ha pubblicato quasi tutti i suoi libri, tra cui: Voglia di comunità; Modernità liquida; Amore liquido; Vita liquida; Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido; Paura liquida; Capitalismo parassitario; “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti”. Falso!; Danni collaterali; Babel (con E. Mauro); Per tutti i gusti. La cultura nell’età dei consumi; Stranieri alle porte; Retrotopia; L’ultima lezione (con W. Goldkorn); Il disagio della postmodernità; Cecità morale (con L. Donskis); A tutto campo. L’amore, il destino, la memoria e altre umanità (con P. Haffner); Male liquido (con L. Donskis); Un mondo fuori asse.
L’ultima intervista a uno dei più grandi intellettuali del Novecento.
Un estratto da “A tutto campo”, l’ultima intervista a Zygmunt Bauman
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Modernità: della costrizione a non essere nessuno, o a diventare un altro
Peter Haffner Fra gli autori che L’hanno influenzata in maniera significativa, ce ne sono due che non provengono dal recinto della Sua specializzazione, cioè dalla sociologia: lo scrittore Franz Kafka e lo psicologo Sigmund Freud. Che cosa hanno da dirci sulla conditio humana del presente, sulla nostra vita?
Zygmunt Bauman È difficile rispondere a questa domanda. Come si può indicare a dito quello che ci insegnano oggi? Il pensiero del presente è un prodotto collettivo di autori come loro. Una volta che un’idea diventa di dominio comune, è morta, perché nessuno si ricorda più da dove viene. Appartiene ormai alla classe delle cose autoevidenti. Kafka fu assolutamente rivoluzionario, e Freud fu assolutamente rivoluzionario. Ma quando noi oggi riflettiamo su di loro, ci appaiono semplicemente ortodossi. Le idee cominciano la loro vita come eresie, la proseguono fino a diventare ortodossia, e la finiscono come superstizioni. Questo è il destino di ogni idea nella storia. Kafka e Freud sono già uniti nella «doxa», nel senso della filosofia greca, cioè come opinione universalmente riconosciuta.
P.H. Che cosa c’era, dunque, di rivoluzionario in Kafka?
Z.B. La sua analisi del potere e della colpa. Il processo e Il castello sono due documenti fondamentali della modernità. A mio avviso, nessuno dopo Kafka è riuscito a migliorare l’analisi del potere. Prendiamo Il processo. Un tale viene accusato. Egli vorrebbe sapere di che cosa è accusato, ma non ha modo di scoprirlo. Vorrebbe giustificarsi, ma non sa per che cosa. È pieno di buona volontà e deciso a pellegrinare presso tutte le istituzioni che possano dargli informazioni al riguardo. Cerca inutilmente di arrivare al processo. Alla fine, viene giustiziato senza sapere in che cosa consista la sua colpa. La sua colpa consiste nel fatto di essere stato accusato.
P.H. Il principio base della procedura penale di uno Stato di diritto è la presunzione di innocenza: fin tanto che la colpa non è provata, chiunque va considerato innocente.
Z.B. Kafka mostra che le cose vanno in maniera diversa. Poiché gli innocenti non sono accusati, chi è accusato dev’essere colpevole. Il fatto di essere ritenuto colpevole rende Josef K., il protagonista del romanzo, criminale. È lui che deve dimostrare la sua innocenza. Ma per poterlo fare, deve sapere di che cosa viene incolpato. Ma non lo sa, e nessuno glielo dice. È una situazione tragica.
P.H. E nel Castello?
Z.B. L’eroe del romanzo, un certo K., presume che delle persone molto in alto nel castello siano esseri razionali. Certo, non ha confidenza con loro né loro ne hanno con lui; tutto è misterioso, non trasparente e inavvicinabile. Egli lotta inutilmente per ottenere il riconoscimento della propria esistenza professionale e privata. Ma K. crede comunque che i funzionari del castello si comporteranno in maniera razionale, e che lui potrà parlare con loro del motivo, della causa della sua sconfitta. Kafka ci dice poco su questo K., ma dal testo si capisce che è presumibilmente una persona colta. È un uomo razionale, uno che, come dice Max Weber, sceglie i mezzi giusti per i suoi obiettivi dando per presupposto che gli altri pure operino in maniera razionale. Ma le cose non stanno così, e questo è il suo errore peggiore. Poiché il potere degli abitanti del castello consiste proprio nel fatto che si comportano in modo irrazionale. Se si comportassero in maniera razionale, si potrebbe trattare con loro, li si potrebbe probabilmente convincere o si potrebbe combattere contro di loro e forse vincere. Ma se sono irrazionali, se il loro potere consiste nella irrazionalità, è impossibile farlo.
[…]
P.H. Che cosa significa Sigmund Freud per Lei?
Z.B. Freud, come Kafka, è diventato parte del nostro pensiero. Un bene comune, per così dire. Per noi, oggi, concetti come inconscio, «Es» e «Io» e «Super-io», sono familiari. Il filosofo, sociologo e psicologo americano George Herbert Mead, che ha fornito un contributo essenziale alla questione della identità, non usa questi termini, ma intende sostanzialmente la stessa cosa quando parla di I e Me, di «Io» e «Me». «Io» sono quello che viene dal mio pensiero, quello che sono veramente, quello che è autentico. Ma io sono diviso in due, perché a questo «Io» che viene dall’interno si aggiunge dall’esterno il «Me», quello che le persone intorno a me pensano di me, come mi vedono, come credono che io sia in realtà. La nostra vita è una lotta per la coesistenza amichevole fra l’«Io» e il «Me». Questo è un altro modo di raccontare la storia raccontata da Sigmund Freud.
P.H. Mead diceva che l’individuo riceve la sua identità tramite l’interazione con altri individui. Ci sono più «Me» diversi, e compito dell’«Io» è di sintetizzarli in una immagine unitaria di sé. L’identità nella modernità «liquida» o «fuggevole» di oggi ha qualcosa a che fare con questa interazione, ma è molto più complessa. Ognuno ha ora non più solo tanti «Me» ma anche tanti «Io». Di questo Lei si è occupato soprattutto.
Z.B.L’identità è oggi una questione di negoziazione. È, in effetti, liquida: noi non siamo nati con una identità data una volta per tutte, che non cambia mai. Di più: possiamo avere diverse identità contemporaneamente. In una conversazione su Facebook Lei può scegliere una identità, nella successiva conversazione un’altra. Può cambiare di volta in volta la Sua identità, ci sono identità che vanno di moda. Questo gioco combinato di «Io» e «Super-io» o di «I» e «Me» è parte del nostro compito quotidiano. Freud preparò il terreno per questo gioco.
[…]
P.H. L’identità, oggi – dice il sociologo francese François de Singly –, non ha più radici. Alla metafora delle radici, egli preferisce quella dell’àncora. Diversamente dall’abbandono delle proprie radici, che è rinuncia alle tutele sociali, il levar l’àncora non ha niente di irrevocabile o definitivo. Che cosa non La convince in questa impostazione?
Z.B. Può diventare un altro solo chi cessa di essere chi era. Egli deve rigettare continuamente quello che è stato il suo Io fino ad allora. Di fronte alle continue nuove possibilità quel suo Io gli appare ben presto come non moderno, inappropriato e insoddisfacente.
P.H. Non ha qualcosa di liberatorio, il fatto che uno possa cambiare? In America, nel Nuovo Mondo, il mantra era ed è: scopriti di nuovo!
Z.B. Per la verità, non è una strategia nuova quella di darsela a gambe quando la situazione diventa scabrosa. È quello che sempre hanno cercato di fare gli uomini. Ma è nuovo il desiderio di sottrarsi assegnandosi un nuovo Sé scelto dal catalogo. E quello che all’inizio poteva essere stato l’approdo consapevole su nuove sponde, si trasforma rapidamente in una ossessiva routine. Il liberatorio «puoi diventare un altro» diventa il costrittivo «devi diventare un altro». Questo «devi» ha poco a che fare con l’agognata libertà, e molti vi si ribellano proprio per questo motivo.
P.H. Che significa, allora, essere libero?
Z.B. Essere liberi vuol dire poter perseguire i propri desideri e obiettivi. L’arte di vivere orientata al consumo, che è tipica della modernità liquida, promette certo questa libertà, ma non realizza quel che promette.
[…]
P.H. Quali altri autori oltre a Kafka, Freud e Simmel citerebbe, fra quelli che L’hanno influenzata in maniera particolare?
Z.B. Molti hanno avuto un ruolo nel mio pensiero, ognuno col suo stile, la sua peculiarità. Antonio Gramsci l’ho già ricordato: non potrò mai sottolineare abbastanza quanto io gli sia debitore. Egli mi ha permesso una onorevole presa di distanza dal marxismo. Solo grazie a lui riuscii a cessare di essere un marxista ortodosso senza diventare un antimarxista. Il mio amico Leszek Kołakowski non poté farlo. Egli riuscì a prendere congedo dal marxismo solo diventando antimarxista. Probabilmente non aveva letto Gramsci, non so. Antonio Gramsci è uno dei filosofi più brillanti, umani, che io conosca.
P.H. E fra i pensatori più recenti?
Z.B. Fra questi ultimi, mi è particolarmente vicino Claude Lévi-Strauss, che va considerato come il fondatore dello strutturalismo etnologico. C’è stato un tempo della mia vita, alla fine degli anni Sessanta, in cui ero completamente preso, incantato da Lévi-Strauss. Che cosa ho preso da lui? Devo precisare che io sono molto eclettico, attingo dovunque trovi qualcosa di eccitante, che si innesta bene nel mio pensiero, ma non mi sento obbligato ad accettare il pensatore in sé. Da Lévi-Strauss ho preso l’abolizione dell’idea di cultura come corpo unitario. Anziché riflettere sulle culture, sulla loro diversità, egli parlava di modalità di approccio universali. Non usava la parola «cultura», ma la parola «struttura». È entrato nella storia come strutturalista. Ma in realtà egli ha rinunciato all’idea di una struttura, di un’organizzazione data, di un assetto fisso delle cose. Insisteva sulla universalità dello strutturarsi. La struttura è per lui un’attività. Non un corpo, ma un’attività in un certo senso incerta, che non finisce mai. Nulla è costituito una volta per tutte, le strutture non sono fossilizzate, pietrificate, immutabili. E proprio così io cerco di descrivere la realtà, le realtà sociali, la loro dinamica. La cultura sta al centro delle mie ricerche come un processo dinamico, che non è mai compiuto.
Il Castello di Boccea- Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri-Roma Municipio XIV-Il Castello sorge sul “fundus Bucciea” che domina la valle del fiume Arrone e il fondo denominato anticamente “Ad Nimphas Catabasi”, sito al decimo miglio dell’antica via Cornelia,(domina il ristorante i SALICI sito sulla via Boccea). Si accede da una via sterrata all’interno della campagna e, come d’incanto, si vedono i resti del vecchio castello, luogo dove albergano le fiabe e ciò che rimane di una architettura delle allucinazioni per chi ha voglia di emozioni, le grandi emozioni, con un percorso iniziatico alla fantasia. Della vecchia costruzione , oltre ai cunicoli e gallerie, è visibile il Torrione, costruito in pietra selce e mattoni con rinforzi di possenti barbacani, necessari per contenere ed arginare il progressivo cedimento del banco tufaceo che costituisce la base naturale del fabbricato. Il Castello domina i boschi dove, nel 260 d.C. furono martirizzate S.s. Rufina e Seconda, mentre nelle vicinanze, al XIII miglio della stessa via Cornelia, nel 270 d.C. sotto l’Imperatore Claudio il Gotico, subirono il martirio Mario e Marta con i figli Audiface ed Abachum, famiglia nobile di origine persiana, come si legge nel Martirologio Romano”Via Cornelia melario terbio decimo ad urbe Roma in coementerio ad Nimphas, sanctorum Marii, Marthae, Audifacis et Abaci, martyrum”. Le prime tracce cartacee documentali del Castello si trovano nella bolla di Papa Leone IV, conservata negli archivi vaticani,tomo I pag. 16, con la quale si conferma la donazione al monastero di San Martino del “fundus Buccia” e delle chiese dei Santi Martiri Mario e Marta. Il Papa Adriano IV nel 1158 confermò alla basilica vaticana il Castello e i fondi di Atticiano, Colle e Paolo. In un antico atto conservato in Vaticano, al fascicolo 142,si legge che nel 1166 Stefano, Cencio e Pietro, fratelli germani e figli del fu Pietro di Cencio, cedettero a Tebaldo, altro fratello, la loro porzione del Castello di “Buccega”. Sempre dal medesimo archivio si apprende che Giacomo, Oddo, Francesco e Giovanni di Obicione, Senatori di Roma nell’anno 58 ( 1201), stabilivano che la basilica di San Pietro possedesse e godesse tutti i beni e gli abitanti del Castello di Buccia fossero sotto la protezione del Senato. Si stabilì che anche i canonici del Castello usufruissero dei privilegi e consuetudini accordati ai loro vicini, cioè come l’esercitavano nei loro castelli i figli di Stefano Normanno, Guido di Galeria e Giacomo di Tragliata (Vitale, “Storia diplomatica dei Senatori di Roma”, pag. 74 ). Da una bolla di Gregorio IX del 1240 si ha notizia di un incendio che distrusse il Castello e che il Pontefice ordinò di prelevare il denaro necessario alla ricostruzione direttamente dal tesoro della Basilica Vaticana (Bolla vaticana Tomo I, pag.124).In un lodo del 1270,che tratta di una lite di confini della tenuta,si menziona tra i testimoni Carbone,Visconte del Castello di Boccea. Il Castello subì nel 1341 l’attacco di Giacomo de’ Savelli, figlio di Pandolfo che, dopo averlo preso, scacciò gli abitanti e lo incendiò. Papa Benedetto XII, che era ad Avignone, scrisse al Rettore del patrimonio di San Pietro di”costringere quel prepotente a risarcire il danno”. Dopo il saccheggio da parte del Savelli il luogo rimase deserto secondo il Nibby mentre il Tomassetti, nella sua opera (pag.153) ci descrive il castello e la tenuta ancora abitato da una popolazione di 600 anime, cifra ricavata dalle quote sulla tassa del sale dell’anno 1480/81, durante il papato di Sisto IV. Della trasformazione da Castello a Casale di Boccea, moderna denominazione, si trova traccia nel Catasto Alessandrino del 1661,dove la costruzione viene indicata come “Casale con Torre”. Va ricordato che da 20 ettari di uliveto di Boccea si produceva l’olio destinato ai lumi della Basilica Vaticana, come si può desumere dalla cartografia seicentesca di G.B.Cingolani dove si legge”seguita a destra il procoio pure detto delle Vacche Rosse del Venerabile Capitolo di San Pietro, chiamato Buccea, olium Buxetum”. Attualmente il Casale di Boccea è in ristrutturazione con destinazione turistico-alberghiera, con un grande ristorante nel quale troneggia un imponente camino seicentesco in pietra. Altre tracce del passato sono i vari stemmi papali inseriti nei muri ed un frantoio manuale di recente ritrovamento, del tutto simile a quelli del Castello della Porcareccia e di Santa Maria di Galeria.
Nazionale e internazionale nei Quaderni del carcere
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe giungere all’internazionalismo solo passando attraversando la tappa intermedia del nazionalismo; in presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe, in effetti, anacronistico, antistorico e persino contrario alla cultura nazionale.
Articolo di Renato Caputo -Come fa notare Antonio Gramsci, gli Stati subalterni non sono in grado di portare avanti una politica autonoma sul piano internazionale e finiscono, così, per divenire pedine delle grandi potenze [1]. Più in generale, ogni analisi della politica di un paese non potrà, dunque, prescindere dai rapporti delle forze internazionali, ovvero dalla posizione occupata in un sistema egemonico che rende più o meno effettuale l’indipendenza e la sovranità nazionale. Sebbene la struttura sociale di un paese determini la sua posizione nel contesto internazionale, quest’ultima reagirà a sua volta “sulla vita economica immediata di una nazione” (13, 2: 1562). Perciò, come osserva Gramsci, la “differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai diversi rapporti internazionali” (19, 24: 2033).
Nei paesi internazionalmente subordinati la classe dominante tenderà a sfruttare tale situazione dando a credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale. Dunque, come osserva Gramsci, al contrario di quanto l’ideologia dominante vuol dare a intendere, non è il partito internazionalista a subordinare le esigenze nazionali alla politica sovranazionale, ma piuttosto “il partito più nazionalistico, che, in realtà, più che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche” (ivi, 1562-563).
Del resto, uno sviluppo determinato da direttive internazionali, che non muova dalla soluzione dei bisogni nazionali, costituisce un ostacolo allo sviluppo del paese poiché è funzionale “a creare l’equilibrio di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale” (3, 118: 386), ma di un mercato internazionale subordinato agli interessi delle potenze dominanti. La condizione di subalternità di uno Stato non fa che accentuarne la condizione “di arretratezza e di stagnazione” (13, 13: 1574). Persino un grande fenomeno culturale sviluppato sul terreno nazionale, come per esempio il Rinascimento, finisce per essere in tale caso fonte di progresso all’estero dove “è vivo [nelle coscienze] dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità”, piuttosto che in patria “dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca” (3, 144: 401).
La debolezza sul piano internazionale può divenire uno strumento di egemonia della classe dominante che la utilizza per frenare ogni intervento attivo sul piano politico delle forze nazional-popolari (cfr. 19, 24: 2034) [2]. L’ideologia dei ceti dominanti nei paesi subalterni tenderà a giustificare come “«originalità nazionale»” tale condizione di sovranità limitata e di arretratezza “semifeudale” (13, 13: 1575), facendo credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale.
Al contrario le forze progressiste, secondo Gramsci, dovranno favorire l’assunzione delle più avanzate forme di governo sviluppate a livello internazionale [3], quale unica strada, come via maestra per condurre un paese subalterno a una effettiva indipendenza nazionale. Del resto, a parere di Gramsci, il consolidarsi del processo rivoluzionario in un paese può contribuire a creare condizioni internazionali favorevoli che possono contribuire all’espansione della Rivoluzione in paesi in cui le forze progressive sono “scarse e insufficienti di per sé (tuttavia ad altissimo potenziale perché rappresentano l’avvenire del loro paese)” (14, 68: 1730).
D’altra parte la stessa possibilità di un profondo mutamento delle condizioni storico-politiche nazionali è strettamente dipendente dall’“equilibrio delle forze internazionali” (6, 78: 746). A seconda delle fasi storiche esse possono essere di freno o di decisivo supporto alle forze progressive nazionali. È, dunque, indispensabile disporre d’una “forza permanentemente organizzata” in grado di “inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli” (13, 17: 1589). Per esempio, mentre l’arretratezza italiana era in parte dovuta all’essere divenuta terra di conflitto di potenze internazionali, la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche hanno un ruolo decisivo per il nascere della nazione, consentendo il sorgere dell’“interesse politico e nazionale alla piccola borghesia e ai piccoli intellettuali” (ibidem). In altri termini, il Risorgimento italiano sarebbe impensabile senza “i fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese” che, logorando le forze regressive, “potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti” (19, 3: 1972). È la trasformazione del contesto internazionale che è al fondamento e permette di comprendere il “processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione” (19, 2: 1963). Tuttavia, se nella realizzazione di un evento storico come il Risorgimento “tra l’elemento nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che ha contato di più” (3, 38: 316) il nuovo Stato sarà privo di autonomia politica sul piano internazionale. La mancata partecipazione popolare al Risorgimento rende “meschina” la vita politica italiana sino al novecento e indebolisce “la posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché minato all’interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse” (19, 28: 2054).
Così mentre nelle nazioni in cui vi è stato uno sviluppo organico delle energie nazionali, si proiettano all’esterno in “funzione di irradiazione internazionale e cosmopolita”, ossia in funzione dell’espansione dell’egemonia e del proprio dominio imperialistico, i paesi privi di un tale sviluppo si proiettano all’esterno attraverso un’emigrazione “che non refluisce sulla base nazionale per potenziarla” (12, 1, 1524-525), ma concorre a render impossibile il costituirsi d’una coscienza nazionale e di una salda base nazionale.
Il ruolo subordinato a livello internazionale produrrà l’emigrazione della forza lavoro manuale e degli intellettuali verso le nazioni dominanti, il che rappresenta secondo Gramsci “una critica reale” (2, 137: 272) alla debolezza nazionale della classe alla classe dominante, incapace di adempiere alla propria funzione di direzione nazionale. Ciò ha fatto sì che tanto gli intellettuali, “rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva”, siano andati ad arricchire nazioni straniere col loro contributo, sia che la forza-lavoro nazionale sia andata “ad aumentare il plusvalore dei capitalismi stranieri”, in modo che “questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna” (3, 117: 385).
Gramsci rigetta l’interpretazione meccanicista del marxismo secondo la quale dal cosmopolitismo preborghese si potrebbe passare all’internazionalismo solo attraversando la tappa intermedia del nazionalismo. In presenza di una cultura cosmopolita tale passaggio sarebbe infatti “anacronistico e antistorico” (9, 127, 1190) e persino contrario alla cultura nazionale [4]. Tanto che Gramsci considera il nazionalismo, in un paese come l’Italia, un’“escrescenza anacronistica” nella sua storia, “di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante” (ibidem). Al contrario la missione di civiltà del popolo italiano “è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata” (ibidem).
Note:
[1] Come avviene spesso, Gramsci si serve di esempi tratti dalla storia nazionale e dal principale pensatore politico italiano: “bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non più politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori” Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 658. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Interessante quanto osserva Gramsci sull’importanza del piano internazionale nel risorgimento italiano: “i rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria” (19, 24: 2034).
[3] Come osserva Gramsci: “una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni” (13, 17: 1585).
[4] Come osserva Gramsci a tal proposito: “che il moto nazionale dovesse reagire contro le tradizioni e dare luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non è una reazione organico-popolare. Del resto, anche nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolita, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già esistenti o in processo di sviluppo. Perché un fatto si è prodotto nel passato non significa che si produca nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione italiana nel presente e per l’avvenire non esistono e non appare che siano in processo di formazione. L’espansione moderna è di origine capitalistico-finanziaria. L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato” (9, 127: 1190-191).
Fonte -Ass. La Città Futura-Articolo di Renato Caputo
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