I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
Archivio di Stato di Rieti BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLO
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
Autore dell’Articolo-Avv. Paolo Amoroso.
Pozzaglia in Sabina -2 novembre 2015-Santa Maria in Valle è stato un monastero rurale benedettino oggi in rovina che si trova nel comune di Pozzaglia in Sabina sul limitare dell’esteso altopiano che costituisce il fondovalle del torrente Muzia, un insignificante ma perenne corso d’acqua tributario del Fosso Corese. Fondato probabilmente nel corso del X secolo, rimaneggiato ed ingrandito prima nel XIII secolo ed ancora nel trecento, quindi abbandonato all’inizio dell’ottocento ed infine utilizzato come cimitero fino al parziale restauro risalente alla metà del novecento, conserva i ruderi della chiesa conventuale dalla facciata a capanna risalente al secolo XI, torre campanaria ed abside duecenteschi.
La valle del torrente Muzia ben si prestava all’insediamento umano malgrado la sua altitudine – circa 700 metri sul livello del mare – sia già montana. Il fondovalle del torrente infatti è composto da un esteso altopiano solcato da ruscelli e punteggiato da collinette dai fianchi poco acclivi lungo i quali era semplice praticare l’agricoltura. Il terreno era ovunque morbido ed ubertoso, le vicine montagne offrivano abbondanti pascoli estivi nonché molto legname, l’altitudine proteggeva dalla malaria ed anche l’acqua era abbondante per tutto l’anno.
Anche se né l’ulivo né la vite riescono a crescere ad un’altitudine così elevata, i terreni pianeggianti del fondovalle potevano comunque essere utilizzati indifferentemente come pascoli invernali, impiego per il quale erano molto versati, oppure per la coltivazione di legumi, cereali minori e forse anche del grano mentre i poderi adiacenti al greto del torrente potevano essere adibiti ad orti senza particolari difficoltà e con buone rese. Tutte queste risorse garantivano con poco sforzo una produzione alimentare largamente superiore alle necessità di una piccola comunità monastica, ragione della prosperità dell’abbazia.
Altro vantaggio della Valle del Muzia era l’isolamento, che proteggeva chi ci viveva dai pericoli esterni, conseguenza dell’orografia molto accidentata della porzione orientale dei Monti Lucretili che la rende ancora oggi la loro parte meno popolata. Quando i monaci giunsero in quella contrada, in un momento per noi insondabile nel corso del X secolo, si stabilirono sulla cima di una collinetta bassa ma dai fianchi abbastanza ripidi, prossima al corso d’acqua, in un posto protetto dal vento e dai ladri, vicino all’acqua e non distante dai campi. Non sembra che temessero granché per la loro incolumità perché non risulta che abbiano fortificato, neppure debolmente, il luogo dove pure vivevano, circostanza che lascia supporre che i dintorni fossero al tempo completamente spopolati.
Appena qualche decennio dopo la sua fondazione e comunque non molto dopo l’anno mille, il cenobio raggiunse un livello di prosperità tale da potersi permettere il lusso di una grande chiesa conventuale in pietra ad una sola navata e con la facciata decorata in stile a capanna, che era quello in voga al tempo. Per tutto il XI secolo costruire edifici in pietra nelle campagne era un’impresa non banale: bisognava trovare personale capace di edificarli in un’epoca in cui i lavori edilizi erano infrequenti, convincerlo ad andare a lavorare in un posto comunque sperduto e disagevole, dargli da mangiare ed un riparo per i diversi anni necessari al completamento dell’opera quindi occorreva in qualche modo remunerare chi la costruiva.
La lavorazione della pietra coinvolgeva tante professionalità diverse: c’era il cavatore che estraeva il blocco dalla cava, lo scalpellino che rendeva i blocchi di dimensioni regolari, il facchino che li trasportava fino al cantiere, l’addetto alla fabbricazione della calce, che comunque doveva avvenire nei dintorni, ed il mastro che costruiva il muro pietra dopo pietra. Gli interni dovevano poi essere abbelliti e ciò richiedeva l’impiego di altri artigiani che dovevano essere anche loro trovati, convinti ad occuparsene quindi retribuiti.
Della chiesa edificata nel XI secolo altro non si è conservato che la facciata e non è chiaro se il suo perimetro ricalcasse quello dell’edificio duecentesco oggi visibile. Le dimensioni di ciò che ne resta, però, lasciano intendere che fosse una chiesa molto grande per gli standard del tempo, sicuramente molto più delle necessità della relativamente piccola comunità monastica che gli viveva intorno. Come sempre nel medioevo, la chiesa conventuale serviva ad ostentare la ricchezza del monastero molto più che come luogo di preghiera anche perché, così grande e non riscaldata, doveva essere anche molto fredda specie in inverno. In ogni caso, già nel XI secolo l’abbazia – che era indipendente da quella di Farfa con cui confinava – possedeva la quasi totalità dei terreni intorno e parecchi castelli nei dintorni, sintomo del suo non modesto benessere.
Il XIII secolo sembra sia stato il periodo d’oro del monastero anche se le fonti scritte sono scarse e lacunose. Nel 1219 un certo abate Lanfranco commissionò estesi lavori di restauro della chiesa conventuale che la portarono ad assomigliare a ciò che ne resta al giorno d’oggi. A questo periodo risale il campanile a pianta quadrata, il reperto di maggior pregio e meglio conservato del complesso. La torre, alta circa venti metri, si presenta divisa in due zone separate da una sottile cornice: quella inferiore priva di aperture ed una superiore con quattro ordini di finestre secondo la successione di monofore, bifore e di due piani di trifore.
Malgrado sia stata più volte danneggiata dai fulmini si presenta in discreto stato di conservazione e quasi intatta ad eccezione del tetto, mal ricostruito negli anni ’50. Sempre al duecento sembra risalga l’abside sopraelevato della chiesa che pure si è ben conservato. Costruito in pietra del luogo e rivestito di lastre regolari di buona fattura su cui era probabilmente steso l’intonaco poi affrescato, venne in seguito chiuso da un muro ben conservatosi, fornito di una porta e di una finestra dipinta probabilmente per puntellarne la struttura vistosamente pericolante.
Nulla resta del sottostante altare. L’unica navata era separata dall’abside da un largo transetto, quasi certamente duecentesco, che collegava la chiesa al retrostante convento, il cui tetto era sorretto da quattro grandi archi a sesto leggermente ribassato con ghiera a conci squadrati poggiati su tozze semicolonne dai capitelli di forme diverse, probabilmente materiale di spoglio. Sotto l’altare doveva essere presente una cripta, costruita in epoca ignota ed adibita fino alla metà dell’ottocento ad ossario, di cui resta un buco nel pavimento del transetto in corrispondenza del luogo in cui doveva trovarsi l’altare maggiore.
La chiesa subì ulteriori rimaneggiamenti nel corso del XIV secolo come testimoniano gli archi a sesto acuto che costituiscono gli architravi delle porte oggi murate ma ancora visibili lungo il suo perimetro. Il trecento, del resto, sembra sia stato un periodo ancora di prosperità per il monastero che è citato in due missive risalenti all’epoca del pontificato di Papa Giovanni XXII, inviate rispettivamente nel 1330 e nel 1333, tramite le quali all’abate di Santa Maria vengono affidati incarichi nel territorio della Sabina. Nel 1343 una visita apostolica elenca beni e proprietà dell’Abbazia e ne evidenzia la prospera situazione amministrativa.
Trenta anni dopo, nel 1373,
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
incarica da Avignone l’abate di San Lorenzo fuori le mura, di riportare all’ordine una serie di monasteri tra i quali spicca proprio l’Abbazia di Santa Maria del Piano. A partire dalla metà del quattrocento, la prosperità dell’abbazia si ridusse fortemente anche se non sono ben chiare le ragioni economiche di questo declino. Comunque, seppur lontano dai fasti del passato, il convento continuò ad essere abitato fino al tardo settecento, quando ancora vi viveva ancora un singolo eremita, e venne infine soppresso nel 1809 quando gli edifici che lo componevano erano ancora in buono stato di conservazione.
Nel 1855 Orvinio venne colpito da un’epidemia di colera ed in mancanza di un cimitero in cui inumare i morti si pensò di utilizzare a questo scopo il monastero ormai in abbandono. Per trasformarlo in un camposanto la struttura venne stravolta: furono infatti scardinate le porte, scoperchiato il tetto, divelto il mattonato e murato l’ingresso principale. Inoltre si procedette ad uno scavo continuato al di sotto del pavimento ed in tutta l’area del Monastero al fine di ricavare i loculi entro cui inumare i cadaveri.
Un secolo dopo, nel 1952, quando ormai l’abbazia era completamente in rovina, la chiesa di Santa Maria, unico edificio di cui si fosse conservato qualcosa, venne restaurata dalla sovrintendenza ai ben culturali con grandi spese per riportarla allo stato originario. In questa occasione furono anche disseppelliti i morti collocati dentro il monastero un secolo prima a cui venne data migliore sepoltura nel cimitero di Orvinio. Tuttavia, alla fine dei lavori il complesso venne di nuovo abbandonato senza nessuna sorveglianza né alcun tentativo di valorizzazione turistica peraltro difficile perché il luogo in cui si trova Santa Maria del Piano è indubbiamente molto sperduto.
Così, nel corso degli anni ’70, i ruderi dell’abbazia furono depredati di qualunque oggetto artistico potesse essere rimosso senza pregiudicare la stabilità dei muri superstiti fra cui il rosone duecentesco rubato nel 1979. Del monastero al giorno d’oggi resta poco o nulla, tranne forse alcuni muri di difficile lettura sul lato della chiesa sul quale si affaccia il campanile. Della chiesa si sono ben conservati i muri perimetrali, la facciata e l’abside mentre del transetto resta abbastanza poco. Peraltro, sono in corso lavori di restauro volti ad arrestare il degrado della struttura che vengono compiuti però con poca attenzione alla conservazione delle murature originali e con gusto artistico a volte molto discutibile.
L’autore dell’articolo è Paolo Amoroso, soprannominato Aioe fin da ragazzo, di professione Avvocato penalista, con la passione per l’aria aperta, la storia medievale e l’informatica.
La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
-Pillole di storia a cura di Franco Leggeri-
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
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Pozzaglia Sabina–Santa Maria del Piano-Bolla papale del XIII sec. Biblioteca DEA SABINA
Archivio di Stato di Rieti
UNA BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLO NEL PATRIMONIO DEL NOSTRO ARCHIVIO
Il patrimonio dell’Archivio di Stato di Rieti
si arricchisce di un importante e antico documento. Si tratta di una bolla papale, una “lettera graziosa”, di Onorio III indirizzata all’abate di Santa Maria del Piano a Pozzaglia Sabina e risalente al 1218.
L’acquisizione al patrimonio dell’Archivio reatino è stata possibile grazie all’impegno congiunto della Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio e della Direzione generale archivi del Ministero della Cultura.
Tra alcuni giorni, dopo le necessarie fasi di catalogazione, il documento sarà disponibile per la consultazione al pubblico.
Da sottolineare, inoltre, la particolare importanza di questa bolla poiché coeva al periodo di massimo splendore dell’abbazia e che ci fornisce nuovi e utili dati sul medioevo nel territorio reatino.
Archivio di Stato di Rieti BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLOArchivio di Stato di Rieti BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLO
Biografia di Violeta Parra nacque a San Carlos, nella provincia cilena di Chillán, il 4 ottobre 1917. Figlia di una sarta e di un professore di musica interessato al folklore, era la terza di nove figli. All’età di tre anni, la famiglia si trasferì in un sobborgo di Santiago del Cile; date le condizioni economiche assai precarie, fin da piccolissima cominciò a cantare in locali pubblici per guadagnare qualche soldo. A nove anni imparò a suonare la chitarra; le prime canzoni le scrisse a dodici anni. Diplomatasi maestra elementare, a 23 anni Violeta Parra esordisce in un teatro della capitale cilena e incide i suoi primi dischi; nel frattempo, i suoi interessi per l’autentica musica popolare cilena la spingono sempre di più al contatto con la gente e, di conseguenza, ad una precisa maturazione e presa di coscienza politica.
Violeta PARRA
Nel 1952 si sposa con Luis Cereceda, dal quale ha due figli, Isabel e Ángel. Entrambi diverranno cantanti e musicisti e accompagneranno la madre nella sua parabola artistica; durante la dittatura di Pinochet, al pari degli Inti-Illimani, vivranno in esilio in Italia.
Grazie ai consigli di suo fratello Nicanor (anch’egli poeta), Violeta Parra comincia alla metà degli anni ’50 il suo “viaje infinito” per tutto il Cile, dal nord rovente e desertico fino alle estreme e gelide terre australi. Dal suo “viaggio infinito” nasceranno, oltre alle raccolte di canti popolari che saranno alla base dell’intero movimento della “Nueva Canción Chilena”, dei capolavori poetici come “Rún Rún se fue p’al Norte” e “Exilada del Sur” (entrambe cantate poi dagli Inti-Illimani).
Assieme al musicista Patricio Manns e al giovane Víctor Jara, fonda una società editoriale e discografica chiamata “Estampas de América”; torna a viaggiare, approfondendo ancora di più le radici, le tradizioni e le lotte
sia dei contadini che del proletariato e del sottoproletariato urbano.
Contemporaneamente si dedica anche ad altre attività artistiche, come la ceramica e la tappezzeria. I suoi quadri su iuta sono stati esposti tra l’altro anche al museo del Louvre.
Da questa febbrile attività nascono altri capolavori, come “Los pueblos americanos” e, soprattutto, “Gracias a la vida”, la canzone per la quale diviene nota in tutto il mondo.
Violeta Parra fu una donna generosa, geniale ed inquieta. Di carattere soggetto ad allegrie irresistibili e a terribili depressioni improvvise, ebbe sempre chiaro quale fosse il compito che si era prefisso. Del folklore diceva: “Non lo intendo come una sopravvivenza archeologica isolata che si sviluppa come cultura dominata nei confronti di una cultura dominante, ma come un fenomeno culturale che corrisponde a determinate forme sociali e che si trasforma o si annulla in funzione di tale corrispondenza”.
Negli anni ’60, si avvicina al Partito Comunista Cileno e comincia a scrivere canzoni di estrema violenza rivoluzionaria e anticlericale. Nel 1966 tiene gli ultimi concerti nell’estremo sud del Chile, a Puerto Montt.
Durante la serata finale nella cittadina australe, una donna del popolo che aveva assistito anche agli altri concerti, vista la difficoltà che Violeta aveva nel trovare una sedia adatta per suonare (era alta solo 1,51), gliene fabbrica una delle sue misure e gliela regala.
E’ la stessa sedia sulla quale, il 5 maggio 1967, Violeta Parra viene trovata morta nel retro di un teatro di Santiago nel quale si era appena esibita. Verrà in seguito accertato che si era suicidata.
Il suo ambiente familiare e la sua prima infanzia sono ricordati nei primi due brani di uno dei suoi capolavori, “Canto per un seme” (Canto para una semilla).
Una raccolta di testi delle sue canzoni, con notevole apparato critico, è stata pubblicata in Italia col semplice titolo “Canzoni”, Newton Compton, Roma 1979.
*
Dal newsgroup it.fan.musica.guccini, 28 dicembre 2001:
LA NUEVA CANCIÓN CHILENA
di R.Venturi
Al centro dell’ingiustizia
Cile confina al nord con il Perù
e con il Capo Horn confina al sud.
S’innalza verso oriente la cordigliera
e a occidente risplende la costiera,
la costiera.
Al centro stanno le valli coi lor splendori
dove crescono in fretta i lavoratori.
Ogni famiglia conta molti bambini
nella miseria vivono in case comuni,
in case comuni.
Chiaro che alcuni vivono ben sistemati,
ma a scapito del sangue degli sgozzati.
Davanti allo stemma più arrogante
l’agricoltura pone le sue domande,
le sue domande.
Ci vendon le patate nazioni varie
mentre sono del Cile originarie;
davanti alla bandiera dei tre colori
pongon molti problemi i minatori,
i minatori.
Produce il minatore
del buon denaro
ma per il portafoglio
dello straniero,
esuberante industria dove lavorano
per pochissimi soldi molte signore,
molte signore,
e son costrette a farlo, perché al marito
non gli basta la paga del mese andato.
Per non sentir la spina del dolore
nella notte stellata levo un clamore,
levo un clamore.
Bella sembra la patria
signor turista
però non le han mostrato
le callampitas.
Mentre spendon milioni
in un momento,
di fame muore la gente,
che è un portento,
che è un portento.
Molto denaro in parchi
municipali
e la miseria è grande
negli ospedali.
Proprio nell’Alameda de
las Delicias
il Cile confina col centro
dell’ingiustizia.
Violeta PARRA
GRAZIE ALLA VITA
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato due soli, che quando li apro
perfetto distinguo il nero dal bianco
e nell’alto cielo lo sfondo stellato
e in mezzo alla folla l’uomo che io amo
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato l’udito che in tutto il suo raggio
sente notte e giorno urla, tv e radio
silenzio, vetri rotti, risate e pianto
e la voce dolce del mio bene amato
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato il suono e il vocabolario
con lui le parole che penso e declamo
madre amica sorella e sole illuminando
e la via dell’anima di chi sto amando
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato i piedi che sto trascinando
con loro ho guardato cittadine e fango
laghi neve deserti monti e mare caldo
e casa tua il tuo vicolo la strada e il parco
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato il cuore che agita il suo passo
quando vedo il frutto del pensiero umano
quando vedo il bene, dal male lontano
quando vedo in fondo al tuo sguardo chiaro
Grazie alla vita che mi ha dato tanto
mi ha dato il sorriso e mi ha dato il pianto
così io distinguo bacio da cuore infranto
i 2 materiali che fanno il mio canto
ed il vostro canto che è lo stesso canto
e il canto di tutti che è il mio stesso canto
Violeta PARRA
Dal newsgroup it.fan.musica.guccini, 28 dicembre 2001:
Laure Murat-Proust, romanzo familiare- Sellerio Editore-
Descrizione del libro di Laure Murat– «Come fa Proust ad affascinare i suoi lettori, senza distinzione di classe, raccontando microscopiche peripezie dell’alta società parigina?». E perché la ricorrente lettura della Recherche, l’analisi proustiana dell’aristocrazia «faceva luce sul mio ambiente d’origine più dell’esperienza personale vissuta dall’interno»?
Due domande che si inseguono e si scambiano i ruoli dentro le pagine di questo romanzo familiare: ricostruzione di memorie e sentimenti legati a un’infanzia-adolescenza cresciuta tra gente titolata, domestici e governanti, in cui quello che si doveva imparare non poteva essere insegnato. Una ricostruzione che è insieme altro. Senza netto confine, si mescola con l’analisi del metodo Proust, il meccanismo crudele messo in atto per muovere un mondo di pure forme in cui ogni personaggio vivo che c’è dietro alla fine si rivela tutto il contrario di come sembrava («Dietro il sadico, si scopre il tenero. Dietro l’uomo di mondo, lo zotico. Dietro una leggendaria duchessa, una donna ordinaria. Dietro un uomo virile, un effeminato». Insomma: dietro il nobile, l’ignobile).
Laure Murat-Proust, romanzo familiare
E si mescola ancora con un’esplorazione sociale, eseguita indirettamente sprofondando negli intrecci tra persone vere e personaggi inventati che legavano i fili della grande ragnatela alla famiglia principesca dell’autrice.
L’autrice, Laure Murat, figlia di un discendente diretto del maresciallo napoleonico e re di Napoli e di una duchessa di altissimo lignaggio, dichiara di avere avuto con le sue origini e con i suoi anni d’infanzia un rapporto ambiguo e irrisolto di repulsione e fascino. Una forma di alienazione dal passato, aggravata dal fatto che la sua omosessualità risultava inaccettabile sia in famiglia sia nel suo ambiente sociale («Proust è stato il primo a prendere sul serio l’omosessualità»). La trentennale lettura e rilettura della Recherche le ha fornito una via di disalienazione. E il percorso seguito, che questo libro racconta, è una storia privata come ogni memoir. Ma porta a mostrare in che cosa consiste «il potere liberatorio» della grande cattedrale di Proust: fare di ognuno, «di quest’essere plurale, misterioso, un soggetto universale».
Traduzione dal francese di Marina Di Leo, Giulio Sanseverino
Titolo originale: Proust, roman familial
Con la sua prosa scorrevole e piena di riferimenti letterari, Proust, romanzo familiare è al contempo un saggio colto e un memoir, a metà tra Annie Ernaux ed Emmanuel Carrère. Ma è anche, e soprattutto, un inno al potere emancipatorio della letteratura e un invito a (ri)leggere alcune tra le pagine più importanti della letteratura mondiale.
Finalista al Premio Goncourt e vincitore del Prix Médicis Essai 2023.
«Uno dei migliori libri su Proust che si possano sognare».
Le Monde des Livres
18Febbraio2025
La memoria n. 1332
304 pagine
EAN 9788838947803
Formato e-book: epub
Protezione e-book: acs4
Autore
Laure Murat (Parigi, 1967), storica e scrittrice, insegna Storia della letteratura alla UCLA di Los Angeles. Con La casa del dottor Blanche (2001) ha vinto il Premio Goncourt per le biografie.
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie-
Velletri-Sabato 22 e domenica 23 marzo si svolgerà a Velletri la 29° Festa delle Camelie e per l’occasione i Musei Civici di Velletri: Museo Archeologico O.Nardini, Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani e Area Archeologica delle SS. Stimmate, apriranno entrambi i giorni dalle ore 10.00 alle ore 19.00.
La giornata di sabato 22 inizierà alle ore 1o.30 con il laboratorio dedicato ai bambini dai 3 ai 5 anni Fiori tra i capelli, in cui i piccoli dopo una lettura animata sul tema dell’amicizia e dell’inclusione, creeranno un copricapo di fiori di carta da indossare durante la festa. Lo stesso si ripeterà domenica 23 alle ore 15.00 per bambini dai 6 anni in su.
Alle 12.00 sia di sabato 22 che di domenica 23 partirà una visita guidata all’Area Archeologica delle SS. Stimmate, mentre domenica 23 alle 18.00 accompagneremo i visitatori al Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani alla scoperta di fossili e di altre testimonianze ritrovate nel nostro territorioper raccontare la Preistoria; sabato 22 alle 15.00 ripeteremo un’esperienza che ha già avuto grande successo: In Con-Tatto con la Preistoria, una visita guidata tattile in cui i partecipanti grandi e piccoli, tutti bendati, potranno toccare fossili, rocce e altri oggetti risalenti a migliaia di anni fa.
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
I fiori raccontano sarà un itinerario nel Centro storico tra chiese, strade e musei che avrà come tappa sabato 22 la Chiesa di Santa Lucia V.M. mentre domenica 23 si fermerà alla Chiesa di Sant’Antonio Abate per cercare in entrambi gli itinerari i fiori nascosti negli angoli di Velletri.
Sabato 22 alle ore 16.00 il percorso partirà da Piazza Martiri di Pratolungo, dove si trova il Giardino delle camelie mentre domenica 23, per lo stesso orario, l’appuntamento sarà davanti alla fontana di Piazza Mazzini. La direttrice museale, Raffaella Silvestri, accoglierà i visitatori sia sabato che domenica alle ore 17.00 nell’iniziativa Il tè delle camelie. Tra le Metamorfosi di Ovidio e le rappresentazioni nell’arte per scoprire come i reperti esposti nel Museo Archeologico parlino di mitologia ancora oggi tra letteratura e arte.
Sabato 22 alle ore 18.00 all’Area archeologica delle SS.Stimmate verrà presentato il libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque, in presenza dell’autore Manlio Lilli e del Prof. Marco Nocca.
Domenica 23 alle 10.30 al Museo di Geopaleontologia e Preistoria e nella Sala Conferenze dei musei il pubblico adulto potrà imparare a preparare degli oleoliti con piante officinali spontanee che si trovano nelle aree naturali dei dintorni, sotto la guida di una biologa con specializzazione in botanica e abilitazione professionale. I prodotti realizzati saranno destinati ad un utilizzo ad uso topico per migliorare il benessere della pelle, dei capelli o come olio da massaggio. Tutto il materiale necessario verrà fornito insieme ad un taccuino per le ricette.
Alle ore 15.00 di domenica 23 partirà da Piazza Mazzini la Riproposizione della festa romana delle Floralia a cura del Gruppo Archeologico Veliterno A.p.s. E di Il Flauto Magico A.p.s. che si concluderà di fronte all’Area archeologica delle SS. Stimmate.
In occasione della Festa delle Camelie il biglietto di ingresso ai Musei sarà ridotto
(3,00 € per l’ingresso a un museo; 5,00 € per l’ingresso nei due musei; 1,00 € per l’ingresso all’Area archeologica).
Visite guidate e In Con-Tatto con la Preistoria
Durata: un’ora circa.
€ 4,00 a partecipante
Prenotazione consigliata
Itinerario I fiori raccontano
Durata: un’ora e mezza circa.
gratuito
Prenotazione obbligatoria.
Laboratorio Fiori tra I capelli
Durata: un’ora e mezza circa.
€ 3,00 a partecipante.
Prenotazione obbligatoria.
Il tè delle camelie
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Prenotazione consigliata
Preparazione di oleoliti e guida al riconoscimento di piante officinali
Durata: due ore circa.
€ 25,00: 1 persona; € 40,00: 2 persone
Itinerario Riproposizione della festa romana delle Floralia
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Presentazione del libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque
Durata: un’ora circa
Gratuito
Per informazioni e prenotazioni:
06 9615 8268 – 3441547465 – museicivicivelletri@gmail.com
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
-Mario La Cava – Leonardo Sciascia, Lettere dal centro del mondo 1951-1988-
-Recensione di Ippolita Luzzo-
Ippolita Luzzo:“Nella primavera del 1951 Mario La Cava ha 44 anni e Leonardo Sciascia ha compiuto 30 anni. L’inizio di una corrispondenza durante la quale Sciascia scrive: “Le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità a cui aspiravo”. Il libro delle 362 lettere che Mario La Cava e Leonardo Sciascia si scrissero dal ‘51 all’‘88, anno della morte di La Cava, si deve alla cura con cui i due interlocutori seppero conservare il loro dialogo, ed all’intelligenza degli eredi che hanno acconsentito che si potesse pubblicare la raccolta in un libro.
Leonardo Sciascia
I curatori del libro, Milly Curcio e Luigi Tassoni, hanno scelto il titolo, spiegando che “il centro del mondo è il cuore dell’invenzione creativa di uno scrittore, il luogo da cui parte e a cui ritorna comunque costantemente, quel nocciolo che non smette di far ribollire il suo relazionarsi al mondo e, insieme, l’invenzione del proprio mondo, e la chiave o prospettiva da cui si guardano le cose da fuori”.
Le lettere iniziano con la prima edizione del libretto I Caratteri di Mario La Cava, pubblicato nel 1939, e che ha visto la seconda edizione nel 1953. Sono mini storie brevi e rapide, paradossali a volte, e c’è nella lettera di La Cava a Sciascia la gioia di aver trovato in Sciascia un lettore e un amico. Nello scambio delle lettere la lettura diventa essenziale, lo scambio di manoscritti, e insieme la difficoltà di sentirsi isolati. La Cava a Bovalino trova in Sciascia un amico, prima che uno scrittore.
Ad unire i due scrittori la loro esperienza nella rivista “Galleria” fondata nel 1949 da Sciascia e diretta da Sciascia fino al ’59.
La Cava parteciperà con recensioni di Vittorini, Pirandello, Thomas Mann, e altri, e ci sarà testimonianza nelle lettere degli scambi fruttuosi e della stima vicendevole con cui accompagnano uno il lavoro dell’altro.
Intanto Sciascia nel 1961 diventerà un autore di grande successo di pubblico e di critica con Il giorno della civetta e La Cava nel 1958 pubblicherà con Einaudi Le memorie del vecchio maresciallo con presentazione di Vittorini, in quarta di copertina.
Mi fermo su La Cava in questo mio risvolto di copertina, su un autore rimasto in Calabria, a Bovalino, e della Calabria ha colto la strettoia con I racconti di Bovalino pubblicato postumo da Rubbettino.
Quello che trovo di grande attualità nelle lettere è il grande lavorio, le attese, i dubbi, l’interrogarsi, sia sul lavoro proprio che su quello degli altri, il voler trovare quella relazione con il mondo letterario, un mondo a parte, e da quel mondo sentirsi parte e nello stesso tempo sentirsi messo da parte. Mario La Cava ad un certo punto in una lettera simpaticissima si meraviglia con Sciascia, raccontandogli che una scrittrice di romanzi si sia rivolto a lui per essere raccomandata affinché Sciascia legga il suo manoscritto .“Curioso che nel mondo ci sono persone che si rivolgono proprio a me per le raccomandazioni!” A pagina 267. E questa sua meraviglia ci fa capire quanto lo scrittore sia lontano dalle raccomandazioni e quanto sia lontano dal pensare di far parte di quel mondo. Nell’onestà vera che sancisce il rapporto dei due scrittori noi tutti ancora possiamo leggere Lettere al Centro del mondo con la certezza di Sciascia: “Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano”
Fonte- Giacomo Verri Libri-il blog di chi ama i libri e la buona musica
Guido Harari -Remain in light- 50 anni di fotografie e incontri
Editore Rizzoli Lizard
Descrizione del libro di Guido Harari -Rita Levi-Montalcini, Patti Smith, David Bowie, Umberto Eco, Vasco Rossi… L’elenco potrebbe andare avanti a lungo, perché queste sono solo alcune delle persone che Guido Harari ha ritratto in ben cinquant’anni di carriera, mezzo secolo che viene ora celebrato con questo prezioso volume di oltre quattrocento pagine. Una incredibile galleria di storie e immagini raccolte in un libro che è un vero e proprio condensato del talento, della visionarietà e dell’inguaribile curiosità che permeano tutti i lavori di Harari. Dopo “Una goccia di splendore”, dedicato alla memoria fotografica di De André, un altro appuntamento con uno dei più grandi maestri internazionali del ritratto.
Biografia di Guido Harari
Guido Harari (Il Cairo, 28 dicembre1952) è un fotografo e critico musicaleitaliano.Nei primi anni settanta ha avviato la duplice professione di fotografo e di giornalista musicale, contribuendo a porre le basi di un lavoro specialistico sino ad allora senza precedenti in Italia e collaborando con riviste come Ciao 2001, Giovani, Gong e Rockstar. Dagli anni novanta il suo raggio d’azione contempla anche l’immagine pubblicitaria, il ritratto istituzionale, il reportage a sfondo sociale e la grafica dei volumi da lui curati. Dal 1994 è membro dell’Agenzia Contrasto.
Di lui ha detto Lou Reed: “Sono sempre felice di farmi fotografare da Guido. So che le sue saranno immagini musicali, piene di poesia e di sentimento. Le cose che Guido cattura nei suoi ritratti vengono generalmente ignorate dagli altri fotografi. Considero Guido un amico, non un semplice fotografo”.
Di Fabrizio De André Harari è stato uno dei fotografi personali, con una collaborazione ventennale che include la copertina del disco In concerto, tratto dalla leggendaria tournée dell’artista genovese con la PFM nel 1979. Sul cantautore genovese Harari ha realizzato quattro fortunati volumi: E poi, il futuro (Mondadori 2001, con nota introduttiva di Fernanda Pivano), Una goccia di splendore (Rizzoli 2007, con nota introduttiva di Beppe Grillo), Evaporati in una nuvola rock insieme a Franz Di Cioccio sulla tournée con PFM (Chiarelettere, 2008) e Fabrizio De André. Sguardi randagi. Le fotografie di Guido Harari (Rizzoli, 2018). È stato inoltre uno dei curatori della grande mostra dedicata a De André da Palazzo Ducale, a Genova.
Tra le sue mostre Strange Angels, 2002/05, Wall Of Sound 2007/08/16/17/18, Sguardi randagi. Fabrizio De André fotografato da Guido Harari 2009/10 e l’antologica Remain In Light 2022/23.
Nel 2011 ha fondato ad Alba, dove risiede, la Wall Of Sound Gallery, galleria fotografica e casa editrice interamente dedicata alla musica.
2004. Fernanda Pivano. The Beat Goes On. Guido Harari (a cura di). Mondadori.
2005. Viaggio a Garessio. Studio Bibliografico Bosio Editore.
2006. The Blue Room. Galleria Arteutopia e HRR Edizioni.
2006. Vasco! Edel.
2007. Fabrizio De André. Una goccia di splendore. Un’autobiografia per parole e immagini a cura di Guido Harari. Nota di Beppe Grillo. Prefazione di Dori Ghezzi De André. Rizzoli.
2008. Fabrizio De André & PFM. Evaporati in una nuvola rock. A cura di Guido Harari e Franz Di Cioccio. Chiarelettere.
2009. Mia Martini. L’ultima occasione per vivere. A cura di Menico Caroli e Guido Harari. Nota di Charles Aznavour, Introduzione di Giuseppe Berté. TEA.
2010. Giorgio Gaber. L’illogica utopia. Guido Harari (a cura di). Nota di Luigi Zoja. Chiarelettere.
2010. Sandro Chia. I guerrieri in San Domenico, HRR Edizioni.
2011. Quando parla Gaber. Chiarelettere.
2012. Tom Waits. Le fotografie di Guido Harari. TEA.
2012. Vinicio Capossela. Le fotografie di Guido Harari. TEA.
2014. Kate Bush, The Photography of Guido Harari. Wall Of Sound Gallery.
2015. Pier Paolo Pasolini. Bestemmia, Chiarelettere.
2015. Sonica. Guido Harari / Ravello. Wall Of Sound Gallery.
2016. The Kate Inside, Wall Of Sound Gallery.
2016. Wall of Sound. The Photography of Guido Harari, catalogo della mostra, Rockheim Museum.
2017. Wall of Sound 10, Wall Of Sound Editions.
2018. Fabrizio De André. Sguardi randagi. Le fotografie di Guido Harari, Rizzoli.
2018. Wall of Sound, Silvana Editoriale.
2021. Muse, catalogo della mostra, Locus festival, Wall Of Sound Editions.
2022. Remain In Light. 50 anni di fotografie e incontri. Rizzoli Lizard.
Credei ch’al tutto fossero
In me, sul fior degli anni,
Mancati i dolci affanni
Della mia prima età:
I dolci affanni, i teneri
Moti del cor profondo,
Qualunque cosa al mondo
Grato il sentir ci fa.
Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
L’amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò!
Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita;
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;
Deserto il dì; la tacita
Notte più sola e bruna;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.
Pur di quel pianto origine
Era l’antico affetto:
Nell’intimo del petto
Ancor viveva il cor.
Chiedea l’usate immagini
La stanca fantasia;
E la tristezza mia
Era dolore ancor.
Fra poco in me quell’ultimo
Dolore anco fu spento,
E di più far lamento
Valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
Non dimandai conforto:
Quasi perduto e morto,
Il cor s’abbandonò.
Qual fui! quanto dissimile
Da quel che tanto ardore,
Che sì beato errore
Nutrii nell’alma un dì!
La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:
Non all’autunno pallido
In solitaria villa,
La vespertina squilla,
Il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invan sonò la valle
Del flebile usignol.
E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi de’ gentili amanti
Primo, immortale amor,
Ed alla mano offertami
Candida ignuda mano,
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.
D’ogni dolcezza vedovo,
Tristo; ma non turbato,
Ma placido il mio stato,
Il volto era seren.
Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.
Qual dell’età decrepita
L’avanzo ignudo e vile,
Io conducea l’aprile
Degli anni miei così:
Così quegl’ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi,
Che sì fugaci e brevi
Il cielo a noi sortì.
Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
Questa che sento in me?
Moti soavi, immagini
Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negate
Questo mio cor non è?
Siete pur voi quell’unica
Luce de’ giorni miei?
Gli affetti ch’io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s’ai verdi margini.
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar?
Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L’ingenita virtù;
Non l’annullàr: non vinsela
Il fato e la sventura;
Non con la vista impura
L’infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch’ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.
Che non del ben sollecita
Fu, ma dell’esser solo:
Purchè ci serbi al duolo,
Or d’altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
Il misero non trova;
Che lui, fuggendo, a prova
Schernisce ogni mortal.
Che ignora il tristo secolo
Gl’ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L’ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano,
Che in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla:
Non chiude una favilla
Quel bianco petto in se.
Anzi d’altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d’un celeste foco
Disprezzo è la mercè.
Pur sento in me rivivere
Gl’inganni aperti e noti
E de’ suoi proprii moti
Si meraviglia il sen.
Da te, cor mio, quest’ultimo
Spirto, e l’ardor natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.
Mancano, il sento, all’anima
Alta, gentile e pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi al fato,
Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.
La vita solitaria
La mattutina pioggia, allor che l’ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l’aura fresca.
E le ridenti piagge benedico:
Poichè voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benchè scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl’infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s’apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s’accinge all’opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m’accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D’estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L’erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all’opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L’arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L’orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l’acciaro
Del pallido ladron ch’a teso orecchio
Il fragor delle rote e de’ cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de’ piedi
Su la tacita via; poscia improvviso
Col suon dell’armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi
M’apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell’etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe’ boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l’erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m’avanza.
Scherzo
Quando fanciullo io venni
A pormi con le Muse in disciplina
L’una di quelle mi pigliò per mano;
E poi tutto quel giorno
La mi condusse intorno
A veder l’officina.
Mostrommi a parte a parte
Gli strumenti dell’arte,
E i servigi diversi
A che ciascun di loro
S’adopra nel lavoro
Delle prose e de’ versi.
Io mirava, e chiedea:
Musa, la lima ov’è? Disse la Dea:
La lima è consumata; or facciam senza.
Ed io, ma di rifarla
Non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca?
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
Palinodia del Marchese Gino Capponi,
Il sempre sospirar nulla rileva.
Petrarca
Errai, candido Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga errai. Misera e vana
Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
La stagion ch`or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata
Prole mortal, se dir si dee mortale
L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno.
Dall’Eden odorato in cui soggiorna,
Rise l’alta progenie, e me negletto
Disse, o mal venturoso, e di piaceri
O incapace o inesperto, il proprio fato
Creder comune, e del mio mal consorte
L’umana specie. Alfin per entro il fumo
De’ sígari onorato, al romorio
De’ crepitanti pasticcini, al grido
Militar, di gelati e di bevande
Ordinator, fra le percosse tazze
E i branditi cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi
La pubblica letizia, e le dolcezze
Del destino mortal. Vidi l’eccelso
Stato e il valor delle terrene cose,
E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura.
Nè men conobbi ancor gli studi e l’opre
Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto
Saver del secol mio. Nè vidi meno
Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo,
E da Boston a Goa, correr dell’alma
Felicità su l’orme a gara ansando
Regni, imperi e ducati; e già tenerla
O per le chiome fluttuanti, o certo
Per l’estremo del boa. Così vedendo,
E meditando sovra i larghi fogli
Profondamente, del mio grave, antico
Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.
Aureo secolo omai volgono, o Gino,
I fusi delle Parche. Ogni giornale,
Gener vario di lingue e di colonne,
Da tutti i lidi lo promette al mondo
Concordemente. Universale amore,
Ferrate vie, moltiplici commerci,
Vapor, tipi e choléra i più divisi
Popoli e climi stringeranno insieme:
Nè maraviglia fia se pino o quercia
Suderà latte e mele, o s’anco al suono
D’un walser danzerà. Tanto la possa
Infin qui de’ lambicchi e delle storte,
E le macchine al cielo emulatrici
Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
Che seguirà; poichè di meglio in meglio
Senza fin vola e volerà mai sempre
Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.
Ghiande non ciberà certo la terra
Però, se fame non la sforza: il duro
Ferro non deporrà. Ben molte volte
Argento ed or disprezzerà, contenta
A polizze di cambio. E già dal caro
Sangue de’ suoi non asterrà la mano
La generosa stirpe: anzi coverte
Fien di stragi l’Europa e l’altra riva
Dell’atlantico mar, fresca nutrice
Di pura civiltà, sempre che spinga
Contrarie in campo le fraterne schiere
Di pepe o di cannella o d’altro aroma
Fatal cagione, o di melate canne,
O cagion qual si sia ch’ ad auro torni.
Valor vero e virtù, modestia e fede
E di giustizia amor, sempre in qualunque
Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
Da’ comuni negozi, ovvero in tutto
Sfortunati saranno, afflitti e vinti:
Perchè diè lor natura, in ogni tempo
Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,
Con mediocrità, regneran sempre,
A galleggiar sortiti. Imperio e forze,
Quanto più vogli o cumulate o sparse,
Abuserà chiunque avralle, e sotto
Qualunque nome. Questa legge in pria
Scrisser natura e il fato in adamante;
E co’ fulmini suoi Volta nè Davy
Lei non cancellerà, non Anglia tutta
Con le macchine sue, nè con un Gange
Di politici scritti il secol novo.
Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse
In arme tutti congiurati i mondi
Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
Il debole, cultor de’ ricchi e servo
Il digiuno mendico, in ogni forma
Di comun reggimento, o presso o lungi
Sien l’eclittica o i poli, eternamente
Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
E la face del dì non vengon meno.
Queste lievi reliquie e questi segni
Delle passate età, forza è che impressi
Porti quella che sorge età dell’oro:
Perchè mille discordi e repugnanti
L’umana compagnia principii e parti
Ha per natura; e por quegli odii in pace
Non valser gl’intelletti e le possanze
Degli uomini giammai, dal dì che nacque
L’inclita schiatta, e non varrà, quantunque
Saggio sia nè possente, al secol nostro
Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
Fia la mortal felicità. Più molli
Di giorno in giorno diverran le vesti
O di lana o di seta. I rozzi panni
Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
Chiuderanno in coton la scabra pelle,
E di castoro copriran le schiene.
Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
Certamente a veder, tappeti e coltri,
Seggiole, canapè, sgabelli e mense,
Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
E nove forme di paiuoli, e nove
Pentole ammirerà l’arsa cucina.
Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
Da Londra a Liverpool, rapido tanto
Sarà, quant’altri immaginar non osa,
Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie
Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso
Dovea, già son molt’anni. Illuminate
Meglio ch’or son, benchè sicure al pari,
Nottetempo saran le vie men trite
Delle città sovrane, e talor forse
Di suddita città le vie maggiori.
Tali dolcezze e sì beata sorte
Alla prole vegnente il ciel destina.
Fortunati color che mentre io scrivo
Miagolanti in su le braccia accoglie
La levatrice! a cui veder s’aspetta
Quei sospirati dì, quando per lunghi
Studi fia noto, e imprenderà col latte
Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
Quanto peso di sal, quanto di carni,
E quante moggia di farina inghiotta
Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
In ciascun anno partoriti e morti
Scriva il vecchio prior: quando, per opra
Di possente vapore, a milioni
Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
E credo anco del mar gl’ immensi tratti,
Come d’aeree gru stuol che repente
Alle late campagne il giorno involi,
Copriran le gazzette, anima e vita
Dell’universo, e di savere a questa
Ed alle età venture unica fonte!
Quale un fanciullo, con assidua cura
Di fogliolini e di fuscelli, in forma
O di tempio o di torre o di palazzo,
Un edificio innalza; e come prima
Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli
Per novo lavorio son di mestieri;
Così natura ogni opra sua, quantunque
D’alto artificio a contemplar, non prima
Vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
Le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
Eternamente, il mortal seme accorre
Mille virtudi oprando in mille guise
Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
La natura crudel, fanciullo invitto,
Il suo capriccio adempie, e senza posa
Distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
Di mali immedicabili e di pene
Preme il fragil mortale, a perir fatto
Irreparabilmente: indi una forza
Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
Essa indefatigata; insin ch’ei giace
Alfin dall’empia madre oppresso e spento.
Queste, o spirto gentil, miserie estreme
Dello stato mortal; vecchiezza e morte,
Ch’han principio d’allor che il labbro infante
Preme il tenero sen che vita instilla;
Emendar, mi cred’io, non può la lieta
Nonadecima età più che potesse
La decima o la nona, e non potranno
Più di questa giammai l’età future.
Però, se nominar lice talvolta
Con proprio nome il ver, non altro in somma
Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
E non pur ne’ civili ordini e modi,
Ma della vita in tutte l’altre parti,
Per essenza insanabile, e per legge
Universal, che terra e cielo abbraccia,
Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi
Spirti del secol mio: che, non potendo
Felice in terra far persona alcuna,
L’uomo obbliando, a ricercar si diero
Una comun felicitade; e quella
Trovata agevolmente, essi di molti
Tristi e miseri tutti, un popol fanno
Lieto e felice: e tal portento, ancora
Da pamphlets, da riviste e da gazzette
Non dichiarato, il civil gregge ammira.
Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
Dell’età ch’or si volge! E che sicuro
Filosofar, che sapienza, o Gino,
In più sublimi ancora e più riposti
Subbietti insegna ai secoli futuri
Il mio secolo e tuo! Con che costanza
Quel che ieri schernì, prosteso adora
Oggi, e domani abbatterà, per girne
Raccozzando i rottami, e per riporlo
Tra il fumo degl’incensi il dì vegnente!
Quanto estimar si dee, che fede inspira
Del secol che si volge, anzi dell’anno,
Il concorde sentir! con quanta cura
Convienci a quel dell’anno, al qual difforme
Fia quel dell’altro appresso, il sentir nostro
Comparando, fuggir che mai d’un punto
Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
Se al moderno si opponga il tempo antico,
Filosofando il saper nostro è scorso!
Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco
Di poetar maestro, anzi di tutte
Scienze ed arti e facoltadi umane,
E menti che fur mai, sono e saranno,
Dottore, emendator, lascia, mi disse,
I propri affetti tuoi. Di lor non cura
Questa virile età, volta ai severi
Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
Esplorar che ti val? Materia al canto
Non cercar dentro te. Canta i bisogni
Del secol nostro, e la matura speme.
Memorande sentenze! ond’io solenni
Le risa alzai quando sonava il nome
Della speranza al mio profano orecchio
Quasi comica voce, o come un suono
Di lingua che dal latte si scompagni.
Or torno addietro, ed al passato un corso
Contrario imprendo, per non dubbi esempi
Chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi,
Non contraddir, non repugnar, se lode
Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
Adulando ubbidir: così per breve
Ed agiato cammin vassi alle stelle.
Ond’io, degli astri desioso, al canto
Del secolo i bisogni omai non penso
Materia far; che a quelli, ognor crescendo,
Provveggono i mercati e le officine
Già largamente; ma la speme io certo
Dirò, la speme, onde visibil pegno
Già concedon gli Dei; già, della nova
Felicità principio, ostenta il labbro
De’ giovani, e la guancia, enorme il pelo.
O salve, o segno salutare, o prima
Luce della famosa età che sorge.
Mira dinanzi a te come s’allegra
La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
Delle donzelle, e per conviti e feste
Qual de’ barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta
Dalle foci del Tago all’ Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
Gl’ispidi genitori, o prole infante,
Eletta agli aurei dì: nè ti spauri
L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
È di cotanto favellare il frutto;
Veder gioia regnar, cittadi e ville,
Vecchiezza e gioventù del par contente,
E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.
Inno ai patriarchi
E voi de’ figli dolorosi il canto,
Voi dell’umana prole incliti padri,
Lodando ridirà; molto all’eterno
Degli astri agitator più cari, e molto
Di noi men lacrimabili nell’alma
Luce prodotti. Immedicati affanni
Al misero mortal, nascere al pianto,
E dell’etereo lume assai più dolci
Sortir l’opaca tomba e il fato estremo,
Non la pietà, non la diritta impose
Legge del cielo. E se di vostro antico
Error che l’uman seme alla tiranna
Possa de’ morbi e di sciagura offerse,
Grido antico ragiona, altre più dire
Colpe de’ figli, e irrequieto ingegno
E demenza maggior l’offeso Olimpo
N’armaro incontra, e la negletta mano
Dell’altrice natura; onde la viva
Fiamma n’increbbe, e detestato il parto
Fu del grembo materno, e violento
Emerse il disperato Erebo in terra.
Tu primo il giorno, e le purpuree faci
Delle rotanti sfere, e la novella
Prole de’ campi, o duce antico e padre
Dell’umana famiglia, e tu l’errante
Per li giovani prati aura contempli:
Quando le rupi e le deserte valli
Precipite l’alpina onda feria
D`inudito fragor; quando gli ameni
Futuri seggi di lodate genti
E di cittadi romorose, ignota
Pace regnava; e gl’inarati colli
Solo e muto ascendea l’aprico raggio
Di febo e l`aurea luna. Oh fortunata,
Di colpe ignara e di lugubri eventi,
Erma terrena sede! Oh quanto affanno
Al gener tuo, padre infelice, e quale
D’amarissimi casi ordine immenso
Preparano i destini! Ecco di sangue
Gli avari colti e di fraterno scempio
Furor novello incesta, e le nefande
Ali di morte il divo etere impara.
Trepido, errante il fratricida, e l’ombre
Solitarie fuggendo e la secreta
Nelle profonde selve ira de’ venti,
Primo i civili tetti, albergo e regno
Alle macere cure, innalza; e primo
Il disperato pentimento i ciechi
Mortali egro, anelante, aduna e stringe
Ne’ consorti ricetti: onde negata
L’improba mano al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
Scellerate occupò, ne’ corpi inerti
Domo il vigor natio. languide, ignave
Giacquer le menti; e servitù le imbelli
Umane vite, ultimo danno, accolse.
E tu dall’etra infesto e dal mugghiante
Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
Scampi l’iniquo germe, o tu cui prima
Dall’aer cieco e da’ natanti poggi
Segno arrecò d’instaurata spene
La candida colomba, e delle antiche
Nubi l`occiduo Sol naufrago uscendo,
L’atro polo di vaga iri dipinse.
Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi
Studi rinnova e le seguaci ambasce
La riparata gente. Agl’inaccessi
Regni del mar vendicatore illude
Profana destra, e la sciagura e il pianto
A novi liti e nove stelle insegna.
Or te, padre de’ pii, te giusto e forte,
E di tuo seme i generosi alunni
Medita il petto mio. Dirò siccome
Sedente, oscuro, in sul meriggio all’ombre
Del riposato albergo, appo le molli
Rive del gregge tuo nutrici e sedi,
Te de’ celesti peregrini occulte
Beàr l’eteree menti; e quale, o figlio
Della saggia Rebecca, in su la sera,
Presso al rustico pozzo e nella dolce
Di pastori e di lieti ozi frequente
Aranitica valle, amor ti punse
Della vezzosa Labanide: invitto
Amor, ch’a lunghi esigli e lunghi affanni
E di servaggio all’odiata soma
Volenteroso il prode animo addisse.
Fu certo, fu (nè d’error vano e d’ombra
L’aonio canto e della fama il grido
Pasce l’avida plebe) amica un tempo
Al sangue nostro e dilettosa e cara
Questa misera piaggia, ed aurea corse
Nostra caduca età. Non che di latte
Onda rigasse intemerata il fianco
Delle balze materne, o con le greggi
Mista la tigre ai consueti ovili
Nè guidasse per gioco i lupi al fonte
Il pastorel; ma di suo fato ignara
E degli affanni suoi, vota d’affanno
Visse l’umana stirpe; alle secrete
Leggi del cielo e di natura indutto
Valse l’ameno error, le fraudi, il molle
Pristino velo; e di sperar contenta
Nostra placida nave in porto ascese.
Tal fra le vaste californie selve
Nasce beata prole, a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le membra
Fera tabe non doma; e vitto il bosco,
Nidi l’intima rupe, onde ministra
L’irrigua valle, inopinato il giorno
Dell’atra morte incombe. Oh contra il nostro
Scelerlato ardimento inermi regni
Della saggia natura! I lidi e gli antri
E le quiete selve apre l’invitto
Nostro furor; le violate genti
Al peregrino affanno, agl’ignorati
Desiri educa; e la fugace, ignuda
Felicità per l’imo sole incalza.
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina – Livia (così la chiamavano tutti, ma al Battesimo era Oliva Ulpia Candida) Pietrantoni nacque a Pozzaglia Sabina, in provincia di Rieti e diocesi di Tivoli, il 27 marzo 1864. Era la seconda degli undici figli di Francesco Pietrantoni e Caterina Costantini. Già nell’infanzia si sentì attratta dalla preghiera e dalla solitudine: amava spesso andare a pregare in una cappellina in località Rifolta e in altre chiese del suo paese. Iniziò a lavorare prestissimo: prima dei dieci anni contribuì ai lavori di costruzione della strada da Poggio Moiano a Orvinio, portando secchielli di ghiaia. Tra i quattordici e i quindici anni, invece, raccolse le olive nelle campagne dei dintorni di Tivoli. Allo stesso tempo, aiutava in famiglia e curava la nonna e il padre, infermo a letto. Nel tempo libero, visitava gli anziani di Pozzaglia.
Sant’Agostina Pietrantoni-Cappella Ospedale Spallanzani-Roma-Foto di Franco Leggeri
Respinse almeno due proposte di matrimonio, ma solo a uno zio, fra Matteo, confidò che avrebbe voluto farsi religiosa e dedicarsi al servizio dei malati, anche lavorando giorno e notte. Il parente cercò una congregazione adatta a lei e individuò le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret. Il 22 marzo 1886 Livia arrivò alla Curia generalizia delle suore per il postulato, mentre il 13 agosto 1887 vestì l’abito religioso, cambiando nome in suor Maria Agostina. Fu immediatamente impegnata come infermiera nell’ospedale Santo Spirito di Roma, nella corsia per i bambini. Dal 1889 al 1894 fu in servizio tra i tubercolotici: contrasse lei stessa la malattia, ma domandò di restare in quella corsia.
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina Sant’Agostina Pietrantoni : una santa della Sabina-Mosaico Policlinico Umberto I-Roma-Foto di Franco Leggeri
Uno dei malati, Giuseppe Romanelli, la minacciava di continuo. I superiori le raccomandarono di stare attenta, ma suor Agostina sentiva di dover proseguire ad accudirlo. Romanelli fu espulso dall’ospedale e cominciò a maturare pensieri di vendetta, specie contro la religiosa. Approfittando dell’orario di visita, il 13 novembre 1894 l’aggredì, pugnalandola alle spalle. Alla consorella che la soccorse e che le domandò se lo perdonava, suor Agostina rispose con un cenno e un sorriso, poi morì.Beatificata il 12 novembre 1972 dal papa san Paolo VI, è stata canonizzata il 18 aprile 1999 da san Giovanni Paolo II, ma la comunicazione fu data alle suore il 20 maggio successivo. Il 29 aprile 2003 La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha emesso il Decreto con cui la Santa veniva nominata Patrona degli Infermieri italiani. I suoi resti mortali, che il 3 febbraio 1941 erano stati traslati nella cappella della Curia generalizia delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida, dal 14 novembre 2004 sono venerati nella cappella a lei dedicata della chiesa parrocchiale di San Nicola di Bari a Pozzaglia Sabina. La sua memoria liturgica cade il 13 novembre, giorno della sua nascita al Cielo, ma a Pozzaglia Sabina i festeggiamenti in suo onore sono stati spostati alla seconda domenica di settembre.
A prescindere dal modo in cui è stata riconosciuta la sua santità, suor Agostina ha vissuto un Vangelo di amore e di servizio, sin dalla più tenera età. Non è un luogo comune, ma un fatto accertato dal delinearsi della sua biografia.
Aver scelto di essere una figlia spirituale di santa Giovanna Antida e, per traslato, di san Vincenzo De Paoli (sotto la cui protezione la fondatrice mise la congregazione da subito) le era sembrata una naturale conseguenza di quanto già compiva al suo paese. Inoltre, una Suora di Carità non dev’essere infatti solo piena di buona volontà, ma anche dotata di una certa resistenza fisica, dote di cui lei non era certo priva, se si pensa ai lavori pesanti che aveva affrontato quand’era ancora in famiglia.
Ammalandosi di tubercolosi, però, sembrava venire meno questo requisito. Lei mostrò, come già quando sosteneva le compagne nella raccolta delle olive, un carattere non meno tenace, chiedendo di restare tra i tubercolotici anche una volta guarita. Lì, però, trovò ugualmente la sua fine.
Le foto sono di Franco Leggeri-Biografia da Avvenire giornale della CEI
Sant’Agostina Pietrantoni:
Santa Agostina Pietrantoni: FIGLIA della SABINA
Il più antico ospedale di Roma, il Santo Spirito, si trova a pochi passi dal Vaticano. A pochi passi dal luogo dove furono giustiziati i primi martiri cristiani e lo stesso san Pietro. Tra queste mura sono passati grandi santi, per visitare e confortare gli ammalati: Filippo Neri, Carlo Borromeo, Giuseppe Calasanzio, Vincenzo Pallotti, Giovanni Bosco. E qui ha trovato la morte, e la gloria, una serva dei poveri, che il 18 aprile 1999 il Papa Giovanni Paolo II ha elevato all’onore degli altari e che la Conferenza Episcopale Italiana ha dichiarato Patrona degli Infermieri d’Italia, il 20 maggio 2003. Suor Agostina, al secolo Livia Pietrantoni, fu uccisa al Santo Spirito il mattino del 13 novembre 1894 da un malato di tubercolosi, Giuseppe Romanelli. Un episodio tragicamente casuale, all’apparenza. Il gesto di uno squilibrato, si direbbe. Ma per il popolo di Roma, che sa riconoscere i santi, non fu così, fin da subito.
Sant’Agostina Pietrantoni-Direzione Ospedale Spallanzani-Roma- -Foto di Franco
Il giorno delle esequie di suor Agostina a Roma si bloccò la circolazione. Ne dà notizia Il Messaggero del 16 novembre 1894: «Mai spettacolo più imponente fu visto in Roma. Fin dall’una di pomeriggio le adiacenze dell’ospedale di Santo Spirito e tutte le strade per le quali si credeva dovesse passare il corteo erano affollate di gente a segno di rendere difficoltosa la circolazione». Migliaia di persone si assieparono ai cigli delle strade, inginocchiandosi al passaggio della salma. «E non era la solita lunga fila di soldati allineati, la folla dell’ufficialità dai colori rari e smaglianti», commentava il cronista de Il Tempo: «Era il popolo tutto; era la Roma del popolo; era la gentile, caritatevole santa Roma che dava l’ultimo saluto a colei che, sacrificando palpiti, pensieri, vita si era data angelicamente alla carità, al sollievo dei miseri…».
Sul carro funebre spiccava la corona dei fiori della comunità israelitica, che recava scritto: «Alla martire della carità». Dietro il feretro, il professor Achille Ballori, direttore dell’ospedale, gran Maestro Aggiunto della Massoneria, che sarebbe morto anch’egli, assassinato, nel 1914, nell’atrio di Palazzo Giustiniani. Era stato lui a mettere in guardia suor Agostina da quel Romanelli, era stato lui a stilare il certificato di morte e a eseguire l’autopsia.
Suor Agostina era entrata in quell’ospedale il 13 agosto 1887, subito dopo aver ricevuto l’abito religioso. Aveva ventitré anni. Il professor Ballori assunse la direzione dell’ospedale tre anni dopo. Il suo primo atto era stato quello di espellere i 37 padri concezionisti che ne curavano l’assistenza spirituale. Erano usciti in processione una volta per sempre, croce in testa, cantando il Magnificat. Tolti i crocifissi e le immagini sacre, alle suore che restavano fu fatto divietodi pregare in pubblico, parlare di Dio agli ammalati, proporre loro i conforti religiosi. Era la Roma di Ernesto Nathan, gli anni dell’anticlericalismo aperto e ostinato. Sulla porta della corsia dei malati di tisi campeggiava la scritta: «Libertà di coscienza». Forse suor Agostina non capiva neppure il senso di quell’espressione.
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina
FIGLIA della SABINA
Non aveva ricevuto una grande istruzione. Seconda di undici figli, Livia Pietrantoni venivada un paese della Sabina, Pozzaglia, e aveva conseguito solo la licenza elementare. Non che non fosse portata allo studio, ma le difficoltà economiche della famiglia l’avevano presto condotta lontano dai banchi di scuola, sul cantiere della strada provinciale Orvino-Poggio Moiano allora in costruzione, dove trasportava secchi di ghiaia per una paga giornaliera di cinquanta centesimi. Vi lavorò a più riprese, tra i sette e gli undici anni, riuscendo nonostante questo a concludere il ciclo primario degli studi con buoni voti. La sua formazione religiosa era stata quella del catechismo e delle poche letture spirituali che orecchiava dal nonno Domenico. Il Rosario, la messa, i fiori che portava alla Madonna nella cappellina della Rifolta, poco fuori del paese. E il lavoro, fuori e dentro casa, dove papà Francesco era costretto dall’artrite e si doveva badare ai fratellini.
Sant’Agostina Pietrantoni-Esterno Cappella Ospedale Spallanzani-Roma- -Foto di Franco Leggeri
Dal CARATTERE DOLCE e FERMO
Ne era uscito un carattere forte, capace di esporsi per far allontanare un sorvegliante che importunava le sue compagne sul lavoro o per ottenere una riduzione di orario nel mese di maggio, in concomitanza con la funzione della sera nella chiesa parrocchiale. E una dolcezza ferma che le compagne e i ragazzi del luogo notavano. A suo riguardo un vecchio pastore dichiarò, dopo la sua morte: «Quando veniva sulla montagna a prendere il latte delle sue pecore, ci metteva addosso una strana confusione. Di parole e di frasi equivoche le nostre labbra ne pronunciano senza difficoltà. La presenza di Livia ci imponeva una soggezione e un rispetto che noi non sapevamo spiegarci».
Sant’Agostina Pietrantoni-Cappella Ospedale -Spallanzani-Roma-Foto di Franco Leggeri
Fra le SUORE della CARITÀ
La vocazione venne quasi per caso, con la visita in paese di uno zio, fra Matteo, che intuì la sua disposizione e scrisse per lei una lettera di presentazione alle Suore della Carità di santa Giovanna Antida Thouret. Si presentò, impacciata, a Roma, nel gennaio del 1886, e non fu ammessa. Ci volle l’intervento del parroco per farla accettare anche senza la “dote” che allora ogni novizia doveva portare con sé nell’Istituto. Il noviziato non le fu di peso, abituata com’era alla fatica quotidiana. All’ingresso ufficiale nella vita religiosa la maestra delle novizie rivolse loro un breve discorso: «Siete quaranta, come i martiri di Sebaste; che nessuna di voi esca dal numero. Forse qualcuna di voi vorrebbe imitarli nel martirio?».
Al Santo Spirito suor Agostina fu introdotta dapprima nella corsia dei bambini, senza trovare difficoltà, poiché era avvezza a badare ai fratelli fin dall’infanzia. Per questo fu mandata presto nel reparto degli adulti. Difficili, e a volte pericolosi. Il clima, come si è detto, non era favorevole alla presenza delle suore. Che dovevano spesso sopportare difficoltà, insulti, oscenità, impedimenti di ogni genere, e svolgere in silenzio il loro lavoro. Il dottor Buglioni, in servizio presso il Santo Spirito, ha lasciato di lei un ricordo: «Sempre dolcissima, si prestava a fare non solo quello che era suo dovere, ma anche di più e molto volentieri; pronta, umile, ilare». La disponibilità al servizio la espose nel 1889 al contagio di una malattia infettiva che la portò a un passo dalla morte. Durante la malattia, la consorella che la assisteva, aveva esclamato: «Se suor Agostina guarirà, la manderemo a fare l’infermiera nella corsia dei tubercolotici». E suor Agostina guarì, tra la meraviglia dei medici. Ci è rimasta la lettera con cui ne informa i familiari: «Miei carissimi genitori, qualche mese fa sono stata gravemente inferma; io dovevo morire ed essere tolta per sempre al vostro affetto, alla vostra tenerezza. In quale dolore sareste oggi immersi se ciò fosse avvenuto! Ma no, non vogliate affliggervi e con me date lode a Dio poiché al presente, per grazia speciale di Maria santissima non solo sono guarita, ma ho acquistato ancor più salute di prima. Date, dunque, lode al buon Dio e unitevi a me per ringraziarlo di tanto favore concessomi senza mio merito».
Gli ultimi cinque anni della vita li trascorse in corsia in mezzo ai malati di tubercolosi. La sua discrezione era riempita di gesti di carità. Un testimone oculare ricorda di lei: «Alla sera, prima di ritirarsi, non mancava di accostarsi al letto dei più gravi e dei più pericolosi; raccomodava loro i guanciali e diceva loro qualche buona parola. Accadeva talvolta che ammalati strani o scontenti le facessero qualche sgarbatezza, come gettare a terra il piatto delle vivande o perfino addosso a lei. Anche in questi casi suor Agostina non perdeva la pazienza e non li trattava severamente».
Un giorno, per aver sequestrato un coltello a un degente, fu aggredita e bastonata, tanto che le consorelle iniziarono a temere per lei. «Siamo molto esposte, ma il Signore ci custodisce» rispose suor Agostina «e perciò non dobbiamo trascurare il nostro dovere di carità per sfuggire il pericolo, dovesse pure costarci la vita… Dobbiamo aspettarci tutto. Gesù fu trattato così».
Riuscì col tempo a nascondere in uno sgabuzzino un’immagine della Vergine, che ogni giorno, come faceva da bambina alla cappellina della Rifolta, adornava di fiori. E di piccoli biglietti, alcuni dei quali si sono conservati: «Madonna Santissima,» leggiamo in uno di essi «consolate, calmate, convertite voi quell’infelice a cui io non posso parlare». Al letto dei moribondi, testimoniarono alcuni, «faceva la parte del sacerdote che non poteva essere chiamato. Vi passava ore ed ore ininterrottamente e il moribondo dimostrava di gradire la sua presenza, le sue parole di conforto, di pace, di ricordi e di persone care».
Anche quando contrasse la tubercolosi, poco prima di morire, chiese con insistenza alla Superiora il permesso di restare al suo posto: «Mi lasci tra i tubercolosi! Ci sono abituata. Se viene un’altra a sostituirmi, prende il male lei pure, e così siamo due vittime invece di una sola. Il Signore sa quello che conviene all’anima mia, e se vuole mi guarirà».
Giuseppe Romanelli era un pregiudicato, noto a Roma con il soprannome di “Pippo er Ciocco”. La polizia e la direzione dell’ospedale conoscevano le sue turbolenze e quando fu espulso dal reparto per intemperanze minacciò suor Agostina, che non c’entrava nulla, di vendicarsi su di lei. Scrisse su un biglietto: «Suor Agostina, non ti resta che un mese di vita, morirai ammazzata dalle mie stesse mani». La sera del 12 novembre 1894 le consorelle, preoccupate per la sua salute, l’avevano invitata a prendersi alcuni giorni di riposo. Suor Agostina rispose: «Dovremo stare coricate tanto tempo dopo la morte che ci conviene stare un po’ in piedi mentre siamo vive».
Sant’Agostina Pietrantoni-Cappella Ospedale Spallanzani-Roma-Foto di Franco Leggeri
“MADONNA MIA, AIUTATEMI!”
La mattina del 13 novembre l’assassino l’attese in un corridoio buio che portava verso la dispensa. Tre colpi alla spalla, al braccio sinistro e alla giugulare, prima che potesse rendersi conto di ciò che accadeva. Poi, dopo una colluttazione con l’unico testimone della scena, Romanelli le infisse il pugnale nel petto. «Madonna mia, aiutami», furono le sue ultime parole.
Eseguita l’autopsia, il professor Ballori constatando che non vi erano contrazioni di nervi o di cuore che indicassero qualsiasi sforzo di reazione osservò: «Suor Agostina si è fatta scannare come un agnello». Al processo contro il Romanelli il professore stesso testimoniò che suor Agostina non aveva mai “provocato” in alcun modo l’assassino né trasgredito le disposizioni che vietavano di parlare di religione.
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina
Nel Novecento si sono verificati numerosi casi di guarigioni scientificamente inspiegabili dovute all’intercessione di suor Agostina, che hanno portato, nel dopoguerra, all’apertura della causa di beatificazione e poi alla canonizzazione. Quando Paolo VI la proclamò beata, il 12 novembre 1972,la paragonò a una delle martiri più care al popolo romano, sant’Agnese: «Oggi è il giorno natalizio di una vergine: seguiamone la purezza. Oggi è il giorno natalizio di una martire: offriamo il nostro canto al Signore».
PIAF di Federico Malvaldi in scena domenica 23 marzo all’Altrove Teatro Studio-Roma-
Veronica Rivolta-Attrice
Roma-Domenica 23 marzo l’Altrove Teatro Studio accoglie PIAF di Federico Malvaldi, un viaggio nella vita della cantante de’ La Vie En Rose, con Veronica Rivolta. Una storia tormentata che inizia su un marciapiede di Parigi, davanti al numero 72 di rue Belville: meno di due chilometri dalla tomba del Père Lachaise dove adesso riposa in un trionfo di fiori.
Una donna troppo piccola, per una voce così grande. Questo dicevano di lei. E da questo aneddoto si sviluppa un racconto fatto di musica, amore, autodistruzione, disperazione e momenti di intensissima felicità.
Al centro di tutto, oltre alla vita, ci sono le sue canzoni più celebri – Je Ne Regrette Rien, Padam Padam, Hymne A L’Amour – e soprattutto la sua voce vibrante e potente, capace di raggiungere picchi di intensità così alti da dimenticare che il corpo che la contiene sta lentamente morendo a causa di un’esistenza sregolata. Un’esistenza che solo i più grandi e i più disperati si possono permettere di vivere.
PIAF non vuole essere uno spettacolo autobiografico, ma il tentativo di far continuare a vivere la grandezza di una donna e della sua voce, icona di Francia e del mondo intero: perché ancora oggi, in qualunque angolo del mondo ti trovi, quando senti gracchiare da un vecchio disco La Vie En Rose ti vedi apparire davanti le strade, i quartieri, le luci, i caffè di Parigi, e pensi che non si possa vivere altrove.
PIAF
di Federico Malvaldi
con Veronica Rivolta
regia Rivolta/Malvaldi
Domenica 23 marzo ore 17
Altrove Teatro Studio – Via Giorgio Scalia, 53 Roma
Biglietti: Intero 15€_ Ridotto 10€
Altrove Teatro Studio – Via Giorgio Scalia 53, Roma
Per informazioni e prenotazioni: telefono 3518700413, email ipensieridellaltrove@gmail.com
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L’inventore di libri Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo-Articolo di Alessandro Marzo Magno
L’inventore di libri Aldo Manuzio-Forse non lo sapete, ma il piccolo oggetto che avete in mano – così maneggevole, chiaramente stampato, dai caratteri eleganti, corredato da un frontespizio e da un indice – deve quasi tutto al genio di Aldo Manuzio, che cinque secoli fa ha rivoluzionato il modo di realizzare i libri e ha reso possibile il piacere di leggere. Benvenuti nel mondo del primo editore della storia.
Il libro – così come lo conosciamo ancora oggi – nasce a Venezia tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. Padre di questa invenzione è Aldo Manuzio. Nato a nel Lazio, transitato per Ferrara e per Carpi, dov’era docente dei principi Pio, approda ormai quarantenne a Venezia. La città in quegli anni è l’indiscussa capitale europea della stampa e così il precettore si trasforma in editore. Pubblica inizialmente grammatiche e testi in greco necessari per apprendere la lingua classica. Poi i suoi orizzonti si allargano: nel 1501 dà vita a una vera e propria rivoluzione, quella del libro tascabile. Se prima si leggeva per necessità (e lo si faceva a voce alta), da quel momento leggere diventa un piacere a cui dedicarsi nel silenzio dell’intimità. E non finisce qui. Manuzio, con il suo amico Pietro Bembo, importa nel volgare italiano i segni di interpunzione che erano utilizzati soltanto nel greco antico: accenti, apostrofi, virgole uncinate e punto e virgola. Quando muore, nel 1515, il mondo del libro è definitivamente cambiato. Alessandro Marzo Magno ricostruisce le tappe di una straordinaria carriera, nell’unico posto al mondo dove sarebbe stata possibile: Venezia.
L’autore è Alessandro Marzo Magno,veneziano per nascita e milanese per lavoro, si è laureato in Storia all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Giornalista, dopo essere stato per quasi dieci anni responsabile degli esteri del settimanale “Diario”, dirige il semestrale “Ligabue Magazine” e scrive nella pagina culturale del “Gazzettino”. Ha pubblicato libri di argomento storico, tra i quali L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (Garzanti 2012, più volte ristampato e tradotto in inglese, spagnolo, giapponese, coreano e cinese) e Missione grande bellezza. Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler (Garzanti 2017). Per Laterza è autore di L’inventore di libri. Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo (2020).
Edizione: 2020, III rist. 2021 Pagine: 224, ril. Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858141601 ISBN digitale: 9788858143636
L’inventore di libri Aldo Manuzio
Erasmo su Aldo-A chi con i libri lavora, di libri vive, i libri ama.
«È un’impresa erculea, per Ercole!»
Arthur Schopenhauer:”I libri sono compagni, insegnanti, maghi, banchieri dei tesori del mondo,i libri sono l’umanità stampata”.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
1.
Aldo è tra noi
Considerate quello che state facendo in questo preciso momento: avete in mano un libro e lo leggete. Con ogni probabilità siete seduti o distesi, e certamente in silenzio, ovvero non state compitando le parole a voce alta, come quando la maestra a scuola vi chiedeva di leggere per il resto della classe. State svolgendo quest’attività (leggere) perché vi dà piacere, oltre che accrescere il vostro patrimonio di conoscenze; anzi, è molto probabile che se non vi appagasse, trascurereste anche l’incremento del sapere.
L’oggetto che sta occupando la vostra attenzione è un parallelepipedo di carta del peso di qualche ettogrammo, maneggevole, dalle pagine stampate in un carattere elegante e chiaro, dove ogni tanto compare qua e là qualche parola in corsivo (per esempio i titoli dei libri, o le parole straniere). Il testo è reso più comprensibile da una serie di segni che chiamiamo di interpunzione: punti e virgola, virgole uncinate, apostrofi, accenti. Tali segni ci guidano nella lettura, ci indicano le pause nonché la loro gerarchia (il punto e virgola «vale» più della virgola), fondono tra loro due parole in modo da semplificarne la lettura, o indicano dove accentare la pronuncia, ancora una volta per facilitarci il compito.
È molto probabile che, una volta notato questo volume nello scaffale o sul bancone di una libreria, lo abbiate preso in mano sollevandone la copertina al fine di poterne guardare il frontespizio, leggerne titolo e sottotitolo e capire chi siano autore ed editore. Poi, se il titolo vi ha solleticato, avete girato qualche pagina per scorrerne l’indice e coglierne meglio il contenuto. Al che avete preso la decisione se riporlo o comprarlo, ma, visto che lo state leggendo, il libro deve aver superato l’esame e vi siete quindi avviati alla cassa.
Benvenuti nel mondo di Aldo, il primo editore della storia. Tutto quello che avete letto nelle righe appena scorse lo dovete a lui. In precedenza chi imprimeva libri era un semplice tipografo: sceglieva le opere da stampare sulla base del loro potenziale di vendita, ma senza un preciso progetto editoriale. L’attenzione alla qualità era minima, il numero dei refusi negli incunaboli – i «libri in culla», cioè stampati entro la fine del 1499 – ci parla ancor oggi di scarsa accuratezza, di composizioni tirate via, di bozze riviste senza troppo impegno. Con Manuzio cambia tutto: Aldo è davvero «l’inventore della professione dell’editore moderno, colui cioè che si avvicina ai libri avendo in mente un preciso e coerente programma culturale», come osserva Mario Infelise, storico dell’editoria e del libro all’università di Venezia, Ca’ Foscari. Manuzio ha fatto del libro «il più efficiente strumento per l’accumulo e la trasmissione delle conoscenze umane degli ultimi cinque secoli».
Lodovico Guicciardini è un nobile fiorentino che vive ad Anversa, discendente del più noto Francesco. Nel 1567 pubblica la Descrittione di tutti i Paesi Bassi, nella quale, nonostante fosse scomparso ormai da un cinquantennio, si ritrova a parlare di Aldo Manuzio, «il quale a giudizio d’ognuno […] ridusse veramente la stampa a perfettione, talché non si diceva, ne cercava altro, che la stampa d’Aldo perché era tanto pura e netta. Innanzi a Aldo […] non si trovava che grosse, goffe e scorrette impressioni senza vista e senza grazia, ma egli non perdonando nulla con ingegno, e con giuditio la polì, facilitò e ridusse (come io dico) a ordine e regola perfetta».
Aldo è un uomo colto, coltissimo: conversa fluentemente in greco antico, traduce a vista dal greco al latino e viceversa, ha studiato l’ebraico. Ha in mente un ben preciso progetto editoriale: stampare i classici greci in greco. Successivamente estenderà il suo programma ai classici in latino e ai testi in volgare. La più efficace enunciazione del programma aldino è quella di un umanesimo senza confini che, anni più tardi, farà dire ad Erasmo: «Anche se la sua biblioteca è chiusa dalle anguste pareti della casa, Aldo ha intenzione di costituire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso».
Aldo si era dato un piano che definire ambizioso è riduttivo: «Verrà pubblicato tutto ciò che merita d’esser letto». Non si esaurisce qui, però: Manuzio è anche un attento, attentissimo, imprenditore. Sarebbe esagerato dire che si metta a stampare per i soldi, ma di sicuro con la stampa guadagna denaro: riesce a garantire una discreta agiatezza a sé e ai suoi eredi. È il primo a unire i due aspetti che dovrebbero caratterizzare un editore anche ai giorni nostri: la conoscenza culturale e la capacità imprenditoriale. Prima dell’inizio della sua attività non ci sono notizie di rapporti tra eruditi e stampatori che fossero diversi da quelli commerciali.
Manuzio, in quanto studioso che già godeva di solida fama tra i dotti, ha fatto sì che si superassero pregiudizi e incomprensioni tra gli uomini di lettere e quelli d’affari: questo ha reso possibile la rivoluzione che ha investito il mondo della tipografia e quello della cultura.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
La nascita del libro
Ora facciamo un viaggio nel tempo e immaginiamo di essere in una bottega libraria del 1493, ovvero l’anno prima che Manuzio cominci a stampare: vedremmo libri privi di quasi tutte le caratteristiche che ci sono tanto familiari – le abbiamo elencate all’inizio – se non quella di essere costituiti da carta stampata con l’inchiostro. Se invece entrassimo in quella medesima bottega una ventina di anni più tardi, ad esempio nel 1515, ovvero quando Aldo Manuzio muore, ci ritroveremmo ad avere a che fare con un oggetto riconoscibile: un libro maneggevole e stampato in modo da essere leggibile ed elegante.
Al di là di carta e inchiostro, tutto quello che caratterizza un libro come lo conosciamo noi oggi lo dobbiamo ad Aldo Manuzio. Questo signore colto e raffinato ha messo in mano ai suoi contemporanei di mezzo millennio fa un oggetto che usiamo sostanzialmente immutato ancora ai nostri giorni. E la locuzione «mettere in mano», come vedremo nel capitolo sui libri tascabili, va intesa in senso letterale.
Con Manuzio nasce un libro nuovo e diverso in tutto; la sua pagina a stampa appare ai contemporanei talmente perfetta da non far più rimpiangere gli antichi codici manoscritti. I «buoni libri» di Aldo Manuzio decretano la fine dei codici: erano trascorsi oltre mille anni dal IV secolo d.C., da quando cioè i fogli rettangolari di pergamena legati fra loro avevano preso il posto dapprima appartenuto ai rotoli di papiro.
Vedremo più avanti come Aldo introduca il bisogno di leggere e la lettura per passatempo, ma diciamo subito che a tutto questo si accompagna pure l’idea dell’interpretazione del testo, del libero arbitrio, della libertà di opinione. Elementi che oggi ci appaiono scontati: si legge un libro e lo si giudica, si decreta se sia piaciuto o meno, se sia scorrevole, noioso, piacevole, avvincente e via così. Nel XV secolo, invece, le cose stavano assai diversamente. Gli scritti erano pubblicati assieme a tutto l’apparato dei commenti, dagli antichi ai moderni, gli stampatori si sforzavano di dare sempre almeno tre-quattro commenti, intrecciati tra loro a mosaico nei margini di grandi libri in formato in folio (ovvero i volumi nei quali i fogli di carta venivano piegati solo una volta, le cui dimensioni si aggiravano almeno sui 40×26 centimetri).
Si trattava quindi di una sorta di testo accompagnato da ipertesto che di fatto impediva di elaborare un giudizio: tutto quello che ci sarebbe stato da dire era già stato detto in precedenza dagli antichi sapienti; e chi mai avrebbe osato contraddirli. Aldo fa una scelta radicale: spoglia il testo, lo pubblica integrale, nudo, senza commenti che lo circondino e lo soffochino. Ognuno sarà libero di interpretarlo come preferisce. Manuzio mette definitivamente fine alla moda del testo incorniciato dalle spiegazioni.
La novità dev’essere prorompente agli occhi dei contemporanei, un po’ come – spostandoci nell’architettura – succederà una quarantina d’anni più tardi, quando Andrea Palladio al posto di edifici di mattoni rossi, pieni di pinnacoli e arzigogoli, comincerà a costruire fabbricati di pietra bianca, lisci e squadrati. La nudità dei testi imposta da Aldo doveva provocare un effetto simile a quello ispirato dall’essenzialità degli edifici voluta da Palladio. Già fermandosi qua sarebbe evidente la portata della rivoluzione aldina. Eppure c’è dell’altro. E che altro.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il marketing
Aldo Manuzio ha avuto l’accortezza di intuire il potere della promozione commerciale e, se non si temesse di esagerare nel dipingerlo a colori troppo brillanti, si potrebbe anche dire che è stato un autentico genio della vendita di se stesso e dei propri prodotti. Ha utilizzato i mezzi che aveva a disposizione, in particolare le dediche e le prefazioni. Ai nostri occhi la dedica di un libro può apparire superflua perché alla fin fine il libro di per sé – al di là del contenuto – oggi è un prodotto comune; entriamo in una libreria e vediamo volumi a migliaia, a decine di migliaia qualora la libreria sia grande; in una biblioteca ce ne possono addirittura essere milioni, svariati milioni in alcuni casi: la biblioteca del Congresso, a Washington DC, la maggiore del mondo, possiede 28 milioni di volumi. In tante case almeno una parete è ricoperta di libri e il costo di ogni singolo testo è, nella media, abbastanza contenuto e affrontabile dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Alla fine del Quattrocento, però, non era così: il libro a stampa era stato inventato una quarantina di anni prima, si trattava di una novità preziosa e ricercata, gli esemplari in circolazione erano pochi e costosi, se non costosissimi. Le dediche, quindi, servono ad Aldo per stabilire una relazione con i potenti ed è bravissimo a ottenere il risultato: nessun altro editore riuscirà a tessere una tela di rapporti a livello tanto alto: l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo arriva a definire l’editore «familiare nostro»; Lucrezia Borgia sarà nominata sua esecutrice testamentaria e lo accoglierà a Ferrara durante la guerra di Cambrai; Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo Sforza, riceve un salterio greco con dedica. Il record delle dediche spetta ad Alberto Pio, principe di Carpi: Manuzio gli destina ben dodici edizioni (avremo modo di approfondire nelle pagine che seguono la lunga relazione tra i due).
Alla vigilia dell’erompere della guerra di Cambrai, che contrappone a Venezia una coalizione di potenze europee, quando ormai già si udivano tintinnare le spade, Manuzio intitola edizioni a importanti esponenti di entrambe le parti che si stavano per affrontare. Nel marzo 1509, due mesi prima della fatale – per i veneziani – battaglia di Agnadello, dedica un Plutarco a Jacopo Antiquari, già uomo di fiducia degli Sforza, e un Orazio a Jeffroy Charles, nobile francese originario di Saluzzo nonché presidente del senato milanese (salvo un’eccezione nel 1503, queste sono le uniche dediche aldine che riguardino Milano). Un mese dopo, nell’aprile 1509, a guerra ormai dichiarata, destina Sallustio a Bartolomeo d’Alviano, vicecomandante generale delle truppe veneziane: la sola volta, questa, che indirizza un’opera a un uomo d’arme. È evidente il desiderio di costruirsi benemerenze sui due fronti; utilizzando un linguaggio odierno le si potrebbe definire dediche bipartisan, senza pensare a termini più grevi.
Aldo Manuzio,L’inventore di libri
Il ruolo delle prefazioni
Le prefazioni costituiscono il testo più importante che Aldo ci abbia lasciato; quello dove, come qualcuno ha scritto, «alterna toni gravi ad altri ironici, sfodera qualche aneddoto e battuta, lancia strali ed elogi, riflette su di sé e sul mondo, e in tal modo ci cattura». Gli esordi diventano il mezzo per comunicare con i lettori, per ingraziarseli: «Sii clemente quando trovi qualche sbaglio», oppure «Per ora, mancando vasi d’oro e d’argento, accontentiamoci, come suol dirsi, di quelli di coccio». Le prefazioni costituiscono il manifesto ideologico aldino, il luogo dove Manuzio proclama la propria idea di conoscenza come bene comune: «Si impicchino» quelli che tengono i libri nascosti a casa, «d’animo così basso da affliggersi per un bene fornito a tutti». Aldo è un precursore: il concetto che la cultura debba essere a disposizione di chiunque si farà strada soltanto ai tempi della rivoluzione francese.
L’editore usa le prefazioni anche per creare l’effetto attesa: «Pubblicheremo altresì tutti i matematici» (1497), «Aspettatevi in breve un Dante» (1501). Inventa un modello di prologo affettuoso e diretto, dove affiora il valore dell’amicizia umana: «Il grande affetto che ti porto», scrive a Girolamo Aleandro (1504), cardinale e umanista originario di Motta di Livenza, nel Trevigiano. «Io vorrei poter sempre stare con te, vivere con te», dice a Marin Sanudo (1502), patrizio e autore dei Diarii. Si tratta di una cronaca giornaliera di Venezia cominciata nel 1496 e terminata nel 1533, tre anni prima della morte: 58 volumi in 37 anni, la più importante fonte storica della Venezia di fine XV e inizio XVI secolo. Lo incontreremo ancora, Sanudo, perché amico di Aldo e anche in quanto proprietario di una delle più importanti biblioteche cittadine dell’epoca.
La fama delle raccolte librarie veneziane del tempo è tale da richiamare visitatori di grande prestigio: nel 1490 arriva a Venezia Giano Lascaris, a caccia di codici greci per conto di Lorenzo de’ Medici. Lascaris visita le biblioteche di Ermolao Barbaro, erede dell’umanesimo avviato dal Petrarca e maestro della generazione di Erasmo; di Alessandro Benedetti, professore a Padova, che aveva trascorso quindici anni in Grecia, acquistandovi manoscritti di pregio; e pure quella di Gioachino Torriano, priore del convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo (lo stesso dove vive Francesco Colonna, il frate ritenuto autore dell’Hypnerotomachia Poliphili, di cui diremo ampiamente), che aveva acquistato manoscritti provenienti dalla biblioteca di Mattia Corvino, il sovrano ungherese morto nel 1490. Anche i codici di Bessarione vengono dal 1494 provvisoriamente depositati a San Zanipòlo, come i veneziani chiamano i santi Giovanni e Paolo, e Torriano sarebbe stato molto contento di trasformare da temporaneo a definitivo il deposito del fondo nella propria biblioteca. Il cardinale Bessarione è il dotto umanista greco che nel 1468, quattro anni prima della morte, dona alla repubblica di Venezia i manoscritti bizantini che costituiscono il nucleo fondativo dell’attuale Biblioteca nazionale Marciana.
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Il catalogo
Oggi ci appare tutto sommato ovvio consultare il catalogo di una casa editrice, ma anche di questo dobbiamo essere grati a Manuzio. Aldo pubblica il primo elenco di edizioni nel 1498 e vi enumera soltanto le opere greche – in quel momento evidentemente costituivano quel che davvero gli interessasse – salvo sporadiche eccezioni, tra le quali il De Aetna che con ogni probabilità aveva stampato per amicizia e gratitudine verso l’autore, Pietro Bembo, o le composizioni latine di un altro amico, Angelo Poliziano, impresse in un massiccio in folio che riunisce gli scritti inediti dell’umanista fiorentino. Sono presenti quindici titoli ripartiti in otto sezioni tematiche; la più affollata è quella delle grammatiche, con cinque opere.
Il secondo catalogo, del giugno 1503, distingue tra libri greci, latini e «portatili in forma di enchiridio», ossia i tascabili (che vedremo più avanti); il terzo e ultimo risale al novembre 1513 e non contiene, come invece i precedenti, l’annuncio di futuri libri. I primi due cataloghi riportano anche i prezzi minimi: non sappiamo se i cartolai – i rivenditori di libri – li rispettassero o se invece vendessero i volumi più cari. Un indizio tuttavia ci arriva da Siviglia, grazie alla biblioteca di Fernando Colombo, figlio di Cristoforo, diventata una delle più importanti della prima metà del XVI secolo in virtù dei 15 mila libri che conteneva.
Colombo junior doveva essere pignolo, infatti per la maggior parte delle opere ha annotato data, luogo e prezzo dell’acquisto, con il costo sempre convertito in moneta spagnola, cosa che ci rende possibili i raffronti. Delle ventisei aldine comperate in luoghi diversi, quattordici registrano il medesimo costo annotato nei cataloghi manuziani, di dieci conosciamo soltanto il prezzo pagato da Colombo, di due non abbiamo informazioni.
Un’ulteriore idea ce la possiamo fare anche utilizzando il Zornale di Francesco de Madiis, ovvero il resoconto quotidiano della vendita in una bottega veneziana di 25 mila libri tra il maggio 1484 e il gennaio 1488, ognuno registrato con titolo e prezzo. Il manoscritto, un documento di eccezionale valore, è conservato nella biblioteca Marciana. L’elenco termina sei anni prima che Manuzio cominci a stampare e si riferisce a volumi molto diversi fra loro, ma gli studiosi di storia del libro hanno calcolato il costo per singolo foglio stampato in modo da ottenere un valore coerente.
Visto che in quei tempi i prezzi avevano andamenti piuttosto stabili, è possibile effettuare un comparazione tra il costo per foglio delle aldine e delle edizioni del Zornale. Quest’ultimo oscilla tra i 5 e i 10 denari, con punte più alte in caso di formati che utilizzano carta più pregiata. Il costo per foglio delle aldine di grande formato è simile; aumenta invece vertiginosamente nel caso dei tascabili: quelli stampati in greco sono ovviamente più cari e vanno dai 20 agli oltre 30 denari a foglio, mentre nel caso del latino e del volgare italiano si va dagli 11 agli oltre 13 denari a foglio. Questo smentisce una volta per tutte il mito – più volte ripetuto in vari studi del passato – che i tascabili di Aldo fossero a buon mercato, anche se, ovviamente, un volumetto di qualche decina di fogli aveva un costo unitario di molto inferiore rispetto a un volumone composto da centinaia di carte. In ogni caso possiamo concludere che Manuzio sapeva fare assai bene i conti e che le sue edizioni mantenevano una buona valutazione, anche a distanza di anni dall’uscita, cosa non sempre riscontrabile con le opere stampate da altri editori.
L’indice
Ora veniamo a un’ulteriore eredità aldina, a un altro elemento che ai nostri giorni appare connaturato al libro stesso, ma che nei tempi in cui stava nascendo l’editoria moderna non lo era affatto: l’indice. Gli incunaboli non l’avevano e neppure avevano le pagine numerate; al massimo, ma non sempre, erano numerate le carte, o fogli, tanto che oggi per orizzontarci siamo costretti a distinguerle in r (recto) e v (verso). Ci si arrangiava con il fai da te: ognuno, qualora ne sentisse il bisogno, apponeva a mano i numeri ai fogli e si autocompilava un indice di ciò che lo interessava. Poliziano, tanto per fare un nome significativo, era uno di quelli che si facevano gli indici da soli.
Manuzio – mai dimenticarlo – era un maestro e per chi insegna è importante poter individuare un punto preciso all’interno della massa del testo. La stampa, poi, introduce nuove e sconosciute problematiche: gli errori di stampa, tanto per dirne una. Lo sbaglio nella trascrizione commesso da un copista veniva perpetuato nei manoscritti successivi, spesso senza possibilità di riscontro. Un refuso, invece, si moltiplica subito per le centinaia di copie della tiratura. Gli stampatori del rinascimento, quando scoprivano errori in fase di stampa, invece di correggere i fogli difettosi – la carta era costosa – si accontentavano di ritoccare gli esemplari successivi, con il risultato che le copie differiscono in numerosi particolari. In qualche caso l’omissione di parole poteva essere sanata con una correzione a mano in ciascuna copia: alcuni volumi dei Salmi, editi attorno al 1498 sono stati corretti così, probabilmente dallo stesso Aldo. Più in generale interviene una nuova esigenza: fornire una lista di errata con le relative correzioni, nonché con l’esatto punto del libro in cui inserirle; e l’indice, ovviamente, aiuta.
Comprensibile, quindi, quale importanza avessero le errata, e Aldo già nel primo volume che stampa, una grammatica greca (Erotemata, 1495), aggiunge alla fine un foglio di errata. Si capisce subito dove voglia andare a parare: inizia ora una serie di tentativi, di esperimenti di indicizzazione che proseguiranno per tutto il ventennio di attività.
L’indicazione di Manuzio contiene una novità rispetto alle errata che l’avevano preceduta: rinvia alla riga precisa dove apporre la correzione. Il sistema di rimandi risulta in ogni caso complicato perché le pagine sono prive di numero. Ed ecco che nel 1499 Aldo, per la prima volta, inserisce una rivoluzionaria numerazione per pagina. Per pagina, non per carte: in questo modo ogni singola facciata del foglio porta il numero che la contraddistingue. L’innovazione riguarda un enorme in folio di 642 pagine, non a caso un repertorio della lingua latina (Cornucopiae, di Niccolò Perotti). Manuzio aggiunge anche una numerazione riga per riga, cosicché nell’indice riporta due numeri: il primo rimanda alla pagina, il secondo alla riga. Un sistema molto più efficace e preciso rispetto a quello che utilizziamo noi oggi, anche se ovviamente più macchinoso (e costoso).
Aldo si rende ben conto dell’enorme portata del mutamento e infatti lo annuncia orgogliosamente nel frontespizio, chiamandolo «indice abbondantissimo». Grazie a tale sistema si riesce a individuare con un semplice sguardo il punto cercato, non occorre contare una per una né le pagine né le righe. L’editore fornisce anche le istruzioni: «Abbiamo fatto allestire l’indice unendo insieme il greco e il latino. Ma non ti sfugga, lettore carissimo, che puoi separare del tutto agevolmente il latino dal greco a tuo piacimento».
La novità, tuttavia, non viene usata in maniera continuativa, per esempio le prime edizioni tascabili non presentano le pagine numerate, tanto che parecchie copie giunte fino a noi riportano i numeri aggiunti a mano dai rispettivi proprietari. Aldo numera più spesso le edizioni greche rispetto a quelle latine o volgari, talvolta usa cifre arabe, talaltra romane; in alcuni casi elabora indici assai macchinosi, come quello degli Adagia di Erasmo che l’autore ritiene necessario riformulare e semplificare nelle edizioni successive, stampate a Basilea. Soltanto dal 1509 la numerazione per pagina viene inserita con regolarità, anche nei tascabili, sebbene alcune edizioni continuino a essere numerate soltanto per carta. Quello che per Aldo resta un continuo sperimentare, per i successori diventa una regola da seguire fedelmente: in tal modo è stato compiuto un ulteriore, decisivo, passo verso il libro moderno. Anche il frontespizio, sperimentato a Venezia dal tipografo tedesco Erhard Ratdolt, diventa una presenza regolare nei libri impressi nell’officina aldina.
A questo punto dovrebbe essere chiara la portata della rivoluzione manuziana e quale sia stata la sua impronta in grado di segnare per sempre il mondo del libro. In qualche modo siamo tutti figli di Aldo, anche se spesso a nostra insaputa. Nei prossimi capitoli entreremo maggiormente nei dettagli di questa rivoluzione, ma prima dobbiamo renderci conto che un cambiamento di tale portata sarebbe potuto avvenire nell’Europa del rinascimento soltanto in un luogo: Venezia.
La capitale del libro
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia e a Venezia comincia a stampare. Non conosciamo le ragioni che lo abbiano spinto né all’una né all’altra scelta, ma sappiamo benissimo che soltanto lì sarebbe potuto diventare il primo editore della storia. La Serenissima signoria è una repubblica e quindi Venezia è l’unica capitale europea priva di una corte, con tutte le sue limitazioni; inoltre è la città che trasforma il sapere in un prodotto commerciale non diverso da un sacco di pepe, come rileva acidamente un umanista che certo non la amava.
Prima della fine del XV secolo nella Dominante – così veniva chiamata la capitale dello stato veneziano – sono attivi dai 150 ai 200 torchi che stampano in quel periodo il 15 per cento dei titoli impressi nell’intera Europa (4500 su 30 mila), con tirature che variano da un centinaio alle duemila copie. La percentuale sarà destinata a salire fino ad arrivare a quasi la metà dei titoli europei. Nel sessantennio che trascorre dal 1465, anno dell’introduzione in Italia della stampa a caratteri mobili, al 1525, a Venezia si stampa la metà dei libri italiani; dal 1525 al 1550 si arriva ai tre quarti, dal 1550 al 1575 a due terzi. La crescita è talmente impetuosa da far dire a Erasmo che è più facile diventare stampatore che fornaio, ma non può mancare pure il solito lamentoso, un tipografo che se la prende per «la perfida rabia de la concorrentia consueta fra questa miserabil arte».
Vittore Branca, filologo e per tanti anni docente di letteratura italiana a Padova, scriveva che «le tipografie rendono Venezia il carrefour della cultura umanistica europea e le fanno aprire la prodigiosa “via del libro”, quasi a sostituire – almeno in parte – la ormai disastrata “via delle spezie” (fra il 1469 e il 1501 vengono impressi circa due milioni di volumi, soprattutto riguardanti le umanità)». Le quattromila edizioni di incunaboli che vedono la luce a Venezia entro la fine del XV secolo sono il doppio di quelle parigine; nel biennio 1495-1497 – ovvero quando Aldo aveva già aperto la propria tipografia – si stampano in Europa 1821 opere: 447 provengono da Venezia, mentre solo 181 da Parigi, che si colloca in questa classifica al secondo posto.
A permettere l’esplosione dell’attività editoriale è paradossalmente proprio la morte di chi ha introdotto nel 1469 la stampa a Venezia, ovvero il tedesco Giovanni da Spira (o meglio, se vogliamo rendere onore ai suoi natali, Johannes von Speyer). Un anno dopo aver stampato il secondo libro, Plinio, e mentre sta preparando il terzo, sant’Agostino, muore. Il lavoro viene terminato dal fratello Vindelino, ma scomparso Giovanni non è più valido il privilegio che gli accordava il monopolio dell’esercizio della tipografia: da quel momento in poi chiunque lo voglia può mettersi a stampare. Così accade.
Nella prima metà del Cinquecento la Dominante è sì l’indiscussa capitale europea della produzione editoriale, ma contemporaneamente anche un primario centro di consumo: possiedono libri il 15 per cento dei nuclei familiari, i due terzi del clero, il 40 per cento dei borghesi, il 23 per cento dei nobili, il 5 per cento dei popolani; vi si ritrovano alcune delle biblioteche più importanti dell’epoca: il cardinale Domenico Grimani possiede 15 mila volumi, Marin Sanudo 6500; Ermolao Barbaro, bandito da Venezia nel 1491 dopo aver accettato il patriarcato di Aquileia e morto nel 1493, aveva radunato la più ricca tra le numerose biblioteche greche. Non basta: nel 1537 Jacopo Sansovino comincia i lavori per realizzare la Pubblica libreria, ovvero la prima biblioteca statale pubblica (nel senso che viene concepita non come raccolta riservata, ma per essere usufruita dal pubblico), destinata a diventare l’attuale Marciana.
Questa esplosione dell’editoria avviene per un insieme di motivi che vanno dall’ampia liquidità finanziaria a coraggiose scelte commerciali, dalla libertà di stampa a quello che oggi chiameremmo «risorse umane». Nella seconda metà del XV secolo si liberano capitali: i patrizi smettono di investire nel commercio internazionale e si rivolgono altrove, in primo luogo all’acquisto di appezzamenti agricoli nella neoacquisita terraferma veneta, ma non disdegnano di finanziare attività produttive, e fra queste si ritrova anche l’editoria.
Stampare libri è un’impresa ad alta intensità di capitale, soprattutto a causa del notevole costo dei metalli necessari a realizzare i punzoni (acciaio) e i caratteri (lega di piombo, stagno e antimonio). I libri sono beni che viaggiano assieme agli altri lungo le direttrici commerciali che la repubblica aveva già da tempo stabilito e quei traffici sono molto intensi poiché a Venezia si stampa in una molteplicità di lingue.
Approfittando del contrasto tra la Serenissima e il pontefice, e dell’assenza per alcuni decenni dell’Inquisizione romana, le tipografie della Dominante imprimono anche libri – in anni successivi al capostipite dei Manuzio – invisi alle gerarchie ecclesiastiche: testi dei riformati tedeschi e boemi, il primo libro pornografico della storia (Pietro Aretino, Sonetti lussuriosi, 1527), il Talmud che, non a caso, sarà protagonista del primo grande rogo di libri in piazza San Marco, nell’ottobre 1553, comunicato in tempo reale a papa Giulio III dal nunzio apostolico, Lodovico Beccadelli: «Questa mattina s’è fatto un buon fuoco su la piazza di San Marco». A Venezia, infine, si ritrova al completo tutta quella che oggi si definirebbe «filiera del libro»: incisori, rilegatori, inchiostratori, torcolieri, studenti dell’università di Padova disponibili a correggere bozze e, soprattutto, si ha grande disponibilità di carta.
Per produrre carta c’è bisogno di tanta acqua dolce, corrente e pulita (altrimenti la carta vien fuori giallastra), e ovviamente non la si poteva fabbricare in città, ma lo si faceva nello stato da tera: lungo i fiumi Brenta e Piave, nonché sul lago di Garda, e quegli stessi fiumi venivano anche utilizzati come arterie di trasporto per trasferire la medesima carta che avevano contribuito a generare.
A determinare l’alta domanda di libri contribuiscono in maniera decisiva il vicino ateneo di Padova, dove i sudditi della Serenissima sono obbligati a studiare qualora vogliano laurearsi, e le due scuole pubbliche veneziane, dove si formano i giovani destinati all’amministrazione dello Stato, siano patrizi oppure appartenenti all’ordine intermedio dei cittadini, che forniva la burocrazia statale. Si tratta della scuola di San Marco, dove si approfondiscono gli studi umanistici e morali, e della scuola di Rialto, di indirizzo filosofico, naturalistico e matematico.
Gli stranieri
Nel Quattrocento il centro della vendita dei manoscritti era stato Firenze. La città toscana era anche il cuore finanziario dell’Italia rinascimentale, quindi, in teoria, ci sarebbe dovuta essere più disponibilità di capitali in riva all’Arno che sulle sponde del Canal Grande. Ma Firenze era sempre rimasta una città di fiorentini, al massimo di toscani. Venezia invece era da tempo diventata una città di stranieri. A parte i patrizi, che per forza di cose erano locali, la Dominante ospitava un gran numero di immigrati. Non a caso Girolamo Priuli, cronista dei primi anni del Cinquecento, scriveva che in piazza San Marco si vedevano i nobili incaricati del governo, mentre «tuto il resto herano forestieri et pochissimi venetiani». Persino in un mestiere tradizionale come quello del gondoliere, i veneziani assommavano appena alla metà dei nomi presenti in un elenco di fine XV secolo: gli altri barcaioli provenivano dalla terraferma (molti dalla sponda bresciana del lago di Garda) o dalla Dalmazia.
Il settore editoriale non fa eccezione: quasi tutti gli stampatori, in questo periodo, sono immigrati, sia dall’Italia – Aldo Manuzio tra loro – sia dall’estero, come il già nominato tedesco Giovanni da Spira o il francese Nicolas Jenson, che gli succede. Tra l’altro, a conferma del prestigio e dell’agiatezza che dà la professione di stampatore, Giovanni da Spira sposa madonna Paola, figlia di Antonello da Messina, che era uno dei pittori più affermati e famosi dell’epoca.
In città sono presenti comunità strutturate, alcune di queste lo sono ancora ai nostri giorni, con propri luoghi di culto e confraternite: greci, armeni, ebrei, tedeschi, dalmati. Questo significa che nella Venezia quattro-cinquecentesca si possono trovare colti madrelingua in grado di comporre e correggere testi in quasi tutti gli idiomi all’epoca più diffusi, e questo spiega perché qui si stampi il primo libro in greco (1486), in armeno (1512), in cirillico bosniaco (1512), il secondo in glagolitico, l’antico alfabeto croato (1491), il terzo libro in ceco (1506). Dai torchi veneziani escono inoltre la prima Bibbia in volgare italiano (1471), la prima Bibbia rabbinica (1517), il primo Corano in arabo (1538), la prima traduzione del Corano in italiano (1547). La città rimane per secoli il centro mondiale della stampa greca, ebraica, serba, caramanlidica (lingua turca scritta con caratteri greci, oggi scomparsa), nonché armena, in quest’ultimo caso addirittura fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e all’indipendenza della repubblica d’Armenia, nel 1990.
Questa è la Venezia dove approda Aldo Manuzio prima di iniziare la sua avventura di stampatore. Ha scritto Cesare De Michelis, editore veneziano scomparso nel 2018: «Accadde come nei grandi romanzi d’amore: erano fatti l’uno per l’altra e si incontrarono, anche se la storia del loro rapporto è tutt’altro che idillica, anzi appassionante e ricca di colpi di scena, esaltata e disperante, in perenne tensione».
Ora facciamo gli indiscreti, e andiamo a scoprirla, quella storia d’amore.
2.
La formazione di un umanista
Bassiano è uno splendido borgo medievale del Lazio, sui monti Lepini, a un’ottantina di chilometri a sud di Roma. In quella zona transita la via Appia e oggi Bassiano si trova in provincia di Latina. Nel passato faceva però parte del ducato di Sermoneta, retto dai Caetani; Roffredo, l’ultimo discendente di quel ramo della nobile famiglia, è morto nel 1961. Bonifacio VIII, il papa scaraventato all’inferno da Dante Alighieri, era un Caetani.
Il castello dei duchi è a Sermoneta, ma d’estate i Caetani, che di loro sarebbero stati principi, se ne andavano in quel di Bassiano, e il perché è presto detto: il paese si trova a 560 metri di altitudine, tutto circondato da alture; la sera si gode un bel fresco, ma, soprattutto, sta fuori dal raggio di azione delle pericolose zanzare anofeli, portatrici di malaria. I principi non vivevano proprio in un castello, ma in un massiccio palazzone, che faceva comunque una gran figura, e oggi è sede del municipio. Proprio negli anni in cui il suo figlio più illustre, Aldo Manuzio, faceva l’editore a Venezia, Bassiano passa sotto il controllo dei Borgia per un quinquennio, dal 1499 al 1504, ma poi tornano i Caetani, che lo governano ininterrottamente fino a inizio Ottocento.
Sermoneta è pure un bel posto, la sua cattedrale romanica costituisce un autentico gioiello, ma si trova più in basso rispetto a Bassiano, 230 metri sul livello del mare, e si affaccia direttamente sulla pianura pontina. Oggi lo sguardo arriva ad abbracciare il mare, giù fino ad Anzio e Nettuno, e qualche anziano si ricorda ancora la luminosa e tersa giornata del 22 gennaio 1944, quando la superficie marina spumeggiava per le scie dei mezzi da sbarco alleati. Per secoli, però, quella piana era stata tutta palude, e d’estate le anofeli potevano raggiungere anche la coreografica Sermoneta, mentre Bassiano ne rimaneva esente.
Un tempo il portone di Palazzo Caetani costituiva l’unico accesso all’abitato di Bassiano, interamente circondato da mura trecentesche sorvegliate da dieci torrioni. Mura che sono state forate in tempi più recenti per fare spazio a tre porte cittadine. Le strade, selciate in porfido, hanno un andamento a spirale, gli edifici, oggi purtroppo in gran parte abbandonati, conservano quasi tutti l’originario aspetto medievale; alcuni stretti vicoli – il più angusto di tutti si chiama Baciadonne, un nome un programma – tagliano longitudinalmente l’abitato congiungendone i vari livelli. Da Bassiano non si scorge la pianura, mentre un fianco dell’abitato è dominato dal monte Semprevisa che, con i suoi 1536 metri, è il più alto dei Lepini.
Qui, attorno al 1450, nasce Aldo Manuzio. Una lapide indica oggi la sua casa. Peccato che sia un «tarocco»: l’edificio risale al Sei-Settecento e quindi di sicuro il futuro editore non può essere nato lì. La casa dei Manuzio quasi certamente esiste ancora, poiché il borgo è sopravvissuto intatto, ma non abbiamo idea di quale possa essere.
Sappiamo pochissimo della famiglia di Aldo e niente della sua infanzia. Un atto rogato dal notaio Antonio Tuzi il 30 dicembre 1449 ci dice che tal Paolo di Manduzio di Bassiano vende un appezzamento di terra all’ebreo Abramo di Mosè. Nel più antico manoscritto aldino che ci sia pervenuto, un documento redatto tra il 1480 e il 1486, conservato nella biblioteca Querini Stampalia di Venezia, compare la firma Aldus Manducius (nella forma al genitivo Alti Manducii). Nessun dubbio, quindi, che proprio quello fosse il cognome originario dell’umanista, che in seguito si firmerà Mannuccius, quindi Manucius (dal 1493) e infine Manutius (dal 1497). Il padre di Aldo si chiamava Antonio e aveva alcune sorelle, ma altro non ci è dato conoscere.
A Roma
Si può presumere che la famiglia fosse relativamente benestante, se aveva terreni da vendere, ma non possiamo sapere se potesse anche permettersi di mantenere agli studi un figlio a Roma, o se invece siano stati i Caetani a prendersi cura del giovane Manuzio. Il nipote Aldo junior, un secolo più tardi, ricorderà i rapporti di deferenza che legavano il nonno alla famiglia principesca e d’altra parte non era poi inusuale che i signori di un determinato luogo facessero studiare a proprie spese i ragazzini più svegli.
Sicuro, invece, che Aldo studiasse a Roma all’inizio degli anni Settanta del Quattrocento, poiché il suo insegnante Gaspare da Verona, docente di retorica alla Sapienza, si trasferisce a Viterbo nel 1474. Un altro suo maestro – è Aldo a rivelarlo in una delle prefazioni – è l’umanista Domizio Calderini, nativo di Torri del Benaco, segretario di papa Sisto IV. Curioso che entrambi i maestri romani di Aldo fossero originari del Veronese.
Calderini fa parte della cerchia del già citato cardinale Bessarione e lo accompagna in un viaggio in Francia, proprio mentre il prelato sta lavorando a un’edizione che sarà pubblicata postuma da Arnold Pannartz e Conrad Sweinheim. Due nomi celebri, questi, poiché appartengono ai chierici tedeschi – Pannartz era un praghese di lingua tedesca, Sweinheim proveniva dall’Assia – che nel 1465 avevano importato la stampa a caratteri mobili in Italia, impiantando una tipografia nel monastero benedettino di Santa Scolastica, a Subiaco, vicino a Roma. Anche Gaspare da Verona conosce l’attività dei due tipografi, visto che li nomina già nel 1467, ovvero quando erano arrivati a Subiaco da due anni soltanto.
L’introduzione della stampa in Italia faceva parlare di sé ed è probabile che a Roma la nuova attività costituisse oggetto d’attenzione e di meraviglia, ma non si sa se già in questi anni Manuzio fosse entrato in contatto con il mondo della tipografia, se avesse avuto modo di osservare le neonate edizioni a stampa, o se il suo sia stato invece un innamoramento tardivo. Aldo per molti anni rimane prima di tutto un maestro e solo in un secondo tempo diventa uno stampatore, quando, ormai quarantenne, concepisce l’attività di tipografo come mezzo per darsi i migliori strumenti di insegnamento del greco: grammatiche e testi di lettura. Non possiamo davvero capire se già una ventina di anni prima avesse intuito le potenzialità della stampa.
Non è certo nemmeno se, dopo aver appreso il latino, a Roma cominci da subito a studiare anche il greco antico, lingua che in seguito apprenderà benissimo, tanto da poterla parlare e tradurre a vista, come abbiamo già ricordato. Certamente nella città papale Manuzio stringe amicizia con l’umanista pistoiese Scipione Forteguerri, detto il Carteromaco, che diventerà un suo stretto collaboratore e al quale dedicherà un’edizione nel 1501. Lo ritroveremo, anche perché sarà uno dei fondatori dell’Accademia aldina.
Il periodo romano di Manuzio rimane molto oscuro, così come quello della sua infanzia e adolescenza. L’unica cosa certa è che dopo pochi anni se ne va. Non conosciamo esattamente né quando né perché, qualcuno ipotizza che possa aver abbandonato Roma a causa della peste del 1478, ma non c’è alcun indizio in grado di trasformare l’illazione in affermazione.
A Ferrara
In realtà Aldo si trova a Ferrara già dal 1475, ma non è possibile stabilire se si fosse trasferito o se si trattasse di una pausa temporanea dal soggiorno romano. Nella città di Ercole I d’Este, umanista e munifico mecenate del rinascimento, Manuzio apprende, o approfondisce, il greco antico con Battista Guarino, figlio di quel Guarino Veronese (ecco che torna ancora una volta Verona) che aveva imparato il greco a Costantinopoli prima della conquista ottomana del 1453 ed era stato precettore alla corte estense. L’incontro con Battista Guarino è senz’altro importante, visto che Aldo nel 1495 dedicherà l’edizione di Teocrito al suo maestro di una ventina d’anni prima. Se Manuzio fosse arrivato a Ferrara conoscendo o meno il greco rimane oggetto di disputa tra gli studiosi, mentre è sicuro che quando se ne va lo parla e lo legge fluentemente.
C’è dell’altro, in ogni caso: a Ferrara incontra un compagno di studi che gli cambierà la vita: Giovanni Pico della Mirandola. Il nobiluomo umanista, evidentemente aiutato dalla sua proverbiale memoria, padroneggia sei lingue, tra antiche e moderne, e ora si sta dedicando a perfezionare il greco. Sua sorella Caterina è moglie – e dal 1477 vedova – del signore di Carpi; nel 1484 sposerà Rodolfo Gonzaga, signore di Luzzara e figlio del marchese di Mantova (i Gonzaga diventeranno duchi soltanto nel 1530).
Ora una piccola digressione: in quest’area tra Emilia e Lombardia e nel periodo a cavallo tra XV e XVI secolo si ritrovano alcune corti medie o piccole che intrattengono relazioni strette l’una con l’altra. I Gonzaga di Mantova, i Pio di Carpi, i Pico di Mirandola, gli Este di Ferrara si imparentano fra loro e sfruttano quelle che oggi si chiamerebbero economie di scala, facendo arrivare artisti, musicisti, precettori che si spostano da una città all’altra. Aggiungiamo che Carpi e Mirandola sono signorie troppo piccole per potersi considerare del tutto sicure dalle mire dei vicini e quindi cercano di appoggiarsi agli stati più potenti e influenti.
Negli anni di cui ci stiamo occupando la potenza che stende sull’area l’ombra della propria egemonia, quella che suscita timori e apprensioni, e di conseguenza la potenza da battere, è senza dubbio la repubblica di Venezia. Non a caso, quando sarà sconfitta, il principe Alberto Pio si rivolgerà sia all’impero, sia alla Francia, sia al papato, finendo per rimetterci il trono in un gioco triangolare più grande di lui. Aldo Manuzio – lo vedremo – si muove all’interno di quest’ambito, concedendosi tutt’al più un paio di digressioni verso Milano. Di certo sviluppa una sorta di rapporto d’affetto con Ferrara (trasporto che invece mai proverà per Venezia), visto che nel suo primo testamento consiglia la giovane moglie, sposata appena un anno prima, di trovarsi un nuovo marito nella città degli Este, qualora non dovesse tornare dal viaggio. Tutto questo ci racconta tra l’altro quanto al tempo fossero considerati pericolosi i viaggi: così tanto da indurre a far testamento prima di partire.
Aggiungiamo un ulteriore elemento per comprendere meglio gli intrecci di questa zona dell’Italia rinascimentale: Alberto Pio sposa prima una Gonzaga e poi una Orsini; dalla seconda moglie ha due figlie, una delle quali, di nome Caterina come la nonna, si coniuga con un Caetani. Questo indizio ci permette di ipotizzare che sussistesse un qualche nesso tra i duchi di Sermoneta e i signori di Carpi e che, quindi, il legame di Aldo Manuzio con la piccola corte emiliana possa essere passato anche attraverso i Caetani. Non lo sappiamo, ma le relazioni tra le famiglie esistevano e quindi l’eventualità è quantomeno verosimile.
A Carpi
Caterina Pico è una donna di notevole cultura: nel corredo per le nozze con Lionello I Pio di Savoia sono presenti, oltre ai consueti gioielli, argenti e biancheria, anche codici manoscritti e testi di autori classici, come Virgilio e le epistole di Cicerone (queste ultime sono pure il primo testo stampato a Venezia, nel 1469, da Giovanni da Spira: tutto si tiene in questo scorcio del rinascimento).
Quando il principe di Carpi muore, lascia alla vedova una notevole somma affinché realizzi una biblioteca. È proprio Caterina, con ogni probabilità su consiglio del fratello Giovanni, a chiamare Aldo Manuzio perché faccia da precettore ai due figli, Alberto e Lionello, di cinque e tre anni. Un atto notarile conservato negli archivi carpigiani ci dice che l’8 marzo 1480 Aldo ottiene l’incarico di insegnamento a corte, nonché la cittadinanza con esenzione fiscale. Pochi mesi dopo, il 5 agosto, il «magistro Aldo Manutio de Bassiano» risulta proprietario di «unum caxamentum» che affaccia sull’attuale corso Cabassi (identificato nell’unico edificio gotico ancora esistente nella via, ma non si sa se in effetti sia proprio quello). In quanto precettore dei principini Aldo abita a palazzo, quindi è possibile che questa casa e un altro paio che gli sono intestate costituiscano un emolumento, sotto forma di riscossione degli affitti. Vengono assegnati a Manuzio anche alcuni campi coltivabili che andranno in eredità al figlio Paolo e saranno amministrati da Lionello Pio.
Tra Aldo e Alberto si instaura una relazione ben più solida di quella tra maestro e allievo che, lo vedremo, perdurerà fino alla scomparsa dell’editore, nel 1515. Nel primo dei cinque volumi di Aristotele che l’editore bassianese dedica al principe di Carpi (1495) fornisce al «dotto giovinetto» una sorta di vademecum: «A te infatti non manca nulla: non il talento, che possiedi in abbondanza; non l’eloquenza, di cui sei ben dotato; non i libri, né di cultura latina, né greca, né ebraica, di cui vai in cerca con una solerzia senza pari; non gli insegnanti più preparati, che tu hai assoldato senza badare a spese. Continua dunque a dedicarti, come stai facendo, alle nobili discipline: io certo, per quel che posso, non ti farò mai mancare la mia presenza».
Tali righe ci restituiscono un Manuzio attento, paterno, benevolo. È solo da dettagli come questi che possiamo cercare di ricostruire e immaginare il carattere di quest’uomo straordinario. Infatti, la rielaborazione della sua biografia, lacunosa per alcune parti della sua vita e della sua attività, è addirittura oscura per quanto riguarda gli aspetti personali. Vedremo che Erasmo ci descrive paturnie e spilorcerie del suocero, Andrea Torresani (o Torresano), ma di lui, a parte che era maniaco delle grammatiche, non ci dice nulla.
I tanti studiosi che si sono dedicati al primo editore della storia hanno provato ad azzardare qualche ipotesi, sulla base degli elementi conosciuti. Per esempio si sa dei molti amici, ai diversi livelli della scala sociale, mentre non si conoscono nemici, se non rivali editoriali, quindi si può pensare che fosse cordiale, una persona con la quale passare un po’ di tempo in piacevole compagnia. Era capace di lavorare per molte ore di seguito, applicandosi con attenzione a quel che stava facendo, probabilmente era pignolo, attento, e abile. Amava il lavoro di squadra e cercava di sollecitare in tutti i modi la collaborazione tra gli studiosi; quel che chiedeva in cambio erano manoscritti da poter stampare.
Non c’è dubbio che avesse il bernoccolo degli affari e che utilizzasse tribunali e amicizie per far valere i propri diritti, ma mai in modo violento e prevaricatore, in un’epoca che violenta e prevaricatrice lo era parecchio. Non manifesta mai l’aggressività tipica dei suoi contemporanei, anzi appare schivo e talvolta imbarazzato per la celebrità. Ci sono tuttavia da registrare alcuni litigi per questioni di denaro con collaboratori che a causa di tali liti lo abbandoneranno. Viene quindi da domandarsi se Aldo condividesse almeno in parte l’estrema taccagneria del suocero.
Andare oltre queste deduzioni, però, appare difficile. Com’era il suo rapporto con la moglie, così tanto più giovane di lui? E con i figli? Nell’ultimo testamento lascerà alle due figlie la facoltà di scegliere se maritarsi o monacarsi, ed era una concessione molto avanzata in quei tempi, ma, al di là di questo, altro non sappiamo.
Durante gli anni di Carpi Aldo Manuzio con ogni probabilità ancora non pensa alla stampa e si dedica al mestiere di precettore, che si presume gli riesca piuttosto bene: Alberto e Lionello Pio non saranno gli unici allievi con cui conserverà rapporti di affetto. Dev’essere comunque un’attività molto impegnativa, infatti si lamenta che, oppresso da incombenze di ogni genere, gli restano soltanto quattro ore al giorno per scrivere un trattato grammaticale a beneficio dei suoi allievi. Non specifica però quali siano gli altri suoi compiti, oltre all’insegnamento vero e proprio.
Uno dei pochi punti certi del soggiorno di Aldo a Carpi è che trascorre il suo tempo quasi sempre assieme ai principini e li accompagna prima a Ferrara (1481) e poi a Mirandola dallo zio Pico (1482), dopo che Venezia dichiara guerra agli Este. Conosciamo questo soggiorno, durato qualche mese, grazie a una lettera del Poliziano: Angelo Ambrogini – questo il suo nome – era il più importante grecista dell’epoca e diventerà molto amico di Manuzio; i due si scambiano una fitta corrispondenza, ma si incontreranno di persona soltanto una volta, a Venezia. È a Mirandola che Aldo rimane colpito dal greco raffinatissimo del fiorentino Poliziano, in una sua lettera che legge in compagnia dell’umanista cretese Manuel Adramitteno.
Giovanni Pico in quegli anni sta cercando di trasformare Mirandola in un centro culturale di prima grandezza e potrebbe essere che Aldo si imbatta proprio qui nell’idea di un’accademia che possa diventare luogo di scambio e discussione tra dotti conoscitori della cultura greca.
Si può presumere che Aldo abbia approfondito la propria abilità a esprimersi in greco antico nei ritrovi che i grecisti tenevano nella villa di Pico. Il tono delle sue lettere del periodo è tuttavia quello di un giovane che si sforza di ben figurare nel mondo intellettuale che lo circonda. È sopravvissuta un’unica lettera di Pico ad Aldo, in cui il signore di Mirandola esorta l’umanista a proseguire nell’indagine filosofica. Evidentemente Manuzio era anche un suo compagno di studi, oltre che un protetto.
Incerto, invece, è un possibile viaggio a Venezia di Aldo assieme ai giovani Pio (nel 1487), che potrebbe essere stato il primo contatto del futuro editore con la Serenissima. Tre anni prima Caterina si era risposata con Rodolfo Gonzaga e si ritiene che il ruolo di Aldo a corte fosse diventato con il tempo più influente rispetto a quello di semplice maestro e precettore dei figli di primo letto. Caterina avrà altri sei figli da Rodolfo. Questi rimarrà ucciso nel luglio 1495 nella battaglia di Fornovo, mentre la donna morirà nel dicembre 1501, avvelenata da una damigella che sembra si fosse innamorata di lei senza esserne corrisposta. Amore e morte in una corte del rinascimento.
Il soggiorno di Manuzio a Carpi termina tra l’autunno e l’inverno del 1489: un rogito notarile di ottobre dove Aldo di Sermoneta è indicato come precettore del principe Alberto costituisce l’ultimo atto ufficiale che ne registri la presenza.
Il rapporto con i Pio, come detto, continuerà: Aldo entra a far parte della famiglia, dal 1503 adotta il cognome Pio e dal 1506 lo userà per firmarsi. Delle dodici dediche ad Alberto abbiamo già detto, e si presume che da Carpi gli siano anche regolarmente arrivati finanziamenti. Atti ufficiali e lettere registrano le relazioni tra l’editore e Alberto III fino al 1509, ovvero fino a quando il principe si schiera con i nemici di Venezia, mentre i legami con Lionello II proseguono fino alla morte di Aldo.
Il tenore della corrispondenza dei fratelli Pio con Manuzio diverge già dal 1498: Alberto gli scrive in tono affettuoso e intimo riguardo a libri, a comuni frequentazioni culturali, a questioni che Aldo intrattiene a Carpi. Lionello, che talvolta si firma filius, si occupa invece del lato pratico dei rapporti, e risponde alle richieste di Aldo di gestire gli interessi nelle terre emiliane, come, per esempio, nel luglio 1508, quando informa l’editore di «aver avuto cura del raccolto delle sue terre e di averglielo fatto accreditare». D’altra parte Lionello ha sposato una nobile veneziana, Maria Martinengo, e quindi le connessioni tra il castello di Novi, dove la coppia risiede, e la Dominante rimangono intense. Un atto notarile del marzo 1508 registra il mandato di Lionello Pio a Manuzio per ottenere una condotta militare dalla Serenissima (condotta che però non verrà concessa).
Aldo è legalmente un membro a tutti gli effetti della famiglia Pio e ha intestate a sé numerose terre che, almeno in parte, risulteranno proprietà degli eredi ancora nel 1556. Lionello nel settembre 1498 scrive a Manuzio affermando che manterrà fede alla promessa del fratello Alberto di donargli altre terre e un castello dove installare una stamperia e l’accademia. Non è quindi casuale che Aldo scriva che userà il «bel castello» per «insediarvi un’accademia nella quale, posta fine alla barbarie, si coltivino con impegno le belle lettere e le belle arti».
La donazione del castello, tuttavia, non diventerà mai effettiva, mentre Aldo nei momenti di difficoltà, nel 1506 e nel 1510, lo reclama per potersi trasferire con famiglia e stamperia. Sono entrambi anni nei quali Manuzio è assente da Venezia; i motivi li vedremo meglio più avanti.
Il castello è stato identificato con quello di Novi dove, come detto, risiedono Lionello e la moglie e dove effettivamente viene installata una tipografia che stampa una sola edizione. Secondo una fonte settecentesca e non verificabile, Alberto III avrebbe invitato Manuzio ad allestire una tipografia, ma questi ormai si era trasferito a Venezia e avrebbe quindi declinato la richiesta del principe. Quel che è certo, invece, è che il carpigiano Benedetto Dolcibelli (o Dolcibello) del Manzo – il soprannome viene dal fatto che proveniva da una famiglia di macellai – impianta una stamperia a Carpi prima in città (1506) e poi nel castello di Novi (1508), dove stampa la suddetta unica edizione, e quindi si trasferisce a Ferrara.
Dolcibelli aveva lavorato – assieme a Giovanni Bissolo, pure lui di Carpi, e a Gabriele Braccio, di Brisighella – a Venezia nell’officina di Aldo, dove aveva imparato il mestiere. Si era però ritrovato coinvolto in una brutta storia di contraffazione dei caratteri greci aldini, che vedremo meglio nel capitolo sui falsi, e se n’era andato da Venezia assieme ai due complici continuando a stampare, dapprima a Milano e poi altrove. I documenti sopravvissuti riguardo a questa vicenda sono molto pochi e quindi la conosciamo solo a tratti. Di conseguenza non possiamo neanche sapere se nel 1506, quando Aldo va a Milano e a Mantova, ci siano stati o meno contatti tra lui e il suo ex lavorante, che in quel momento faceva il tipografo nella città dei Pio. Questo fatto comunque dimostra che Aldo si avvale della collaborazione di alcuni carpigiani al momento di aprire la sua tipografia a Venezia.
La presenza di Aldo a Carpi è eternata da un affresco nella cappella di Palazzo Pio. Molto ben conservato, opera del pittore Bernardino Loschi, sulla parete di destra raffigura una specie di gruppo di famiglia dei Pio: in primo piano il trentenne Alberto III, dalle fluenti chiome bionde, con un copricapo nero; alle spalle il padre Lionello I, che quando l’affresco viene dipinto (inizio Cinquecento) è ormai defunto da una ventina d’anni. In secondo piano il fratello più giovane, Lionello II. Davanti al principe Alberto stanno due figure vestite con un lungo abito nero e berretto dello stesso colore. Una delle due, quella più arretrata, è identificata con Aldo Manuzio, poiché si tratta di un uomo di una cinquantina d’anni, che era proprio l’età di Aldo quando l’opera è stata eseguita.
Il personaggio che è ritratto davanti, più giovane, potrebbe essere o il filosofo mantovano Pietro Pomponazzi o l’umanista cretese Marco Musuro; entrambi si trovavano a Carpi assieme a Manuzio ed erano più giovani di lui, il primo di una decina d’anni, il secondo di una ventina. Musuro, colto filologo, lo ritroveremo perché diventerà uno dei più stretti collaboratori di Aldo. L’affresco si è conservato perché dopo l’esautorazione dei Pio e il passaggio di Carpi agli Este è stato semplicemente coperto con una tenda e non distrutto, come spesso accadeva quando si voleva rimuovere la memoria dei signori spodestati.
Adesso lasciamo l’emiliana Carpi e seguiamo finalmente Aldo nella città dove cambierà la storia del libro: Venezia.
3.
Come si diventa editore
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia tra il 1489 e il 1490. Con ogni probabilità la sua intenzione era di continuare a insegnare, e nulla di quel che sappiamo (poco) del suo primissimo periodo nella Dominante lascia presagire che stesse già pensando di mettersi a stampare. Di conseguenza non abbiamo idea se e quanto abbia contato sulla sua scelta di spostarsi il fatto che la città all’epoca fosse l’indiscussa capitale dell’editoria. Forse quel che davvero lo attirava di Venezia era la presenza di tanti dotti umanisti, in particolar modo greci: «Venezia, città che possiamo definire la nuova Atene del nostro tempo per la presenza di moltissimi uomini dotati di eccezionale cultura», scriverà Aldo anni più tardi.
Comunque non amerà mai a fondo la città che lo ospitava, non si sentirà mai veneziano, non sarà mai animato da particolare trasporto per il luogo dove era forse arrivato perché non poteva farne a meno, e dove si è fermato perché soltanto lì poteva mettere in pratica il suo progetto editoriale. I suoi primi tempi veneziani sono contrassegnati dalla continuità dei legami con Carpi, sia per quel che fa, sia per i collaboratori che si sceglie (abbiamo già detto, e vedremo ancora, che nell’appena aperta tipografia lavorano alcuni carpigiani).
Poco dopo l’arrivo nella Serenissima signoria Aldo pubblica la sua prima opera, il Panegirico delle muse (Musarum Panegyris), un lavoro in latino che costituisce un po’ il manifesto del suo metodo di insegnamento. Per farlo si rivolge allo stampatore Battista Torti, un calabrese di Nicastro, che nel 1489 imprime il testo – più un opuscolo che un libro – formato da due componimenti in rima dedicati ad Alberto Pio nonché da una parte centrale costituita da una lettera a sua madre Caterina. Ce ne sono giunte soltanto sette copie, in Italia se ne trovano due: a Bologna e a Napoli.
Aldo osserva che latino e greco vanno insegnati assieme e non separatamente, prima il latino e poi il greco, come si usava al tempo, e insiste nel sottolineare il valore educativo della lettura dei classici in originale. Fino a quel momento era stato possibile conoscere l’antichità ellenica soltanto attraverso le traduzioni latine. Certamente si era in tal modo potuto entrare in contatto con un mondo che sarebbe stato altrimenti destinato a rimanere sconosciuto, ma nel contempo le traduzioni lo avevano alterato, distorcendolo attraverso le lenti del latino. Aldo quindi ritiene che sia necessario tornare alla fonte e leggere le opere greche direttamente in greco (pure questa una concezione sorprendentemente moderna, come si vede).
Manuzio porta con sé a Venezia il manoscritto del Panegirico: con ogni probabilità gli serviva per promuoversi e farsi conoscere come insegnante. Se era stato precettore dei principini di Carpi poteva ben diventarlo dei figli di qualche patrizio della città di San Marco. E infatti viene assunto da Pierfrancesco Barbarigo con il compito di far da maestro a Santo, suo figlio naturale. Difficilmente sarebbe potuta andargli meglio: il doge in carica, Agostino Barbarigo, è zio di Pierfrancesco, il precedente, Marco, era suo padre, e per di più il patrizio entrerà in società con Manuzio quando deciderà di aprire la stamperia.
Non dobbiamo commettere l’errore di ritenere che Aldo, maestro prima ed editore poi, pensasse a un’istruzione allargata al popolo, che immaginasse i suoi libri in mano a schiere di giovani animati dalla voglia d’imparare. Proprio no: si rivolge ai figli dei ricchi e dei molto ricchi – cioè a una fascia di popolazione che al massimo arriva al 5 per cento – e la sua idea è quella di istruire la futura classe dirigente attraverso lo studio di una lingua morta: il greco antico. Una lingua che non è possibile imparare da soli per la semplice ragione che nessuno la parla, quindi la si può apprendere soltanto a scuola. Il tutto ha poco a che fare con il valore intrinseco della letteratura classica, quanto piuttosto con un metodo: i ragazzini che crescono studiando sui medesimi libri, da adulti si capiranno meglio. Ai nostri giorni si direbbe networking, assomiglia un po’ alla «rete dei vecchi compagni di scuola» che ancora oggi unisce in Gran Bretagna la classe dirigente che ha frequentato Eton e poche altre public schools.
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