Rita Levi-Montalcini, non si vergognava di mostrare al mondo le sue debolezze, tanto da chiamare la sua autobiografia “Elogio dell’imperfezione”.
Vedeva l’imperfezione come parte integrante della natura umana e come un elemento necessario per la crescita personale.
La sua esperienza di vita, che la vide costretta a fuggire dall’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e ad affrontare difficoltà d’ogni sorta nella sua carriera, la portò a sviluppare una profonda consapevolezza dei propri limiti: la filosofia di vita di una persona molto umile e modesta.
Dietro questa modestia nascondeva una volontà d’acciaio, che l’ha portata ai risultati che conosciamo tutti.
Ha lasciato scritto:
«La mancanza di complessi, una notevole tenacia nel perseguire la strada che ritenevo giusta e la noncuranza per le difficoltà che avrei incontrato nella realizzazione dei miei progetti, lati del carattere che ritengo di aver ereditato da mio padre, mi hanno enormemente aiutato a far fronte agli anni difficili della vita.>>
Figlia di genitori, molto colti, di origini sefardite, si formò nella sua Torino, studiando medicina.
Ebbe come compagni universitari due futuri Nobel, Salvador Luria e Renato Dulbecco. tutti e tre alla scuola dell’istologo Giuseppe Levi, il padre di Natalia Ginzburg.
Sin da subito si dedicò agli studi sul sistema nervoso, studi che avrebbe proseguito per tutta la vita.
Laureatasi nel 1936 si specializzò in neurologia e psichiatria, fu incerta se dedicarsi alla professione medica o portare avanti le ricerche in neurologia.
In seguito alle leggi razziali del 1938 la Levi-Montalcini, fu costretta a emigrare.
Nel marzo del 1939, insieme alla famiglia, andò Belgio, per un po’, fu ospite dell’istituto di neurologia dell’Università di Bruxelles
Il giorno prima di Natale, sempre con la famiglia tornò in auto a Torino, dove, allestì un laboratorio domestico nella sua camera da letto.
Poco dopo la raggiunse Giuseppe Levi, scappato dal Belgio, invaso dai nazisti. Rita fu orgogliosa si avere il suo Professore come suo primo assistente. Il loro obiettivo era quello di comprendere il ruolo dei fattori genetici e di quelli ambientali nella differenziazione dei centri nervosi.
Ma, il pesante bombardamento di Torino da parte delle forze aeree angloamericane nel 1941, rese indispensabile abbandonare la città. Si rifugiò in una villa delle colline astigiane, dove ricostruì il suo mini laboratorio e riprese gli esperimenti.
Nel 1943 l’invasione dei tedeschi costrinse la famiglia ad abbandonare il loro rifugio ormai insicuro.
Iniziò un pericoloso viaggio che si concluse a Firenze dove sopravvissero rimanendo nascosti e separati, cambiando spesso abitazione.
Nell’agosto 1944 i tedeschi lasciarono Firenze e Rita prestò servizio come medico presso il Quartier Generale anglo-americano, occupandosi di malati di malattie infettive.
E’ qui che si accorse di un suo grande difetto come medico, quel lavoro non era adatto a lei. Non riusciva ad avere il necessario distacco personale dal dolore dei pazienti.
Terminata la guerra, nel 1945 tornò a Torino dove riprese gli studi accademici sempre grazie all’aiuto di Giuseppe Levi.
Nel 1946 il biologo Viktor Hamburger, i cui studi erano stati oggetto di verifica negli esperimenti condotti con Levi durante il periodo della guerra, la invitò a Saint Louis, presso il Dipartimento di zoologia della Washington University.
Innestando in embrioni di pollo frammenti di speciali tumori, poté osservare il prodursi di un “gomitolo” di fibre nervose.
Nel dicembre 1951 presso la New York Academy of Sciences, presentò l’ipotesi di un agente promotore della crescita nervosa. La sua tesi che cercava di spiegare la differenziazione dei neuroni e la crescita di quelle fibre nervose, ipotizzava l’esistenza di fattori di crescita capaci di controllare questa differenziazione.
La tesi venne approfondita con nuovi esperimenti, condotti nel 1952 con la coltura in vitro all’Università di Rio de Janeiro. Infine giunse la scoperta del fattore di crescita nervoso: una proteina che gioca un ruolo essenziale nella crescita, che fu chiamata Nerve Growth Factor (NGF).
Nel 1956 venne nominata professoressa associata e nel 1958 professoressa ordinaria di zoologia presso la Washington University di Saint Louis. Nonostante inizialmente volesse rimanere in quella città solo un anno, vi lavorò e vi insegnò fino al suo pensionamento, avvenuto nel 1977.
Nel 1986 ricevette il Nobel per la medicina insieme al biochimico Stanley Cohen. Nella motivazione del premio si legge: «La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni cinquanta è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo».
La scienziata ha devoluto una parte dell’ammontare del premio alla comunità ebraica, per la costruzione di una nuova sinagoga a Roma. Nel 1987 ricevette dal Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan la National Medal of Science, l’onorificenza più alta nel mondo scientifico statunitense.
Lavorò assiduamente anche in Italia: fondò un gruppo di ricerche e diresse il Centro di Ricerche di neurobiologia creato dal CNR a Roma. Si ritirò da questo incarico solo “per raggiunti limiti d’età”.
Nominata senatrice, è stata la più anziana della storia repubblicana italiana. In occasione del compimento dei cento anni ebbe modo di dichiarare:
“Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”.
Rita Levi-Montalcini è morta il 30 dicembre 2012, alla veneranda età di 103 anni.
Le sue ceneri sono state tumulate nella tomba di famiglia nel settore ebraico del cimitero monumentale di Torino.
I luoghi sono memoria, radici, punti di vista – di Luigi Oliveto-
Editore Feltrinelli
Reduce dal successo del Premio Campiello, ecco il romanzo “Alma” di Federica Manzon. Pagine intense, dove geografie reali e interiori (fino a che punto le seconde possono prescindere dalle prime?), vicende personali e Storia, vanno a costruire un racconto che, per quanto riferito a un recente passato, fa pensare molto al presente. A come, nel nostro oggi, ci si voglia aprire o chiudere al futuro, ragionando – non senza apprensione – di radici e strappi, confini e spaesamenti, patrie e apolidia. Del resto tutto questo ha a che fare con il ‘chi sono’, in quale luogo (fisico e mentale) posso dire di trovarmi a casa, poiché i luoghi sono anche ‘punti di vista’. Il romanzo di Federica Manzon pare avere le sue ragioni proprio in questa intelligente inquietudine, mossa da memorie, sentimenti, visioni del mondo. La protagonista, Alma, torna tre giorni a Trieste per gli adempimenti relativi a una inaspettata eredità lasciatale dal padre. Uomo di grande fascino, pressoché assente dalla famiglia in un continuo andirivieni oltre confine, su un’isola della ex Jugoslavia del maresciallo Tito, senza che si sapesse quale lavoro vi andasse a fare: “andava e veniva da casa senza che si potesse mai essere sicuri del suo ritorno. Era uno di cui non fidarsi. Fuggiva sempre verso est e a lei e sua madre non restava che attenderlo, un’attesa eterna.” Sono anni che Alma ha lasciato Trieste per rifarsi una vita altrove. Ora ritrova la città e, con essa, una parte di sé: l’infanzia, il viale di platani che portava alla bella casa dei nonni, gli eleganti caffè dove si respirava mondanità e mitteleuropa. Ritrova la casa sul Carso nella quale, da un giorno all’altro, si erano trasferiti e dove, da Belgrado, era arrivato Vili, figlio di due intellettuali amici di suo padre. Destino vuole che sia proprio Vili a consegnarle l’eredità, lui che era stato “un fratello, un amico, un antagonista” e che oggi sarebbe stata l’ultima persona che desiderava rivedere. Sono dunque per Alma tre giorni emotivamente impegnativi, di sovrapposti pensieri su quanto è accaduto nella sua vita e nelle esistenze altrui; in un prima e in un dopo, qui e oltre. Non è un caso che tutto ciò sia avvenuto – e adesso si riproponga – in una terra di confine, nella seducente Trieste, che, per dirla con Saba, è città di “scontrosa grazia”, di “aria strana, tormentosa”. Un posto che bene accondiscende desideri di altrove e sconfinamenti. Terra di furioso vento che vorrebbe portar via cose e anime. Passa, sconquassa, non si ferma. Poi torna, nuovamente arriva, e fugge.
Ad aprile sono poche le barche che fanno la spola dalla terraferma all’isola. Lei cammina nel paese chiuso: una donna con gambe da cicogna e rughe ai lati degli occhi azzurrini come chi è cresciuto in una città ventosa, se ne va in giro sola tra case di vacanza disabitate, qualche facciata sfoggia una bandiera della Dinamo Zagabria appesa ai fili del bucato, qualche altra un muro decorato da fori di proiettile. Alma alza gli occhi verso il campanile e vede un gabbiano che si sgranchisce le ali. Stamattina ha telefonato all’albergo sull’isola, ha chiesto se era possibile prenotare una camera. È possibile, le hanno risposto con riluttanza. Sono cambiati i tempi ma l’isola conserva la sua scortesia. Il cielo intanto è schiarito, c’è un sole baltico. Le sembra di aver passato la vita sotto cieli come questo, a inseguire qualcosa che non aveva chiaro. Un inverno nella sua città a est, doveva essere la fine di febbraio, camminava nel bosco del barone Revoltella e gli alberi sobbalzavano per la bora, lei stringeva la mano di un uomo che si era intrufolata nella tasca del suo cappotto e tremava. Accadevano cose del genere, conosceva persone con cui passava del tempo, scrutavano il cielo insieme, facevano un pezzo di strada, poi lei se ne andava. Le campane battono l’ora, il capitano della barca è entrato in cabina a controllare che tutto sia pronto. Alma si affretta a raggiungere la passerella, nessuno le controlla il biglietto: è l’unica passeggera, e ha l’aria da straniera del nord. Ovunque abbia vissuto l’hanno sempre scambiata per una che viene da un altrove, c’è qualcosa di provvisorio nei suoi gesti, come se fosse sempre sul punto di partire, o perché dà l’impressione di aspettare un attimo di troppo prima di rispondere alle domande e la gente pensa che lei non capisca la lingua, nessuna lingua, anche se lei ne capisce e ne parla diverse.
Sul ponte appoggia i gomiti al parapetto e si sporge a vedere l’acqua che si increspa appena i motori iniziano a rullare. Una volta, in braccio a suo padre, le era caduto il cappello in acqua. Un cappellino di paglia con il nastro blu comprato a Venezia. Per consolarla lui l’aveva portata sotto coperta, dove molti nel vederlo si erano alzati a stringergli la mano, aveva detto qualcosa al capitano e quello aveva fatto spuntare dall’armadietto sotto i comandi un rettangolo di tessuto blu con una stella rossa cucita su un lato e gliel’aveva sistemato sulla testa. Lei aveva detto grazie, e il capitano e suo padre si erano scambiati uno sguardo significativo. Il cappello dei giovani pionieri di Jugoslavia non è sopravvissuto all’infanzia e non esistono foto di quel giorno: pochi di noi sono stati immortalati nelle occasioni di festa, se non si aveva la fortuna di entrare nelle parate nazionali e di finire sul “Vjesnik” o sul “Novi list”. Alma ricorda che portava sandali blu e una maglietta alla marinara. Per anni ha creduto che quel ricordo fosse una suggestione della fantasia, cresciuto nel deserto della memoria familiare con l’ostinazione di un’acacia nel Sahara, poi aveva smesso di pensarci.
A quel tempo suo padre la portava due o tre volte l’anno sull’isola. C’era un’aria da festa del cinema e coppe di champagne, l’aria sbarazzina dei Paesi non allineati. Uomini in giacca e cravatta o con il cappello bianco passeggiavano lungo i viali o sfilavano su piccole macchine decappottabili; branchi di cerbiatti brucavano l’erba del campo da golf. Alma si tuffava dagli scogli piatti e nuotava in apnea tra i pomodori di mare grossi come un pugno e i cefali, e i saraghi. Aveva il divieto di rivolgere la parola a chicchessia, e d’altra parte si chiedeva come avrebbe potuto farlo dal momento che parlavano lingue indistinguibili diverse dalla sua, solo ogni tanto riconosceva qua e là dei suoni che assomigliavano a quelli che sentiva sugli autobus di casa sua, o alla spiaggia dopo la Pineta dove scendevano al bagno gli sloveni di Contovello. A volte sull’isola c’erano anche altri bambini, il cappellino blu con la stella rossa come il suo, camicie bianche e un fazzoletto rosso attorno al collo. Suo padre le aveva spiegato che erano i giovani pionieri, e lei gli aveva detto che voleva essere una pioniera. E perché mai? Per avere la divisa come loro! In realtà detestava le volte in cui sull’isola c’erano i pionieri. Erano una banda, una tribù. Parlavano una lingua esoterica, possedevano un codice di gesti che lei ignorava: battevano palmo contro palmo, pugno contro pugno, urlavano, si tuffavano dalle scogliere a sud, le più pericolose, fischiavano con due dita in bocca. A volte la trascinavano nelle loro spedizioni alle ville e dai buchi nelle recinzioni spiavano i camerieri in divisa preparare il fuoco per la griglia mentre sui grandi tavoli di pietra i vasi aspettavano di essere riempiti dai fiori e i militari piantonavano i cancelli. Nessuno dei soldati li minacciava mai, né li scacciava quando diventavano molesti, perché il Maresciallo adorava i bambini, si faceva fotografare con loro ogni volta che appariva alle cerimonie pubbliche, li baciava e accettava i loro doni, finanziava i giochi atletici a cui presenziava con la moglie e i funzionari che negli anni sopravvivevano alle epurazioni. Ad Alma capitava di imbattersi in suo padre che passeggiava lungo i viali dell’isola in compagnia di donne con collane di perle e uomini che fumavano, le strizzava l’occhio a dire che non era il momento per ricordare a tutti che era un padre. Passandogli accanto lo sentiva parlare ogni volta lingue diverse, le parole uscivano agili dalla sua bocca, accavallate le une sulle altre così che diventava difficile per chiunque attribuirgli un accento, capire da dove veniva o, meglio ancora, da che parte stava. (Dov’era nato? Chi erano i suoi genitori? E il nome che portava?) Non sapevano, quelle donne e quegli uomini eleganti, che suo padre era uno zingaro capace di imbastire storie che stordivano e di cantare ninne nanne che mettevano paura – andava e veniva da casa senza che si potesse mai essere sicuri del suo ritorno. Era uno di cui non fidarsi. Fuggiva sempre verso est e a lei e sua madre non restava che attenderlo, un’attesa eterna.
L’infanzia di Alma, che durò più o meno fino al trasferimento nella casa sul Carso, era stata un alternarsi di attese e pomeriggi carichi di tensione in cui sua madre rientrava con vaschette di alluminio colme di ćevapčići arrostiti e ajvar, kipferl e biete cucinate con le patate, la cena per il ritorno di suo padre che finivano per sbocconcellare da sole. E se da adulta Alma ha sviluppato una certa irritazione per il rumore di tacchi femminili che avanzano sul parquet, è perché in quei giorni di vana speranza sua madre indossava il vestito di raso verde che le lasciava le ginocchia e le spalle scoperte e i tacchi che risuonavano tormentosamente dalla cucina alla finestra del salotto, per ore, fino a quando non si arrendevano al buio e venivano lanciati nello sgabuzzino lasciando nell’aria uno strascico di trepidazione e dolore.
Articolo di Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista-[da Alma di Federica Manzon, Feltrinelli, 2024]-Fonte-toscanalibri.it
Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista.Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004), Mario Luzi. Un segno indelebile (2016). Esce nel 2020 la raccolta di racconti Le rose di Kathryn. Nell’album Indy e Lib (cinque ristampe) adatta, per i bambini della scuola primaria, il testo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», edizione patrocinata dalla Federazione Italiana dei Club Unesco. E’ autore di trasmissioni culturali per la televisione e di docufilm pubblicati in Dvd. È direttore del portale Toscanalibri.it.
ROMA-L’incredibile lettera di un’antica donna romana alla sorella-
Tempo fa è stato trovato e tradotto un invito di compleanno mandato da un’antica donna romana, moglie del comandante del forte di Vindolanda – Gran Bretagna – alla sorella.
La regione a quel tempo era ancora più fredda ed umida di oggi. Spesso chi veniva inviato qui, ai confini dell’impero, poteva aver la sensazione di essere isolato ed esiliato dalla lontana, potente e lussuosa Roma.
Ciò non impediva ai romani di sentirsi tali; un fatto dimostrato dal ritrovamento di numerose ville e strade costruite proprio da questo popolo. Anche lo stesso forte militare ci ha consegnato ampio materiale sulla vita di tutti i giorni dei romani.
A partire dal 1973, gli studiosi hanno cominciato a trovare frammenti di tavolette coperte di scrittura corsiva romana e sature d’acqua. Una volta conservate e decifrate, è stato possibile osservare rari dettagli della vita quotidiana e il funzionamento del forte; liste dei rifornimenti necessari, tra cui la pancetta, le ostriche, e il miele; la lettera di un soldato che scrive da casa e dice che ha inviato più calze, sandali, e biancheria oltre a descrivere i nativi britannici.
Tra le tavolette-i più antichi documenti scritti a mano in Gran Bretagna-sopravvive un invito dalla moglie del comandante del forte a sua sorella per una festa di compleanno, incredibile per la semplicità e la somiglianza oltre alla sua attualità nell’uso delle parole.
La lettera
“Claudia Severa alla sua Lepidina, saluti. Questo 11 settembre, sorella, per la celebrazione del mio compleanno, ti ho inviato un caldo invito per essere sicura che tu verrai, così da rendere la mia giornata migliore se tu sarai presente. Porgi i miei saluti al tuo Cerialis. Il mio Aelius (Elio) e mio figlio ti inviano i loro saluti. Ti aspetto sorella. Saluti, sorella, anima a me più cara, che spero prosperi e possa salutare. A Sulpicia Lepidina, moglie di Cerialis, da Severa.” La Moglie di Aelius, Claudia, fece probabilmente comporre da qualcun altro la lettera, elemento che sembra emergere dalla professionalità con cui è scritta la missiva. Sembra esserci però anche una parte del messaggio scritta direttamente da Claudia quando si legge: Ti aspetto sorella. Saluti, sorella, anima a me più cara, che spero prosperi e possa salutare”. Questo passaggio, seppur breve, rappresenta il primo testo conosciuto scritto da una donna romana in latino.
È considerata una delle prime poetesse che introdussero l’uso del verso libero nella rigida struttura poetica araba.
Nazik al-Mala’ika nacque a Baghdad nel 1922 da genitori entrambi poeti, prima di sette figli. Il padre, insegnante, fu anche editore di un’enciclopedia in 20 volumi; la madre aveva scritto poesie contro la dominazione britannica. Sin da piccola mise in mostra la sua propensione all’arte poetica componendo la sua prima poesia in arabo classico all’età di soli 10 anni.
Frequentò il College universitario di Baghdad, laureandosi in letteratura nel 1944, avendo studiato anche musica. Mentre era ancora al college, pubblicò alcune poesie su giornali e riviste. La sua prima raccolta di poesie, Āshiqat al-laylā (L’amante della notte), è pubblicata nel 1947.
Grazie alla sua buona conoscenza della lingua inglese vinse una borsa di studio presso l’università di Princeton nel New Jersey. Nel 1954 proseguì i suoi studi nel Wisconsin dove conseguì il master in Letterature Comparate, ottenendo poco dopo una cattedra universitaria di letteratura.
Nel 1961 sposò ‘Abd al-Hadi Mahbuba, suo collega nella sezione di lingua araba presso il College di Baghdad. Con il marito contribuì a fondare l’Università di Basra, nel sud dell’Iraq. Molte delle sue opere sono state pubblicate a Beirut, in Libano, dove si trasferì alla fine del 1950.
Nel 1970 lasciò il suo paese in compagnia del marito e visse in Kuwait fino a che nel 1990Saddam Hussein invase il paese. Dopo il 1990 si trasferì al Cairo, dove trascorse il resto della sua vita.
Morì nel 2007, all’età di 85 anni a causa di una serie di problemi di salute tra i quali la malattia di Parkinson.
Il Colera
Nell’orrida cripta putridi resti:
nel silenzio perenne e spietato,
dove la morte è un balsamo,
si è risvegliato il colera.
Astioso si aggira con rabbia,
cerca la lieta valle luminosa,
urla come un pazzo convulso
senza riguardo per chi piange.
Ovunque il segno dei suoi artigli:
nella capanna o la casa contadina
soltanto si odono grida di morte,
di morte di morte di morte.
Ecco che la morte infierisce
per mezzo del colera spietato
e nel silenzio amaro si ode
solo un sottofondo di preghiera.
Anche il becchino si arresta
senza più nemmeno un aiuto;
è morto anche il muezzìn:
chi pregherà per i morti?
Inesausto resta un sospiro
e il pianto infante dell’orfano,
ma domani anche lui – è sicuro –
ghermirà il morbo ferino.
O spettro perenne del colera,
triste desolazione di morte,
di morte di morte di morte.
IL CONVITATO ASSENTE
Già trascorsa la sera
volge la luna al tramonto
ed eccoci a contare
le ore di un’altra notte,guardando la luna
scivolare nell’abisso
e con lei l’allegria
senza che tu sia venuto
perso con le mie speranze,
fissando la tua sedia vuota
in compagnia della tristezza
dopo aver chiesto invocato
in silenzio la tua venuta.
Mai avrei immaginato
dopo tutti questi anni
la tua ombra ancora
in grado di sovrastare
ogni pensiero ogni parola,
ogni passo ogni sguardo,
né potevo sapere che tu
saresti stato più forte
di ogni altra presenza
e che l’unico assente
fra tutti i convitati
eclissasse ogni altro
in un mare di nostalgia.
Certo se tu fossi venutoci saremmo intrattenuti
a conversare con gli amici
finché fossero partiti
e allora anche tu forse
saresti parso come gli altri,ma la sera è già passata
e il mio sguardo gridando
interrogava ogni sedia vuota
cercando fra gli astanti
sino alla fine della sera
l’unico che non è venuto.
Che tu arrivi un giorno
ormai non lo desidero:dai miei ricordi all’istante
svanirebbero il profumo
e i colori di quest’assenza,rotta l’ala alla fantasia
languirebbero le mie canzoni.
Stringendo le dita
intorno ai frantumi
dell’ingenua mia speranza
ho scoperto di amarti
nelle sembianze del sogno,e se anche tu fossi qui
adesso in carne ed ossa
io seguiterei a sognare
quell’invitato assente.
Traduzione di Pino Blasone
IO
la notte mi chiede chi sono
sono il segreto della profonda nera insonnia
sono il suo silenzio ribelle
ho mascherato l’anima di questo silenzio
ho avvolto il cuore di dubbi
immota qui
porgo l’orecchio
e i secoli mi chiedono
chi sono
E il vento chiede chi sono
sono la sua anima inquieta rinnegata dal tempo
come lui sono in nessun luogo
continuiamo a camminare e non c’è fine
continuiamo a passare e non c’è posa
giunti al baratro
lo crediamo il termine della pena
e quello è invece l’infinito
Il destino chiede chi sono
potente come lui piego le epoche
e ridòno loro la vita
creo il passato più remoto
dall’incanto di una vibrante speranza
e lo sotterro ancora
per forgiarmi un nuovo ieri
di un un domani gelido
Il sé chiede chi sono
come lui vago, gli occhi fissi nel buio
nulla che mi doni la pace
resto ancora e chiedo, e la risposta
resta nascosta dietro il miraggio
ancora lo credo vicino
al mio raggiungerlo tramonta
dissolto, dispare
INVITO ALLA VITA
Arrabbiati, ti amo arrabbiato e ribelle,
rivoluzione cocente, esplosione.
Ho odiato il fuoco che dorme in te, sii di brace
diventa una vena appassionata, che grida e s’infuria.
Arrabbiati, il tuo spirito non vuole morire
non essere silenzio innanzi al quale scateno la mia tempesta.
La cenere degli altri mi è sufficiente,
tu, invece, sii di brace.
Diventa fuoco ispiratore delle mie poesie.
Arrabbiati, abbandona la dolcezza, non amo ciò che è dolce
il fuoco è il mio patto, non l’inerzia o la tregua con il tempo
non riesco più ad accettare la serietà
e i suoi toni gravi e tranquilli.
Ribellati al silenzio umiliante
non amo la dolcezza ti amo pulsante e vivo
come un bambino come una tempesta,
come il destino assetato di gloria suprema, nessun profumo
può alterare le tue visioni, nessuna rosa…
La pazienza? È la virtù dei morti.
Nel gelo dei cimiteri, sotto l’egida dei versi
si sono addormentati e abbiamo dato calore alla vita
un calore esaltato, passione degli occhi e delle gote.
Non ti amo oratore, ma poeta
il cui inno esprime ansia
tu canti, sebbene alterato,
anche se la tua gola sanguina
e se la tua vena brucia.
Ti amo boato dell’uragano nel vasto orizzonte
bocca tentata dalla fiamma,
disprezzando la grandine
dove giacciono desiderio e nostalgia.
Odio le persone immobili
aggrotta le sopracciglia,
mi annoi quando ridi
le colline sono fredde o calde,
la primavera non è eterna
il genio, mio caro amico, è cupo
e i ridenti sono escrescenze della vita
amo in te la sete eruttiva del vulcano
l’aspirazione della notte profonda
a incontrare il giorno
il desiderio della sorgente generosa
di stringere le otri
ti voglio fiume di fuoco,
la cui onda non conosce fondo.
Arrabbiati contro la morte maledetta
non sopporto più i morti.
ORAZIONE FUNEBRE PER UNA DONNA INSIGNIFICANTE
Ci ha lasciati senza un pallore di gota o un fremito di labbrale porte non hanno sentito nessuno narrare della sua morte nessuna tenda alle finestre stillante doloresi è levata per seguire il suo feretro sino a che non scompaia dalla vistaa eccezione delle poche persone che si sono commosse al suo ricordo.La notizia si è dissolta nei vicoli senza che il suo eco si diffondessee si è rifugiata nell’oblio di alcune fossela luna ha pianto questa tragedia.
La notte non se n’è curata e si è trasformata in giornoQuindi è giunta la luce con le grida del lattaio, il digiuno,il miagolio di un gatto affamato tutto pelle ed ossa,le liti dei commercianti, l’amarezza, la lotta,i bambini che lanciano pietre da un lato all’altro della strada,le acque sporche nei canali e i venti che giocano da soli con le porte delle terrazzein un oblio pressoché totale.
Traduzioni di Valentina Colombo
UN INVITO A SOGNARE
Suvvia … sogniamo, che la dolce notte si avvicina
e il buio tenero, le guance delle stelle ci chiamano
vieni … andiamo a cercare sogni, a contare fili di luce
e rendiamo il declivio della sabbia testimone del nostro amore
Cammineremo insieme sul petto della nostra isola insonne
e lasceremo sulla sabbia le orme dei nostri passi randagi
e verrà il mattino a gettare le fresche rugiade
e magari spunterà, dove abbiamo sognato, un fiore
Sogneremo di salire verso le montagne della luna
a dilettarci lì dove non c’è fine e non c’è nessuno
lontani … lontani, dove il ricordo
non potrà raggiungerci, poiché saremo al di là della ragione
Sogneremo di tornare fanciulli, noi due , sopra le colline
correremo, innocenti, sulle rocce e pascoleremo i cammelli
vagabondi senza dimora se non la capanna dell’immaginazione
e quando dormiremo ci inzacchereremo di sabbia
Sogneremo di camminare verso l’ieri e non nel domani
e di arrivare a Babilonia in un’alba fresca
porteremo al tempio, come due innamorati, il patto d’amore
e ci benedirà un sacerdote babilonese con mano pura
COMPIANTO DI UN GIORNO VACUO
Nel lontano orizzonte si intravide il buio
finì il giorno estraneo
e i suoi echi si voltarono verso le caverne dei ricordi
e come era la mia vita così sarà anche domani
un labbro assetato e un bicchiere
la cui profondità rispecchia il colore di un odore
e semmai lo sfiorassero le mie labbra
non troverebbero i resti del sapore dei ricordi
non troverebbero nemmeno i resti
finì il giorno estraneo
finì e perfino i peccati singhiozzarono
e piansero anche le sciocchezze che io chiamai
ricordi
finì e non rimase nella mia mano
se non il ricordo d’una melodia che gridava nell’interiorità del mio essere
compiangendo la mia mano da cui svuotai
la mia vita, i miei ricordi lontani, e un giorno della mia giovinezza
tutto si perse nella valle dei miraggi
nella nebbia
era un giorno della mia vita
lo gettai perso senza agitazione
sui resti della mia giovinezza
presso il colle dei ricordi
sopra le migliaia di ore perse nella nebbia
nei labirinti di notti lontane
fu un giorno vacuo. Fu strano
che le ore pigre suonassero e calcolassero i miei momenti
non era un giorno della mia vita
era piuttosto un’indagine orrenda
del resto dei maledetti ricordi che strappai
insieme al bicchiere che ruppi
presso la tomba della mia speranza morta, dietro gli anni
dietro il mio essere
fu un giorno vacuo .. fino all’arrivo della sera
le ore passarono in uno stato di semipianto
tutte quante fino a sera
quando la sua voce svegliò il mio udito
la sua dolce voce che persi
quando la tenebra cinse l’orribile orizzonte
e si cancellarono i resti del mio dolore, e anche i miei peccati
e si cancellò la voce di Habibi la mano del tramonto portò via i suoi echi
in un posto nascosto agli occhi del cuore
sparì e non rimase nulla se non il ricordo e il mio amore
e l’eco di un giorno estraneo
come il mio pallore
e fu vano supplicarlo di ridarmi indietro la voce di Habibi
Traduzione di Gassid Mohammed
CINQUE CANTI AL DOLORE
1
Dispensa alle notti tristezza e smania
Ci versa negli occhi calici d’insonnia
Sulla nostra via l’abbiam trovato
Un mattino d’abbondante pioggia
Gli abbiam dato dell’amore
Un cenno di pietà e un angolo remoto
Pulsante ormai nel nostro cuore
**
Non ci ha più lasciati nè si è allontanato
Una volta mai dal nostro cammino
Ci segue lungo tutta l’esistenza
Ah non gli avessimo dato da bere nemmeno una goccia
Quel triste mattino
Dispensa alle notti tristezza e smania
Ci versa negli occhi calici d’insonnia.
2
Da dove ci viene il dolore?
Da dove viene?Ha stretto i nostri sogni col passato
Nutrito le nostre rime
Ieri lo abbiam trascinato nelle acque in profondità
Frantumato e disperso nei flutti del lago
Di lui non abbiam serbato alcuna traccia
Convinti d’esser tornati salvi dalla sua malvagità
Mai più tristezza scagliata sui nostri sorrisi
Mai pù singulti celati forti dietro i nostri canti
**
Abbiam rievuto poi rosa rossa aulente
Ce l’hanno inviata d’oltre mare i nostri amati
Che ci aspettavamo? Gioia e lieto appagamento?
Pur si è disvelata e ha fatto scorrer lacrime assetate d’ardore
Bagnando le nostre dita tristemente intonate
Noi ti amiamo oh dolore
**
Da dove ci viene il dolore?
Da dove viene?
Ha stretto i nostri sogni col passato
Nutrito le nostre rime
Poiché siam per lui sete e bocca riarsa
Che lo mantiene in vita e ci disseta.
3
Non possiamo vincere il dolore?
Rimandarlo al giorno dopo? O un mattino
Tenerlo occupato? Distrarlo con un gioco? Un canto?
Una antica filastrocca andata?
**
Chi sarà mai questo dolore
Un tenero fanciullo dagli occhi curiosi
Acquietato da un tocco affettuoso
E messo a dormire col sorriso e una cantilena
**
Oh chi ci ha offerto le lacrime e il rimpianto?
Chi se non lui non ha avuto cuore alla nostra tristezza
Per poi venir da noi in lacrime a chiederci di amarlo
Chi se non lui ci ha elargito tormenti col sorriso?
**
Questo piccino…ha assolto chi ha peccato
Nemico amato amico odiato
Colpo di pugnale cui ci chiede offrir la guancia
Senza un rimorso senza alcun dolore
**Fanciullo, abbiam perdonato quella mano e quella bocca
Che negli occhi solchi di lacrime ci scava
E le ferite riapre volta a volta
Sì, da tempo perdonato e l’offesa e la rovina
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Come dimenticheremo il dolore?
Come lo dimenticheremo?
Chi illuminerà per noi La notte della sua memoria?
Lo berremo lo mangeremo
Seguiremo il vagare dei suoi passi
E se dormiremo, la sua ombra
Sarà l’ultima che vedremo
**
I suoi contorni la prima cosa
Che riconosceremo al mattino
Con noi lo porteremo ovunque
ci porteranno la speranza e le ferite
**
Gli permetteremo di erigere pareti
Fra i nostri aneliti e la luna
Fra la nostra passione e il fresco ruscello
Fra i nostri occhi e i nostro sguardo
**
Gli permetteremo di versare l’afflizione
E negli occhi la tristezza
Lo accoglieremo in una gola inebriata
Fra le pieghe dei nostri canti
**
Alla fine i fiumi se lo porteranno
Gli darà un guanciale il cactus
Scenderà nella valle l’oblio
Oh tristezza buona sera!
**
Dimenticheremo il dolore
Lo dimenticheremo
Poiché con fervore
Lo avremo dissetato
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Ti abbiamo incoronato divinità nel sonno dell’alba
E sul tuo altare argenteo ci siamo imbrattati la fronte
Oh nostro amore, o dolore
E abbiam bruciato l’incenso con lino e sesamo
Offerto sacrifici, intonato versi
A melodie babilonesi
**
Per te abbiam costruito un tempio
dai muri profumati
E irrorato la terra
con olio e vino schietto
E lacrime brucianti
Per te abbiamo acceso fuochi
con foglie di palma
Stoppie di grano e la nostra angoscia,
lunga la notte
E il labbro silente
**
Abbiamo salmodiato e chiamato e fatto voti
Con datteri di un ‘ebbra Babilonia e pane e vini
E rose liete
Innanzi ai tuoi occhi abbiam pregato,
abbiamo offerto sacrifici
Infilato amare lacrime
In un rosario
**
Oh tu che ci hai concesso
e musica e canti
Oh lacrime che saggezza
ci avete elargito,
oh fonte dei pensieri
Abbondanza e fertilità
Crudele tenerezza, castigo colmo di pietà
Ti abbiam nascosto nei nostri sogni,
in ogni nota
Dei nostri canti desolati
CANTO D’AMORE PER LE PAROLE
Perché abbiamo paura delle parole
quando sono state mani dal palmo rosa
delicate quando ci accarezzano gentilmente le gote
e calici di vino rincuorante
sorseggiato, un’estate, da labbra assetate?
Perché abbiamo paura delle parole
quando tra di loro vi sono parole simili a campane invisibili,
la cui eco preannuncia nelle nostre vite agitate
la venuta di un’epoca di alba incantata,
intrisa d’amore e vita?
Allora perché abbiamo paura delle parole?
Ci siamo assuefatti al silenzio.
Ci siamo paralizzati, temendo che il segreto possa dividere
le nostre labbra.
Abbiamo pensato che nelle parole giaceva un folletto
invisibile,
rannicchiato, nascosto dalle lettere dalle orecchie del tempo.
Abbiamo incatenato le lettere assetate,
vietando loro di diffondere la notte per noi
come un cuscino, gocciolante di musica, sogni,e caldi calici.
Perchè abbiamo paura delle parole?
Tra di loro ne esistono di incredibile dolcezza
le cui lettere
hanno estratto il tepore
della speranza da due labbra,e altre che, esultando di gioia
si sono fatte strada
tra la felicità momentanea di due occhi inebriati.
Parole, poesia, teneramente
hanno accarezzato le nostre gote,
suoni che, assopiti nella loro eco, colorano, una frusciante,
segreta passione, un desiderio segreto.
Perché abbiamo paura delle parole?
Se una volta le loro spine ci hanno ferito,
hanno anche avvolto le loro braccia attorno al nostro collo
e diffuso il loro dolce profumo sui nostri desideri.
Se le loro lettere ci hanno trafitto
e il loro viso si è voltato stizzito
ci hanno anche lasciato un liuto in mano
e domani ci inonderanno di vita.Su, versaci due calici di parole!
Domani ci costruiremo un nido di sogni di parole
in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere.
Nutriremo i suoi germogli con la poesia
e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Costruiremo un terrazzo con la timida rosa
con colonne fatte di parole,
e una stanza fresca inondata di ombra,
protetta da parole.
Abbiamo dedicato la nostra vita come una preghiera
Chi pregheremo… se non le parole
È considerata una delle prime poetesse che introdussero l’uso del verso libero nella rigida struttura poetica araba.
Nazik al-Mala’ika nacque a Baghdad nel 1922 da genitori entrambi poeti, prima di sette figli. Il padre, insegnante, fu anche editore di un’enciclopedia in 20 volumi; la madre aveva scritto poesie contro la dominazione britannica. Sin da piccola mise in mostra la sua propensione all’arte poetica componendo la sua prima poesia in arabo classico all’età di soli 10 anni.
Frequentò il College universitario di Baghdad, laureandosi in letteratura nel 1944, avendo studiato anche musica. Mentre era ancora al college, pubblicò alcune poesie su giornali e riviste. La sua prima raccolta di poesie, Āshiqat al-laylā (L’amante della notte), è pubblicata nel 1947.
Grazie alla sua buona conoscenza della lingua inglese vinse una borsa di studio presso l’università di Princeton nel New Jersey. Nel 1954 proseguì i suoi studi nel Wisconsin dove conseguì il master in Letterature Comparate, ottenendo poco dopo una cattedra universitaria di letteratura.
Nel 1961 sposò ‘Abd al-Hadi Mahbuba, suo collega nella sezione di lingua araba presso il College di Baghdad. Con il marito contribuì a fondare l’Università di Basra, nel sud dell’Iraq. Molte delle sue opere sono state pubblicate a Beirut, in Libano, dove si trasferì alla fine del 1950.
Nel 1970 lasciò il suo paese in compagnia del marito e visse in Kuwait fino a che nel 1990Saddam Hussein invase il paese. Dopo il 1990 si trasferì al Cairo, dove trascorse il resto della sua vita.
Morì nel 2007, all’età di 85 anni a causa di una serie di problemi di salute tra i quali la malattia di Parkinson.
Poetica
Sebbene altri poeti prima di lei avessero già tentato il verso libero, è con Nazik al-Mala’ika che il metro della poesia araba viene rivoluzionato secondo un programma ben preciso. Nel 1962 è lei stessa che scrive:
“Il movimento della poesia libera ha avuto origine nel 1947, in Iraq. E dall’Iraq, anzi dal cuore di Baghdad, questo movimento ha strisciato estendendosi fino a sommergere l’intero mondo arabo e poi, a causa dell’estremizzazione di quanti vi hanno aderito, ha rischiato di trascinare via con sé tutte le altre forme della nostra poesia araba. E la prima poesia in versi liberi ad essere pubblicata, è stata la mia poesia intitolata Il colera “. Il colera è una poesia ispirata ad un fatto di cronaca: un’epidemia di colera che attraversò l’Egitto e l’Iraq nel 1947. Un intento coraggioso quindi, tenuto anche conto del suo sesso.
Nel 1949 al-Mala’ika pubblica Schegge e cenere, preceduta da una lunga prefazione sulla teoria della metrica della nuova poesia. L’accettazione nel mondo accademico non fu semplice, ma la poetessa non si lasciò intimidire. La poesia di al-Mala’ika non è comunque priva di metro, anzi fa preciso riferimento a sedici metri della tradizione classica araba, è quindi più corretto parlare di verso libero e non di verso sciolto.
L’attenzione della poetessa al metro è strettamente coniugata al suo amore per la scrittura, per la parola in sé come elemento magico: Domani ci costruiremo un nido di sogno di parole, | in alto, con l’edera che discende dalle sue lettere. | Nutriremo i suoi germogli con la poesia | e innaffieremo i suoi fiori con le parole.
Altra tematica importante è quella della condizione femminile nel mondo arabo. La poetessa scrisse anche alcuni saggi, come Donne fra due estremi: passività e scelta etica, del 1954. In una delle sue più note poesie, Orazione funebre per una donna insignificante, così si esprime: La notizia si è dissolta nei vicoli | senza che il suo eco si diffondesse | e si è rifugiata nell’oblio di alcune fosse | la luna ha pianto questa tragedia.
Bibliografia
The Poetry of Arab Women: A Contemporary Anthology, edited by Nathalie Handal, 2000.
Encyclopedia of World Literature in the 20th Century, by Khalid Al-Maaly, 2000.
Encyclopedia of World Literature in the 20th Century, vol. 3, ed. 3, ed. by Steven R. Serafin, 1999.
‘Nazik al-Mala’ika’s poetry and its critical reception in the West, by Salih J. Altoma, in Arab Studies Quarterly, 1997.
Reflections and Deflections, by S. Ayyad and N. Witherspoon, 1986.
Women of the Fertile Crescent: Modern Poetry By Arab Women, ed. Steven R. Serafin, 1999.
Opere
Opere tradotte in italiano
Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee, a cura di Valentina Colombo, Mondadori 2007.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
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Frida Kalho -Viva la vida, il sogno e la rivoluzione-
-Articolo di Sara Rotondi-
Frida Kalho:“L’amore? Non so. Se include tutto, anche le contraddizioni e i superamenti di sé stessi, le aberrazioni e l’indicibile, allora sì, vada per l’amore. Altrimenti, no”. Frida Kalho
Una delle più grandi pittrici del Ventesimo secolo: la ‘pintora mexicana’ per eccellenza, intensa, meravigliosa e potente. Quelli della sua generazione potrebbero tracciare un diagramma della loro vita. A Palazzo Albergati di Bologna entra Frida Kahlo al secolo Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio 1907 – Coyoacán,13 luglio 1954). La mostra su Frida inaugurata lo scorso 19 novembre, sarà visibile fino al prossimo marzo 2017. Che dire, imperdibile.
Ritratti, autoritratti, la storia dell’artista a tutto tondo che si fonde in maniera inscindibile con la storia della donna. E accanto a lei, a fare da sfondo, gli uomini (e le donne) di Frida: su tutti, il pittore e ‘muralista’ Diego Rivera e la cantante Chavela Vargas che alla veneranda età di 83 anni calcola di aver bevuto più di 45 mila litri di tequila. I grandi amor fou.
Lungi dal ripercorrere la biografia, tracciamo una linea ‘umile’ sul suo grande spessore umano e intellettuale. Dai suoi ideali di amore (quelli veri lontani da beceri romanticismi) all’amore per la libertà.
Ciò che l’acqua mi ha dato. Intensa e piena di passione la sua carriera pittorica, in cui la sua opera non è circoscritta alla semplice narrazione di eventi, ma è anche ricerca interiore. Opere che si uniscono con la tradizione messicana e con il surrealismo. Andrè Breton, in occasione di una mostra a Parigi nel 1939 afferma che Frida è “una surrealista creatasi con le proprie mani e un raro punto di contatto tra l’ambito artistico e quello politico, che speriamo un giorno si possa fondere in un’unica coscienza rivoluzionaria” [1]. Un surrealismo che emerge nel quadro Ciò che l’acqua mi ha dato: immagini di paura, sessualità, memoria e dolore fluttuano nell’acqua di una vasca da bagno, dalla quale affiorano le gambe dell’artista.
Morte e ciclo dell’esistenza. Nella sua opera emerge il dolore, l’erotismo represso (segno di vitalità immune e repressione borghese), subconscio ma anche morte. Citiamo una delle sue opere più famose dove il concetto dell’inazione collegata alla morte è intenso e struggente. Il sogno (1940) Frida Kahlo dorme e lo scheletro è sveglio, vigile. Intorno ci sono delle nuvole, il sonno di Frida è tranquillo, mentre su di lei crescono delle piante che rappresentano la vita. Per l’artista la morte è una rinascita, forma di ringraziamento per la vita e una sorta di celebrazione del ciclo vitale dell’esistenza. La morte è quindi un processo, un cammino verso qualcosa d’altro.
Autoritratto con i capelli tagliati. Fervida femminista, in un dipinto del 1940 affiora il sui ideale di donna con una vera e propria esegesi della definizione culturale delle donne. Adottando trasgressivamente alcuni elementi dell’esteriorità maschile, denuncia apertamente come il potere sia una sorta di travestimento.
Avventura, passione, tequila, e revolución: spirito politico e comunismo. Non solo pittrice, ma anche grande attività per gli ideali libertari dell’epoca. Frida è una comunista convinta che si è battuta contro le ingiustizie e l’omogeneità del sistema: nel 1928 diventa un’attivista del Partito Comunista Messicano per sostenere la lotta di classe armata partecipando a numerose manifestazioni con adeguato physique du rôle.
L’amore come essenza della vita: Ti meriti un amore “Non so scrivere lettere d’amore” affermava Frida Kahlo. Ma in realtà poche donne hanno saputo giocare con le parole e le emozioni come ha fatto lei. Il tutto in un lirismo struggente. “Da quando mi sono innamorata di te, ogni cosa si è trasformata ed è talmente piena di bellezza… L’amore è come un profumo, come una corrente, come la pioggia. Sai, cielo mio, tu sei come la pioggia ed io, come la terra, ti ricevo e accolgo” scrive in una splendida missiva a Josè Bartoli nel 1946. L’amore, quello passionale, quello unico, quello che ti crea dipendenza anche quando si trasforma in sofferenza: “Ti meriti un amore che ti ascolti quando canti, che ti appoggi quando fai la ridicola, che rispetti il tuo essere libera, che ti accompagni nel tuo volo, che non abbia paura di cadere. Ti meriti un amore che ti spazzi via le bugie che ti porti il sogno, il caffè e la poesia”.
Tutto questo e Frida: amore e rivoluzione.
Opere:
Autoritratto con vestito di velluto – (1926) – collezione privata
Autoritratto – (1926)
Ritratto di Alicia Galant – (1927) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Miguel N. Lira – (1927) – Instituto Tlaxcalteca de Cultura, Tlaxcala
L’autobus – (1929) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto – (1930)
Autorretratto con mono (autoritratto con scimmia) – (1930) – Albright-Knox Art Gallery, Buffalo (New York)
Frida e Diego – (1931) – San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco
Ritratto di Eva Frederick – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Luther Burbank – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ospedale Henry Ford (o Il letto volante) – (1932) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti – (1932)
La mia nascita – (1932)
Il mio vestito è appeso là (o New York) – (1933)
Qualche piccola punzecchiatura – (1935) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
I miei nonni, i miei genitori e io – (1936)
Autoritratto dedicato a Lev Trockij – (1934) – National Museum of Women in the Arts, Washington D.C.
Frida e l’aborto – (1936) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo defunto Dimas Rosas all’età di tre anni – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La mia balia e io – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ricordo – (1937)
Ciò che ho visto nell’acqua e ciò che l’acqua mi ha dato – (1938)
I frutti del cuore – (1938)
Il cane itzcuintli con me – (1938)
Quattro abitanti del Messico – (1938)
Due Nudi nella Giungla (La Terra Madre) – (1939) – Collezione Privata
Il suicidio di Dorothy Hale – (1939) – Phoenix Art Museum, Phoenix
Le due Frida – (1939) – Museo de Arte Moderno, Città del Messico
Autoritratto con collana di spine – (1940)
Autoritratto con i capelli tagliati – (1940) – Museum of Modern Art, New York
Autoritratto con scimmia – (1940)
Autoritratto per il Dr. Eloesser – (1940)
Il sogno (o Il letto) – (1940)
Cesto di fiori – (1941)
Io con i miei pappagalli – (1941)
Autoritratto con scimmia e pappagallo – (1942)
Autoritratto con scimmie – (1943)
La novella sposa che si spaventa all’aprirsi della vita – (1943)
Retablo – (1943 circa)
Ritratto come una Tehuana (o Diego nel mio pensiero) – (1943)
Pensando alla morte (1943) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Radici (1943) – Collezione privata
Diego e Frida 1929-1944 – (1944)
Fantasia – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il fiore della vita – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La colonna spezzata – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Donna Rosita Morillo – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il pulcino – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La maschera – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Mosè (o Il nucleo solare) – (1945)
Ritratto con scimmia – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Senza speranza – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo cervo – (1946)
Autoritratto con i capelli sciolti – (1947)
Albero della speranza mantieniti saldo – (1946)
Il sole e la vita – (1947)
Autoritratto – (1948)
Diego e io – (1949) – Collezione privata
L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra, Diego, io e il signor Xolotl – (1949)
Autoritratto con ritratto del Dr. Farill – (1951)
Ritratto di mio padre – (1951) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Perché voglio i piedi se ho le ali per volare – (1953) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Autoritratto con Diego nel mio Cuore – (1953-1954) – Collezione Privata
Autoritratto con Stalin (o Frida e Stalin) – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Il cerchio – (1954 circa) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il marxismo guarirà gli infermi – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Viva la vita – (1954) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico.
Note:
[1] In Andrè Breton, Le Surréalisme et la Peinture, Éditions Gallimard, Parigi 1965; tr. it. di Ettore Capriolo, Il Surrealismo e la Pittura, Marchi Editore, Firenze 1966, “Frida Kahlo”, p. 143.
Fonte-Ass. La Città Futura-| Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
-Le Lettere per la pace in Việt Nam di Hồ Chí Minh –
-Anteo Edizioni-
Recensione del volume Lettere per la pace in Việt Nam (Anteo Edizioni, 2021),una raccolta di lettere scritte dal leader vietnamita Hồ Chí Minh tra il 1946 e il 1969, mentre il Việt Nam si trovava a dover fronteggiare le forze coloniali francesi prima e quelle imperialiste statunitensi poi.Articolo di Giulio Chinappi
La figura di Hồ Chí Minh ha un enorme significato per la storia contemporanea del Việt Nam, difficilmente paragonabile a quella di un qualsiasi personaggio storico italiano occidentale. Il nome di Hồ Chí Minh ha infatti assunto un’importanza tale da poter essere di fatto identificato con il Việt Nam stesso. In “Lettere per la pace in Việt Nam” (Anteo Edizioni, 2021), una raccolta di ottantacinque lettere selezionate da Nguyễn Anh Minh e tradotte in italiano da Sandra Scagliotti e Trần Doãn Trang, abbiamo l’opportunità di ripercorrere l’incessante lotta di Hồ Chí Minh per la liberazione, la riunificazione e la pacificazione della sua patria, in oltre vent’anni nei quali il Việt Nam si è trovato a dover fronteggiare le forze coloniali francesi prima e quelle imperialiste statunitensi poi.
Tuttavia, la lotta di Hồ Chí Minh non ha riguardato solamente il Việt Nam, ma ha rappresentato un punto di riferimento per tutti i popoli del mondo oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo delle potenze capitalistiche occidentali: “Il Presidente, combinando la forza del popolo con una peculiare contingenza storica, ha incarnato l’integrazione tra il vero patriottismo e il più fedele e trasparente internazionalismo dei lavoratori e della classe operaia; egli ha sempre pensato che la costruzione di una pace autentica a livello mondiale dovesse necessariamente fondarsi sul principio del rispetto dei diritti fondamentali di tutti i popoli e che, in seno alle relazioni internazionali, eguaglianza e democrazia dovessero costituire la necessaria alternativa alla guerra, per garantire a ogni nazione il diritto di decidere il proprio destino in base ai valori culturali nazionali, nel rispetto delle scelte di sviluppo di ogni Stato e senza alcuna interferenza negli affari interni delle altre nazioni” si legge nella prefazione della casa editrice vietnamita.
La rassegna delle lettere indirizzate ai leader, ai governi, alle assemblee nazionali, a presidenti, politici, militari, prigionieri e ai popoli di tutti i paesi del mondo si apre in un contesto nel quale, terminata la seconda guerra mondiale, la Francia stava tentando di rioccupare militarmente le sue ex colonie asiatiche, sebbene il Vietnam avesse dichiarato la propria indipendenza il 2 settembre 1945.
Nonostante i crimini commessi dai colonialisti francesi – poi reiterati in forme ancora più disumane dagli imperialisti statunitensi – Hồ Chí Minh ha sempre mantenuto la chiara distinzione tra l’operato dei governi e i popoli di quei paesi, come si evince già nella lettera indirizzata ai francesi d’Indocina nel 1946: “Noi non detestiamo il popolo francese. Anzi, ammiriamo questo grande popolo perché è stato il primo a divulgare i concetti di libertà, uguaglianza e fraternità, e perché è un popolo dedito alla cultura, alla scienza e alla civiltà. La nostra battaglia non volge contro il popolo francese, né contro i francesi leali e onesti, ma contro la crudele dominazione del colonialismo francese in Indocina”. Da queste parole di evince anche il retaggio culturale di Hồ Chí Minh, che, come molti leader rivoluzionari vietnamiti, aveva paradossalmente formato la propria coscienza politica grazie agli insegnamenti della scuola coloniale francese che esaltava i valori della rivoluzione del 1789. “Sapete bene che tale dominazione non offre alcun vantaggio alla Francia, né, tantomeno ai cittadini francesi. Tale dominazione arricchisce gli avidi colonialisti, ma infama la Francia” (p. 3).
Hồ Chí Minh manterrà sempre stretti contatti con le forze sociali progressiste in Francia, in particolare con il Partito Comunista Francese (PCF), ritenendo l’azione dello stesso un sostegno fondamentale alla causa vietnamita, come si evince dalla breve lettera inviata al segretario del PCF Maurice Thorez (p. 21). Una lettera molto più consistente è invece quella inviata il 22 settembre 1946 all’Unione delle donne francesi: “Voi, care Signore, amate il vostro paese e desiderate che sia indipendente e unito. Sono sicuro che, per difenderlo, sareste disposte a combattere contro chiunque cercasse di violarne l’indipendenza e l’unità” si legge nel testo. “Anche noi siamo così, amiamo il nostro paese e lo desideriamo indipendente e unito. Potete forse biasimarci perché abbiamo lottato contro coloro che hanno tentato di conquistare la nostra patria e dividere il nostro popolo? I francesi hanno subito il dolore dell’occupazione per quattro anni; quattro anni in cui hanno lottato con la resistenza e la guerriglia. I vietnamiti hanno subito il dolore dell’occupazione per oltre 80 anni, e, a loro volta, hanno lottato con la resistenza e combattuto con la guerriglia. Se i francesi che hanno partecipato alla resistenza sono considerati eroi, perché i guerriglieri vietnamiti dovrebbero essere considerati ladri e assassini?” (p. 22).
In un primo momento, Hồ Chí Minh si rivolge in alcune lettere al presidente statunitense Harry Truman per cercare sostegno nella sua lotta anticolonialista, dopo che lo stesso Truman aveva presentato i “12 punti” della politica estera statunitense, nei quali si indicava il diritto dei popoli all’indipendenza e all’autodeterminazione. Tuttavia, la cosiddetta “dottrina Truman” si rivelò ben presto uno strumento volto unicamente a evitare l’espansione del comunismo nel mondo, e le parole “indipendenza” e “autodeterminazione” solamente uno specchietto per le allodole per coprire le mire imperialiste di Washington.
Nonostante le grandi difficoltà e l’ostilità delle forze imperialiste mondiali, Hồ Chí Minh riaffermerà a più riprese la risolutezza del governo e del popolo vietnamita nella lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione: “Il colonialismo francese intende nuovamente occupare il nostro paese; questo è un fatto oramai chiaro e innegabile. Ora il popolo vietnamita si trova a un bivio: potrebbe arrendersi e piegarsi alla schiavitù oppure continuare a lottare fino alla fine, per riacquistare la libertà e l’indipendenza. No, il popolo vietnamita non si arrenderà! Non permetterà mai più ai francesi di tornare a dominarlo. No! Il popolo vietnamita non tornerà più schiavo. Il popolo vietnamita è disposto a morire piuttosto che rinunciare all’indipendenza e alla libertà” (p. 28). E ancora: “Mentre la Francia è forte materialmente, noi siamo mentalmente determinati alla vittoria e risolutamente decisi nel combattere per la nostra libertà” (p. 33).
A partire dal 1951, l’ostilità degli Stati Uniti nei confronti del Vietnam divenne sempre più evidente. La dottrina Truman aveva portato allo scoppio della guerra di Corea, e Washington covava già il piano di sostituirsi alla Francia come potenza egemone nella regione indocinese, qualora Parigi avesse fallito nel suo intento. “Lei, Presidente, erede di grandi leader come Washington, Lincoln e Roosevelt, parla spesso di pace e giustizia, ma nei Suoi atti concreti verso il Việt Nam, si mostra in totale divergenza da rettitudine e concordia” scrive Hồ Chí Minh in una nuova lettera rivolta a Truman, specificando che costui “ha ordito una cospirazione per trasformare il Sud vietnamita in una base militare, colonia degli Stati Uniti” (p. 62).
In una missiva successiva, il presidente vietnamita aggiunge, rivolgendosi al suo omologo statunitense: “Lei ha affermato che gli Stati Uniti non interferiscono negli affari interni degli altri paesi. Ogni anno, gli Stati Uniti spendono centinaia di milioni di dollari per introdurre spie nei paesi stranieri e concorrono con oltre duemila milioni di dollari ad armare i paesi filoamericani per prepararsi alla guerra: gli Stati Uniti posseggono 250 basi militari in diversi paesi. Non è forse questa un’interferenza?” (p. 64).
Il 7 maggio 1954, i vietnamiti sconfissero i francesi nella storica battaglia di Ðiện Biên Phủ, ponendo fine per sempre alle mire coloniali di Parigi in Asia. In quello stesso momento, gli Stati Uniti divennero il nemico numero uno del Vietnam: “Noi vietnamiti abbiamo versato il nostro sangue per rovesciare il regime coloniale francese; ma poi, l’imperialismo americano, con i suoi dollari e i suoi inganni ha plasmato nel Sud del Việt Nam un feroce governo dittatoriale fantoccio” si legge in una lettera rivolta a John F. Kennedy (p. 65).
In una lettera del 30 aprile 1966 rivolta al senatore statunitense Michael Joseph Mansfield, Hồ Chí Minh chiede retoricamente: “Secondo Lei, quando un gruppo di scellerati criminali venuto da lontano, attacca massicciamente un villaggio di contadini, a chi va la colpa dell’invasione? Agli abitanti del villaggio o ai criminali?” (p. 91). E continua affermando: “Che benefici potrà mai apportare al popolo americano una guerra così illogica? Decine di migliaia di giovani americani muoiono in campi di battaglia lontani da casa, lasciando decine e decine di vedove e orfani. Negli Stati Uniti le tasse stanno diventando più pesanti e il costo della vita aumenta sempre più. L’inflazione si aggrava. L’onore degli Stati Uniti è in gioco. Anche con altre migliaia di bombardieri e decine di migliaia di soldati, l’America è destinata a fallire” (p. 92).
Allo stesso tempo, Hồ Chí Minh curò particolarmente le relazioni con i leader e i partiti degli altri paesi socialisti, come si evince da una serie di lettere di questo tipo: “Noi tutti siamo altresì grati all’Unione Sovietica, alla Cina e agli altri paesi socialisti che hanno sostenuto il popolo vietnamita contro l’invasione imperialista americana, che lo hanno aiutato a proteggere l’indipendenza nazionale, a difendere l’avamposto del blocco socialista nel Sudest asiatico e a contribuire alla tutela della pace nel mondo” leggiamo nella missiva inviata al Partito Socialista Operaio Ungherese in occasione del suo IX Congresso (p. 102).
L’ultimo presidente statunitense con il quale Hồ Chí Minh ebbe a che fare fu Lyndon Johnson, al quale rivolse una dura lettera il 15 febbraio 1967: “Il Việt Nam dista migliaia di chilometri dall’America. Il popolo vietnamita non ha mai nemmeno sfiorato l’America. Ma, contrariamente all’impegno assunto nel 1954, dai suoi rappresentanti alla Conferenza di Ginevra, gli Stati Uniti non hanno mai smesso di intervenire in Việt Nam; con ininterrotte provocazioni e un continuo incremento della guerra d’invasione nel Sud, cercano di dividere in modo permanente il paese e trasformare il Sud in una nuova colonia, base militare statunitense. […] Nella Sua lettera, Presidente, Lei si dice addolorato per la situazione di sofferenza e distruzione in Việt Nam Vorrei porLe una domanda: chi ha causato crimini così atroci? L’esercito americano e le forze dei paesi vassalli dell’America! Questa è la riposta” (p. 107).
Chiudiamo questa nostra breve rassegna con la lettera inviata nel marzo del 1967 al popolo italiano, che certamente, soprattutto grazie all’azione del Partito Comunista Italiano, fu sempre tra i maggiori sostenitori della causa vietnamita: “Il popolo italiano, con entusiasmo e con ogni mezzo, ha sostenuto la nostra resistenza contro l’aggressione americana. Vogliamo esprimere i nostri più sinceri ringraziamenti agli amici italiani. Ci auguriamo che il popolo italiano possa ulteriormente rafforzare il suo sostegno alla nostra lotta e, a gran voce, chiedere che gli invasori statunitensi cessino totalmente i bombardamenti e ogni atto di violenza contro la Repubblica Democratica del Việt Nam” (p. 116).
Hồ Chí Minh scomparve il 2 settembre 1969, nello stesso giorno in cui, 24 anni prima, aveva dichiarato l’indipendenza della Repubblica Democratica del Việt Nam. Il fondatore del Việt Nam indipendente non riuscì dunque a vedere la vittoria che sarebbe giunta solamente nel 1975, quando gli imperialisti statunitensi furono definitivamente cacciati e il paese venne riunificato sotto la bandiera della Repubblica Socialista del Việt Nam.
Articolo di Giulio Chinappi
Fonte -Ass. La Città Futura Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi
Descrizione del libro di Heather Morris-Nonostante la fame, il freddo e gli orrori del campo di concentramento, Livia, Magda e Cibi sono sopravvissute ai terribili anni trascorsi ad Auschwitz-Birkenau. Le tre sorelle si sono protette a vicenda, condividendo il poco che avevano a disposizione senza lasciarsi piegare dalla brutalità delle SS. Ma la loro vita è ancora in pericolo. Perché, con l’avanzata degli Alleati in Germania, ad attenderle c’è un’altra terribile prova, il piano folle e criminale dei loro aguzzini: la marcia della morte. Per cancellare ogni indizio di ciò che è avvenuto nel Lager, i prigionieri dovranno camminare per giorni, al freddo e sotto la minaccia delle armi, per essere poi giustiziati. Il destino delle tre sorelle sembra segnato, ma un inaspettato colpo di fortuna fornisce loro l’occasione per ribaltare il corso degli eventi.
La loro storia ti spezzerà il cuore-Non dimenticherai mai i loro nomi «È impossibile non emozionarsi con una storia come questa.»
The Mail on Sunday-«Un romanzo sbalorditivo.» People-«Un libro«È impossibile non emozionarsi con una storia come questa.»
Hanno scritto di Heather Morris: The Times -«Un fenomeno. Riesce a trasmettere un messaggio potente: l’amore non si può fermare.» The Sun «Tutti dovrebbero leggerla.» The New York Times «Una lettura straordinaria.»
Biografia di Heather Morris-È un’autrice di successo, nata in Nuova Zelanda e attualmente residente in Australia, a Brisbane. I suoi libri hanno venduto 12 milioni di copie e sono stati tradotti in 52 Paesi. Ha lavorato per anni come sceneggiatrice, prima di pubblicare il suo romanzo d’esordio, Il tatuatore di Auschwitz, che ha ottenuto uno straordinario successo mondiale, rimanendo per mesi in vetta alle classifiche internazionali dei libri più venduti, e che diventerà presto una serie TV. Anche Una ragazza ad Auschwitz, il suo secondo romanzo, e Le tre sorelle di Auschwitz sono già diventati bestseller.
Biografia di Heather Morris is a native of New Zealand, now resident in Australia. For several years, while working in a large public hospital in Melbourne, she studied and wrote screenplays, one of which was optioned by an Academy Award-winning screenwriter in the US. In 2003, Heather was introduced to an elderly gentleman who ‘might just have a story worth telling’. The day she met Lale Sokolov changed both their lives. Their friendship grew and Lale embarked on a journey of self-scrutiny, entrusting the innermost details of his life during the Holocaust to her. Heather originally wrote Lale’s story as a screenplay – which ranked high in international competitions – before reshaping it into her debut novel, The Tattooist of Auschwitz.
Biblioteca DEA SABINANatalia Ginzburg-Le voci della sera –
Einaudi editore
DESCRIZIONE-Le voci della sera (Einaudi, 2015) uscito per la prima volta nel 1961 della scrittrice Natalia Ginzburg pone sotto la lente d’ingrandimento la famiglia e le sue relazioni. La società e le sue aspettative sociali. Romanzo di gesta e di sottrazione del pensiero, narrato in prima persona ci fa immergere nell’egoismo di ciò che si vorrebbe per noi a dispetto di ciò che l’io individuale vorrebbe perseguire. La voce narrante è Elsa che scrive in prima persona – che potrebbe essere l’alter ego della scrittrice – che narra, racconta, invade, ma non di sé, di ciò che la circonda, di come va il mondo. Elsa è taciturna e da attenta osservatrice preferisce analizzare la realtà al di fuori da sé più che mettersi a nudo. Romanzo che vinse il Premio Strega nel 1961 risulta piacevole e sempre godibile, dove la malinconia, le difficoltà dei sentimenti e dei rapporti amorosi e la famiglia d’origine ne segnano le coordinate di lettura.
Camminiamo, interminabilmente, sul fiume. Lui si guarda intorno, dice: – Ma qui è proprio campagna. Veniamo in città, ma poi andiamo sempre in cerca della campagna, non è così?
Gli dico: – Perché facciamo finta di non conoscerci, quando siamo al paese?
Dice: – Perché siamo buffi.
Dice: – Per la tua reputazione. Non devo comprometterti, visto che poi non ti sposo.
Rido, e dico: – Della mia reputazione, me ne infischio, io.
S’attorciglia i capelli attorno alle dita, si ferma un poco a pensare.
– Al paese, – dice, – non mi sento libero. Mi pesa addosso tutto.
– Cosa ti pesa?
– Mi pesa, – dice, – tutto, il Purillo, la fabbrica, la Gemmina, e anche i morti.
– Mi pesano, capisci, anche i morti.
– Una volta o l’altra, – dice, – pianto lì e me ne vado.
E io gli dico: – Non mi porti con te?
– Crederei di no.
Camminiamo, per un poco, in silenzio.
– Tu, – mi dice, – devi trovarti uno che ti sposa. Non subito, magari, fra un po’.
Dice: – Non hai mica bisogno di sposarti subito. Che furia c’è?
– Anche con me, così, – dice, – stai bene.
– Con te, così? il mercoledì e il sabato? – dico.
– Sì, così, no?
– Adesso, – dico, – dobbiamo tornare, che presto sarà l’ora dell’autobus.
E torniamo, riattraversiamo il parco, costeggiamo le mura del castello, passiamo il ponte che vibra sotto le ruote dei tram.
– Non dico mica che sia l’ideale, per te, così, – dice.
Natalia Levi nacque il 14 luglio del 1916 a Palermo, figlia di Giuseppe Levi, illustre scienziato triestinoebreo, e di Lidia Tanzi, milanesecattolica, sorella di Drusilla Tanzi. Il padre era professore universitario antifascista e insieme ai tre fratelli di lei sarà imprigionato e processato con l’accusa di antifascismo. I genitori diedero a Natalia e ai fratelli un’educazione atea.
Formazione e attività letteraria
Natalia trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Torino. Della sua prima giovinezza raccontò lei stessa in alcuni testi autobiografici pubblicati soprattutto in età avanzata, fra cui I baffi bianchi (in Mai devi domandarmi, 1970). Compì gli studi elementari privatamente, trascorrendo quindi in solitudine la sua infanzia; sin dalla tenera età si dedicò alla scrittura di poesie. Si iscrisse poi al Liceo – Ginnasio Vittorio Alfieri,[2] vivendo come un trauma il passaggio alla scuola pubblica. Già nel periodo liceale si dedicò alla stesura di racconti e testi brevi, primo fra tutti Un’assenza (la sua «prima cosa seria»), poi pubblicato sulla rivista Letteratura negli anni Trenta. Abbandonò invece la poesia; a tredici anni aveva fra l’altro spedito alcuni suoi componimenti a Benedetto Croce, che espresse un giudizio negativo su di essi.[3]
Esordì nel 1933 con il suo primo racconto, I bambini, pubblicato dalla rivista “Solaria“, e nel 1938 sposò Leone Ginzburg, col cui cognome firmerà in seguito tutte le proprie opere. Dalla loro unione nacquero due figli e una figlia: Carlo (Torino, 15 aprile 1939), che diverrà un noto storico e saggista, Andrea (Torino, 9 aprile 1940 – Bologna, 4 marzo 2018) e Alessandra (Pizzoli, 20 marzo 1943). In quegli anni strinse legami con i maggiori rappresentanti dell’antifascismo torinese e in particolare con gli intellettuali della casa editrice Einaudi della quale il marito, docente universitario di letteratura russa, era collaboratore dal 1933.
Nel 1940 seguì il marito, inviato al confino per motivi politici e razziali, a Pizzoli in Abruzzo, dove rimase fino al 1943.
Nel 1942 scrisse e pubblicò, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, il primo romanzo, dal titolo La strada che va in città, che verrà ristampato nel 1945 con il nome dell’autrice.
In seguito alla morte del marito, torturato e ucciso nel febbraio del 1944 nel carcere romano di Regina Coeli, nell’ottobre dello stesso anno Natalia giunse a Roma, da poco liberata, e si impiegò presso la sede capitolina della casa editrice Einaudi. Nell’autunno del 1945 ritornò a Torino, dove rientrarono anche i suoi genitori e i tre figli, che durante i mesi dell’occupazione tedesca si erano rifugiati in Toscana.
Nel 1947 esce il suo secondo romanzo È stato così che vince il premio letterario “Tempo”.
In quello stesso periodo, come ha rivelato Primo Levi a Ferdinando Camon in una lunga conversazione diventata un libro nel 1987 e poi lo stesso Giulio Einaudi in una intervista televisiva, diede parere negativo alla pubblicazione di Se questo è un uomo. Il libro uscirà per una piccola casa editrice, la De Silva di Franco Antonicelli, in 2500 copie, e solo nel 1958 verrà riproposto da Einaudi diventando il grande classico che conosciamo.
Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra, con il quale concepirà la figlia Susanna (4 settembre 1954 – 15 luglio 2002) e il figlio Antonio (6 gennaio 1959 – 3 marzo 1960), entrambi portatori di handicap. Iniziò per Natalia un periodo ricco in termini di produzione letteraria, che si rivelò prevalentemente orientata sui temi della memoria e dell’indagine psicologica. Nel 1952 pubblicò Tutti i nostri ieri; nel 1957 il volume di racconti lunghi, Valentino, che vinse il premio Viareggio,[4] e il romanzo Sagittario; nel 1961Le voci della sera che, insieme al romanzo d’esordio, verrà successivamente raccolto nel 1964 nel volume Cinque romanzi brevi.
Nel decennio successivo seguirono, nella narrativa, i volumi Mai devi domandarmi del 1970 e Vita immaginaria del 1974. In questo periodo Natalia Ginzburg fu anche collaboratrice assidua del Corriere della Sera, che pubblicò numerosi suoi elzeviri su argomenti di critica letteraria, cultura, teatro e spettacolo. Tra questi, una sua lettura critica, con uno sguardo al femminile, del film Sussurri e grida[6] ottenne un forte riscontro nel panorama letterario e culturale nazionale, divenendo un punto di riferimento per la critica bergmaniana.[7]
Nella successiva produzione la scrittrice, che si era rivelata anche fine traduttrice con La strada di Swann di Proust, ripropose in modo più approfondito i temi del microcosmo familiare con il romanzo Caro Michele del 1973, il racconto Famiglia del 1977, il romanzo epistolare La città e la casa del 1984, oltre al volume del 1983 La famiglia Manzoni, visto in una prospettiva saggistica.
È l’anno 1969 a costituire un punto di svolta nella vita della scrittrice: il secondo marito morì e, mentre cominciava in Italia, con la strage di piazza Fontana, il periodo cosiddetto della strategia della tensione, la Ginzburg intensificò il proprio impegno dedicandosi sempre più attivamente alla vita politica e culturale del Paese,[8] in sintonia con la maggioranza degli intellettuali italiani militanti orientati verso posizioni di sinistra.
Nel 1971 sottoscrisse, assieme a numerosi intellettuali, autori, artisti e registi,[9] la lettera aperta a L’Espresso sul caso Pinelli,[10] documento attraverso cui si denunciano, riguardo alla morte di Giuseppe Pinelli, le presunte responsabilità dei funzionari di polizia della questura di Milano (con particolare riferimento al commissario Luigi Calabresi). Tale adesione verrà più volte ricordata dalla stampa in seguito al matrimonio della nipote della Ginzburg, Caterina, con Mario Calabresi, figlio del commissario nel frattempo assassinato. Nello stesso anno si unì ai firmatari di un’autodenuncia di solidarietà verso alcuni giornalisti di Lotta Continua accusati di istigazione alla violenza.[11]
Nel 1976 partecipò alla campagna innocentista in favore di Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono,[12] i due militanti di Potere Operaio che saranno poi condannati per i reati a loro imputati (tra cui l’omicidio dello studente nazionalista greco Mikis Mantakas).
Il 25 marzo 1988 scrisse per L’Unità un articolo divenuto famoso, dal titolo: Quella croce rappresenta tutti,[13] difendendo la presenza del simbolo religioso nelle scuole e opponendosi alle contestazioni di quegli anni.
Morte
Morì a Roma nelle prime ore dell’8 ottobre 1991. È sepolta al cimitero del Verano di Roma
Bianca Bianchi, storia di una costituente- di Giulia Vassallo
Biblion edizioni
Descrizione-La costituente Bianca Bianchi (1914-2000), protagonista di questa narrazione, fu una donna eccezionale. Perché fu antifascista coraggiosa, tanto da preferire l’esilio in Bulgaria alla soggezione intellettuale al diktat del regime; perché fu militante attiva nella Resistenza toscana, ma anche per la sua esperienza di parlamentare eletta nella prima legislatura repubblicana, con oltre 20 mila preferenze. Volitiva e naturalmente incline a battaglie scomode e scelte impopolari, tra cui quella di appartenere a un partito variamente screditato dai rivoluzionari, si allontanò presto e non senza amarezza dai riflettori di Montecitorio, scegliendo di dedicarsi alla «cura dei più bisognosi» e alla promozione di una cultura laica, socialista e soprattutto europea.
L’instancabile e variegata biografia, le carte d’archivio e le lettere alla grande socialista russa Angelica Balabanoff, come pure le testimonianze rese da colleghi e collaboratori, ovvero gli elementi che compongono il presente volume, contribuiscono a restituire per la prima volta il profilo di Bianca Bianchi in tutta la sua complessità. Emerge così dall’oblio storiografico una personalità versatile e non certo aristocratica; una scrittrice, un’insegnante e la promotrice della prima legge contro la discriminazione dei figli illegittimi; una figura femminile di indiscutibile caratura personale, ma soprattutto con una dimensione pubblica di grande spessore, che merita di essere conosciuta.
Giulia Vassallo (Roma, 3 febbraio 1977) è assegnista di ricerca presso la “Sapienza”, Università di Roma. Dal 2006 ad oggi è redattore editoriale della rivista online «EuroStudium3w», di proprietà dell’Ateneo “Sapienza” di Roma. È inoltre autrice del volume Lilliput o Gulliver? Il contributo olandese all’unificazione europea (1945-1966), Bulzoni 2020. Su Bianca Bianchi, sempre per i tipi di Bulzoni, ha precedentemente pubblicato, con Davide Di Poce e Elisiana Fratocchi, il libro Il pane e le rose. Scritture femminili della Resistenza.
Bianca Bianchi: dall’antifascismo esistenziale al “virus della politica”
Francesca Gori
A cento anni dalla nascita il ricordo del percorso etico-politico della “ragazza di campagna” da Vicchio alla Costituente.
Bianca Bianchi nasce a Vicchio il 31 luglio 1914. La sua educazione alla politica ha origine nell’ambiente familiare, in particolare grazie alla personalità del padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, con il quale ogni pomeriggio Bianca intrattiene lunghe chiacchierate, durante le quali impara che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”. Ogni giovedì inoltre salta la scuola e accompagna il padre alla sezione del partito dove fuori, durante il mercato settimanale, in piedi su un tavolo, tiene appassionati comizi.
Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore a Rufina, presso l’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre che, ripiegata sul modello domestico, non comprenderà mai l’attrazione della figlia per lo studio e per la volontà di evadere dal mondo provinciale. Trova però un valido sostenitore nel nonno Angiolo, contadino antifascista, figura importante nella sua formazione intellettuale dopo la morte del padre, che stimolerà Bianca con discussioni letterarie, religiose e politiche.
Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale “Gino Capponi”, prima, e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea con una tesi dal titolo Il pensiero religioso di Giovanni Gentile, discussa con il relatore prof. Ernesto Codignola, che l’anno successivo viene pubblicata. nizia da subito ad insegnare: le viene offerta una cattedra a Genova, dove non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione degli argomenti riguardanti la civiltà ebraica, tenendo lezioni personali in proposito. Tale comportamento insubordinato le vale l’allontanamento dall’istituto genovese. Le viene affidato allora un nuovo incarico a Cremona, da dove viene, anche questa volta, presto licenziata, a causa del primo compito in classe proposto ai suoi studenti, in cui ha chiesto di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro. In particolare aveva invitato un suo studente di origine ebraica ad essere sincero e a scrivere liberamente il proprio pensiero. Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria. L’ “esilio” a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, in realtà permette a Bianca di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime. Il soggiorno però è breve e nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella, in difficoltà nel contesto bellico.
Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, si impegna, in quell’opera di soccorso e di travestimento di massa dei soldati sbandati, messa in atto dalle donne italiane, in quello che è stato definito maternage di massa (Bravo). Partecipa poi, su invito del prof. Codignola, che era stato il suo relatore di tesi, alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla resistenza. In particolare distribuisce volantini antifascisti e, qualche giorno prima dell’insurrezione fiorentina, le viene affidato il compito di trasportare un carretto carico di armi. L’esperienza della resistenza è breve, ma per Bianca ha un valore importante, perché permette il passaggio dall’antifascismo esistenziale, vissuto individualmente, ad una maturazione politica consapevole, vissuta in condivisione con i compagni partigiani.
È dunque dopo la fine della guerra che Bianca passa alla vita politica attiva. Il momento della svolta è rappresentato, nel ricordo stesso di Bianca Bianchi (si veda il documento allegato), dalla presa di parola, che avviene durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945. Bianca accoglie l’invito dell’oratore al contraddittorio, criticando il suo fare da “pompiere” che sembrava voler spegnere gli ideali di rinnovamento, e invita invece a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani. Alla fine del comizio un gruppo di socialisti avvicinano la giovane, invitandola ad iscriversi al PSIUP. Bianca Bianchi inizia a frequentare la sezione di via San Gallo, per “ascoltare e osservare”, ma la sua passione e la sua convinzione di “poter contribuire a creare un mondo di eterna primavera” la fanno passare ben presto all’azione. Si iscrive al partito, organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi tra la base, anche grazie alle sue abilità oratorie.
Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente infatti, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della giovane età della Bianchi, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito, Sandro Pertini. Nonostante la delusione, Bianca Bianchi continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale, raggiugendo così, alle elezioni del 2 giugno, un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista Pertini (15384 voti) ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente.
Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca Bianchi a favore della scuola pubblica, opponendosi fermamente alla parificazione tra le scuole pubbliche e quelle private, previsto dall’art. 27 (poi 33) della Costituzione.
Al Congresso del partito del 9-13 gennaio 1947 inoltre, dopo una lunga e sofferta riflessione, decide di seguire la minoranza di Saragat, a cui la legava anche una profonda amicizia, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. La sua carriera politica prosegue poi nel 1948, quando viene eletta nella I legislazione in Sicilia.
Da ricordare poi la sua battaglia a favore di una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, iniziata in seguito alla sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusasi con l’approvazione della legge nel 1953.
Tra il 1953 e il 1970 Bianca Bianchi non viene rieletta nelle successive legislature e riprende quindi l’impegno nel settore dell’istruzione, curando la rubrica de La Nazione, Occhio ai ragazzi e fondando la “Scuola d’Europa”.
Rientra in politica nel 1970, per una legislatura, eletta consigliera comunale a Palazzo Vecchio a Firenze, e successivamente continua ad occuparsi dei temi dell’istruzione e si dedica alla letteratura, intrisa di quella passione e di quel “virus della politica” che aveva caratterizzato tutta la sua vita.
Si è infine spenta il 9 luglio 2000.
Fonte-ToscanaNovecento – (Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea)
Pierangela Palma -GIOCONDA DE VITO. La dea del violino-
Con una presentazione di Salvatore Accardo
Zecchini Editore-VARESE-
-GIOCONDA Anna Clelia DE VITO-(Martina Franca 26 luglio 1907- – Roma 1994)-Martina Franca ha dato i natali ad una delle più grandi violiniste del panorama internazionale del Novecento: Gioconda De Vito, donna del profondo sud che è riuscita ad arrivare ai vertici del concertismo internazionale in un’epoca in cui essere donne non era affatto semplice. Un’artista che ha saputo esprimere nel migliore dei modi i tratti distintivi della scuola italiana: profondità di lettura, scrupolosità nei dettagli, rigore ed inflessibilità. Furtwängler, Giulini, Karajan, Fischer e Aprea, sono solo alcuni dei nomi dei partner con cui ha collaborato nella sua luminosa carriera, interrotta bruscamente da un suo volontario ritiro.
Questo libro si propone di ripercorrere le tappe più significative della sua attività artistica, indagando sul suo prematuro ritiro dalle scene e le possibili motivazioni. È un testo ricco di fotografie, carteggi e documenti rari, contiene materiale inedito, proveniente in massima parte dall’Archivio “Gioconda De Vito” della Fondazione “Paolo Grassi” di Martina Franca.
Vi sono inoltre lettere di Kubelík, Menuhin, Furtwängler, Šostakovic nonché telegrammi di Benito Mussolini e varia altra documentazione che attesta la sua vita artistica nel corso del ventennio fascista.
Completano il volume interviste ed esempi musicali che riportano diteggiature ed arcate della De Vito.
Gioconda de Vito (26 July 1907 – 14 October 1994) was an Italian-British classical violinist. (The dates 22 June 1907 and 24 October 1994 also appear in some sources.[1])
Life
De Vito was born, one of five children, in the town of Martina Franca in southern Italy, to a wine-making family. Initially she played the violin untaught, having received only music theory lessons from the local bandmaster. Her uncle, a professional violinist based in Germany, heard her attempting a concerto by Charles Auguste de Bériot when she was aged only eight, and decided to teach her himself. At age 11, she entered the Rossini Conservatory in Pesaro to study with Remy Principe. She graduated at age 13, commenced a career as a soloist, and at age 17 became Professor of Violin at the newly founded conservatory in Bari. In 1932, aged 25, she won the first International Violin Competition in Vienna. After she played the BachChaconne in D minor, Jan Kubelík came up to the stage and kissed her hand (she later appeared under the baton of Kubelik’s son Rafael Kubelík).
She then taught at Palermo and Rome, at the Accademia di Santa Cecilia. She had earlier been presented to Benito Mussolini, who greatly admired her playing, and he used his influence to get her the Rome post. World War II interrupted what would otherwise have been the most productive period of her burgeoning career. In 1944, she was given the unique honour of a lifetime professorship at the Academy.[2]
De Vito played under Wilhelm Furtwängler a number of times, and had a great affinity for his approach. In 1953[3] they also played a Brahms sonata at Castel Gandolfo for Pope Pius XII, the choice of Brahms being the Pope’s own request. In 1957 de Vito played the Mendelssohn concerto for the Pope. A member of the audience later sent her a letter saying that he was no longer an atheist, because her playing of the slow movement had made him realise there must be a God.
During that concert, de Vito realised she had reached the pinnacle of her career, and decided to retire in another three years. After informing the pope of her decision, Pius XII tried for an hour to dissuade her, saying she was far too young to retire so early, but to no avail. During the final years of her career, de Vito collaborated with Edwin Fischer, who was also nearing the end of his career. At their recording sessions for the Brahms sonatas Nos.1 and 3, he had required medical attention. The recording of Sonata No. 2 was assumed by Tito Aprea in 1956, after they successfully recorded Beethoven’s Kreutzer and Frank’s A major sonatas. Edwin Fischer died in 1960.
In 1961, at the age of 54, De Vito retired from concert appearances and from any violin playing at all. She also decided not to teach. Once while on holiday in Greece, she encountered Yehudi Menuhin on a beach and she agreed to play some duets with him at his villa. Unfortunately, when they arrived at the villa, Menuhin realised he did not have a spare violin with him, so the opportunity to resume playing did not materialize. However, she had recorded Viotti’s Duo in G with Menuhin in 1955 and they recorded Handel’s Trio Sonata in G minor with John Shinebourne, cello and Raymond Leppard, harpsichord. Both recordings are included Disc 41 of Menuhin – the Great EMI Recordings. Two years earlier Menuhin, de Vito and Shinebourne along with harpsichordist George Malcolm, recorded Handel’s Op.5/2 “Sonata for 2 Violins and Continuo in D” (Complete EMI Recordings, Korean issue from 2013). All of these works were recorded in EMI’s Abbey Road Studio No.3.
De Vito’s repertoire was small; it excluded most of the popular violin concertos written after the 19th century (for example, those by Elgar, Sibelius, Bartók, Berg, Bloch and Walton) – the sole exception being the Pizzetti concerto. Her particular favourites were “the three Bs” – Bach, Beethoven and Brahms. Her major recordings were issued in 1990 as The Art of Gioconda de Vito. They include the Bach Double Violin Concerto with Yehudi Menuhin, conducted by Anthony Bernard.
Private life
In 1949, de Vito married David Bicknell, an executive with EMI Records, and although she lived in Britain from 1951, her English was always rudimentary and she often required a translator. Bicknell died in 1988, and Gioconda de Vito died in 1994, aged 87.
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