Iulita Iliopulu-Il mosaico della notte- tradotta da Paola Maria Minucci-
-Donzelli Editore-Roma
Iulita Iliopulu, poetessa greca nata nel 1965, ha studiato letteratura bizantina e neogreca all’Università di Atene e teatro alla Scuola d’arte drammatica dell’Accademia di Atene. SCinque poesie in anteprima da “Il mosaico della notte” di Iulita Iliopulu, da poco uscito per Donzelli, a cura di Paola Maria Minucci, che comprende la raccolta “Il mosaico della notte” tradotta da Paola Maria Minucci e la raccolta “La casa” tradotta da Chiara Catapano.
Da “Il mosaico della notte”(traduzione di Paola Maria Minucci)
STELLE
Tanto piccole che appena tira vento
Rotolano giù
Dal cielo le stelle quasi a precipizio
Riportando di nascosto, in notti simili,
L’oro spento delle statue
Insieme a tracce violette di baci
Negli incavi, nell’ondeggiare leggero dei tessuti
Nelle sillabe di parole rimaste soffocate in bocca
In fretta nello splendore di un attimo
Perché nessuno le veda e si svegli
Spaventato per quella strana luce.
SEGNO
Nessun segno del tempo
Terreno intatto la memoria
A volte l’attraversa, come acqua, un bacio
Torna rinnovato
Affonda – passo nella sabbia –
Pensieri, immagini, sentimenti
E poi con più forza
Riporta
Il desiderio del mio sguardo
Che ti trovò nella folla
«Domani, domani»
Come la prima volta
Senza nessun segno del tempo
Il nostro vecchio amore
Più nuovo
«Domani. Nelle mie braccia. Di nuovo».
MOSAICO DELLA NOTTE
Si offusca l’aria, è scuro dentro la stanza
o fuori?
Immagini lontane, si odono appena
Il viola dei sospiri e il bianco – come di statue –
Che un tempo erano di un azzurro e rosso accesi
Segni, carezze, tagli che sulla pelle lasciano
Gioie vere e veri dolori
La bufera di un mare sempre estivo
Vuole distendere il suo lungo blu
Sui tetti, dentro i sogni
Rendere il vecchio più nuovo
L’amore più appassionato
Aprendo con timore i suoi petali
Nella prigione del piccolo vaso
Il tempo, come un vento
Si rinforza
Sotto i dirupi verticali del sonno
Un cielo con le sue stelle eufoniche
Cantilene, risatine, gemiti, brusii, baci
Frammenti di luce di un dio clemente, un’enorme sala da ballo
Come memoria illumina
Immagini lontane, si odono appena:
Bambini che saltano con la corda
E altre senza peso nelle pieghe dell’amaca
Altre ancora che prima di nascere promettono
– Con la fame di un abbraccio materno –
Voti d’argento, d’oro e di cera
Fiammelle che accendono altre fiammelle
Nel grande mosaico della notte
Con respiro sempre più affannoso
Per poco, solo per poco vive.
Si fa giorno?
Da “La Casa”
(traduzione di Chiara Catapano)
PRENDE QUALCOSA. Cose da niente. Un bicchiere, un
golf fatto a maglia. «Il bricco, prendi il bricco», le
grida la madre. E lei lo prende e dentro ci nasconde
una bambola di pezza, piegata in quattro. E la croce
d’osso di sua nonna. Poi avvolge la coperta, la sua
casa. Tutta la casa. E iniziano tre giorni di marcia
fino al mare. Di notte, passando sotto il filo spinato
la coperta s’impiglia, rimane agganciata. E resta per
sempre indietro la casa. Ora sale con gli altri sulla
barca, reggendo tra le mani solo la sua sorte. Ignota.
Biografia di Iulita Iliopulu, poetessa greca nata nel 1965,ha studiato letteratura bizantina e neogreca all’Università di Atene e teatro alla Scuola d’arte drammatica dell’Accademia di Atene. Scrive poesie, saggi e fiabe per bambini. Suoi componimenti sono tradotti in inglese, francese, spagnolo, italiano in antologie e riviste letterarie. Autrice di otto raccolte poetiche, ha tradotto In difesa della poesia di Percy B. Shelley e ha scritto diversi saggi e uno studio critico sulla poesia del Premio Nobel Odisseas Elitis. Si è occupata dell’opera del poeta anche con numerose conferenze e letture di suoi versi in Grecia e all’estero, oltre a curare l’edizione di molti suoi libri.
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–Gabriele D’ANNUNZIO –Il “LIBRO SEGRETO”-Rivista PAN n°9 -1935
Gabriele D’ANNUNZIO –Scrittore (Pescara 1863 – Gardone Riviera 1938). Fu uno dei maggiori esponenti del decadentismo europeo. Dotato di una cultura molto vasta, mostrò un’inesauribile capacità di assimilare le nuove tendenze letterarie e filosofiche, rielaborandole con una raffinata tecnica di scrittura.
Gabriele D’ANNUNZIO –Scrittore (Pescara 1863 – Gardone Riviera 1938). Fu uno dei maggiori esponenti del decadentismo europeo. Dotato di una cultura molto vasta, mostrò un’inesauribile capacità di assimilare le nuove tendenze letterarie e filosofiche, rielaborandole con una raffinata tecnica di scrittura.
Vita
Era ancora convittore presso il collegio Cicognini di Prato quando esordì con Primo vere (1879), una raccolta di poesie pubblicata a spese del padre (Francesco Paolo Rapagnetta, che, adottato nel 1851 da una zia materna e dal marito di questa, Antonio D’A., ne aveva assunto il cognome, trasmettendolo poi ai figli), e positivamente recensita da G. Chiarini. Trasferitosi a Roma nel 1881 per gli studî universitarî, che non avrebbe mai condotto a termine, fu accolto con simpatia negli ambienti giornalistici e letterarî e cominciò a collaborare alla Cronaca bizantina, la rivista di A. Sommaruga, restando affascinato dai metodi modernamente spregiudicati dell’editore, cui affidò la stampa (1882) di Canto novo e delle novelle di Terra vergine. Nel successivo periodo di dissipatezze (“La giovinezza mia barbara e forte In braccio de le femmine si uccide”), celebrato dall’audace Intermezzo di rime (1883), si unì in matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese (dal matrimonio nasceranno i figli Mario, Gabriellino e Veniero), trovò un impiego stabile come redattore della Tribuna, firmando con varî pseudonimi cronache mondane e culturali, e pubblicò le raccolte di novelle Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886; insieme con altre, una scelta di novelle da questi due libri sarà ripubblicata in Novelle della Pescara, 1902). All’esperienza della più elegante società romana e al nuovo grande amore per Elvira (o Barbara, come preferì chiamarla) Fraternali Leoni, si ispirò il romanzoIl piacere, composto negli ultimi mesi del 1888 e pubblicato l’anno successivo dall’editore Treves di Milano. Dopo la parentesi fastidiosa del servizio militare (1889-90), le ristrettezze economiche lo indussero a spostarsi a Napoli (1891), dove intrecciò una nuova relazione con la nobildonna siciliana Maria Gravina Cruyllas, dalla quale nacquero i figli Renata e Gabriele Dante. A Napoli collaborò tra l’altro al Mattino, si interessò alle opere di Nietzsche e Wagner, e pubblicò a puntate (1891-92) il romanzo L’innocente, apparso poi in volume presso l’editore Bideri (1892) e subito tradotto in Francia; insieme con il racconto lungo Giovanni Episcopo, di poco precedente (1891; in vol. 1892), esso risente l’influsso della narrativa russa. L’influenza della lettura di Nietzsche si fa invece sentire in modo determinante già nel Trionfo della morte(1894), e all’insegna del superomismo si svolgerà la successiva produzione dannunziana, a partire da Le vergini delle rocce (1896). Nel 1895 D’A. partecipò a una crociera in Grecia, che avrebbe poi trasfigurato nel primo libro delle Laudi. Intanto le suggestioni della crociera rivissero in un dramma, La città morta (1896; pubbl. 1898), grazie anche all’incoraggiamento a scrivere per il teatro che a D’A. veniva da Eleonora Duse, la più grande attrice del tempo, con la quale aveva ormai intrecciato una relazione (e per la quale avrebbe scritto poi Sogno d’un mattino di primavera, 1897, La Gioconda, 1899, e La gloria, 1899). Nel 1897 fu eletto deputato nel collegio di Ortona a Mare, ma, sia per la scarsa partecipazione ai lavori parlamentari sia per il clamoroso passaggio dai banchi della destra a quelli dell’estrema sinistra (“vado verso la Vita”), uscì sconfitto dalle successive consultazioni elettorali. La sua preoccupazione dominante, anche per le solite difficoltà economiche ora accentuate dal principesco tenore di vita nella villa detta la “Capponcina” presso Settignano, era piuttosto la produzione letteraria. Furono così composti, in un breve giro di anni, quelli che vengono considerati comunemente i capolavori dannunziani: il romanzo Il fuoco (1900); la tragediaFrancesca da Rimini (1902); i primi tre libri delle Laudi: Maia (1903), Elettra e Alcyone(1904); la tragedia pastorale La figlia di Iorio (1904). Nonostante qualche clamoroso insuccesso e la fine della relazione con la Duse, prevalentemente teatrali furono gli interessi del periodo successivo (La fiaccola sotto il moggio, 1905; Più che l’amore, 1907; La nave, 1908; Fedra, 1909), che pure culminò nell’ultimo grande romanzo dannunziano, ispirato a una drammatica vicenda amorosa, Forse che sì forse che no (1910). Nel 1910, per sfuggire ai creditori, D’A. fu costretto all'”esilio” in Francia, dove rinverdì un prestigio che risaliva agli anni Novanta e alle traduzioni dell’Innocente e del Piacere, scrivendo in francese antico Le martyre de saint Sébastien (1911), che fu musicato da C. Debussy e interpretato dalla danzatrice I. Rubinstein, e La Pisanelle ou La mort parfumée (1913). In traduzione francese, col titolo Le chèvrefeuille, veniva rappresentata nel 1913 la tragedia Il ferro, da lui composta in italiano come la precedente Parisina del 1912. In questi anni lavorò anche per il cinema, contribuendo non poco, con le sue sonanti didascalie, al successo del film Cabiria (1914) di Piero Fosco (G. Pastrone). Nel 1915, invitato a Quarto per inaugurare il monumento ai Mille, rientrò in Italia e avviò una personale, infiammatissima campagna interventista, in aperta polemica con gli atteggiamenti del governo. Dopo la dichiarazione di guerra, si arruolò come volontario e si distinse in una serie di imprese militari, come la Beffa di Buccari o il volo su Vienna, pur essendo rimasto gravemente ferito in un incidente aviatorio in seguito al quale perse un occhio. Nella totale cecità postoperatoria, aveva scritto (1916) il Notturno su sottili strisce di carta che la figlia Renata provvedeva a decifrare e ricopiare. Eroe pluridecorato e figura ormai leggendaria presso i reduci, si fece interprete, dopo la fine della guerra, della loro indignazione per la “vittoria mutilata” e guidò la “marcia di Ronchi” e l’occupazione di Fiume, che tenne, in qualità di “Reggente”, dal settembre 1919 al dicembre 1920, quando fu costretto militarmente a rinunciare alla sua impresa (a testimonianza degli ambiziosi programmi politici e sociali del D’A. fiumano resta la Carta del Carnaro a sfondo corporativista, che, redatta da A. De Ambris, ebbe da D’A. la forma letteraria definitiva). Ritiratosi nella villa Cargnacco, in quello che poi chiamerà il “Vittoriale degli Italiani”, sul Lago di Garda, fu colto alla sprovvista dal colpo di mano di Mussolini, che aveva appoggiato l’impresa fiumana e a essa probabilmente si era ispirato. Con il dittatore fascista intrattenne un rapporto difficile, apparentemente amichevole e di reciproca ammirazione, ma in realtà minato dal sospetto, vedendosi quindi confinato nella dorata prigione del Vittoriale e dissuaso da qualsiasi interferenza politica, in cambio del massimo riguardo formale e di non poche concessioni (nel 1924 fu creato principe di Montenevoso; poté sovrintendere all’edizione nazionale delle sue opere; nel 1937 divenne presidente dell’Accademia d’Italia).
Opere
Tra i molti generi letterarî da lui tentati, D’A. predilesse la poesialirica: essa anzi fu l’asse intorno al quale tutte le altre forme espressive ruotarono e si organizzarono, allo stesso modo in cui intorno alla letteratura ruotarono i varî aspetti della sua personalità poliedrica. Poetici sono del resto i suoi esordî, con due raccolte addirittura passate in proverbio: Primo vere (1879), per la straordinaria precocità, e Canto novo (1882), per l’invenzione di una inconfondibile cifra personale, pur a ridosso e quasi come approfondimento delle originarie suggestioni carducciane. Del classicismo carducciano, e in particolare delle Odi barbare, rimane virtualmente tributaria una poesia d’ora in poi sempre giocata sulla consapevolezza della propria inafferrabilità di Ideale e sulla conseguente inevitabilità dell’artificio: tutta barbara, congetturale e artificiosa, come congetturale e artificioso era stato il tentativo delle Odi carducciane di riprodurre i metri classici nella versificazione italiana. La stessa scoperta sensuale della natura, che rappresenta la novità più caratteristica di Canto novo e accompagnerà D’A. in tutti gli esperimenti successivi, coincide con un artificio, sullo sfondo di un primordio fantastico giustificando una barbarica irruzione nel mondo ignoto della poesia e conciliando il massimo dell’attualità e della concretezza con l’atemporalità del mito classicistico. Mentre il narratore di Terra vergine (1882) approfitta con acume della lezione verghiana, e soprattutto fornisce di un retroterra aneddotico la sfrenata sensualità del Canto novo, con Intermezzo di rime (1883) D’A. apre il gioco che da cronista mondano avrebbe condotto a perfezione nel quinquennio successivo: una scherzosa divinizzazione del bel mondo romano e di un rituale trasparentemente erotico, cui la poesia fosse in grado di restituire serietà, se non esplicitezza, ricavandone dal canto suo la conferma di una funzione sociale e del relativo consenso. È però da romanziere, con Il piacere (1889), che gli riesce di emanciparsi dalle frigide eleganze e dal valore puramente ludico già presentiti e ben esemplati da Isaotta Guttadàuro e altre poesie (1886). Nel romanzo, la “lotta d’una mostruosa Chimera estetico-afrodisiaca col palpitante fantasma della Vita nell’anima d’un uomo” mette finalmente di fronte una fedeltà all’Ideale deprecabile come un vizio immondo, per la disumanità che comporta, e un buon senso tanto immediatamente redditizio e socialmente rispettabile quanto assolutamente sprovvisto di qualsiasi attrattiva letteraria e intellettuale. Lo scrittore ribadisce così l’irrinunciabilità dell’Ideale nell’amore e nell’arte e al romanzo assegna il compito di creare artificialmente nel lettore la disposizione ad assecondare il suo sogno. A questa nuova disposizione del lettore si rivolge la più affabile poesia delle Elegie romane (1892) e soprattutto del Poema paradisiaco (1893), opera in cui, smessi i travestimenti delle raccolte precedenti per agitare l’altrettanto speciosa parola d’ordine della stanchezza dei sensi e della bontà, D’A. riscatta virtuosisticamente il linguaggio più dimesso del suo repertorio, puntando sulla tensione psicologica dei duetti sentimentali e sulla moltiplicazione delle pause che alonano di sottintesi e potenziano anche le parole più banali. Un altro romanzo, L’innocente (1892), proprio a partire da un equivoco umanitarismo esemplato su Dostoevskij e Tolstoj, aveva del resto chiarito che anche il mito della bontà e della semplicità era nutrito di intellettualismo e si fondava su un idealismo consequenziario in maniera spietata. La conversione al superomismo nietzschiano, per quanto effettivamente incoraggiata da affinità psicologiche e culturali indipendenti dalle letture napoletane di D’A., risulta tuttavia decisiva, sia per l’acuirsi degli interessi teorici di uno scrittore che infatti per un intero decennio mostra di prediligere la forma romanzo, e un romanzo per giunta “idealista”, sia per la più risentita percezione della dimensione sociale dell’attività artistica. Si passa quindi dal Trionfo della morte (1894), in cui il già collaudato tema misogino della Nemica coinvolge nella sua ispirazione distruttiva miti e istituzioni inconciliabili con la purezza dell’Arte, a Le vergini delle rocce (1896), il romanzo “di una Bellezza misteriosa e quasi terribile” che racconta, in una maniera provocatoriamente antiromanzesca, il sogno di una folle palingenesi reazionaria contro la “diminuzione” e la “violazione” da cui sono minacciati tutti i valori in una moderna società democratica. E si approda infine a Il fuoco (1900), che mette in scena l’esperimento di una sorta di regia dell’albeggiante vita spirituale delle masse, non più temute e respinte ma incoraggiate e guidate nelle loro oscure aspirazioni verso la Bellezza. Alle teorizzazioni romanzesche, corrispondono i concreti tentativi di un’arte sia pure solo velleitariamente popolare, compiuti attraverso il teatro. Miti, secondo la ricetta classica dell’arte per il popolo, e insieme dimostrazioni della immutata efficacia dei miti antichi sono le tragedie dannunziane, da La città morta (1898) a La figlia di Iorio (1904) a Più che l’amore (1906), a Fedra (1909), in cui la solita lotta per l’Ideale, spinta talora fino al crimine, rappresenta iperbolicamente una comune insofferenza nei confronti del grigiore della vita quotidiana e la parola poetica sperimenta la propria efficacia fuori del libro. La stagione dei capolavori dannunziani culmina però nei due più celebrati libri delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, quando l’urgenza del comprendere lascia il posto alla liberatoria conquista di una poesia nella quale felicemente collaborino istinto e artificio. Gli oltre ottomila versi di Maia (1903) sono virtuosisticamente giocati sul mantenimento della stessa tensione espressiva e esplicitamente votati addirittura all’emulazione del poema dantesco, ponendosi altresì a modello delle innovazioni metriche novecentesche e lasciando intravedere una nuova strada per la poesia civile. Alcyone (1904), di là dalla tenue trama di una vacanza estiva a contatto con la natura toscana, trova un motivo unitario nel suo porsi come “tregua” e nella conseguente scelta di argomenti privati e sentimentali, e punta sulla suggestione d’una lingua manipolata senza sforzo evidente e sulla sconcertante prossimità al linguaggio prosastico, sempre imminente e ogni volta mirabilmente eluso (ad esiti altrettanto significativi non giungono il secondo e il quarto libro delle Laudi: Elettra, 1904; Merope, 1912; né Canti della guerra latina, 1933, noto anche come Asterope). La fase del ripiegamento memoriale si apre all’indomani della splendida fioritura primonovecentesca, all’insegna di un autobiografismo meno strumentale e idealizzato. Se così Forse che sì forse che no (1910) traduce, concretamente svilendolo, l’Ideale dei romanzi precedenti nella passione aviatoria e, quasi come postuma compensazione, rappresenta il dramma della femminilità offesa, tutte le prose di memoria e quella che è stata definita “esplorazione d’ombra”, comprese tra l’atteggiamento solennemente meditativo della Contemplazione della morte (1912) e la scrittura apparentemente pedantesca e in realtà comica del Secondo amante di Lucrezia Buti (nel vol. Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile, 1924, primo dei due tomi che, con Il compagno dagli occhi senza cigli e altri studii ecc., 1928, compongono Le faville del maglio), rivelano addirittura uno scrittore nuovo. Con il Notturno (pubbl. nel 1921), il mutamento dello scenario psicologico e la singolare tecnica compositiva si risolvono nella ricerca di una lirica essenzialità all’interno della prosa, che nella paratassi inevitabile di un eterno presente vive l’ultima stagione di una sensibilità sovrumana, e, con le Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’A. tentato di morire (1935), lo scrittore a quella tecnica fa corrispondere la naturalezza quasi meccanica con cui si concede alla registrazione, al ricordo, all’intuizione più penetrante, senza ricavarne più nessuna scintilla di vitalità.
Le opere di D’A. furono da lui stesso riordinate in 48 voll., per l’ed. nazionale (1927-36), cui si aggiunse un vol. di Indici, a cura di A. Sodini (1936). Postumi sono stati pubblicati: Solus ad solam, un diario d’amore, a cura di J. De Blasi (1939); una scelta di sue Lettere a Barbara Leoni, a cura di B. Borletti (1954); i Taccuini, a cura di E. Bianchetti e R. Forcella (1965), seguiti da Altri taccuini, a cura di E. Bianchetti (1976) e da Di me a me stesso, a cura di A. Andreoli (1990); il Carteggio D’A.-Mussolini (1919-1938), a cura di R. De Felice e E. Mariano (1971); alcuni testi inediti, che dovevano far parte della raccolta La penultima ventura (2 voll., 1931), dedicata al periodo fiumano, in La penultima ventura, a cura di R. De Felice (1974), il Carteggio D’A. – Ojetti (1894-1936), a cura di C. Ceccuti (1979).
Ana Emilia Lahitte (La Plata, Argentina, 19 de diciembre de 1921 – Íd., 10 de julio de 2013). Poeta, novelista, dramaturga y periodista. Lic. en Psicología. Fue directora del Centro de Documentación e Información Pedagógica del Ministerio de Educación de la Provincia de Buenos Aires; Asesora literaria de Radio Universidad Nacional de La Plata; Secretaria técnica del Departamento de Teatro de la Escuela Superior de Bellas Artes; jurado de premios provinciales, nacionales y extranjeros.
DESERTI
Gli uomini blu
costeggiano le alte dune.
Non parlano di sete
con chi non la conosce.
Come cibo
condividono silenzi di sabbia.
Sembra che ci separino eterni
orizzonti.
Non sanno
che in loro vive un’altra sete.
Esangue
senza oasi.
Quella dei nostri deserti.
(da La notte e altre poesie, 1960)
.
.
DOLCEZZA
Com’è ardua… com’è serena
questa tristezza
di essere finalmente sola
con l’ombra.
O già senza di essa.
(da Legno e trasparenza, 1962)
Di Ana Emilia Lahitte sul Canto delle Sirene:
Ana Emilia Lahitte
EL SUETER DE FEDORIO
En los bordes raídos del suéter
de Fedorio
se arremansa la vida y sus historias.
Jamás
me atrevería a proponerle restañar
esos hilos desgastados
reavivar los colores
las zonas percudidas como un abecedario
para ciegos.
Quitárselo
sería desollarlo.
El suéter de Fedorio
es una hogaza
un libro de bitácora un sol un campanario
alguna melodía que se canta
sin que nadie la escuche.
Su intemperie
anuda cuanto ha sido algo más
que un adiós
menos que un llanto
algo que sólo cabe en el hueco secreto
de la mano.
Si otra piel respira
debajo de mandala de su suéter gastado
será sólo un sudario
que busca convertirse en el revés cereal
de esa coraza
hilada por los pájaros.
ATRAPADOS
Sólo tengo de vos
una fotografía con pómulos rasantes
tu pelo de llanura sobre los hombros tensos
y sin brazos
-no he podido inventarlos todavía-
y tu extraña manera
de acompañarme a solas
de este lado del mar.
Vivías en París
(lo especifica el dorso de la fotografía)
ignoro si habrás muerto.
Importa
el desamparo de tu mirada inmensa
que me atraviesa
y sigue camino a mis espaldas
sin dejarme jamás.
Mirás hacia el vacío.
Un abrazo
sin tiempo que se abraza a sí mismo.
Mirás
como buscando la huella de un albatros.
Algo que implora
un límite para poder llegar.
///
Ni siquiera conozco tu sombra.
Sin embargo
regreso sin descanso
y me tiendo a tu lado en tu voz
en tu sed
en el tacto insaciable
con que rastreo a ciegas tus rasgos
con mis dedos.
Y te llevo a mi piel.
Y siento que tus muslos
aprietan con el celo de lo deshabitado.
Gozamos
el secreto pacto
de lejanías
que anuda nuestros cuerpos
en una memorable batalla despojada
de heridas y arrogancias.
Una trama ilesa
bellamente perversa insiste en atraparnos.
Y estamos atrapados
aquí
en el Sur más sur.
En esta factoría de la imaginación oculta
en el reverso
de los acantilados.
Ana Emilia Lahitte
LOS CHICOS DE LA CALLE
Oh, niños asesinos, oh salvajes antorchas. Julio Cortázar
Ragazzi di vita
los llamó Pasolini
con su piedad adversa
desollada.
Y nos los deja así
sin otra identidad que la mugre
y la llaga.
Debajo
del abrigo de su costra de escaras
-cristos breves-
los chicos de la calle
no saben todavía que su sombra atrapada
crece
para la historia de la infamia.*
El dolor
nunca es niño.
Y en ellos ni siquiera es dolor.
Es una humillación
de la esperanza.
* Borges
T I G R E S
Dicen
que el territorio de las hembras
es menor.
Pero el olor a hembra atraviesa el verano
y el celo
es territorio prometido
para tigres
y albatros.
DESIERTOS
Los hombres azules
frontera de las altas dunas.
No hablan de la sed
con quien la desconoce.
Como alimento
intercambian silencios de arena.
Parecen separarnos horizontes
eternos.
Ignoran
que con ellos convive otra sed.
Exhausta
Sin oasis.
La de nuestros desiertos.
Ana Emilia Lahitte
LIBERACIÓN
Las manos.
Sometida extremadura
de la avidez y de la servidumbre.
Si pudiera
las dejaría partir
desarraigadas
sabiamente inexpertas
como el tacto feliz de los amantes
buscándose en la oscuridad.
SELLOS DE POSESIÓN
CUERPO DE MUJER
Conspiración del universo
para que el horizonte
se desnude.
QUASAR
Aquel falo de estrellas
que siempre pareció comenzar
en tu boca.
PECADOS
Hay pecados rebeldes
que no desaparecen hasta violar
alguna garza azul.
Ana Emilia Lahitte
Ana Emilia Lahitte, poetessa argentina, nasceva il 19 dicembre di cento anni fa. Esordì a vent’anni con i poeti della “Generazione degli Anni ’40” differenziandosi subito per il tema della morte nel suo significato universale: “Il polso arduo della bellezza ferita, la sua denuncia testimoniale, la sua universalità a terra. Il passaggio fu arduo, ma il clamore del suo significato era chiarissimo” disse in un’intervista. Il suo stile con gli anni va condensandosi, si fa più nudo, con il minimo di parole si contrappone all’abuso del discorso perpetuato dai mezzi di comunicazione nel tentativo di “sintetizzare la chiarezza esistenziale del complesso che l’uomo di oggi comporta, senza spogliarsi della radice ancestrale che lo sostiene”.
Ana Emilia Lahitte (La Plata, 19 dicembre 1921 – 10 luglio 2013), poetessa e scrittrice argentina. Ha pubblicato 27 libri suddivisi tra poesia, narrativa, teatro e saggi. Ha collaborato con diversi ministeri alla diffusione della poesia argentina nel mondo.
Ana Emilia Lahitte (La Plata, Argentina, 19 de diciembre de 1921 – Íd., 10 de julio de 2013). Poeta, novelista, dramaturga y periodista. Lic. en Psicología. Fue directora del Centro de Documentación e Información Pedagógica del Ministerio de Educación de la Provincia de Buenos Aires; Asesora literaria de Radio Universidad Nacional de La Plata; Secretaria técnica del Departamento de Teatro de la Escuela Superior de Bellas Artes; jurado de premios provinciales, nacionales y extranjeros.
Lahitte publicó 24 libros (poesía, narrativa, ensayo ,teatro y periodismo).
Algunas de sus obras publicadas son : Sueño sin eco(1947), El muro de cristal(1952), La noche y otros poemas(1959), Madero y transparencia (1962), Al sur de marzo (1969), Los abismos(1979), Los dioses oscuros (1980),El tiempo, ese desierto demasiado extendido(1993),Insurrecciones (2000),Summa de poemas, 1947-1997 (antología, 2001), Memorias del Adiós (2004),Los abismos,El cuerpo, Cielos y otros tiempos,Sueños sin ecos, Los dioses oscuros, El padre muere (2006), Gironsiglos (2006).
Es importante destacar entre sus ensayos y compilaciones poéticas: Veinte poetas platenses contemporáneos (1962), María de Villarino (1966), Roberto Themis Speroni (1975), Cinco poetas capitales (Ballina, Castillo, Mux, Oteriño y Preler, 1995).
Obtuvo, numerosas distinciones, algunas de las cuales son: Pluma de Plata del PEN Club Internacional, Centro Argentino (1980), Puma de Oro de la Fundación Argentina para la Poesía (1982 y 2001), Primer Premio Nacional de Poesía, Región Buenos Aires (1983), Premio Konex (1994), Premio de Poesía “Esteban Etcheverría”, de Gente de Letras (1999), Premio Página de Oro y Letras de Oro de Honorarte.
Su obra ha sido incluida en diversas antologías y traducida al inglés, francés, alemán, italiano, catalán y portugués. Forma parte del Inventario de Poetas en Lengua Española -segunda mitad del siglo XX- trabajo de investigación realizado conjuntamente por la Universidad Autónoma de Madrid con la Asociación Prometeo de Poesía, de España y tambien ha sido incluida en el Breve Diccionario Biográfico de Autores Argentinos -desde 1940- realizado por Silvana Castro y Pedro Orgambide, Ed. Atril, 1999.
En 2001, la Municipalidad de La Plata la designó Ciudadana Ilustre.
Yolanda Bedregal ((21 September 1916 – 21 May 1999))-Poetessa e scrittrice boliviana, nota anche come Yolanda di Bolivia. La sua poesia, affine agli inizi al Simbolismo, esalta i sentimenti comuni agli esseri umani con linguaggio chiaro e preciso, virando verso una visione più religiosa.
L’AUTUNNO DEI TUOI PARCHI, NEW YORK
*
Chi ha cantato, New York, la dolcezza dei tuoi parchi in autunno?
Chi ha sentito il fruscio dei tuoi baci d’oro
quando l’albero ossuto ha lasciato cadere le foglie
brune nella fucina del ventre della roccia?
Ogni foglia che cade non è forse un tuo pensiero?
Città, perché la gente ti guarda con stupore
come se fossi un mostro dagli occhi milionari?
Perché tutti ti cercano nell’elevazione dell’acciaio
e nessuno nella dolcezza dei tuoi parchi in autunno?
Ho percorso da sola i tuoi grandi viali,
dimenticando la tua severa struttura metallica,
sottomessa solo alla terra su cui posi;
avevi tanta nostalgia di uno sguardo umano
che la terra sorrideva sentendo che la amavo.
Forse è per questo, città di New York,
che ti ho sentito mia, come una fata madrina
quando, attraversando i tuoi parchi, le foglie mi seguivano
con un mormorio profondo, muto tra i rumori,
mettendo a tacere la loro angoscia di soli infranti.
Ho amato la tua erba secca quando soffiava il vento
dei primi freddi in caduta verticale.
Ho amato i secchi filari di tronchi spogli
che sembravano bambini affamati in casa
di un avaro magnate, o lavoratori congelati
nello sciopero forzato da giorni senza pane.
Città, quanto ti amo pensando alla tua nebbia!
È così che sei più intima e più tu,
con gli occhi chiusi davanti a un cielo arancione,
inviando il tuo messaggio al fiume in cui si culla
la commovente lacrima dell’esistenza umana.
Città, ti conosco perché ti ho baciato i piedi
nell’erba gialla del tuo parco muto.
Città, ho visto i tuoi alberi scrivere geroglifici
sulla pagina aperta del cielo biancastro
fini tracce scure di segno terreno
e poi ho udito il canto liturgico degli esseri
che in solenne processione dimorarono nelle tue viscere.
Ho visto sulle tue fredde banchine galleggiare le grandi navi,
e anche la vela più alta a stelle e strisce,
dall’acqua sorgeva il tuo cuore nascosto;
ed era solo l’ombra della mia mano nell’addio
che accarezzava la carena gravida dei tuoi viaggi.
Ho visto i tuoi ponti scavalcare il tumulto della gente,
ragnatele giganti di meditazione.
Ho sentito nella notte la tua voce intima gonfia
di un respiro caldo come un seno sognante.
Mi sono sentita piccola nella tua rete di luci
(ma c’era Aladino a guidare i miei passi)
e mi hai dato ombre, riflessi, folla, solitudine.
New York, città intima, come ho saputo amarti
negli angoli lontani dove sei più tu!
Chi ha cantato, New York, la dolcezza
autunnale dei tuoi parchi?
Dammi quella voce amica per continuare a chiamarti
forte nel nobile flusso del tuo Hudson.
Dammi quella voce amica per continuare a chiamarti
nell’erba arida che i tuoi sandali dorano.
Dammi il vento dei moli, la mano dei tuoi ponti.
New York, continuo ad amarti nei tuoi parchi
come un’altra foglia bruna nel tuo vento d’autunno.
—————————————————–
Me llegaré al altar del hombre
en ofrenda de huída y rebeldía.
Hombre de ahora y de siempre,
abre tu mano a recibirme
y levántame al cielo como una hostia
aunque soy sólo pétalo de lágrima.
Hombre nuevo y eterno,
escúchame.
Sobre tu pecho roto
llamo y clamo.
Mi palabra golpea
-obsesionante ala obsesionada-
contra las sienes.
Mi palabra del grito
te taladra la frente,
sangre de luz de la herida
bautizará por un instante,
hombre frágil,
a la mujer eterna.
Yolanda Bedregal -Poetessa boliviana-
Eterna como el sueño fugaz.
Yo te miro sin ojos desde siempre.
tú me llevas en ti desde que existes.
Si antes no lo sabías,
ahora
ya no lo puedes olvidar.
Yo he crecido en el mar
sobre una ola que se alargó
para volverse tallo.
En ese tallo de agua limpia
he subido a mirar a los ojos de Dios.
Ahora me inclina un hálito a tu mano,
y estoy en ti como la mujer muerta
por la que todos los hombres han llorado.
Tú también has llorado
por tu hija, por tu madre,
por la mujer eterna de cuya muerte vives.
Ya no lo puedes olvidar.
Cuando tus ojos caminen en la sombra,
sentirás todavía por el cuerpo
una dulzura amarga y tibia:
beso en las palmas juntas
y una paloma que huye de tus dedos.
Con mi cara de piedra
yo estoy en la otra orilla.
Existo para ti en este momento;
y para mí no existo
porque soy más que eterna en cinco letras.
En el altar de Hombre fuerte como la vida,
hombre de hierro y hielo,
metal, sangre y espíritu,
cae la ofrenda íntegra
de la mujer lejana.
Mujer de canto y llanto
eterna como el sueño.
Yolanda Bedregal -Poetessa boliviana-
Alegato inútil
Cada día tenemos más salobre la saliva.
La migaja se crispa
ante la entornada puerta del perdón.
Cada día se saltan a las uñas
los dos niños morenos de los ojos
que fueron ángeles despiertos
a celestes honduras.
¿Con qué habrá de rematar el alegato
que está y en el tope del sollozo?
Cada hora se ha hecho voraz
como engranaje de colmillos;
los pasos se han desacostumbrado
a la caricia de la grama húmeda;
el aire avanza granizado de saetas.
Conduélete, Señor, a ti clamamos.
¡Así tu mundo tambalea!
No somos Job, oh Padre; ¡no te tornes padrastro!
¿Acaso estás enfermo, o te pudres
con este vaho que te sube desde nos?
No te tornes padrastro, buen Dios.
Sonríe una vez sobre tu Hechura.
Regresa a tu niñez de Primer Día
cuando soplabas burbujas de color
y te brotaba de las sienes
boscaje y pleamar.
Eras entonces sin arrugas,
y era tu barba de cristal
lira entre los dedos de la luz.
Sonríe, Padre, sobre el Libro mancillado,
y todos en Tu nombre
escribiremos PAZ.
La simple trinidad de una palabra:
bandera universal para soñar;
hostia de comunión para construir;
extramaunción para vivir.
Perdona, Dios, esta mi turbia arena…
Canción de la esperanza
Canción de la esperanza
en el camino inútil
de mi vida, tus manos
cruzan como dos alas
cargadas de ternura
Yolanda Bedregal -Poetessa boliviana-
Elegía humilde
Un auto ha arrollado a la vieja sirvienta
¡La pisó como una hoja!
Era una flor del campo, toronjil, yerbabuena.
En la casa hubo duelo
por su muerte de plata.
Esta mujer oscura de noble cepa aymara
endulzaba la vida de seres y de cosas.
Llena está nuestra infancia de su imagen
de Mamita Copacabana;
debajo de su manta de castilla
siempre traía la sorpresa
de frutas, empanadas o juguetes.
¡Ay dulce abuela nuestra
de las macetas y del canario!
Tendida en su mortaja,
con unción le besamos las santas manos toscas
quietas por fin del cotidiano afán.
Parecían avergonzadas del reposo;
dos angelitos blancos bajaron a cubrirlas.
Su nombre era Mama-Usta, y nada más.
Las hadas humildes sólo tienen un nombre
pero es varita mágica de gracia y bendición.
De la mano llevaba a mi padre a la misa;
la conocieron los abuelos y bisabuelos.
Era lazo entre el ahora y lo perdido.
Todo lo daba, todo, su bondad y su alegría,
el cobre de la dádiva, el óleo del consuelo.
Cual sombra milagrosa
colmaba de manjares la olla de cada día,
y con agua y con sol daba celajes
a los visillos y manteles.
Ella prendía el fuego del hogar.
Un auto la ha matado. ¡Ay, Dios mío!
Su frente estaba herida
y su cuerpo, nunca tocado,
salpicado de barro.
Cuando llegaba al cielo,
con un solo zapato, la falda desgarrada
un coro de jilgueros le cantaba aleluyas.
Con humilde inocencia, debió de imaginar
que era fiesta pascual para nosotros.
-¿Como para ella el aleluya?
¿Como para ella nuestro llanto?-
Sencilla y limpia entró en la gloria
cuidando todavía la canasta
para la cena de hoy.
Nuestra Mama Usta ha muerto.
¡Ay canario, ay macetas, patio y agua!
Final
(Fragmento)
Ansiosa, ansiosa, ansiosa
como los cuerpos jóvenes,
allí donde quiebra la inquietud de los hombres,
allí donde diluyen su anhelo las mujeres,
en ese mismo límite
yo soy la curva flecha
que se lanza a sí misma.
Salí del duro sueño
que se rompió la quilla
contra la fina arista de mi primer naufragio.
Era mi nave nueva,
era mi sueño intacto.
Eras tú, marinero, un marinero abstracto
que me echaba en sus hombros -San Cristóbal enorme-
y yo un rosado peso: pétalo sin historia.
¿Ahora qué? Yo me digo.
El amor sólo existe en el borde del beso.
¿Y después? En el borde del sueño.
¿Y después? En el borde del mundo,
donde los hombres trizan su propia vida trunca
y donde las mujeres se alegran con las lágrimas.
En ese mismo borde
me detuve de súbito.
Me desnudaba el aire.
Por mis piernas subían suaves hilos rosados,
los senos me brotaron como pequeñas lunas.
Mi voz era la muda
rugiente voz de todas las mujeres del mundo.
Tres pinceladas ágiles
escribieron tres puntos en cruz sobre mi cuerpo.
En ese mismo borde
se me quedaron quietos
los breves pies errantes.
Mis brazos levantados
hacían señas largas
a los astros maduros.
Nieblas, nubes en polvo y líquidos arcoiris,
sangre de estrellas rotas, harapos de los mares
todo estaba caído en mis ojos cerrados
porque unos raros pájaros me arrancaron los ojos.
Ahora qué ¡Yo me dije!
Amor para mis quietos pequeños pies clavados.
Amor para mis ojos en el pico de un ave.
Para aquellos que saben desenterrar un sueño.
Los hombres están tristes porque el amor es eso.
Ya no te llamo ahora.
Ahora mi carne joven
tiene pequeñas lunas
y es más fácil hundirse
en el mar que en la tierra.
Yolanda Bedregal -Poetessa boliviana-
Holocausto
Oh Cristo, yo quisiera de tu augusta cabeza
desclavar los espinos; endulzar tu martirio;
darte mi adolescencia como incienso en delirio;
alabándose en salmos, restañar tu tristeza.
Te volcaría en mi alma con la dulce certeza
de corporal expolio a cabezal de lirio.
Me inmolaría entera como ala sobre cirio.
El humo, en holocausto de mi cuerpo ofrendado
empapada en perfume la esponja de la hiel
y, unida entre llaga, mi vida en tu costado.
La culpa redimida y el mundo sin pecado
a la ultima palabra de Dios crucificado,
urgiría con rosa de amor tu humana piel.
Juan Gert
Mi sueño se hizo dulcemente cal.
La bóveda perfecta de tu cráneo
enclavada en la mariposa de mis huesos
es frágil tulipán
coronando las alas abiertas de la pelvis.
Sacas el molde al mundo
en mi cintura breve;
recogido y devoto como un rezo,
hilas con mi sangre el Universo,
hijo mío.
Creces dentro de mí
como en vaso ritual.
Por ti conozco
la humildad de ser la tierra fértil,
por ti el orgullo del vital milagro;
por ti soy urna bíblica,
por ti soy comunión y penitencia.
Por ti la muerte en su medalla acuna
perfil de piedra en querubín de niebla.
El vivo tulipán de tu cabeza
saca de nuevo el molde al Universo.
Nacimiento
Ultimo día del invierno y primero de la primavera.
Ultimo día de la tibia tiniebla de la entraña
para entrar en la fría luz del mundo.
Yo estaría madura de la sombra, de la nada,
del amor: madura de la carne en que crecía.
Y asomo mi cabeza con un grito:
flor de sangrante herida
cúspide lúcida del dolor mas hondo
jubiloso momento de tragedia!
Mi madre habrá tenido sus ojos, lacrimosa,
a la semilla de las cruces.
Nadie pensaba entonces que relojes
de cuarzo o girasol la esperarían.
Al vórtice de esta hora, cuantos muertos
habrá resucitado en el vagido
que tenia la alcoba de luz verde.
Yo habría de cumplir cuantos designios,
tendría que repetir la mascara de algún antepasado
quién sabe la ponzoña de su alma, o su nobleza;
realizar sus venganzas, restañar sus fracasos.
Venir de la resaca de unos seres lejanos
que se amaron un día
que se encadenaron con la vida
ser argolla mas de esa condena.
Saber que somos frutos de un punto de alegría
y ese germen, ¡Dios mío!
desde qué grietas sube, de qué simas?
De la tibia tiniebla a la luz fría
hendiendo vida y muerte
la frágil levadura su eternidad mordida.
Rebelión
Miraba yo la pampa inmensa soñando con el mar.
Miraba yo la pampa tensa, tan alta, tan serena,
tocando con el cielo su frente de cristal;
un acorde de grises y violetas su manto,
que altura en la belleza!
que altura en la belleza!
que majestad estática en el día altiplánico!
De pronto un niño llora.
Entre la paja brava, con su ponchito viejo
llora un niño. Por que?
Quien sabe…
El indio aymará se lleva el grito en su raza,
y su clamor innato
desgarra la serena nobleza del paisaje.
Un niño, un llanto humano es una herida abierta
que ensangrienta este mundo.
Tiemblan y se estremecen los monolitos míticos:
se rompen y entreveran los caminos de paz.
Hay maldad en la tierra.
Arde lo que era de hielo.
Las palabras suaves se crispan en los puños
desafiando al relámpago.
Corro sobre la pampa desaforadamente;
me quema el corazón como una brasa.
Hay maldad en la tierra, hay injusticia.
Quizás mas lejos halle la bandera que busco.
Quiero la gleba abierta con sus labios de surcos
como un libro de música.
Quiero que se calme este llanto de niño
que es llanto del mundo.
Resaca
Cuando ya la resaca deje mi alma en la playa,
y del arco agobiado de mi espalda se vaya
el ala cercenada, cual vela desafiante,
en cicatriz y estela prolongará el instante.
Quedarán vigilando, símbolo intrascendente,
dos pobres ojos pródigos y una mendiga frente.
¡Catacumba de agua, amor! ¡No me conoces!
Ni nadie nos conoce. Sólo hay fugaces roces,
desencuentros, en la prieta mudez de encrucijadas.
Expían su demora presencias nunca halladas.
No son cruz ya los brazos ni altar para holocausto
de salvajes ternuras. Con su claror exhausto,
un sol desalentado ahonda los abismos.
Somos polvo y lucero, todo en nosotros mismos.
Para esta elemental ceniza taciturna
sea la inmensa lágrima del Mar celeste urna.
Salada savia
Padre mío, el invierno -espada de tu muerte-
sus varillas de hielo sobre mi pecho inclina.
Crujen las hojas secas en desolada sombra
al filo del minuto que te arrancó a la luz.
Ya no hablaremos nunca del verdeciente pino
aunque giren los meses hacia la primavera;
yo veré conmovida hundirse contra el cielo
la erguida copa oscura, y ya estarán tus ojos
perennemente mudos en el carbón azul.
Se esponjarán los días, descenderán las noches
hacia asoladas playas del Siempre y del Después,
mas la salada savia del amor está herida
al filo el minuto que te quitó de mí.
Contigo platicamos del trino y la gavilla,
del papel y el amigo, la reja y la parábola,
del agridulce zumo en el cristal humano.
Fraternales rondaban por tu voz de maestro
San Francisco de Asís, Don Quijote y Jesús.
Padre mío, en las horas del hogar apacible
devanamos la lana del cotidiano afán;
y siempre tu sonrisa tendía el hilo de oro
que bendecía el agua y suavizaba el pan.
Presagio de ventura, flotaban nuestros nombres
con halo de alegría si los decías tú.
Hoy me duele hasta el nombre que tú ya no pronuncias
y me pesan las manos tendidas hacia ti.
Tus ojos amparaban la senda de mi verso.
Mi infancia en tus rodillas todavía mecía
la muñeca de trapo que el tiempo sepultó.
Ahora me llueven años por cada hora que faltas.
Nuestro pino ha llorado hasta su último espino.
Aúlla la madera de su sillón vacío;
los platos en la mesa tienen sonido a roto;
las pisadas resuenas indagando algún eco.
Esta salada savia del amor se hace niebla
al filo del minuto que te llevó a la luz.
Tus manos
Canción de la esperanza
en el camino inútil
de mi vida, tus manos
cruzan como dos alas
cargadas de ternura.
Viaje inútil
Para qué el mar?
Para qué el sol?
Para qué el cielo?
Estoy de viaje hoy día
en viaje de retorno
hacia aquella palabra sin orillas
que es el mar de mi misma
y de tu olvido.
Después de que te he dado mar y cielo
me quedo con la tierra de mi vida
que es dulce como arcilla
mojada en sangre y leche.
Ahora me sobra todo lo que tuve
porque soy como acuario y como roca.
Por mi sangre navegan peces ágiles
y en mi cuerpo se enredan las raíces
de unas plantas violetas y amarillas.
Tengo en la espalda herida
cicatrices de alas inservibles,
y un poquito en mis ojos todavía
hay humedad inútil de recuerdos.
Pero, que importa todo esto ahora?
cuanto estiro los brazos y no hay nada
que no sea yo misma repetida.
Acaso no soy mar y no soy roca?
Misterios de colores en mi vida
suben y bajan en mareas altas
y extraños animales y demonios
se fingen ángeles y helechos en mis grutas.
Están además el mar, el sol, la tierra.
Ahora que he vuelto de un amor inmenso,
tengo ya en la palabra sin orillas
lo que pudo caber entre sus manos.
Poesie di Daria Menicanti- una delle voci più nuove e singolari della letteratura italiana del Novecento
Daria Menicanti
Daria Menicanti è nata a Piacenza da padre toscano e madre croata, l’originale poetessa e traduttrice si laureò nel 1937 in Lettere e Filosofia con una tesi su John Keats. In seguito lavorò a Milano come professoressa e preside di Scuole Medie. Le sue strofe, in apparenza leggere, sono il frutto di una profonda riflessione esistenziale che coltivò anche grazie al rapporto col marito, il filosofo Giulio Preti, sposato nel 1937, con cui mantenne rapporti di amicizia anche dopo la separazione, avvenuta negli anni Cinquanta. “Ironia, unica salvatrice del genere umano”, affermò lei stessa ribadendo di fatto una dichiarazione di poetica. “Daria aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”, scriverà la narratrice Lalla Romano in un articolo pubblicato dal Corriere della sera il 20 gennaio 1995 per commemorare l’autrice, morta il 4 gennaio precedente a causa di un tumore alla gola in una casa di cura di Mozzate. Un giudizio egualmente lusinghiero lo aveva già espresso parecchi anni prima, nel 1978, il critico Sergio Solmi: “La sua poesia, -affermava- priva degli strombazzamenti di cui godono normalmente i poeti alla moda, pare a me, nella sua nuda semplicità e sincerità, una delle più vive e schiette dei nostri giorni. Appartiene alla poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi. Il sottile brivido che essa insinua nel lettore è il brivido dell’autentica poesia.”
—————————————————————- INVERNO AL BAR BOZZI
(Daria Menicanti)
Con la tazzina stretta tra le dita,
ben calda tra le dita,
sola, in pace,
in un tiepido alone
di vapori,
di aroma di caffè,
indugio presso il banco
insaziata di calore
tra gli urti continui
e i pardons.
Qui ritrovo la luce,
qui di nuovo la gente,
qui le parole,
vi si compra in una schedina
qualche gran sogno di poche ore
e, con lire duecento, si avventa
per voi
l’ultima voce dal juke box.
Ma gratuitamente a ciascuno
tremulo grida il video turchino
ora le stragi del Congo
le stragi d’Algère –
e in cima al mio alto sgabello
(dianzi quieta
quasi felice)
improvvisamente a disagio
mi sento uno stupido uccello
che tutti ha lasciato partire
i propri compagni
da soli
per il Sud.
PER UNA POETICA
Di solito succede a questo modo:
dopo un lungo silenzio le parole
anche le più comuni le più
consumate dall’uso e dalla pace
vita riprendono, colore.
Escono ardendo e si aggruppano in corone
di isole in arcipelaghi
o, se hai forza e fortuna, in continenti.
Con quel sapore nuovo con quel
mutante arcobaleno che hanno intorno
a fatica le riconosci e ancora
più a fatica le fermi mentre sciamano
da te veloci: ma è un altrove è un fuori
il grido amoroso intrattenibile
che le incalza saltuario
che le spinge lontano dagli orrori del vuoto.
Cedono a mano a mano
sommesse o sontuose – lo sai –
al divenire al duro precisarsi:
volanti comete di tanto
indugiano quanto una nota
quanto in lastra di specchio una presenza
e subito si arrendono spente
nel nuovo turno di silenzio.
L’ULTIMO MESE D’INVERNO
Con l’ultimo mese d’inverno
si fa delicata una stagione
già tanto mordace. La luna
riporta con gentili esche la sua
trasparente morte.
E’ FIORITO L’ALBERO DEL CORTILE
Una sfera
pallida e trasparente è caduta
sopra le braccia aperte
dell’albero in attesa.
Una sfera
di fiori brevi più bianchi dell’alba
s’è posata in cortile
tra vorticose pareti.
La sua presenza aerea
la sua improvvisa grazia da immortale
rende felice e disperato chi
la guarda.
Gabbiani
Gabbiani blu gridano ai pesci ingiurie
parolacce. Gridano in Gabbiano
ai pesci: ehi, voi! ehi, voi!
Ci si buttano sopra imprecando.
**Ultimamente i cieli
si erano fatti così muti che
perfino quest’ira dall’aria
sembra piacevole cosa se pure
atroce come la vita.
*
“In interiore homine est”
Un’altra primavera! E il sole mite
mi tenta, mi ammicca dai vetri,
ma dentro alla mia casa io resto calda,
quieta, assai ricca:
come un segreto affidato,
come in cavo di mano una ben stretta
perla.
* Ombre
Ombre mute sarebbero ombre
perdute per i muri o fra i sassi
di un marciapiede se non le ospitassi
qui da me. E’ allora che diventano
cose salde sangue voce.
Daria Menicanti
Ha scritto Segio Solmi che la poesia della Menicanti appartiene al filone “della poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi, nei suoi poli fondamentali di amore-morte”. Non si potrebbe dir meglio, né con più provocante speditezza. In effetti, la poesia della Menicanti è lì, tutta da vedere e da gustare nella sua ammirevole semplicità e trasparenza, e sembra a prima vista impossibile compiere su di essa operazioni critiche che vadano al di là della pura certificazione, della pura conferma del fatto che (è ancora Solmi a notarlo) il “sottile brivido” che essa insinua nel lettore è il “brivido dell’autentica poesia”. E, quando a una ricapitolazione dei suoi contenuti, penso proprio non vi sia nulla di artificioso o di arbitrario nel rinviare tranquillamente, come fa Solmi, ai “poli fondamentali di amore-morte”, avendo in mente e all’orecchio, si capisce, i frammenti greci, primi fra tutti quelli di Saffo. Tuttavia, sono convinto che sia non solo possibile, ma proficuo definire la poesia della Menicanti anche in rapporto a una tradizione più recente e specifica, quella della poesia italiana del nostro secolo. Giovanni Raboni
TETTO
All’alba – già è novembre – e sento ancora
dai nidi chiamare colombi
piccoli, azzurri, con la voce fina,
e degli ardenti padri per lo zinco
della gronda convessa affaccendarsi
su e giù gli artigli di porpora
e le lotte amorose
e le squisite agonie
e l’incalzante tubare.
TUTTI I GATTI LO CREDONO
Nerofumo e smeraldi, sulla vetta
di una colonna un gatto mi contempla
risibilmente piccolo, ma già
convinto di essere un dio.
QUASI
Quasi ce l’ho con lui. Per quel furtivo
andarsene che ha, gliene voglio;
per quel viso già pieno di nebbie.
Non sfuggirmi, lo supplico, gli piango,
non uscire così dalla tua casa,
le mie memorie. Se mi lasci, caro,
vivrai dove?
Chi ti riscalderà?
Fonte- Pingback: Ufficio poesie smarrite, la rubrica di Luca Mastrantonio dimostra che i giornali possono ancora fare cultura|
Daria Menicanti
Biografia di Daria Menicanti nasce, ultima di quattro figli, nel 1914 a Piacenza da padre toscano e madre fiumana.Trasferitasi la famiglia a Milano, Daria frequenta il Liceo Ginnasio Berchet, dove sostiene l’esame di maturità nel luglio 1932. Si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e ha come docenti Antonio Banfi, Adelchi Baratono, Luigi Castiglioni, Mario Hazon e come compagni di corso Enzo Paci, Vittorio Sereni, Antonia Pozzi , Luciano Anceschi. Con Banfi, che Daria ritiene, insieme a Baratono, fondamentale per la propria formazione, si laurea nel luglio 1937 discutendo una tesi dedicata all’analisi della poetica e della poesia di John Keats. Allo stesso anno, oltre all’abilitazione all’insegnamento medio (Daria sarà per tutta la vita insegnante), conseguita nell’autunno, risale il matrimonio con Giulio Preti (1911-1972), dal quale si separa negli anni Cinquanta, pur mantenendo un fortissimo e tenace legame di affetto, di stima e di amicizia: più o meno esplicito dedicatario e oggetto di molte intense poesie; e conteranno nella sua vita gli amici Vittorio Sereni ed Enzo Paci, cui si aggiungeranno, negli anni successivi, Lalla Romano (con la quale condivide la pratica della pittura, che in Daria si accosta sempre di più a quella della poesia), Manlio Cancogni, Marco Marchi, Silvio Raffo, Lulli Paci (che di Daria, insieme a Maria Teresa “Pigot” Sereni, è allieva privata di greco), Fabio Minazzi.
Agli anni Trenta, gli anni della formazione universitaria, risalgono le prime prove poetiche, poi ripudiate, inclini ai modi dell’ermetismo; Daria, sulla scia della mediazione banfiana, li definirà asfittici. Nonostante il ripudio di queste prime prove inadeguate a esprimere la propria indole toscana «ridente e piangente» (della quale, in una intervista del 1993 pubblicata nel numero di febbraio 1995 di «Poesia», rivendica la diversità rispetto a quella, per esempio, dell’amico Sereni), continua a scrivere in segreto. Soltanto nel 1964, presso Mondadori, esce la sua prima raccolta poetica, Città come (premio Carducci 1965), alla quale seguiranno, sempre per Mondadori, Un nero d’ombra (1969) e Poesie per un passante (1978); per Forum/Quinta generazione (Forlì), esce nel 1986 Altri amici; per Lunarionuovo (Acireale), Ferragosto, nel 1986; per Scheiwiller, nel 1990, Ultimo quarto, con una nota di Lalla Romano.
Intensa è anche l’attività di traduzione dall’inglese (e, secondo la testimonianza di Francesca Romana Lulli Paci, figlia di Enzo, Daria è anche ottima grecista e latinista, in grado di comporre esametri latini): a partire dalla fine degli anni Trenta traduce John Henry Muirhead, Filosofi inglesi contemporanei (introduzione di Antonio Banfi, Milano, Bompiani, 1939); di Paul Nizan, Aden Arabia (Milano, Mondadori, 1961) e La cospirazione (ivi, 1980); di Noel Coward, Amore e protocollo (Milano, Club degli Editori, 1962); di Jean Paris, James Joyce (Milano, Il Saggiatore, 1966); di Betty Smith, Al mattino viene la gioia (Milano, Mondadori, 1967); di Paul Geraldy, Toi et moi (ivi, 1978); di Sylvia Plath, La campana di vetro (ivi, 1979). Sue poesie sono inoltre presenti in molte antologie, tra cui Donne in poesia, curata da Biancamaria Frabotta per Savelli nel 1976. L’impronta dell’innovativa cultura dalla cifra europea ricevuta negli anni Trenta presso l’Università di Milano emerge dalla poliedrica attività di Daria Menicanti: è poetessa secondo modi inclini e alla riflessione filosofica; traduttrice, aderendo a una tensione generazionale (si pensi al Vittorio Sereni di Frontiera), rivolge la propria attenzione verso le contemporanee letterature straniere. Soprattutto, a connotare la sua scrittura e a distanziarla da altre esperienze coeve, è la lucidità, che si rivela anche a livello tecnico, della riflessione e della scrittura che la sostiene. Poesia che, pur apparentemente distante rispetto alla temperie storica e politica, intende dare ascolto a tutta la realtà, animali e piante compresi, presenze peraltro insostituibili nella vita di Daria.
Muore, per un tumore alla gola, in una casa di cura di Mozzate, tra Varese e Como, il 4 gennaio 1995. Lalla Romano le dedica un appassionato contributo che appare sul «Corriere della Sera» del 20 gennaio, sostenendo che già a partire dalla sua prima raccolta: «Daria aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace. » NOTE 1. Daria Menicanti, Epigramma per un filosofo [aprile 1965, a G. P.], in Ead., Un nero d’ombra , Milano, Mondadori, 1969, p. 110. Torna su Fonti, risorse bibliografiche, siti su Daria Menicanti Daria Menicanti, La vita è un dito. Antologia poetica 1959-1989, introduzione e cura di Matteo M. Vecchio, con uno scritto di Fabio Minazzi e una lettera di Marco Marchi, Borgomanero, Giuliano Ladolfi Editore, 2011 Daria Menicanti, Città come, Milano, Mondadori, 1964 Daria Menicanti, Un nero d’ombra, Milano, Mondadori, 1969 Daria Menicanti, Poesie per un passante, Milano, Mondadori, 1978 Daria Menicanti, Altri amici, Forlì, Forum/Quinta Generazione, 1986 Daria Menicanti, Ferragosto, Acireale, Lunarionuovo, 1986 Daria Menicanti, Ultimo quarto, con una nota di Lalla Romano, Milano, Scheiwiller, 1990 Matteo M. Vecchio (a cura di), con una nota di Silvio Raffo, Due racconti inediti di Daria Menicanti: «Il nonno», «Marta» , in «Studi Italiani», a. XXI, n. 42, fasc. 2, luglio-dicembre 2009, pp. 81-91 Referenze iconografiche: Daria Menicanti, anni trenta. Immagine in pubblico dominio. Voce pubblicata nel: 2012 Ultimo aggiornamento: 2023
On. Elettra POLLASTRINI-L’unica donna della provincia di Rieti eletta alla Costituente-
On.Elettra Pollastrini -P.C.I.Nata a Rieti il 15 luglio 1908, deceduta a Rieti il 2 febbraio 1990, operaia e parlamentare Comunista.La sua famiglia di antifascisti nel 1934 fu costretta a emigrare in Francia per sottrarsi alle persecuzioni del regime. Trovato un lavoro la giovane Elettra, che aveva aderito al Partito Comunista, fece l’operaia alla Renault e nell’azienda francese fu alla testa delle lotte di quei lavoratori. Incaricata della redazione di Noi Donne, allo scoppio della guerra civile nella penisola iberica si portò in Spagna. Al rientro in Francia fu arrestata e rinchiusa nel campo di Rieucross. Riuscita a rientrare in Italia, nel 1941 la Pollastrini tornò a Rieti dove riprese l’attività antifascista clandestina e, dopo l’annuncio dell’armistizio, entrò nella Resistenza romana. Arrestata dai tedeschi e tradotta in Germania trascorse venti mesi nel carcere di Aichach. Dopo la Liberazione, tornata in Italia, fu una delle nove donne comuniste entrate a far parte della Consulta nazionale e, nel 1948, fu eletta deputata del PCI alla Camera, dove restò per due Legislature. Nel 1958 si trasferì in Ungheria dove, per 5 anni, lavorò a Radio Budapest. A Rieti, a Elettra Pollastrini è stata intitolata una strada; porta il suo nome anche una Sezione dell’ANPI, che vi si è recentemente costituita.
Fonte- ANPI nazionale-L’On.Elettra Pollastrini , nella foto in B/N è quella seduta a dx dell’On. Nilde Jotti-(Foto Archivio Camera dei Deputati)-
On.Elettra POLLASTRINI-Partito Comunista ItalianoScheda della Camera dei Deputati con le coordinate anagrafiche dell’On. Elettra Pollastrini.La pagina di giornale con le 21 Onorevoli elette alla Costituente è del Corriere della Sera -1946-
Nota- A)L’On.Elettra Pollastrini , nella foto in B/N è quella seduta a dx dell’On. Nilde Jotti-(Foto Archivio Camera dei Deputati)- B)La pagina di giornale con le 21 Onorevoli elette alla Costituente è del Corriere della Sera -1946- C) Scheda della Camera dei Deputati con le coordinate anagrafiche dell’On. Elettra Pollastrini. ANPI COMITATO ANTIFASCISTA DELLA SABINA-
I bambini e l’Epifania: la figura della Befana ed il suo significato profondo articolo di Marialuisa Roscino-
La figura della Befana, con la sua scopa e la sua calza piena di doni, è un elemento fondamentale delle tradizioni natalizie italiane, e rappresenta un simbolo di speranza e di ricompensa per moltissimi bambini. Le teorie sulla sua nascita sono molteplici. Alcuni studi scientifici la collegano alla tradizione cristiana dei Re Magi, altre la vedono come una divinità pagana legata ai culti invernali. Ma quali sono le origini di questa simpatica vecchietta, cosa si cela dietro questa figura così affascinante? E quali sono gli effetti psicologici che esercita sui più piccoli? Lo abbiamo chiesto ad Adelia Lucattini, Psichiatra e Psicoanalista Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana
Happy Epiphany
Dott.ssa Lucattini, la storia della Befana, a Suo avviso, stimola la fantasia dei bambini? Cosa illustrano in particolare, i diversi studi in merito alle sue origini?
La figura della Befana, con il suo aspetto misterioso e il ruolo di portatrice di doni o carbone, offre ai bambini un terreno fertile per l’immaginazione. Il suo carattere ambivalente – gentile e generoso, ma anche severo e giudicante – permette ai più piccoli di proiettare desideri, paure e conflitti. Il volo su una scopa e la capacità di visitare tutte le case in una sola notte aggiungono un elemento magico che affascina e stimola la fantasia, creando un ponte tra il mondo della realtà e quello del mito. Inoltre, i rituali legati alla Befana, come lasciare una calza o immaginare il contenuto che troveranno, favoriscono il gioco simbolico, un’attività fondamentale per lo sviluppo psicologico ed emotivo. Le origini della Befana affondano le radici in tradizioni pagane e cristiane, offrendo un ricco substrato culturale che i bambini, anche inconsciamente, percepiscono. Gli studi evidenziano che la Befana potrebbe derivare da antichi riti di passaggio legati alla natura e ai cicli agricoli. Nell’antichità, si celebrava una figura femminile associata alla rinascita e alla fertilità, rappresentata spesso come una vecchia che, simbolicamente, “porta via” l’anno passato per far spazio al nuovo. Con il cristianesimo, la Befana si è legata alla celebrazione dell’Epifania, diventando un personaggio più familiare e accessibile.
L’attesa dell’arrivo della Befana suscita nei bambini una vasta gamma di emozioni: gioia, ansia, speranza, eccitazione. Queste emozioni contribuiscono a sviluppare la loro intelligenza emotiva?
L’attesa del suo arrivo è un’opportunità preziosa per i bambini di esplorare e comprendere il proprio mondo emotivo. La varietà di sentimenti che provano – gioia per i doni in arrivo, ansia per l’eventualità del carbone, eccitazione per il mistero e la sorpresa – favorisce alcuni processi fondamentali per lo sviluppo dell’intelligenza emotiva, che include la capacità di comprendere e regolare le proprie emozioni, di relazionarsi con gli altri in modo empatico e di affrontare le difficoltà in maniera resiliente.
Come è possibile creare un’atmosfera magica per l’arrivo della Befana e come i genitori possono gestire le paure dei bambini più piccoli legate a questa figura?
L’atmosfera dell’Epifania si costruisce con piccoli gesti e abitudini che alimentano la fantasia dei più piccoli. Ad esempio, preparare la calza insieme, scegliendola con cura, che sia capiente e diversa per ciascuno; raccontare della Befana, magari aggiungendo un tocco originale, aiuta i bambini a immergersi nella magia; lasciare (biscotti, latte o frutta) come ringraziamento per la sua venuta, qualunque regalo voglia portare; raccontare dei Re Magi che portarono Oro, Incenso e Mirra come regali di benvenuto a Gesù Bambino.
La notte della Befana può secondo Lei rappresentare un’esperienza educativa per i bambini?
Assolutamente sì, oltre ad essere un momento magico e di festa, racchiude diversi insegnamenti, offre ai bambini la possibilità di riflettere sul proprio comportamento. Racchiude un valore simbolico, aiuta a comprendere l’importanza delle azioni e a valorizzare i comportamenti positivi come a poter rimediare quelli negativi. Aiuta ad interiorizzare valori come la gentilezza, il rispetto anche del giudizio altrui e la condivisione di un momento di gioia. Aspettare il suo arrivo aiuta i bambini a gestire l’ansia dell’attesa e ad aspettare, dopo un piccolo sacrificio, andare a dormire presto, ci sarà la gratificazione desiderata.
Ricevere un dono è sempre un’occasione che va colta, per insegnare ai bambini il valore della gratitudine e della bontà d’animo. I doni non sono semplicemente degli oggetti materiali, racchiudono in sé anche l’affetto e le attenzioni dei genitori, per questo devono essere pensati e non essere per forza costosi. Possono essere semplici pensierini.
Il sistema di premi e punizioni legato alla figura della Befana (dolci per i bambini buoni, carbone per quelli cattivi) contribuisce a rafforzare il loro senso del bene e del male?
Sapere che possono ricevere anche carbone o frutta insieme ai dolciumi, li stimola ad affrontare la coesistenza nella propria vita e in se stessi, di cose buone e cose cattive. Poiché il carbone è “simbolico”, è bene che sia un dolciume insieme a frutta amata dai bambini, scelta con cura dai genitori proprio per loro. In questo modo, superano la frustrazione e la delusione iniziale e comprendono profondamente, che anche le cose cattive sono affrontabili, interiorizzabili, digeribili.
L’Epifania è anche un’occasione per le famiglie di riunirsi e condividere momenti unici, di spensieratezza, ritiene che la figura della Befana possa dunque diventare un momento importante per rafforzare i legami affettivi e familiari?
L’Epifania è sia un evento religioso, rappresentato dall’arrivo dei tre Re Magi, che secolarizzato con le tradizioni legate alla Befana in sé, comprese le canzoncine propiziatorie come “La Befana vien di notte”. È un modo per trasmettere ai bambini la storia di Gesù e i suoi insegnamenti o narrare Gesù storico. Conoscere e sapere, renderà i bambini liberi di scegliere in futuro, coltivando comunque una spiritualità, ideali e valori indispensabili per una vita ben vissuta. Inoltre, rappresenta un momento speciale in cui le famiglie possono rafforzare i propri legami affettivi attraverso la condivisione di consuetudini tramandate, tradizioni familiari, attività condivise con gioia e piacere, con allegria, nutrimento per l’anima e la mente di grandi e piccini.
Cosa fare se i bambini hanno paura della Befana?
Questo tipo di paura si genera soltanto se vi è una rappresentazione concreta dei personaggi con un’aura di magia. Ogni volta che si passa da una visione fantastica, idealizzata e il magico, avvolto da un’aura di mistero si tramuta in reale, vale a dire “in un momento più concretizzato”, nei bambini si crea uno sconcerto e un conflitto interiore che sfocia nella paura. Infatti, la ricostruzione che ogni bambino fa della Befana nella propria mente ha delle caratteristiche peculiari e delle originalità. Inoltre, fa sentire al bambino che le cose brutte che sente di avere dentro di sé, sono accettabili e rappresentabili, in questo modo possono trasformarsi in cose buone, di valore. Se attraverso un personaggio vivente (una persona travestita da Befana), il reale irrompe bruscamente nel mondo interiore, non è elaborabile spontaneamente per la mente e spaventa. Mentre interiormente è possibile conciliare il brutto e il buono nella realtà, l’imponenza del personaggio (interpretato sempre da un adulto) rispetto al bambino e le caratteristiche di trascuratezza (i vestiti stracciati e il volto sfigurato) angosciano e spaventano i bambini.
Quali consigli si sente di dare ai genitori?
-Tenere conto che ciascun bambino vive la magia della Befana in modo diverso. Alcuni sono incuriositi, altri possono essere intimoriti da una figura misteriosa, con la scopa volante, ma anzianissima, non è certo Harry Potter! È importante adattare i racconti all’età e al vissuto emotivo dei propri bambini;
-Preparare la calza insieme, scrivere la letterina se piccoli, lasciare che la scrivano da soli quando più grandicelli;
– Se chiedono su come faccia a volare o essere così piccola da entrare dalla cappa della cucina, domanda classica, naturalmente è bene mantenere la magia;
-Non esagerare con carbone o frutta. I bambini devono vedere e sapere che possono affrontare i cambiamenti richiesti dai genitori e che il loro sforzo per essere buoni e comportarsi bene sono serviti;
-Valorizzare sempre i risultati dei bambini, spiegando anche con l’aiuto di una letterina, lasciata dalla Befana, in che cosa possono migliorare e cosa possono fare attivamente. Dare dei compiti rigidi o viceversa, essere troppo generici, non li aiuta, poiché tutti i bambini sanno di essere sia buoni, che un po’ cattivelli, ma sperano di essere ugualmente amati, con pregi e difetti;
-Prepararli alla verità, iniziando fin da subito il racconto dei tre Re Magi. Quando la Befana diventerà un personaggio fantastico e i regali saranno portati dai genitori, resterà l’aspetto spirituale e storico dell’evento dei Re Magi e la magia dell’infanzia sarà in salvo, come tesoro prezioso: l’affetto e l’attenzione dei genitori ormai interiorizzati, di cui si ha sempre bisogno, per tutta la vita.
“Sonetti” di William ShakespeareWilliam Shakespeare Sonnets
I “Sonetti” di William Shakespeare
I “Sonetti” di William Shakespeare è il più misterioso tra i libri di Shakespeare. Sulla loro storia esterna sappiamo poco. E’ probabile che venissero scritti tra il 1593 e il 1595, per il conte di Southampton, sebbene alcuni sonetti (che risentono l’influenza di Donne) sembrino più tardi. Una cosa è più certa: i “Sonetti” sono un grande libro filosofico, forse il libro di Shakespeare dove il complicatissimo intreccio delle metafore viene più drammaticamente teso da una straordinaria forza intellettuale. Senza proporselo, Shakespeare riuscì a fondere le due tendenze opposte della cultura dell’Occidente. Da un lato l'”amico” che egli canta è un archetipo platonico, incarnato in un essere umano, nel quale si riflettono tutti i tratti della bellezza e dell’amore di ogni tempo. Ma, dall’altro, questo archetipo si trasforma all’infinito; la forma immobile subisce un’incessante metamorfosi ovidiana, una moltiplicazione nella mobilità fluttuante della natura. Così i “Sonetti” sono insieme il poema dell’eterno e dei disastri, della rovina (ma che trionfali disastri, che sontuosa rovina!) del tempo. Un altro grande tema è la disperata schiavitù, l’atroce carcere della passione amorosa.
La traduzione fedelissima di A. Serpieri è accompagnata da un commento che rappresenta uno dei culmini dell’arte moderna dell’interpretazione. Ogni parola, ogni immagine, ogni concetto sono interpreti nel loro concreto aspetto linguistico, e insieme visti come forme di quell’ “unico poema”, di cui parlava Coleridge; di un solo, immenso tappeto metaforico, al quale attraverso Shakespeare ha collaborato tutto l’universo.
Ilse Aicbhinger Poesie “Consiglio gratuito” traduzione di Giusi Drago
Descrizione del libro di Ilse Aichinger,Consiglio gratuito(qui si presenta la poesia che dà il titolo alla raccolta) è ritenuto fin dal suo apparire nel 1978 un punto culminante della poesia del dopoguerra in lingua tedesca. I consigli che l’autrice dispensa “gratuitamente” nei suoi versi sono moniti di natura etica e conoscitiva, atti di ribellione dettati da un’esigenza indomabile di superare la menzogna e insieme ad essa l’addormentamento delle coscienze. La sua lingua sembra a tratti quotidiana, concreta, composta di parole comuni (carbone legna neve monti erbe), a tratti estraniante, ispida, reticente, oscura, specie quando la Aichinger si confronta con l’esperienza della barbarie nazista o riflette – con sguardo quasi filosofico – sulla natura violenta e menzognera del linguaggio. Consiglio gratuito è l’unica raccolta poetica di Ilse Aichinger.
I Dein erstes Schachbuch, Ibsens Briefe, nimms hin, wenn du kannst, da, nimm schon oder willst du lieber die Blattkehrer von deiner Wiese treiben und Ibsens Ziegen darauf, gleich weiß, gleich glänzend? Es gibt Ziegen und es gibt Ibsens Ziegen, es gibt den Himmel und es gibt eine spanische Eröffnung. Hör gut hin, Kleiner, es gibt Weißblech, sagen sie, es gibt die Welt, prüfe, ob sie nicht lügen.
I
Il tuo primo libro di scacchi,
le lettere di Ibsen,
accettalo
se puoi,
forza, prendilo
oppure preferisci
cacciar via dal tuo prato
gli spazzafogli
e insieme a loro
le capre di Ibsen,
altrettanto bianche, altrettanto splendide?
Ci sono le capre e ci sono le capre di Ibsen,
c’è il cielo e c’è un’apertura
spagnola.
Ascolta bene, piccolo,
ci sono gamelle bianche, dicono,
c’è il mondo,
verifica che non mentano.
II Und frag sie, was der fremde Thorax im Garten soll, schon versteinert, der erste in diesem Frühling zwischen den Brombeerhecken, Mäusen und der Mauer, an die das Wasser für uns schlägt, was er dem Garten nützt. Ob er ihn nötig hätte, unseren Garten, oder der Garten ihn.
II
E chiedilo a loro
che ci fa in giardino
quel torace estraneo
già pietrificato,
il primo in questa primavera,
fra le siepi di more
i topi
e il muro,
dove l’acqua
batte per noi,
chiedi se è utile al giardino.
Se è lui ad averne bisogno
del nostro giardino,
o il giardino di lui.
III Und daß uns etwas zugetragen wurde von Laufzeiten. Ob die mit Lauf, mit Läufen zu tun hätten, mit Läuften, mit den Zeiten oder mit nichts davon.
III
E
che ci venne riferito qualcosa
dei tempi di decorso.
Se abbiano a che fare con il correre, con le corse,
con i ricorsi, con i tempi
o con niente di tutto ciò.
Ilse Aicbhinger
Il libro di Ilse Aichinger,Consiglio gratuito(qui si presenta la poesia che dà il titolo alla raccolta) è ritenuto fin dal suo apparire nel 1978 un punto culminante della poesia del dopoguerra in lingua tedesca. I consigli che l’autrice dispensa “gratuitamente” nei suoi versi sono moniti di natura etica e conoscitiva, atti di ribellione dettati da un’esigenza indomabile di superare la menzogna e insieme ad essa l’addormentamento delle coscienze. La sua lingua sembra a tratti quotidiana, concreta, composta di parole comuni (carbone legna neve monti erbe), a tratti estraniante, ispida, reticente, oscura, specie quando la Aichinger si confronta con l’esperienza della barbarie nazista o riflette – con sguardo quasi filosofico – sulla natura violenta e menzognera del linguaggio. Consiglio gratuito è l’unica raccolta poetica di Ilse Aichinger.
*
Consiglio gratuito, tradotto da Giusi Drago, è uscito nel mese di maggio con Ibis edizioni, FinisTerrae – nella collana Le Meteore diretta da Domenico Brancale e Anna Ruchat.
Ilse Aicbhinger
Breve Biografia
, nata a Vienna nel 1921, è una delle grandi scrittrici austriache, i cui testi
sono ormai considerati classici della letteratura in lingua tedesca. La madre, ebrea, è
medico, il padre insegnante. Il romanzo d’esordio La speranza più grande (Die grössere Hoffnung 1948) – alla cui stesura si dedica interrompendo gli studi di medicina – inaugura
la letteratura austriaca del dopoguerra. Nel 1952 ottiene il premio del Gruppo 47 per il suo
racconto Storia allo specchio (Spiegelgeschichte) e conosce lo scrittore e poeta Günter
Eich (1907-1972), che sposa l’anno successivo. Da lui avrà due figli, uno dei quali scrittore
a propria volta. Aichinger si spegne a Vienna nel 2016.
Ilse Aichinger ha scritto racconti, aforismi in forma di diario, riflessioni sulla scrittura e
radiodrammi. In italiano sono stati pubblicati solo La speranza più grande (Garzanti 1963,
Tartaruga edizioni 1999) e Kleist, il muschio, i fagiani (Tartaruga edizioni 1996). La poesia
di Ilse Aichinger era finora inedita in italiano.
– Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
Rosa Leveroni i Valls neix a Barcelona l’1 d’abril del 1910 en el si d’una família de la mitjana burgesia. El seu pare, descendent d’una família d’armadors de vaixells de Gènova, fa de gerent d’un magatzem de metalls, i la seva mare, de mestra. Fa els primers estudis al col·legi Príncep d’Astúries i, posteriorment, fins als dotze anys, a les Dames Negres del passeig de Gràcia.
Rosa Leveroni
Als quinze anys publica els seus primers versos a la revista Patufet, i comença a tenir clara la seva vocació literària. Tot i que el seu pare la pressiona perquè es dediqui al negoci familiar, als dinou anys, coincidint amb la caiguda de la dictadura de Primo de Rivera, entra a l’Escola de Bibliotecàries, que aleshores dirigeix Jordi Rubió. Aquesta institució, fundada per Eugeni d’Ors, té com a professors alguns dels intel·lectuals catalans més brillants del moment (Carles Riba, Ferran Soldevila, Nicolau d’Olwer, Rafael de Campalans). L’estada a l’Escola de Bibliotecàries i, en especial, la coneixença de Carles Riba, és cabdal en la formació intel·lectual i personal de Leveroni.
L’any 1933 rep una beca per anar a Madrid a fer una tesina sobre literatura infantil. En tornar, entra a treballar a la biblioteca de la Universitat Autònoma de Barcelona. Durant la guerra civil fa dos cursos de la carrera de Filosofia i Lletres. L’any 1937 és finalista al premi Joaquim Folguera amb el llibre Epigrames i cançons, que publica l’any 1938, prologat per Carles Riba. La influència ribiana i, en general, de tota la generació postsimbolista és molt present en aquest volum. Els temes que hi apareixen seran els que es repetiran durant tota la seva obra: la tristesa, la desolació amorosa, la melangia…, sentiments continguts i objectivats gràcies a la disciplina del vers.
El 1939, després de la Guerra Civil, la depuració de funcionaris de la Generalitat fa que perdi la feina com a bibliotecària de la Universitat Autònoma. Durant la dècada dels quaranta, Leveroni dedica tota la seva energia a la resistència cultural catalana enfront de la repressió franquista, i es converteix en l’ànima del grup intel·lectual que Carles Riba forma al seu voltant. És ella qui distribueix clandestinament les Elegies de Bierville de Riba, qui actua de contacte entre els intel·lectuals catalans de l’interior i els de l’exili, i és una de les primeres col·laboradores de la revista Poesia (fundada el 1940) i de la revista Ariel (fundada el 1946).
Rosa Leveroni per al suple Foto: Ferran Sendra
L’any 1952 publica un segon volum de poesia, Presència i record, prologat per Salvador Espriu. La mort del seu pare, l’obliga a centrar-se en el negoci familiar. En aquesta època assisteix assíduament als congressos de literatura catalana que se celebren a Anglaterra, organitzats per la Catalan Society, entitat de la qual és membre. Durant les dècades dels seixanta i dels setanta, la seva figura es manté cada vegada més apartada i aïllada de l’escena literària catalana, fet al qual també contribueix el seu silenci poètic.
L’any 1981 publica el volum Poesia, que recull tota la seva obra poètica, amb pròleg de Maria Aurèlia Capmany i dos epílegs de Carles Riba i Salvador Espriu, escrits respectivament el 1938 i el 1950 i que havien prologat els dos reculls poètics. L’any següent, el conjunt de la seva obra és reconegut amb l’atorgament de la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Mor el 4 d’agost del 1985, poc abans que es publiqui un volum de contes que recull la seva producció narrativa. És enterrada a Port-Lligat.
Rosa Leveroni
Rosa Leveroni-Poesia”PRESENZA E RICORDO”
*
Con il grigiore di questo cielo,
l’argento dell’ulivo
deve sembrare il tocco di un pennello
dalla fine trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava l’oscurità.
Tutta la luce è rimasta
sul ramo d’ulivo.
Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
(Presència i record. Barcelona: Edicions de l’Óssa Menor, 1952)
* * *
Elegies dels dies obscurs
III
Desmai de cap al tard damunt de l’aigua
adormida del port. Els núvols grisos
deixaven la tristesa de sentir-se
orfes del seu rosat botí de posta,
sobre el mirall opac. L’ala del somni
ratllava les cobertes treballades
d’un íntim cansament. Ja cap bandera
no ornava els mastelers. I les desferres
dels bots abandonats eren la muda
crida del desesper. Els nostres passos
ressonaven pel moll i les paraules
foren el lent sospir de la nostàlgia
d’un viatge mai fet… Ah! les inútils
veles del mort desig, ¿com desplegar-les
al vent que no vindrà per a portar-nos
al goig del mar obert, a l’alegria
de les ones batents, si els braços àvids
d’aquest port desolat ens retenien?
VIII
Aquest so greu de corda adolorida
que subratlla el meu cant, és la penyora
deixada per la mort perquè et recordi,
amor adolescent. És la teva ombra
que en l’alta solitud dels camins aspres,
el braç acollidor, va fer-me ofrena
d’aquest repòs segur, oh flama pura
del meu amor passat, present encara
en el somriure las d’un món que porta
el pes de tots els morts en les florides
de cada primavera renovada.
Ets el meu port tancat on de l’inútil
navegar porcel·lós veig la tristesa
i el conhortament… Ombra benigna
que m’acompanya el cant atemperant-lo
amb unes notes greus, serva’m els braços
eternament oberts…
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 105-108)
Rosa Leveroni
* * *
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen,
ignorant cap a on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el festeig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya
s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres
vetllant un rierol,
i coneixen el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres,
mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Jo porto dintre meu
per fer-me companyia
la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra,
aire i sol, mar i estrella,
perquè fossis més meu,
perquè jo fos més teva.
(Epigrames i cançons. Barcelona: Gustau Gili, 1938)
Antologia
Alcune poesie
Con il grigiore di questo cielo
l’argento de l’olivera
deve sembrare il tocco di un pennello
di una raffinata trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava la tenebra.
Tutta la luce è andata
al brancam de l’olivera.
(Presenza e ricordo. Barcellona: Edizioni dell’orso minore, 1952)
* * *
Elegies dels muore oscurs
III
Svenendo nel pomeriggio in acqua
sonno dal porto. Le nuvole grigie
hanno lasciato la tristezza dei sentimenti
Orfani con il loro sedere rosa,
sullo specchio opaco. L’ala del sogno
graffiato i ponti lavorati
di una stanchezza intima. Nessuna bandiera più
niente Ornava els Mastelers. I les desferres
delle barche abbandonate erano i muti
grido di disperazione. I nostri passi
risuonava attraverso il molo e le parole
Erano il lento sospiro della nostalgia
da un viaggio mai fatto… Ah! Ah! quelli inutili
candele del desiderio di morte, come aprirle
al vento che non verrà a prenderci
alla gioia del mare aperto, alla felicità
delle onde battenti, se l’avidità braccia
Ci hanno tenuti lontano da questo porto desolato?
VIII
Quel serio suono di corda dolorante
che sottolinea il mio canto, è la penyora
lasciato alla morte per ricordarti,
amore adolescenziale. È la tua ombra
che nell’alta solitudine delle strade aspre,
il braccio di accoglienza, mi ha fatto un’offerta
di questo riposo sicuro, oh fiamma pura
dal mio amore passato, presente ancora
nel sorriso quelli di un mondo che porta
il peso di tutte le morti in Florida
di ogni primavera rinnovata.
Sei il mio porto chiuso dove dell’inutilità
surf in porcellana vedo la tristezza
I el conhortament… Ombra benigna
che mi accompagna la canzone temprandola
Sul serio, servi le mie braccia
eternamente aperto…
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Seguite i sentieri che conducono i campi,
ignorante cappuccio a sul furgone,
amato da un profumo di terra morbida
Non posso errívol.
E prendono i colori caldi del rame
con un bacio dal sole che tramonta,
e cieli d’amore, sotto i rami,
la festa del popolo.
Seguite i sentieri per la vigna
stanno allineando la costa,
E hanno la sete e lo sguardo
un bell gotim un punt.
Per favore seguite i sentieri tra pollancre
vegliare su un torrente,
E conoscono il volo delle borse di studio,
il gioco della pioggia e del sole…
Amo tutte le strade, anche le più dure,
purché siano aperti
E hanno messo un nuovo tremore alla frutta
nei miei sensi svegli.
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 80-81)
Rosa Leveroni
* * *
Porto dentro di me
per farmi compagnia
solo la solitudine.
La solitudine immensa
amarla infinitamente
Voglio essere la terra,
Aire i sol, mar i estrella,
perché tu eri più mio,
in modo che potessi essere più come te.
(Epigrammi e canzoni. Barcellona: Gustau Gili, 1938)
Rosa Leveroni-Poetessa spagnola
Rosa Leveroni (Barcelona, 1910-1985). Poeta i narradora. La seva poesia es troba influïda pel mestratge de Carles Riba, tant en els models formals com en el refús de la superficialitat i el barroquisme. La seva obra és breu i es troba recollida en dos volums: Poesia (1981) i Contes (1985). Conrea també l’assaig i la crítica literària (sobre Ausiàs March, especialment). Durant la postguerra desenvolupa una tasca important en la represa de la cultura i la llengua catalanes. L’any 1982 és reconeguda amb la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Va ser una de les primeres membres i, posteriorment, sòcia d’honor de l’Associació d’Escriptors en Llengua Catalana.
Rosa Leveroni (Barcellona, 1910-1985). Il poeta e il cantastorie. La sua poesia è influenzata dalla maestria di Carles Riba, sia nei modelli formali che nel rifiuto della superficialità e del barocco. Il suo lavoro è breve ed è raccolto in due volumi: Poesia (1981) e Racconti (1985). Coltiva anche saggio e critica letteraria (soprattutto su Ausiàs March) Nel dopoguerra sviluppa un importante compito nel restauro della cultura e della lingua catalana. L’anno 1982 è riconosciuta con la Croce di San Giorgio della Generalitat di Catalogna.
POEMES DE ROSA LEVERONI
VI TARDA DE POESIA
20 D’ABRIL DE 2022
AULES DE DIFUSIÓ CULTURAL DE LA GARROTXA
POEMES DE ROSA LEVERONI
PÒRTIC
del llibre Epigrames i cançons, 1938
Jo porto dintre meu per fer-me companyia la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra, aire i sol, mar i estrella, perquè fossis més meu, perquè jo fos més teva.
ELS RECORDS III
Jo fos per tu aquesta cançó tan dolça que desgrana el molí;
aquest oreig suau que t’agombola perfumant-te el matí.
Fos el flauteig dels tòtils a la tarda en la calma dels horts.
Si fos aquesta pau que t’acompanya en el repòs dels ports …
o fos la punxa de la rosa encesa d’un desig abrandat; aquell record d’una hora de follia, d’aguda voluptat.
Si fos l’enyorament d’uns braços tendres que varen ser-te amics,
o bé la revifalla rancorosa d’aquells menyspreus antics.
Si jo no fos per tu record amable, fos almenys un neguit,
un odi o un dolor, una recança … Ho fos tot, menys l’oblit.
(del llibre Presència i record, 1952)
CANÇÓ DE LES BESADES
El primer bes que florí,
te’n recordes?, jo el donava. Tu em prengueres el segon vora del riu que cantava.
I després ja començà
el rosari de besades.
Unes amb regust de sol
i neu dalt de la muntanya. Altres amb claror d’estels
i perfum de lluna clara.
Totes d’un encantament
que ens feia les hores calmes …
D’aquell rosari passat,
sols el record m’acompanya i la recança també,
amor, si tu l’oblidaves.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
ABSÈNCIA I
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis,
i sóc tan lluny de l’amat!… Sols tinc la mar per companya; ella bé prou que em somriu dins la cala arredossada.
Em somriuen els estels i la lluna niquelada,
el campanar cimejant
i la vela ben inflada,
i la gavina en ple vol,
i el peix fugint de la xarxa…
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis! Si sóc tan lluny de l’amat
res dintre meu ja no canta.
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
No vull el mirall del mar, ni l’estelada florida;
ni claror de cels novells, ni encetar cap nova via.
Vull la dolçor del teu braç abraçant la meva vida; vull la claror dels teus ulls i la teva veu amiga.
XXIII
ABSÈNCIA VII
Em pren la calma dels camps quan l’hora esdevé rogenca.
I la quietud de la mar
quan els vents dormen la sesta. I mentre vola l’ocell
l’ànima esdevé lleugera …
Saber-te lluny sense dol
em fa ressò de miracle.
Ara, però, veig el món
amb la claror que m’encanta de tenir-te dintre meu,
que fa que no em cal pensar-te.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
CANÇÓ D’UN SETEMBRE
Era una coma d’oliveres
amb una casa i un camí,
al capdavall dues figueres
fent ombra fresca a un doll molt fi.
Era migdia. Reposava
la vinya negra de gotims; vora el portal un gall cantava; es feinejava porta endins.
Aquella font era tan clara, era tan net aquell cel blau … Omplia el pit la joia avara
i la llangor fou tan suau!…
Jo no sabia que l’amava
però en sos ulls em vaig mirar … Des d’aleshores l’estimava,
ja no he sabut què és oblidar.
(del llibre Presència i record, 1952)
Vull sentir-te com arrel
dins la foscor beneïda d’aquesta terra vivent
de nostra amor compartida.
(del llibre Presència i record, 1952)
Rosa Leveroni
CLAROR DAURADA
És la claror daurada de la posta d’un dia de tardor
que veig en els teus ulls i que m’ofrenen la teva tremolor.
És aquell deix cansat, com d’arribada després de tràngols forts
a l’esperat recer, on tots els somnis troben la pau dels ports.
És el somriure lleu, la veu sonora d’haver estimat ja tant,
que em prenen dolçament i se m’emporten sense saber on van…
(del llibre Presència i record, 1952)
ELS CAMINS III TEMA AMB VARIACIONS
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen ignorant cap on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el fresseig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres vetllant un rierol,
i coneixent el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres, mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(del llibre Presència i record, 1952)
COLOR DEL TEMPS
Clavellines als balcons,
parets blanques, fustes blaves. Esclat de llum: campanar; randes albes a les platges. Tocs de mel en la claror;
verds i blaus, joies de l’aigua …
Quin perfum primaveral ofrenaves, vila amable! …
(del llibre Presència i record, 1952)
Si jo tingués un veler sortiria a pesca d’albes. Encalçaria els estels
per posar-me’n arracades.
Si jo tingués un veler, totes les illes i platges
em serien avinents
per al somni i les besades.
Si jo tingués un veler,
en cap port faria estada. El món fóra dintre seu,
ai amor, si tu hi anaves …
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges on d’aquest meu navegar pugui reposar les ales.
Tots els camins de la mar un a un se’m refusaven; sols els ports resten oberts amb l’agombol de les cases.
Les veles han desertat
tots els vents que les tibaven. L’estrella signa el retorn
al vell sofrir delectable.
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges …
(del llibre Poesia, 1981)
GLOSES MALLORQUINES
Si bastiment hi havia
que fadrines se’n dugués vestides de mariners,
jo la de davant seria.
Tota la mar trescaria, estimat meu, sols que us ves.
Totes les illes hauria
per a bescanvi d’un bes. Pirates i bandolers
a tots ells jo robaria,
i res no m’aturaria
si els teus braços jo trobés.
Els teus llavis jo tindria com a més segur recés. Pirates i mariners
i moros de moreria,
res ja no m’espantaria
si en els teus ulls em negués…
Rosa Leveroni
III
GLOSES MALLORQUINES VII
Vós heu robat i robeu
i vós sou la robadora;
el cor m’heu robat, senyora, i l’ànima em pledegeu.
Vós teniu tot l’amor meu,
no en voleu ser sabedora. Vós jugueu amb mi, senyora, i potser vos arrisqueu.
El cor m’heu robat, senyora, potser el vostre hi perdereu. És molt cara la penyora, mireu, senyora, el que feu!
L’enamorar enamora
i, si l’ànima em voleu, mireu-me als ulls, missenyora, que dins ells la trobareu.
El cor m’heu robat, senyora. Ara el vostre me’l deveu.
(del llibre Presència i record, 1952)
Tota la mar trescaria
si prop meu sempre et tingués!
(del llibre Presència i record, 1952)
VOLDRIA QUE EL MEU CANT FOS COM UNA ALBA
Voldria que el meu cant fos com una alba secreta per a tots,
i només un de sol capís els signes
dels inefables mots.
Voldria que el meu cant fos com l’alosa o com el dia clar,
que posen en el cel la seva joia
sense res esperar.
Voldria que el meu cant fos com un himne de gràcies per la sort
de trobar dintre meu tot el misteri
de la vida i la mort.
(del llibre Poesia, 1981)
TESTAMENT
Quan l’hora del repòs hagi vingut per a mi vull tan sols el mantell d’un tros de cel marí. Vull el silenci dolç del vol de la gavina dibuixant el contorn d’una cala ben fina; l’olivera d’argent, un xiprer més ardit
i la rosa florint al bell punt de la nit;
la bandera d’oblit d’una vela ben blanca
fent més neta i ardent la blancor de la tanca. I saber-me que sóc, en el redós suau,
un bri d’herba només de la divina pau.
(del llibre Poesia, 1981)
Donem les gràcies a totes les persones que han fet possible aquesta VI Tarda de Poesia:
ALS QUI HAN LLEGIT TEXTOS EN PROSA:
Reflexions i records de Rosa Leveroni Carta de Salvador Espriu
A LES LECTORES I LECTORS DE POEMES:
Pòrtic
Els records
Cançó de les besades
Rosa encesa del desig …
No vull el mirall del mar …
Els camins
Color del temps
Claror daurada
Si jo tingués un veler …
Glosses mallorquines: Si bastiment hi havia … Voldria que el meu cant fos com una alba Testament
A L’ÀNGEL GIRONA, MÚSIC VERSIONADOR I INTÈRPRET:
Em pren la calma dels camps
Cançó d’un setembre
Glosses mallorquines: Vós heu robat i robeu … Són les illes del record …
A L’EDITOR DEL POWER POINT:
Glòria Llinàs Francesc Bragulat
Maria Biarnés Montse Delgà Conxita Ayats Margarida Arau Tura Tarrús Roser Melià Montse Trubat M. Teresa Roura Pilar Gurt
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