È considerata la prima architetta della Cina moderna. Suo marito era il famoso Liang Sicheng, conosciuto come il padre dell’architettura cinese moderna. Insieme hanno lavorato alla riscoperta e al restauro di siti archeologici cinesi, hanno collaborato alla creazione del dipartimento di architettura della Northeastern University di Shenyang nel 1928 e, dopo il 1949, hanno insegnato come docenti alla Università Tsinghua di Pechino. L’artista americana Maya Lin è sua nipote, figlia di Henry Lin, fratello minore di Huiyin.[2][3]
Primi anni
Lin Huiyin nacque ad Hangzhou, nella provincia di Zhejiang, il 10 giugno 1904. Era figlia di Lin Changmin, un importante funzionario del governo Beiyang, e di sua moglie He Xueyuan.[4][5][6]
Nei primi anni 1920 viaggiò con il padre a Londra, dove conobbe il poeta cinese Xu Zhimo, con il quale ebbe una breve relazione, e successivamente negli Stati Uniti. Nel 1924 sia Lin che il suo futuro marito Liang Sicheng, il cui matrimonio insieme era già stato organizzato dalle rispettive famiglie, si iscrissero all’Università della Pennsylvania. Lin avrebbe voluto frequentare la facoltà di architettura come Liang, ma non venne ammessa in quanto considerata non adatto ad una ragazza: infatti per completare i loro progetti talvolta gli studenti dovevano lavorare anche di notte, e per una ragazza era considerato sconveniente farlo senza la presenza di un accompagnatore. Si laureò così nel 1927 alla facoltà di belle arti, riuscendo nel frattempo a seguire alcuni corsi di architettura. In seguitò trascorse un semestre all’Università Yale, studiando scenografia.[3][5][6][7]
Il matrimonio con Liang Sicheng e il ritorno in Cina
Nel 1928 Lin Huiyin e Liang Sicheng si sposarono in Canada, e da quel momento lavorarono sempre insieme. Tornati in Cina quello stesso anno, contribuirono alla creazione del dipartimento di architettura dell’Università Nordorientale di Shenyang, al tempo la seconda scuola di architettura del paese, e Lin progettò una stazione ferroviaria nella città di Jilin.[5][6][8][9]
Nei primi anni 1930 si trasferirono a Pechino e iniziarono a organizzare spedizioni nell’entroterra per studiare e preservare esempi dell’antica architettura cinese. Tra le loro scoperte più notevoli vi fu il tempio di Foguang, che datarono come risalente al tempo della dinastia Tang, inserito nel 2009 tra i siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO come parte del Monte Wutai. Le difficili condizioni degli studi sul campo minarono però la salute di Huiyin, che si ammalò di tubercolosi.[6][10]
Nel 1937, a causa dello scoppio della seconda guerra sino-giapponese, Lin e Liang dovettero interrompere le loro spedizioni e si ritirarono con i due figli in un cottage vicino a Kunming. A partire dal 1949 insegnarono architettura alla Università Tsinghua di Pechino, ma Lin morì a causa della tubercolosi nel 1955.[6][7][11]
L’inverno ha una sua ragione il freddo è come un fiore – un fiore ha il suo profumo, l’inverno un pugno di ricordi. L’ombra di un ramo secco, come un esile fumo azzurro, dipinge una sola pennellata sulla finestra del pomeriggio. Al freddo, la luce del sole diventa pallida e lentamente si inclina. E così bevo il mio tè in silenzio come in attesa che un ospite parli.
1936
Lin Huiyin, la prima architetta della Cina moderna che amava scrivere poesie
Mentre firmava progetti e pianificava Pechino, si dilettava con la letteratura
(da ‘The collected poems of Lin Huiyin‘, 1985)
Lin Huiyin (林徽因, Lín Huīyīn),conosciuta anche come Phyllis Lin o Lin Whei-yin durante il periodo trascorso negli Stati Uniti (Hangzhou, 10 giugno 1904 – Pechino, 1 aprile 1955)
[ Poetessa, scrittrice, architetto e storica dell’architettura cinese, autrice di poesie, saggi, racconti e opere teatrali apprezzati per la loro sottigliezza, bellezza e creatività. ]
In Italia, Anna Achmatova è conosciuta, da quei pochi che la conoscono, più che altro per via dei bellissimi ritratti realizzati da Kuzma Petrov-Vodkin, Amedeo Modigliani, Jurij Annenkov, Nathan Al’tman – forse il dipinto più celebre, esposto al Museo di Stato di San Pietroburgo –, Olga Kardovskaja, opere che godono di un nuovo rinascimento grazie alla forza capillare dei mezzi di comunicazione sociale della nostra epoca.
Assai meno conosciuti sono i versi della Achmatova – il materiale per il quale dovrebbe essere principalmente famosa – a causa delle scarse pubblicazioni attualmente in commercio nel nostro Paese. Digitando il nome del poeta – come preferiva farsi chiamare –, infatti, si trovano appena due sillogi Einaudi abbastanza datate e una manciata di raccolte pubblicate negli ultimi anni da qualche illuminato medio editore.
A coprire, in parte, questo vuoto ci ha pensato Paolo Nori, saggista e studioso di letteratura russa, che in Vi avverto che vivo per l’ultima volta (Mondadori) racconta la vita inquieta e infelice e incantevole di Anna Achmatova, intrecciando le sorprendenti vicende della poeta russa con il suo vissuto personale.
Sorprendenti fin dalla più tenera età. Nata a Bol’šoj Fontan, nei pressi di Odessa, nel 1889 da Andrej Gorenko, Anna Achmatova fu “costretta” a cambiare il cognome perché il padre non voleva che lo disonorasse con un’attività equivoca come la poesia; secondo Iosif Brodskij, suo discepolo, Anna realizzò con la scelta dello pseudonimo Achmatova – preso da un’ava, una principessa tartara discendente di Gengis Khān – “il suo primo verso di successo”.
Tra i più grandi poeti di tutti i tempi, la Achmatova era amante della lirica italiana – da Dante, autentico poeta del cuore, a Leopardi – e di quella pittoresca lingua che l’amico e collega Osip Mandel’štam definiva “la più dadaista delle lingue romanze”.
Donna fragile di salute – soffrì di tisi per buona parte della sua esistenza – ma di grande temperamento e carisma, Anna Achmatova ha rivestito perfettamente il ruolo tragico del poeta. Moglie dello sventurato poeta Nikolaj Gumilëv, fucilato nel 1921 come nemico del popolo per le sue idee controrivoluzionarie, la vita della Achmatova è stata distinta da continui scontri e repressioni da parte del regime di Stalin, dalla critica e dagli altri scrittori e intellettuali del suo tempo perché “rappresentante di una poesia priva di idee e estranea al popolo”.
Scomunicata dal Piccolo Padre georgiano, la Achmatova vide i suoi componimenti proibiti circolare clandestinamente per il territorio dell’URSS, copiati a mano (il famoso fenomeno dei samizdat), battuti a macchina o imparati a memoria e tramandati per via orale. Su tutti Requiem, nato tra il ’35 e il ’40, nel periodo segnato dal terrore delle Grandi Purghe in cui la Achmatova si trasformò in icona di resistenza, trascorrendo intere giornate, per lunghissimi mesi, in fila, assieme a tantissime altre madri, le donne dalle “labbra bluastre”, fuori dal famigerato carcere delle Croci di Leningrado, in attesa di avere notizie del figlio Lev – il delfino dato alla luce algida di Pietroburgo nell’autunno del ’12, pochi mesi dopo la pubblicazione della prima raccolta di poesie dal titolo Sera – arrestato in quanto erede di una sì scomoda madre.
Citando ancora Brodskij, parlare della vita di una persona è sempre un’attività delicata, difficoltosa quanto “per un gatto cercare di prendersi la coda”. E così Paolo Nori alterna gli episodi della vita della grande poeta della cosiddetta Età d’argento della letteratura russa ai suoi: dai ricordi della nonna agli studi alla biblioteca Lenin di Mosca nella Russia post perestrojka, glasnost e disfacimento del sogno sovietico, passando per la cronaca e la febbre antirussa dei nostri giorni, per le crociate volte ad appendere testa in giù tutto quello che può essere ricondotto alla Russia di oggi e di ieri.
I temi legati alla stretta attualità aleggiano per tutto il volume e Nori li affronta con sguardo lucido e profonda afflizione, ma con la certezza che se la letteratura russa ha resistito alla Rivoluzione, al terrore sovietico, alla guerra e ai gulag, non si piegherà certamente dinanzi all’arroganza dei burocrati e benpensanti d’Occidente: “La letteratura è più forte di qualsiasi censura e di qualsiasi dittatura”.
Ovviamente, poi, impossibile da immaginare per chi è solito leggere l’autore emiliano, non manca un pensiero per l’amato Velimir Chlebnikov, poeta di punta del futurismo russo – quello della “crosta di pane”, del “ditale di latte”, del cielo e delle nuvole, per intenderci – e per tal ragione, se vogliamo, anche rivale della Achmatova, in gioventù di tendenza acmeista, movimento dalla incerta foggia di cui era leader il marito Gumilëv.
Aggiungendo ai suoi versi una espressività e un aspetto abbaglianti – slanciata, col celebre naso aquilino e la frangia scura, simboli della sua bellezza classica, d’altre epoche – e financo la sua spiritualità, la Achmatova emerse presto su tutti.
“Era una di quelle donne che, quando sono presenti in una sala, sembra che non ci sia altro, solo lei.”
Un’altra icona della poesia russa del primo Novecento, Aleksandr Blok, scrisse che l’autrice era in possesso di “una bellezza terrificante”.
In Vi avverto che vivo per l’ultima volta Paolo Nori ci accompagna in ogni angolo e in ogni piega della parabola artistica ed esistenziale di Anna di tutte le Russie – soprannome imperiale costruitole dalla collega, poeta anche lei, Marina Cvetaeva.
Dalla giovinezza a Carskoe Selo alle amicizie con i più grandi scrittori del suo tempo – Majakovskij, Pasternak, Bulgakov –, dalla casa leningradese sul lungofiume Fontanka, la Fontannyi dom – oggi Museo Achmatova –, al ricetto di Taškent durante la Guerra patriottica, raggiungendo anche l’Italia con quel viaggio del 1964, due anni prima di morire, in Sicilia per ricevere il premio Etna-Taormina.
Un ritorno agrodolce in quell’Italia baciata dal boom economico che agli occhi grigi di Anna Achmatova pareva però oramai irrimediabilmente compromessa, corrotta culturalmente. In quell’ultimo soggiorno italiano la poeta non avvertì quella avidità di cultura ancora presente in Russia, ma percepì con dispiacere che per gli italiani – i discendenti diretti di Dante, Petrarca e Boccaccio – la poesia era soltanto un aspetto di secondo piano, ben lungi da quanto poteva essere ancora centrale nella vita dei sovietici del tempo.
Qui si potrebbe aprire un altro capitolo, ma si andrebbe, forse, drammaticamente fuori tema. Dopo essersi immerso nel passaggio in terra e nel mito di Fëdor Dostoevskij con Sanguina ancora – entrato nella cinquina del Campiello 2021 –, Paolo Nori fonde la sua vita con quella della grande autrice russa, riportandoci il ritratto di una donna irrequieta, talvolta altera in certe fasi della vita, attitudine da interpretare più come umano strumento di autodifesa dinanzi alle tante offese ricevute.
Oltre alla fucilazione del primo marito e all’incarcerazione del figlio, nella vita di Anna Achmatova si annoverano altre dolorose tappe: la morte di tre fratelli in circa quindici anni, quella degli amici Modigliani e Mandel’štam, le angosce e le fughe del periodo del cosiddetto “comunismo di guerra” post-rivoluzione e della Seconda guerra mondiale, l’esclusione dall’Unione degli scrittori per la sua intollerabile poesia da “mezza suora e mezza prostituta”, il susseguente ostracismo e bavaglio, i matrimoni sbagliati, il rapporto disastroso col figlio negli ultimi anni di vita. Snodi di una esistenza meravigliosamente infelice; la vita intensa di un poeta, una persona buona e cattiva, come un po’ tutti noi.
Attraverso il vissuto di Anna Achmatova, Paolo Nori, con la sua prosa semplice e divertente e coinvolgente, ci fa riflettere su una civiltà e un modo di pensare e interpretare la vita che a noi, per quanto vogliamo sforzarci, restano comunque conosciuti per metà. Vi avverto che vivo per l’ultima volta è un libro sul rapporto tra gli achmatoviani e la loro poeta favorita e per tutti gli appassionati di letteratura russa e del popolo russo, quella “gente con delle teste che non le mangiano neanche i maiali”.
Breve Biografia diAnna Andreevna Achmatova pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko (Bol’soj Fontan, 23 giugno 1889 – Mosca, 5 marzo 1966) è stata una poetessa russa; non amava l’appellativo di poetessa, perciò preferiva farsi definire poeta, al maschile.
«Lascio la casa bianca e il muto giardino. / Deserta e luminosa mi sarà la vita»
Figlia di Andreij Antonovich Gorenko, funzionario pubblico, e di Inna Erazmovna Stogova, entrambi di nobile famiglia, fu moglie dal 1910 al 1918 di Nikolaj Gumilëv, dal quale ebbe il figlio Lev. Fece parte della Corporazione dei poeti, un gruppo acmeista fondato e guidato dal marito. Compose la prima opera, “La sera”, nel 1912, alla quale seguì “Il rosario” nel 1914, caratterizzate entrambe da un’intima delicatezza. “Lo stormo bianco” (1917), “Piantaggine” (1921), “Anno Domini MCMXXI”(1922) sono raccolte di versi ispirate dal nostalgico ricordo dell’esperienza biografica, che spesso assumono quasi la cadenza di una preghiera.
Dopo la fucilazione del primo marito, Nikolaj, nel 1921, seguì una lunga pausa indotta dalla censura, che la poetessa ruppe nel 1940 con “Il salice” e “Da sei libri”, raccolte dalle quali emerge un dolore derivato dalla costante ricerca della bontà degli uomini. Il figlio Lev fu imprigionato fra il 1935 e il 1940 nel periodo delle grandi purghe staliniane.
Espulsa dall’Unione degli Scrittori Sovietici nel 1946 con l’accusa di estetismo e di disimpegno politico, riuscì tuttavia ad essere riabilitata nel 1955, pubblicando nel 1962 un’opera alla quale lavorava già dal 1942, il “Poema senza eroe”, un nostalgico ricordo del passato russo, rielaborato attraverso la drammaticità che la nuova visione della Storia comporta, e attraverso una trasfigurazione dello Spazio e del Tempo in una concezione di puro fine.
Sulla sua poetica ebbe molta influenza la conoscenza delle opere di Dante Alighieri, come anche testimonia il filosofo Vladimir Kantor: «Quando chiesero ad Anna Achmatova, la matriarca della poesia russa, “Lei ha letto Dante?”, con il suo tono da grande regina della poesia rispose: “Non faccio altro che leggere Dante”».
Le astrazioni poetiche di Helen Frankenthaler una delle più importanti artiste americane del XX secolo-Andare oltre i canoni stabiliti, alla costante ricerca di una nuova libertà espressiva. È il mondo creativo di Helen Frankenthaler (1928-2011), una delle figure più influenti del movimento artistico americano del XX secolo, celebre per il suo innovativo approccio all’arte e per il ruolo fondamentale nella transizione dall’Espressionismo astratto alla pittura Color Field.
In occasione della mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi e dalla Helen Frankenthaler Foundation, aperta al pubblico dal 27 settembre 2024 al 25 gennaio 2025, Marsilio Arte pubblica il catalogo a cura di Douglas Dreishpoon, direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné.
Celebre tra la seconda generazione di pittori astratti americani del dopoguerra, Frankenthaler è emersa sulla scena artistica americana, con un approccio alla pittura senza regole e una capacità di improvvisazione che hanno ridisegnato la narrazione del genere pittorico stesso. Con la sua innovativa tecnica a macchie, Frankenthaler ha esplorato un nuovo rapporto tra colore e forma, ampliando il potenziale della pittura astratta in modi che, ancora oggi, continuano a ispirare gli artisti. Lavorando con il colore e lo spazio, l’astrazione e la poesia, l’artista si è distinta per la sua capacità unica di combinare tecnica e immaginazione, ricerca e improvvisazione, espandendo la sua pratica al di là dei canoni stabiliti, perseguendo una nuova libertà nella pittura.
L’esposizione offre un’ampia panoramica della produzione artistica di Frankenthaler, indagando a fondo l’evoluzione del suo percorso personale e stilistico attraverso i diversi periodi della sua carriera. Una selezione di dipinti e di sculture, prodotti tra il 1953 e il 2002, dialoga con le creazioni di artisti coevi, tra cui Anthony Caro, Morris Louis, Robert Motherwell, Kenneth Noland, Jackson Pollock, Mark Rothko, David Smith, Anne Truitt.
Il catalogo Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, che accompagna la grande retrospettiva, esamina le affinità artistiche, le influenze e le amicizie della pittrice. Il cuore del volume sono i contributi di Douglas Dreishpoon con interessanti accostamenti tra opere di Frankenthaler e di altri artisti con cui aveva rapporti, in particolare David Smith, Anne Truitt e Anthony Caro.
Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole · Editore Marsilio Arte –
Marsilio Arte Santa Marta, Fabbricato 17, 30123 – Venezia info@marsilioarte.it – tel. +39 041 2406511
La pittura “senza regole” di Helen Frankenthaler in mostra a Firenze
Racconti da Marte di Arturo Galansino
Negli ultimi anni le istituzioni culturali hanno cercato di colmare il divario che ancora oggi colpisce la rappresentanza femminile nel mondo dell’arte.
Anche a Palazzo Strozzi abbiamo dedicato una particolare attenzione ad artiste come Barbara Kruger, Cindy Sherman, Louise Nevelson, che hanno utilizzato il loro talento per sfidare le norme e aprire nuove strade nell’arte contemporanea, ponendo interrogativi cruciali sulla rappresentazione e sul ruolo delle donne nella società. Figure di spicco quali Paola Pivi, Marinella Senatore, Goshka Macuga, Vanessa Beecroft hanno animato il cortile con i loro lavori e nelle mostre sono state messe in evidenza opere di artiste di fama internazionale come Kara Walker, Lynette Yiadom-Boakye, Shirin Neshat, Rosemarie Trockel, Katharina Fritsch.
Ma, soprattutto, si sono distinte per il loro impatto e successo le monografiche che abbiamo dedicato a Marina Abramović e Natalia Goncharova.
Altro tema a noi caro è l’arte americana, anche a motivo dello stretto rapporto con la Palazzo Strozzi Foundation USA di New York: così a Peggy Guggenheim, che nel 1949 ha inaugurato la Strozzina come spazio espositivo con la sua rivoluzionaria raccolta d’arte, abbiamo riservato un tributo con la rassegna La grande arte dei Guggenheim (2016) che, insieme ad Americani a Firenze (2012) e American Art 1961-2001 (2021), ha costituito la trilogia da noi consacrata a momenti fondamentali della storia, non solo artistica, statunitense.
Ancora, abbiamo organizzato importanti mostre di Bill Viola e Jeff Koons, artisti americani dai forti legami con l’Italia.
È adesso la volta di Helen Frankenthaler, una delle artiste più importanti del XX secolo, la cui rivoluzionaria ricerca in pittura viene esplorata attraverso una selezione di trenta tele e sculture eseguite tra il 1953 e il 2002, in dialogo con opere di suoi contemporanei.
La grande mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole non ha precedenti in Italia e con prestiti da celebri musei e collezioni internazionali quali il Metropolitan Museum of Art di New York, la Tate Modern di Londra, il Buffalo AKG Art Museum, la National Gallery of Art di Washington, la ASOM Collection e la Levett Collection oltre a quelli della Helen Frankenthaler Foundation, permette al pubblico di scoprire un’artista che con il suo approccio innovativo e controcorrente si è distinta come figura pionieristica nel campo della pittura astratta, ampliandone le potenzialità con modalità che continuano a ispirare nuove generazioni.
L’esposizione, curata da Douglas Dreishpoon, direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné, che desidero ringraziare insieme alla Helen Frankenthaler Foundation, alla presidente Lise Motherwell, alla direttrice esecutiva Elizabeth Smith e a tutto il gruppo di lavoro, tende a esaltare la pratica innovativa di questa artista anche attraverso il filtro di affinità, influenze e amicizie che hanno segnato la sua vita personale e artistica. Nella mostra viene assegnato per la prima volta un ruolo significativo alla collezione privata di Frankenthaler, che include opere di artisti diventati suoi amici, esposte nella sua casa di Manhattan. Alcune di queste opere sono protagoniste adesso a Palazzo Strozzi.
Rilevante è la volontà di far immergere il pubblico nella biografia e nella pratica artistica di Frankenthaler attraverso documenti d’archivio, fotografie e corrispondenze, restituendo quel mondo affascinante, incantevole nel suo glamour e straordinario nell’eleganza.
Arturo Galansino
Testo tratto dal catalogo della mostra Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, Marsilio Arte, Venezia 2024.
Nota – Arturo Galansino (Nizza Monferrato, 1976) dal 2015 è il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi a Firenze. In precedenza ha maturato una serie di importanti esperienze curatoriali al Musée du Louvre di Parigi, alla National Gallery e alla Royal Academy of Arts di Londra.
Fonte-Marsilio Arte Santa Marta, Fabbricato 17, 30123 – Venezia info@marsilioarte.it – tel. +39 041 2406511
Il 5 febbraio 2004 all’età di 85 anni ci lasciava Nuto Revelli. Ha saputo scrivere della guerra come pochi in Italia, una guerra vissuta sia da ufficiale dell’esercito che da partigiano. Ha passato il resto della vita a lavorare sulla memoria e a raccogliere le testimonianze di vita di quella che riteneva la sua gente. Questo articolo riflette su una parte della sua eredità.
Sono rimasto sull’uscio per qualche minuto. Entrando mi pareva di disturbare. Anche se in quel piccolo studio con le pareti rivestite di legno, non c’era nessuno.
Non ero mai stato prima nella casa di Nuto Revelli in corso Brunet 1 a Cuneo. Oggi è la sede della fondazione che porta il suo nome. Laddove c’era la camera da letto condivisa con l’amata Anna, sono ora conservati i documenti di una vita che compongono l’archivio in fase di riordino. La stanza del figlio Marco si è invece trasformata in un ufficio. Mentre il salotto non sembra aver mutato destinazione d’uso: gli amici di un tempo lo ricordano come luogo di lunghe chiaccherate.
Se una persona l’hai conosciuta esclusivamente attraverso le parole dei suoi libri, fa un certo effetto essere a un paio di metri dalla sua macchina da scrivere. Per questa ragione tentenno sull’uscio, osservo da lì le foto in bianco e nero, i tanti libri riposti nella libreria sulla destra. Molti dei titoli rimandano al chiodo fisso, probabilmente la ragione principale per cui Nuto Revelli ha dovuto scrivere: la guerra, in tutte le sue forme.
Rimango lì, a quella che ritengo essere la giusta distanza.
Le tante vite di Nuto
Revelli è stato prima un ufficiale dell’esercito italiano, convinto alla guerra da un’educazione in anni di fascismo. Poi partigiano, convinto dalla guerra, quella combattuta, e dalla ritirata nel ghiaccio della Russia. Nella vita in borghese degli anni ‘50 è diventato commerciante di ferro, inizialmente per necessità, dopo come “scusa” per evitare di essere definito intellettuale, storico, scrittore. Ritrosia tutta cuneese da una parte, consapevolezza profonda da un’altra: la sua scrittura – più che vocazione o vezzo – è stato uno strumento, l’unico, con cui provare a estinguere il debito contratto. Una cambiale da onorare, un «pagherò»: «Ricorda – mi dicevo – ricorda tutto di questo immenso massacro contadino, non devi dimenticare niente».
I creditori di Nuto erano i tanti soldati che aveva visto morire al fronte, i partigiani in battaglia con lui nelle valli cuneesi e i loro genitori ad attendere notizie nelle povere case. Per lo più contadini i primi, i secondi e i terzi. Solo così si può capire perché Nuto arrivi a intraprendere, dopo i libri in cui racconta la guerra e la resistenza, il viaggio nel “mondo dei vinti”. Di come, a un certo punto, il suo chiodo fisso sia testimoniare le conseguenze di una guerra inedita, combattuta senza clamore né armi ma così intensa da mettere a rischio un’intera civiltà, un’intera cultura: quella contadina. Il debito contratto si poteva estinguere solo alimentando una memoria negata, solo concedendo voce e assicurando «un nome e un cognome ai testimoni».
Duecentosettanta storie di vita. Sette anni di ricerca. E poi il secondo viaggio, altri anni, il ritornare per sentire le voci al femminile: “l’anello forte” silenzioso ma sempre presente.
E una fortissima sensazione d’urgenza, quella che ricorda Marco Revelli pensando a suo padre negli anni a cavallo tra il decennio sessanta e tutti gli anni settanta. Le sere quasi sempre rintanato nel suo studio ad ascoltare le voci dei suoi testimoni e prendere annotazioni. E poi tutti i fine settimana vederlo prender l’auto armato solo del suo fidato magnetofono: «la scatola che ascolta e scrive tutto». Le valli, le colline e la pianura cuneese battute palmo a palmo per fotografare con parole ciò che per Nuto aveva tutte le caratteristiche di un «genocidio». Laddove non erano riusciti i due conflitti mondiali e la continua emigrazione, erano arrivate la modernizzazione e l’industrializzazione. Un «esodo» che dalle montagne e dalle aree più marginali spingeva le persone verso la città e la fabbrica. Interi territori abbandonati, le case lasciate lì ferme nel tempo come dopo un terremoto.
Era facile nel 1977 quando per i tipi di Einaudi uscì Il mondo dei vinti, ed è facile ora, liquidare Nuto Revelli col ritratto del nostalgico, del cantore dei “bei tempi andati”. È una scorciatoia per evitare il confronto con ciò che ha scritto e le storie che ha portato fuori dall’oblio. Nuto però non era contro l’industria di per sé, non ha mai creduto alla «libertà dei poveri» ma era preoccupato dall’«industria che aveva stravinto», dall’imposizione di una monocultura economica e dall’assenza del limite: «La terra gialla, intristita dai diserbanti, mi appariva come il simbolo dei vinti. Il mio chiodo fisso era che si dovesse salvare un equilibrio tra l’agricoltura e l’industria prima che fosse troppo tardi».
Resistenze, lucciole e masche
Prima erano serviti i fucili e le bombe. Dopo solo un registratore e delle parole da mettere in fila le une alle altre. Una resistenza che continua in altre forme, per certi versi molto più complessa. Il Nuto comandante partigiano a capo di un gruppo di ragazzi nascosti nelle montagne, è diventato il Nuto cercatore che si avvale di una brigata di mediatori: gente in grado di portarlo a conoscere uomini come in esilio nelle proprie valli. Con loro Nuto arrivava in luoghi sperduti a parlare con testimoni autentici ‘dl’aut secul. I mediatori, figure che meriterebbero romanzi, erano conoscitori eccellenti del proprio territorio e della sua gente, garantivano a Nuto il lasciapassare: quella fiducia iniziale senza la quale al forestiero non si confessava alcunché.
Non è eccessivo raccontare questo lavoro di ascolto e di emersione come una diversa forma di resistenza. Ha senso se si crede che la modernizzazione e la civiltà dei consumi siano arrivate su quelle persone con la stessa violenza di un’imposizione e con la conseguenza di un lento annichilimento. Riecheggiano le argomentazioni di Pier Paolo Pasolini e la sua critica a un’ideologia dello sviluppo che definiva, senza mezzi termini, come un «nuovo fascismo». Una tendenza all’omologazione culturale e all’erosione di qualunque residuo di autonomia che, secondo il poeta friulano, nemmeno il fascismo storico o la chiesa erano riusciti a minare.
Il mondo dei vinti di Revelli può essere anche raccontato come un resoconto in presa diretta di questo processo. Però con l’attenzione, e l’attitudine, a evitare astrazioni e il rischio di scivolare nel mito: «Sapevo che la stagione antica delle lucciole e delle cinciallegre era felice soltanto nelle pagine scritte dagli “altri”, dai letterati, dai “colti”».
Anche per questo Nuto predilige le testimonianze dirette con la loro forza di vita raccontata. Nonostante si distanzi dalla nostalgie delle «lucciole» di Pasolini, Nuto trova in realtà nelle baite e nei ciabot il paesaggio umano degli Scritti corsari e delle Lettere luterane. Nelle storie di quei montanari e di quei contadini emerge come il fascismo era passato da quelle parti senza lasciare traccia, di fatto subito nell’indifferenza. La Chiesa era il vero potere storicamente rispettato, anche se un potere esterno, anch’esso accettato più per necessità che per sincera adesione. Prova ne è l’autonoma religiosità e spiritualità di quel mondo popolato di masche, le streghe delle credenze popolari piemontesi.
E poi il dialetto, di cui proprio in quegli anni i giovani hanno iniziato a provare vergogna perché simbolo di arretratezza. Io mi ricordo quando mia nonna si sforzava di parlare con me in italiano: non voleva passare per ignorante. Quella lingua rappresentava invece un codice esclusivo e protetto di una propria rappresentazione delle cose, la garanzia di una biodiversità culturale. Certo era anche una barriera capace di escludere: «chi non parla piemontese è straniero».
Ci ha pensato la «modernizzazione», con il ruolo centrale della televisione, a indebolire, sino quasi alla completa scomparsa, quella cultura millenaria. Ha promosso nuovi, vincenti, modelli antropologici (che poi siamo noi).
La diserzione
Nuto Revelli aveva paura che il «testamento di un popolo» emerso anche con le sue interviste, venisse considerato con il distacco del «documento antropologico» quando invece era, ed è, una «requisitoria urlante e insieme sommessa». Non un materiale buono solo per farci convegni ma un atto di accusa che meritava risposte e nuove consapevolezze. Nuto se la prendeva con chi aveva praticato la «diserzione», con chi stava lasciando quel mondo al suo destino senza fare nulla. Se alle destre e alla Democrazia Cristiana imputava le responsabilità per essere i garanti degli equilibri di quello sviluppo così ineguale e dannoso; dalle forze della sinistra esigeva risposte e linfa nuova perché anche loro «non capivano o fingevano di non capire». Si rendeva conto che anche in quella parte, la sua parte, la forza persuasiva dell’industrializzazione e di quel modello di sviluppo a crescita infinita aveva fatto breccia. I comunisti così come le forze della nuova sinistra dei gruppi extraparlamentari sembravano condividere in quegli anni l’euforia produttivista. È sempre Marco Revelli, all’epoca militante di Lotta Continua, a offrire uno spaccato: «io non capivo l’ostinazione di mio padre, quel dedicare così tanto tempo a un mondo in declino. A me sembrava positivo allora che quelle persone se ne andassero via da quei posti per scendere in fabbrica, da militanti di sinistra poi pensavamo che una volta operai avremmo potuto parlarci mentre diversamente i nostri discorsi non facevano breccia».
In un’intervista a «Nuova Società», Nuto rivolgeva nel settembre del 1977 il suo appello: «Oggi anche un politico di sinistra non sa cosa fare. Ma, se il PCI non risolve certi problemi, in Italia non li risolve nessuno. […] Le parole d’ordine d’allarme non sono state sentite da chi deteneva il potere, ma anche all’interno della sinistra il discorso ha sempre privilegiato l’industria. L’interesse per la discussione sui problemi delle campagne è sempre stato flebile». E in un dialogo su «Ombre Rosse» nel dicembre dello stesso anno spronava: «Un cordone ombelicale la mantiene (la manodopera della Michelin, della Ferrero ndr) collegata alla terra in cui è nata e cresciuta. Se un sindacalista, se il sindacato non conosce questo contesto, tutto quello che sta fuori e prima della fabbrica, parla a questi operai con un linguaggio sconosciuto, e non deve poi stupirsi della sindacalizzazione che non c’è, degli scioperi che non riescono. […] questi operai invece di andare a cercarli davanti alle porte della Michelin, dove escono storditi che cercano d’arrivare a casa prima che sia notte, andateli a trovare in campagna, dove lavorano ancora. Capirete che sono rimasti dei contadini. […] È in campagna che potete parlare della fabbrica».
Parole che ricordano quelle del 2001 di Paolo Rumiz, in La secessione leggera, in cui racconta il fenomeno leghista nel nord Italia: «Le radici non sono affatto una cosa di destra, ma lo diventano eccome quando la sinistra ne ha orrore». E diventa difficile non collegare, non mettere insieme le cose: quanto c’entra a sinistra la subalternità a un modello economico con la fuga dei «naufraghi dello sviluppo» dal proprio popolo?
È tutta qui l’attualità del messaggio di Nuto Revelli, dei suoi appelli urlanti e insieme sommessi alla sinistra perché cambiasse approccio, acquisisse nuove consapevolezze sul modello di sviluppo che stava vincendo. C’era da mettere in discussione un’impostazione, provare a guardare il mondo oltre le lenti dell’operaio della “grande fabbrica”.
Una lezione inascoltata, con il senno di poi, evidente anche nel come a sinistra l’ambientalismo sia arrivato come un oggetto estraneo. Ed è continuata quella difficoltà a parlare a quel mondo che non fosse città, ha pesato su questo una tara della cultura “ufficiale” comunista: l’avversità ai piccoli proprietari terrieri che la vulgata marxista avrebbe voluto veder presto proletarizzati per ingrossare le file del proprio blocco sociale. Negli anni ‘50 una polemica intercorsa tra alcuni intellettuali del PCI e figure come Ernesto De Martino, Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Manlio Rossi Doria e lo stesso Pasolini, testimoniava il perdurare del pregiudizio e del fastidio rispetto ai temi del mondo contadino.
Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food, ricorda quell’indifferenza quando era militante della sinistra extraparlamentare: «ricordo una riunione del gruppo del Manifesto in cui Lucio Magri disse: “Cos’ha Petrini che parla sempre di cibo?”. Io parlavo di cibo perché condividevo i ragionamenti di Revelli, avevo visto ciò che scriveva frequentando la gente di una Langa allora ancora povera e il mangiare era il punto d’attacco per parlare con quelle persone».
Un’eredità senza testimoni?
Viene da chiedersi cosa sia rimasto oggi di quell’eredità che quel «testamento di un popolo», rappresentato da Il mondo dei vinti, ha lasciato. Di certo ci sono oggi nuove consapevolezze sui limiti dello sviluppo e sugli squilibri sociali e territoriali. Cresce, seppur troppo lentamente, una coscienza ambientale che impone una revisione delle nostre priorità. Nel senso comune affiora l’idea che un modello economico sempre destinato a crescere sia qualcosa di irrazionale.
D’altra parte il mondo rurale e contadino gode di un rinnovato interesse. Siamo nel bel mezzo di un revival della campagna, dei suoi prodotti e dei suoi protagonisti. Il cibo è al centro della scena.
È la riscossa dei «vinti»?
Chissà cosa penserebbe Nuto di questo cibo diventato spettacolo, di fabbriche contadine e di reality dove ai contadini si cerca moglie. Riderebbe, forse, pensando ai bacialè conosciuti nei suoi giri. Veri e propri mediatori di matrimoni contadini che giravano le cascine con un “campionario” di ragazze con fotografie e indirizzi, che combinavano matrimoni tra i contadini scapoli dell’alta Langa e le ragazze calabresi in cerca di marito, e di nuove vite.
Più che un inedito rispetto per la diversità del mondo contadino, sembra di assistere a un processo di assimilazione. Non proprio il riscatto che immaginava Nuto. Anche se c’è speranza in alcuni giovani che ritornano nelle case abbandonate dei propri nonni, in nuovi stili di vita e in tanti esperimenti che raccontano una diversa possibilità.
C’è da chiedersi infine se quella civiltà contadina abbia preservato o meno alcuni dei suoi caratteri di autonomia culturale su cui era possibile innestare percorsi di sviluppo alternativi. C’è che da chiedersi, insomma, se quel popolo c’è ancora. O se forse «manca».
Un’autonomia e una cultura di cui non bisogna dimenticare anche gli aspetti negativi, gli elementi di arretratezza che nessuno rimpiange. Ma ci sono tratti di quel mestiere di vivere da riscoprire nel nostro mondo zeppo di nevrosi. E servirebbe anche un progetto politico e culturale capace di farsene carico, valorizzando, come in qualche modo chiedeva Nuto, il buono che si scorge in controluce nelle testimonianze dei vinti.
Ci vorrebbe un poco della saggezza inconsapevole dei tanti testimoni di Nuto, come quel montanaro preso ad esempio da Alessandro Galante Garrone in una recensione del luglio 1977. La sua è una domanda, pensata in qualche borgata nascosta nelle nostre Alpi, che oggi ci fa sospirare: «se le fabbriche si fermano a forza di far macchine, che cosa succederà?»
Giudizio del critico Cesare Garboli sul poeta e saggista Franco Fortini
da MaledettiPoeti
Cesare Garboli :<<La verità è che Franco Fortini -(Firenze, 1917 – Milano, 1994)- era un grande letterato, un letterato che, ogni tanto, scriveva delle poesie bellissime e insuperabili. Solo che questo letterato incallito, con tutti i vizi, le qualità, le vanità dei letterati, è stato visitato un giorno dalla politica così come Cristo si è fatto visitare dal demonio.>>
L’Autore toscano è stato uno degli intellettuali più influenti del ‘900. In seguito alle leggi razziali dell’Italia fascista cambiò il cognome ebraico Lattes con quello materno, Fortini.
A proposito del suo scomodo ruolo nel dibattito culturale nazionale, dichiarò negli anni ’90: “Ho praticato l’isolamento per quasi trent’anni. Vivo da tempo incontrando pochissime persone, evito quanto posso le pubbliche occasioni e gli ambienti letterari, non leggo miei versi in pubblico. Per vent’anni non ho concorso a premi. Non mi perdonano, da sempre, certe posizioni e certi giudizi. L’Italia aveva avuto, dal Risorgimento in poi, quello che Edoarda Masi chiama un ‘ceto pedagogico’. Ossia intellettuali che si facevano latori di coscienza critica. Oggi tale categoria non esiste più. La sua goffa imitazione è quella dei moralisti da giornalismo corrente e da TV.”
Il suo impegno civile proseguì fino alla fine della sua vita. Pochi mesi prima di scomparire venne infatti pubblicato da Einaudi, all’interno della sua ultima raccolta di versi, ‘Composita solvantur’, un capitolo dedicato alla Guerra del Golfo, conflitto armato tra Iraq e Stati Uniti che divenne il più grande evento mediatico globale del ventesimo secolo. La sezione conteneva anche la esemplare lirica ‘Lontano, lontano’, ironico componimento sulla sanguinaria crudeltà bellica ‘anestetizzata’ e spettacolarizzata dal racconto televisivo.
Racconta in proposito l’accademico Donatello Santarone: “Nel febbraio 1994 Franco Fortini pubblicò ‘Sette canzonette del Golfo’. Fu tra i pochissimi intellettuali italiani ad avere la tragica consapevolezza di quanto stava accadendo. Di fronte all’orrore dell’Armada occidentale, il poeta sceglie la ‘distanza’ del registro ironico, tra Metastasio e Manzoni, come in questi distici in doppio senario a rima baciata di ‘Lontano, lontano’, ago doloroso contro l’ipocrisia dominante.”
Una curiosità sulla carriera di Fortini denota la sua profonda adesione allo spirito del tempo da lui vissuto. Come riferisce lo scrittore Gianni D’Elia, fu lui a ‘battezzare’ la famosa macchina da scrivere della Olivetti, emblema del Giornalismo dell’era pre-Internet, con il nome con cui è da tutti conosciuta, ovvero ‘Lettera 22’ (dal 1963, ‘Lettera 32), nel periodo in cui lavorava nella fabbrica informatica di Ivrea, dal ’48 al ’54.
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RAGIONE DEGLI ANNI
Si può ancora disperdersi, schiarite
dei mesi incerti, soli obliqui.
Si può ancora volare per la vostra
polvere tenera, schiarite.
Di rado il profondo su querce e vasche d’iride
Eliso azzurro meditando posa
e un chiù persuade il viale roseo
che l’affanno può sparire.
Ma gioventù ci aspetta in una sera
di calme stille dai rami e di passi
incerti. Una leggera chiara sera
avremo ragione degli anni.
AGLI DÈI DELLA MATTINATA
Il vento scuote allori e pini. Ai vetri, giù acqua.
Tra fumi e luci la costa la vedi a tratti, poi nulla.
La mattinata si affina nella stanza tranquilla.
Un filo di musica rock, le matite, le carte.
Sono felice della pioggia. O dèi inesistenti,
proteggete l’idillio, vi prego. E che altro potete,
o dèi dell’autunno indulgenti dormenti,
meste di frasche le tempie? Come maestosi quei vostri
A cura di Alessandro Banfi, Gian Corrado Peluso, Giampaolo Pignatari, Fabrizio Sinisi-
Con la collaborazione di Maria Bertaggia, Maddalena Catani, Matilde Fiorini, Mattia Gennari, Luca Maggi, Giuseppe Vitali, Mattia Savia, Andrea Siciliano, Alessandro Vaghi
ITACA, Milano 2015, Pro Manuscripto
La realtà del tempo, gli eventi della storia e della memoria, il desiderio dell’uomo nelle vicende della storia, sono la materia viva sella poesia, della scrittura, del teatro, del cinema dello scrittore che più di chiunque ha raccontato il nostro Paese. Pasolini, in un tempo molto diverso ma molto preparatorio del nostro, ha sfidato il nulla, quella riduzione dell’io che proviene dal suo interno e dall’esterno, iniziando dalla separazione tra credere e sapere, che lo lascia solo di fronte a un potere che non sa che farsene del volto umano per la sua programmazione del mondo. Una situazione analoga, con altri attori, che anche oggi si verifica di fronte alle sfide di una nuova realtà e sembra offuscare quell’esperienza umana, elementare e costitutiva, che si esprime nelle esigenze della felicità, della giustizia e dell’amore. Leggere Pasolini fa intuire l’esistenza di alcuni punti dai quali egli ha tratto il suo paragone e il suo impegno, insomma, la sua poetica. È interessante perciò vedere la consistenza e attualità di Pasolini, verificare quella sua profezia sulla società moderna e contemporanea, le cui conseguenze oggi stiamo vivendo, come occasione per costringere noi stessi ad andare al fondo di quelle stesse domande ed esigenze.
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
Quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31
La sera del 14 maggio 1931 a Bologna è in programma al Teatro Comunale un concerto, diretto da Arturo Toscanini, in memoria di Giuseppe Martucci, direttore emerito dell’orchestra bolognese alla fine dell’800.
Il maestro si rifiuta di dirigere l’inno fascista Giovinezza e l’Inno reale al cospetto del ministro Ciano e di Arpinati. Viene aggredito e schiaffeggiato da alcune camicie nere presso un ingresso laterale del teatro. Tra gli squadristi c’è il giovane Leo Longanesi (secondo I. Montanelli, ma per altri questa è “una leggenda senza conferma”).
Rinunciando al concerto, Toscanini si rifugia all’hotel Brun. Il Federale Mario Ghinelli, con un seguito di facinorosi, lo raggiunge all’albergo e gli intima di lasciare subito la città, se vuole garantita l’incolumità.
Il compositore Ottorino Respighi, media con i gerarchi e ottiene di accompagnare il direttore al treno la sera stessa.
Il 19 maggio l’assemblea regionale dei professionisti e artisti deplorerà “il contegno assurdo e antipatriottico” del maestro parmigiano. Sull’ “Assalto” Longanesi scriverà: “Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti”.
Toscanini dal canto suo scriverà una feroce lettera a Mussolini, già suo compagno di lista a Milano nelle elezioni politiche del 1919. Dal “fattaccio” di Bologna maturerà la sua decisione di lasciare l’Italia, dove tornerà a dirigere solo nel dopoguerra.
Il concerto in onore di Martucci sarà rifatto al Comunale sessanta anni dopo, il 14 maggio 1991, sotto la direzione di Riccardo Chailly.
Approfondimenti
TOSCANINI, LA VERITA’ SUL FAMOSO SCHIAFFO -Archivio “la Repubblica”
BOLOGNA Due giorni di relazioni e concerti hanno infine riparato, a sessant’ anni dagli eventi, a quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31, ad opera di squadristi, per essersi rifiutato di dirigere al Teatro Comunale gli inni nazionali. Ch’ erano allora Giovinezza e Marcia Reale. Nel gesto riparatore si sono unite le due città di Bologna e di Parma. La prima ha ospitato martedì il convegno internazionale dedicato a Bologna per Toscanini, la seconda, nella giornata di ieri, una tavola rotonda. Entrambe, nei teatri Comunale e Regio, hanno ospitato il concerto che, diretto da Riccardo Chailly, ha visto Raina Kabaivanska e l’ Orchestra dell’ ente lirico bolognese interpretare quelle pagine di Giuseppe Martucci che Toscanini non poté eseguire. Punto di partenza dell’ indagine di storici e musicologi, alla quale si sono aggiunte le testimonianze di Walfredo Toscanini e Gottfried Wagner, è stato dunque l’ offesa al maestro. Luciano Bergonzini, che alla ricostruzione di quell’ ingiuria ha dedicato un saggio, pubblicato in questi giorni dal Mulino (Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’ inizio degli anni Trenta), ha esposto la sua tesi, che è sostanzialmente nuova. In sintesi, non furono i gerarchi del regime, primi fra tutti Leandro Arpinati, all’ epoca vicinissimo a Mussolini, e Mario Ghinelli, federale a Bologna, i promotori dell’ azione. Arpinati, piuttosto, tentò fino all’ ultimo di giungere ad una soluzione che sventasse lo scontro diretto, a un compromesso che permettesse il regolare svolgimento del concerto in memoria di Giuseppe Martucci, ben sapendo che Toscanini non avrebbe mai eseguito né la Marcia Reale, né Giovinezza, come prevedeva il protocollo. Di fatto, egli prese la decisione più semplice: Costanzo Ciano e lui non si sarebbero recati al Teatro Comunale. La serata avrebbe perso così il carattere ufficiale, liberando Toscanini da ogni obbligo. Inoltre, nonostante non sia tutt’ oggi facile giungere ad una conclusione definitiva sull’ argomento, tra gli aggressori non ci furono personalità di spicco del fascismo bolognese. Non c’ era certamente Ghinelli; assente probabilmente pure Leo Longanesi, che pure in seguito si sarebbe vantato d’ esser stato lui a colpire il musicista. Il suo ruolo, sempre secondo Bergonzini, sarebbe stato soltanto quello dell’ ispiratore attraverso articoli di giornale e discorsi. Rimane, invece, il sospetto che tutto abbia avuto origine all’ interno delle faide che andavano dividendo le gerarchie fasciste, e delle quali del resto sarà vittima lo stesso Arpinati. Se la proposta dello studioso bolognese fosse la ricostruzione più verosimile, allora lo schiaffo, la progettazione e l’ esecuzione dell’ aggressione sarebbero nate proprio da quel consenso al regime, che aveva trovato fertile terreno non solo nelle classi medie, ma anche in quelle subalterne urbane. Toscanini sarebbe loro apparso un vessillo da abbattere, incuranti di quanto si andava decidendo nelle sfere alte del regime. Constatazione questa che riaprirebbe una querelle mai risolta: quella del ruolo degli intellettuali, da un lato, e del sostegno che il fascismo seppe trovare, se pur distribuito in maniera disomogenea, nei più diversi strati della società italiana. Sul versante opposto, giustamente l’ accento è stato spostato dall’ offesa in sé, atto sempre vile, al gesto di Toscanini, a quel rifiuto del direttore d’ orchesta che costituisce, come ha sottolineato Harvey Sachs nel suo intervento conclusivo, un esempio raro, certamente poco imitato in quegli anni, di coraggio. Umanità della musica, definizione questa con la quale Sachs bene ha riassunto la forte componente etica dell’ arte toscaniniana, una componente che coniugava esigenze artistiche e convinzioni morali. Infine, l’ attenzione è tornata a volgersi alle pagine di Giuseppe Martucci, interpretate a Bologna e a Parma da Riccardo Chailly, sul podio dell’ Orchestra del Teatro Comunale, affidate alla voce di Raina Kabaivanska, La canzone dei ricordi. Pagine di un sinfonismo italiano ormai obliato che, Fiamma Nicolodi lo ha evidenziato tratteggiando l’ itinerario musicale del compositore, avvicina la tradizione tedesca romantica e tardo-romantica a quella francese, a Saint-Saens e a Franck. Difficile valutarne gli esiti. Nel ricostruire la storia dell’ Italia musicale non se ne può prescindere, però, giocando Martucci, e con lui gli Sgambati, i Mancinelli, i Bossi, un ruolo tutt’ altro che secondario.
Luciano Bergonzini, Bologna 14 maggio 1931: l’offesa al Maestro, in Toscanini. Atti del Convegno Bologna per Toscanini, 14 maggio 1991, a cura di L. Bergonzini, Bologna, CLUEB, 1992, p. 13 sgg.
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Viene considerato uno dei maggiori direttori d’orchestra di sempre, per l’omogeneità e la brillante intensità del suono, la grande cura dei dettagli, il perfezionismo e l’abitudine di dirigere senza partitura grazie a un’eccezionale memoria fotografica.[1][2] Viene ritenuto in particolare uno dei più autorevoli interpreti di Verdi, Beethoven, Brahms e Wagner.
Fu uno dei più acclamati musicisti della fine del XIX e della prima metà del XX secolo, acquisendo fama internazionale anche grazie alle trasmissioni radiofoniche e televisive e alle numerose incisioni come direttore musicale della NBC Symphony Orchestra. Refrattario in vita all’idea di ricevere premi e decorazioni di sorta (tanto da rifiutare la nomina a senatore a vita propostagli da Luigi Einaudi, vd. infra), a trent’anni dalla morte fu insignito del Grammy Lifetime Achievement Award.
Arturo Toscanini nacque a Parma, nel quartiereOltretorrente, il 25 marzo del 1867, figlio del sarto e garibaldinoClaudio Toscanini, originario di Cortemaggiore (in provincia di Piacenza), e della sarta parmense Paola Montani; il padre era un grande appassionato di arie d’opera, che intonava in casa con amici dopo averle apprese al Teatro Regio, che frequentava spesso da spettatore. Questa passione contagiò anche il piccolo Arturo; del suo talento si accorse non il padre, ma una delle sue maestre, una certa signora Vernoni, che, notando che memorizzava le poesie dopo una singola lettura senza mai più dimenticarle, gli diede gratuitamente le prime lezioni di solfeggio e pianoforte. Arturo dimostrò nuovamente memoria eccezionale, riuscendo a riprodurre al pianoforte musiche che aveva sentito anche soltanto canticchiare; la maestra Vernoni suggerì ai genitori l’iscrizione del figlio alla Regia Scuola di Musica, il futuro conservatorio di Parma.[2][4][5]
A nove anni Arturo Toscanini vi si iscrisse vincendo una borsa di studio non nell’adorato pianoforte, bensì in violoncello (divenendo allievo di Leandro Carini) e composizione (allievo di Giusto Dacci). Nel 1880, studente tredicenne, gli venne concesso per un anno di essere violoncellista nell’orchestra del Teatro Regio. Si diplomò nel 1885 con lode distinta e premio di 137,50 lire.[4][6][7][8][9][10]
Nel 1886 si unì come violoncellista e secondo maestro del coro a una compagnia operistica per una tournée in Sudamerica. In Brasile il direttore d’orchestra, il locale Leopoldo Miguez, in aperto contrasto con gli orchestrali abbandonò la compagnia dopo una sola opera (il Faust di Charles Gounod), con una dichiarazione pubblica ai giornali (che avevano criticato la sua direzione) nella quale imputava tutto al comportamento degli orchestrali italiani. Il 30 giugno 1886 la compagnia doveva rappresentare al Teatro Lirico di Rio de Janeiro l’Aida di Giuseppe Verdi con un direttore sostituto, il piacentinoCarlo Superti; Superti fu però pesantemente contestato dal pubblico e non riuscì neanche a dare l’attacco all’orchestra. Nel caos più totale Toscanini, incitato da alcuni colleghi strumentisti per la sua grande conoscenza dell’opera, prese la bacchetta, chiuse la partitura e incominciò a dirigere l’orchestra a memoria. Ottenne un grandissimo successo, iniziando così la carriera di direttore a soli 19 anni, continuando a dirigere nella tournée. Al ritorno in Italia, su consiglio e mediazione del tenore russo Nikolaj Figner, si presentò a Milano dall’editrice musicale Giovannina Strazza, vedova di Francesco Lucca, e venne scelto da Alfredo Catalani in persona per la direzione al Teatro Carignano di Torino per la sua opera Edmea, andata in scena il 4 novembre dello stesso 1886, ottenendo un trionfo e critiche entusiaste.[2][5][6][11]
Successivamente riprese per un breve periodo la carriera di violoncellista; fu secondo violoncello alla prima di Otello, diretta al Teatro alla Scala da Franco Faccio il 5 febbraio 1887, e per l’occasione ebbe modo di entrare in contatto con Giuseppe Verdi.[2][12][13]
Nel frattempo, prima di intraprendere a pieno ritmo la carriera di direttore d’orchestra, tra il 1884 e il 1888 Toscanini si era dedicato alla composizione di alcune liriche per voce e pianoforte. Si ricordano Spes ultima dea, Son gelosa, Fior di siepe, Desolazione, Nevrosi, Canto di Mignon, Autunno, V’amo, Berceuse per pianoforte.
Nel 1895, nel nome di Wagner, avvenne l’esordio da direttore al Teatro Regio di Torino, con il quale collaborò fino al 1898 e di cui, il 26 dicembre 1905, inaugurò la nuova sala con Sigfrido. Nel giugno 1898 iniziò a dirigere al Teatro alla Scala (fino al 1903 e nel 1906/1907), con il duca Guido Visconti di Modrone come direttore stabile, il librettista e compositore Arrigo Boito vice-direttore e Giulio Gatti Casazza amministratore. Toscanini divenne il direttore artistico del teatro milanese e, sulla scia delle innovazioni portate dal suo idolo Richard Wagner, si adoperò per riformare il modo di rappresentare l’opera, ottenendo nel 1901 quello che ai tempi era il sistema di illuminazione scenica più moderno e nel 1907 la fossa per l’orchestra;[15] pretese inoltre che le luci in sala venissero spente e che le signore togliessero i cappelli durante la rappresentazione, proibì l’ingresso agli spettatori ritardatari e rifiutò di concedere i bis; ciò creò non poco scompiglio, dato che i più consideravano il teatro d’opera anche come un luogo di ritrovo, per chiacchiere e far mostra di sé.[2][7] Come scrisse il suo biografo Harvey Sachs, “egli credeva che una rappresentazione non potesse essere artisticamente riuscita finché non si fosse stabilita un’unità di intenti tra tutti i componenti: cantanti, orchestra, coro, messa in scena, ambientazione e costumi”. Il 26 febbraio 1901, in occasione della traslazione delle salme di Giuseppe Verdi e di Giuseppina Strepponi dal Cimitero Monumentale di Milano a Casa Verdi, diresse 120 strumentisti e circa 900 voci nel Va, pensiero che non veniva eseguito alla Scala da vent’anni. Nel 1908 si dimise dalla Scala e dal 7 febbraio fu invitato a dirigere presso il teatro Metropolitan di New York, venendo molto contestato per la sua decisione di abbandonare l’Italia. Proprio durante tale esperienza Toscanini comincerà a considerare gli Stati Uniti d’America come la sua seconda patria.[7]
Schierato per l’interventismo, rientrò in patria nel 1915, all’ingresso dell’Italia in guerra, e si esibì esclusivamente in concerti di propaganda e beneficenza; dal 25 al 29 agosto 1917, per allietare gli animi dei combattenti, diresse una banda sul Monte Santo appena conquistato durante la battaglia dell’Isonzo; per tale atto venne decorato con una Medaglia d’argento al valor civile[16]. Subito dopo la fine della guerra, nel giro di pochissimi anni s’impegnò nella riorganizzazione dell’orchestra scaligera (con la quale era tornato a collaborare), che trasformò in ente autonomo.
Ancora per spirito patriottico, nel 1920 si recò a Fiume per dirigere un concerto e incontrare l’amico Gabriele D’Annunzio, che con i suoi legionari aveva occupato la città contesa dagli slavi e dal governo italiano[17].
Di idee socialiste, dopo un’iniziale condivisione del programma fascista, che lo aveva portato nel novembre 1919 a candidarsi alle elezioni politiche nel collegio di Milano nella lista dei fasci di combattimento con Benito Mussolini e Filippo Tommaso Marinetti senza venire eletto,[20] se ne allontanò a causa del progressivo spostamento verso l’estrema destra di Mussolini, divenendone un forte oppositore già da prima della marcia su Roma. Voce fermamente critica e stonata nella cultura omologata al regime, riuscì, grazie all’enorme prestigio internazionale, a mantenere l’Orchestra del Teatro alla Scala sostanzialmente autonoma nel periodo 1921-1929; al riguardo annunciò anche che si sarebbe rifiutato di dirigere la prima di Turandot dell’amico Giacomo Puccini se Mussolini fosse stato presente in sala (che invece poi diresse, in quanto il duce non si recò alla rappresentazione).
Per questi atteggiamenti di aperta ostilità al regime subì una campagna di stampa avversa sul piano artistico e personale, mentre le autorità disposero provvedimenti, come lo spionaggio su telefonate e corrispondenza e il ritiro temporaneo del passaporto a lui e famiglia; tutto ciò contribuì a mettere in pericolo la sua carriera e la sua stessa incolumità, come accadrà a Bologna.[21]
Il 14 maggio 1931, infatti, trovandosi nella città felsinea per dirigere al Teatro Comunale un concerto della locale orchestra in commemorazione di Giuseppe Martucci, Toscanini si rifiutò in partenza di far eseguire come introduzione gli inniGiovinezza e Marcia Reale al cospetto di Leandro Arpinati, Costanzo Ciano e vari altri gerarchi. Dopo lunghe negoziazioni, che il Maestro non volle accettare, si arrivò alla defezione di Arpinati e Ciano, alla perdita di ufficialità del concerto e, di conseguenza, alla non necessità di esecuzione degli inni. Toscanini, al suo arrivo in auto al teatro in compagnia della figlia Wally, in ritardo a causa delle negoziazioni, appena sceso, fu assalito da un folto gruppo di fascisti, venendo schiaffeggiato sulla guancia sinistra, si presume dalla camicia nera Guglielmo Montani, e colpito da una serie di pugni a viso e collo; fu messo in salvo dal suo autista, che lo spinse in macchina, affrontò brevemente gli aggressori e poi ripartì. Il gruppo di fascisti giunse poi all’albergo dove era alloggiato il Maestro e gli intimò di andarsene immediatamente; verso le ore 2 della notte, dopo aver dettato un durissimo telegramma di protesta a Mussolini in persona in cui denunciava di essere stato aggredito da “una masnada inqualificabile” (telegramma che non avrà risposta), avendo persino rifiutato di farsi visitare da un medico, partì in auto da Bologna diretto a Milano, mentre gli organi fascisti si preoccupavano che la stampa, sia italiana sia estera, non informasse dell’accaduto. Da quel momento Toscanini visse principalmente a New York; per qualche anno tornò regolarmente a dirigere in Europa, ma non in Italia, dove tornò in maniera saltuaria solamente dopo la seconda guerra mondiale, a seguito del ripristino di un governo democratico. Nondimeno, i dischi da lui incisi con orchestre statunitensi e inglesi per la casa discografica La voce del padrone non furono sottoposti a censura da parte del regime di Mussolini e rimasero regolarmente in catalogo fino al 1942 e oltre. [21][22][23][24][25]
Nel 1933 infranse i rapporti anche con la Germania nazista, rispondendo con un rifiuto duro e diretto a un invito personale di Adolf Hitler a quello che sarebbe stato il suo terzo Festival di Bayreuth.[26] Le sue idee avverse al nazismo e all’antisemitismo che esso perseguiva lo portarono fino in Palestina, dove il 26 dicembre 1936 fu chiamato a Tel Aviv per il concerto inaugurale dell’Orchestra Filarmonica di Palestina (ora Orchestra Filarmonica d’Israele), destinata ad accogliere e a dare lavoro ai musicisti ebrei europei in fuga dal nazismo, che diresse gratuitamente.[27] Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania, abbandonò anche il Festival di Salisburgo, nonostante fosse stato caldamente invitato a rimanere. Nello stesso anno inaugurò il Festival di Lucerna (per l’occasione molti, soprattutto antifascisti, vi andarono dall’Italia per seguire i suoi concerti); inoltre, quando anche il governo italiano, in linea con l’alleato tedesco, adottò una politica antisemita promulgando le leggi razziali del 1938, Toscanini fece infuriare ulteriormente Mussolini definendo tali provvedimenti, in un’intercettazione telefonica che gli causò un nuovo temporaneo ritiro del passaporto, “roba da Medioevo“. Ribadì inoltre in una lettera all’amante, la pianistaAda Colleoni: “maledetti siano l’asse Roma-Berlino e la pestilenziale atmosfera mussoliniana”.[21][28]
L’anno successivo, anche a seguito della sempre più dilagante persecuzione razziale, abbandonò totalmente l’Europa, spostandosi negli Stati Uniti d’America.
Dagli States continuò a servirsi della musica per lottare contro il fascismo e il nazismo e si adoperò per cercare casa e lavoro a ebrei, politici e oppositori perseguitati e fuoriusciti dai regimi;[27] l’Università di Georgetown, a Washington, gli conferì una laurea honoris causa. Per lui, inoltre, nel 1937 era stata appositamente creata la NBC Symphony Orchestra, formata da alcuni fra i migliori strumentisti presenti negli Stati Uniti, che diresse regolarmente fino al 1954 su radio e televisioni nazionali, divenendo il primo direttore d’orchestra ad assurgere al ruolo di stella dei mass media.
«(…) sento la necessità di dirle quanto l’ammiri e la onori. Lei non è soltanto un impareggiabile interprete della letteratura musicale mondiale (…). Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità. Sento pure la più profonda gratitudine per quanto avete fatto sperare con la vostra opera di promozione di valori, inestimabile, per la nuova Orchestra di Palestina di prossima costituzione. Il fatto che esista un simile uomo nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è continuamente costretti a subire”[29]»
Durante la seconda guerra mondiale diresse esclusivamente concerti di beneficenza a favore delle forze armate statunitensi e della Croce Rossa, riuscendo a raccogliere ingenti somme di denaro. Si adoperò anche per la realizzazione di un filmato propagandistico nel quale dirigeva due composizioni di Giuseppe Verdi dall’alto valore simbolico: l’ouverture della Forza del destino e l’Inno delle Nazioni, da lui modificato variando in chiave antifascista l’Inno di Garibaldi e inserendovi l’inno nazionale statunitense e L’Internazionale. Nel 1943 il Teatro alla Scala, sui cui muri esterni erano state scritte frasi come “Lunga vita a Toscanini” e “Ritorni Toscanini“, venne parzialmente distrutto durante un violento bombardamento da parte di aereialleati; la ricostruzione avvenne in tempi rapidi, grazie anche alle notevoli donazioni versate dal Maestro.
Il 13 settembre 1943 la rivista statunitense Life pubblicò un lungo articolo di Arturo Toscanini dal titolo Appello al Popolo d’America. L’articolo era in precedenza un’accorata lettera privata di Toscanini al presidente americanoFranklin Delano Roosevelt.
«Le assicuro, caro presidente, – scrive Toscanini – che persevero nella causa della libertà la cosa più bella cui aspira l’umanità (…) chiediamo agli Alleati di consentire ai nostri volontari di combattere contro gli odiati nazisti sotto la bandiera italiana e in condizioni sostanzialmente simili a quelle dei Free French. Solo in questo modo noi italiani possiamo concepire la resa incondizionata delle nostre forze armate senza ledere il nostro senso dell’onore. (…)»
Toscanini non aveva in simpatia la posizione ambivalente di Richard Strauss durante la seconda guerra mondiale e dichiarò al riguardo: “Di fronte allo Strauss compositore mi tolgo il cappello; di fronte all’uomo Strauss lo reindosso”.[30]
Il ritorno
L’11 maggio 1946 il settantanovenne Toscanini ritornò in Italia, per la prima volta dopo quindici anni, per dirigere lo storico concerto di riapertura del Teatro alla Scala, ricordato come il concerto della liberazione, dedicato in gran parte all’opera italiana, e probabilmente per votare a favore della Repubblica. Quella sera il teatro si riempì fino all’impossibile: il programma vide l’ouverture de La gazza ladra di Rossini, il coro dell’Imeneo di Händel, il Pas de six e la Marcia dei Soldati dal Guglielmo Tell e la preghiera dal Mosè in Egitto di Rossini, l’ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l’ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l’intermezzo e alcuni estratti dall’atto III di Manon Lescaut di Puccini, il prologo e alcune arie dal Mefistofele di Boito. In quell’occasione esordì alla Scala il soprano Renata Tebaldi, definita da Toscanini “voce d’angelo”.
Alla Scala fu direttore di altri tre spettacoli: il concerto commemorativo di Arrigo Boito, comprendente la Nona sinfonia di Beethoven, nel 1948, la Messa di requiem di Verdi nel 1950 ed infine un concerto dedicato a Wagner nel settembre 1952.
Il 5 dicembre 1949 venne nominato senatore a vita dal Presidente della RepubblicaLuigi Einaudi per alti meriti artistici, ma decise di rinunciare alla carica il giorno successivo, inviando da New York il seguente telegramma di rinuncia:
«È un vecchio artista italiano, turbatissimo dal suo inaspettato telegramma che si rivolge a Lei e la prega di comprendere come questa annunciata nomina a senatore a vita sia in profondo contrasto con il suo sentire e come egli sia costretto con grande rammarico a rifiutare questo onore. Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa. Grato e lieto della riconoscenza espressami a nome del mio paese pronto a servirlo ancora qualunque sia l’evenienza, la prego di non voler interpretare questo mio desiderio come atto scortese o superbo, ma bensì nello spirito di semplicità e modestia che lo ispira… accolga il mio deferente saluto e rispettoso omaggio.»
Addio alle scene e morte
Toscanini si ritirò a 87 anni, ponendo fine a una straordinaria carriera duratane 68;[4] rese tuttavia nota la sua volontà di lasciare il podio solo a familiari e amici, volendo evitare di ricevere eccessive celebrazioni pubbliche.[31]
Per il suo ultimo concerto, interamente dedicato a Wagner, compositore sempre molto amato, diresse la NBC Symphony Orchestra il 4 aprile 1954 alla Carnegie Hall di New York, in diretta radiofonica. Proprio in occasione di quell’ultima esibizione il Maestro, celebre anche, come già accennato, per la sua straordinaria memoria ed il suo perfezionismo maniacale (caratteristiche che, insieme al suo carattere irascibile ed impulsivo, lo portavano regolarmente ad infuriarsi quando l’esecuzione non risultava esattamente come lui voleva), mentre dirigeva il brano dell’opera Tannhäuser, per la prima volta perse la concentrazione e smise di battere il tempo.
Ritratto di Arturo Toscanini, direttore d’orchestra (1867-1957). Foto di Leone Ricci, Milano.
Toscanini rimase immobile per ben 14 secondi ed i tecnici radiofonici fecero immediatamente scattare un dispositivo di sicurezza che trasmise musica di Brahms[31], una reazione a posteriori giudicata eccessiva e forse dettata dal panico, laddove l’orchestra in realtà non aveva mai smesso di suonare. Il Maestro si ricompose e riprese a dirigere normalmente fino alla fine del concerto, dopodiché si ritirò rapidamente nel proprio camerino, mentre in teatro gli applausi sembravano non smettere più.[32]
Nel dicembre del 1956, debilitato da problemi di salute legati all’età, espresse il desiderio di trascorrere il Capodanno con tutta la famiglia. Il figlio Walter organizzò quindi una grande festa a New York con figli, nipoti, vari parenti e amici; a mezzanotte il Maestro, insolitamente allegro ed energico, volle abbracciare tutti uno per uno, poi intorno alle due andò a letto. Al mattino di Capodanno del 1957, alzatosi attorno alle 7, si recò in bagno e quando ne uscì stramazzò al suolo, colpito da una trombosi cerebrale.[31]
Toscanini rimase in agonia per 16 giorni e morì alle soglie dei 90 anni, nella sua casa newyorkese di Riverdale, il 16 gennaio 1957; la salma ritornò il giorno dopo in Italia con un volo diretto all’Aeroporto di Ciampino, a Roma, e venne accolta all’arrivo da una folla di persone. Da lì fu traslata a Milano: la camera ardente e il funerale furono allestiti presso il Teatro alla Scala e la gente salì anche sui tetti degli edifici circostanti per poter vedere qualcosa.
Composto da una marea di persone, il corteo funebre si avviò verso il Cimitero Monumentale di Milano, dove il Maestro venne tumulato nell’Edicola 184 del Riparto VII, la tomba di famiglia precedentemente edificata alla morte del figlioletto Giorgio dall’architetto Mario Labò e dallo scultore Leonardo Bistolfi, con tematiche rappresentanti l’infanzia e il viaggio per mare (Giorgio era morto di una difterite fulminante a Buenos Aires mentre seguiva il padre in tournée ed era ritornato a Milano defunto in nave).[33][34][35][36][37] Nella stessa cappella hanno ricevuto sepoltura il padre del Maestro, Claudio, la sorella Zina, gli altri tre figli del Maestro (Walter, Wanda, Wally), la moglie Carla, l’insigne pianista Vladimir Horowitz (1903-1989), marito di Wanda, la loro figlia Sophie Horowitz (1934-1975), la ballerina Cia Fornaroli (1888-1954), moglie del figlio Walter, e il nipote Walfredo Toscanini (1929-2011), figlio di Walter e della Fornaroli e ultimo discendente diretto maschio del Maestro.
Il nome di Arturo Toscanini si è successivamente meritato l’iscrizione al Famedio del medesimo cimitero.[38]
Vita privata
Arturo era il primogenito e dopo di lui i genitori ebbero tre figlie: Narcisa (1868-1878), Ada (1875-1955) e Zina (1877-1900).[39][40]
Arturo Toscanini con la figlia Wally, 1955
Toscanini sposò la milanese Carla De Martini (nata nel 1877) a Conegliano il 21 giugno 1897; la moglie diverrà sua manager.[2][31] Ebbero quattro figli: Walter, nato il 19 marzo 1898 e morto il 30 luglio 1971, storico e studioso del balletto, che sposò la celebre prima ballerinaCia Fornaroli;[41][42] Wally, nata il 16 gennaio del 1900, chiamata come la protagonista dell’ultima opera dell’amico scomparso Alfredo Catalani, La Wally[43], nel corso della seconda guerra mondiale elemento importante della Resistenza italiana e successivamente fondatrice di un’associazione per la ricostruzione del Teatro alla Scala distrutto dai bombardamenti alleati, nonché moglie del conte Emanuele di Castelbarco e celebre animatrice del jet set internazionale,[43][44][45] morta l’8 maggio 1991; il predetto Giorgio, nato nel settembre 1901 e morto di difterite il 10 giugno 1906; Wanda Giorgina, nata il 7 dicembre del 1907, diventata celebre per avere sposato il pianistarusso e amico di famiglia Vladimir Horowitz, morta il 21 agosto 1998.[31][37][46][47]
Il 23 giugno 1951 la moglie morì a Milano e Toscanini rimase vedovo.[48]
Toscanini ebbe varie relazioni extraconiugali, ad esempio con il soprano Rosina Storchio, dalla quale nel 1903 ebbe il figlio Giovanni Storchio, nato cerebroleso e morto sedicenne il 22 marzo 1919,[49][50] e con il soprano Geraldine Farrar, che avrebbe voluto imporgli di lasciare moglie e figli per sposarla; il Maestro non gradì l’ultimatum e, per tale motivo, nel 1915 si dimise da direttore d’orchestra principale del Metropolitan e ritornò in Italia. Ebbe anche una relazione durata sette anni (dal 1933 al 1940) con la pianista Ada Colleoni, amica delle figlie e divenuta moglie del violoncellista Enrico Mainardi; tra i due, nonostante vi fossero trent’anni di differenza, nacque un profondo legame, come risulta da una raccolta di circa 600 lettere e 300 telegrammi che il Maestro le inviò.[51][52][53]
Era un appassionato intenditore e collezionista d’arte, nonché conoscente o amico di molti pittori; secondo il nipote Walfredo, la sua collezione nella casa milanese di via Durini arrivava a contare fino a 200 quadri[31].
Critica
Toscanini fu pressoché idolatrato dalla critica finché fu in vita; la RCA Victor, che l’aveva sotto contratto, non si faceva problemi a definirlo il miglior direttore d’orchestra mai esistito. Tra i suoi sostenitori non vi erano solo i critici musicali, ma anche musicisti e compositori: un parere d’eccezione viene da Aaron Copland.[54]
Tra le critiche che gli furono mosse spicca quella “revisionista”, secondo la quale l’impatto di Toscanini sulla musica americana è da giudicare in definitiva più negativo che positivo, poiché il Maestro prediligeva la musica classica europea a quella a lui contemporanea. Tale bacchettata venne dal compositore Virgil Thomson, il quale deprecò la poca attenzione di Toscanini per la musica “contemporanea”. Va tuttavia sottolineato come Toscanini abbia speso parole d’ammirazione per compositori a lui senz’altro contemporanei, quali Richard Strauss e Claude Debussy, di cui diresse e incise la musica. Altri compositori attivi nel XX secolo i cui brani furono eseguiti sotto la direzione di Toscanini furono Paul Dukas (L’apprendista stregone), Igor’ Stravinskij (Le rossignol e la Suite da Petruška), Dmitrij Shostakovich (sinfonie numero 1 e 7) e George Gershwin, del quale diresse i tre lavori maggiori (Rapsodia in Blu, Un americano a Parigi e il Concerto in Fa).
Un’altra critica spesso mossa a Toscanini è quella di essere troppo “metronomico”, cioè di battere il tempo fin troppo rigidamente, senza mai distaccarsi dalle partiture. Questa sua caratteristica gli valse la rivalità di Wilhelm Furtwängler, caratterizzato da un modo di dirigere totalmente opposto a quello del Maestro italiano; i due si detestarono per anni e non ne fecero mistero.
Nota è l’aspra discussione sorta fra Toscanini e Maurice Ravel in relazione ai tempi della partitura del celebre Boléro del compositore francese.[55] Alla prima esecuzione a New York, il 4 maggio 1930, infatti, il direttore affrettò il tempo, dirigendo due volte più velocemente di quanto indicato, per poi allargarlo nel finale. Ravel gli ricordò che il brano andava eseguito con un unico tempo, dall’inizio alla fine, e che nessuno poteva prendersi certe libertà (lo stesso compositore, dopo la prima esecuzione, aveva anche fatto preparare un avviso che imponeva di eseguire il Boléro in modo tale che durasse esattamente diciassette minuti), e Toscanini gli rispose: “Se non la suono a modo mio, sarà senza effetto”, risposta che Ravel commentò dicendo: “i virtuosi sono incorreggibili, sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero”.[56]
Francobollo emesso nel 2007 nel 50º anniversario della morte Francobollo della Repubblica di San Marino che celebra Arturo Toscanini, sempre per il 50° dalla morte
Toscanini registrò 191 dischi, specialmente verso la fine della carriera, molti dei quali sono ancora ristampati. Inoltre sono conservate molte registrazioni di esibizioni televisive e radiofoniche. Particolarmente apprezzate sono quelle dedicate a Beethoven, Brahms, Wagner, Richard Strauss, Debussy tra gli stranieri, Rossini, Verdi, Boito e Puccini tra gli italiani.
I beni che documentano la vita di Toscanini sono stati dati dai suoi eredi a istituzioni pubbliche italiane e statunitensi. A New York presso la New York Public Library si conservano molte delle partiture annotate e la rassegna stampa degli eventi che videro protagonista il Maestro; alcuni documenti sono invece conservati presso la Fondazione Arturo Toscanini di Parma; a Milano si trovano documenti presso l’archivio del Museo Teatrale alla Scala, l’Archivio di Stato e il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi”; il 19 dicembre 2012 vi fu un’asta su lotti di lettere e spartiti del Maestro: tutto ciò rischiava di andare disperso, ma 60 lotti su 73 andarono all’Archivio di Stato[61].
^ D’Annunzio gli aveva scritto: “Venga a Fiume d’Italia, se può. È qui oggi la più risonante aria del mondo e l’anima del popolo è sinfonia come la sua orchestra”.
^ Comune di Milano, App di ricerca defunti Not 2 4get (i suoi resti attualmente riposano al Cimitero Maggiore di Milano nella celletta 729 del Riparto 211).
^ Enzo Restagno, Ravel e l’anima delle cose, Il Saggiatore, Milano, 2009, pag.34
^ Da un’intervista di Dimitri Calvocoressi a Ravel per il Daily Telegraph dell’11 luglio 1931, in Maurice Ravel. Lettres, écrits, entretiens Ed. Flammarion, Parigi, 1989
^ Un singolare aneddoto è legato alla prima di quest’opera, che esordì incompleta e postuma alla morte di Puccini. Toscanini interruppe infatti l’esecuzione a metà del terzo atto, all’ultima pagina completata dall’autore; alcuni testimoni riportano che, voltatosi verso il pubblico, il direttore affermò: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». Toscanini non diresse mai più la Turandot, tanto meno nella versione completata da Franco Alfano (di cui egli fu, peraltro, promotore, nonché recensore avendone bocciata una prima versione, presso l’editore Ricordi di Milano). Vd. Julian Budden, Puccini, traduzione di Gabriella Biagi Ravenni, Roma, Carocci Editore, 2005, ISBN 88-430-3522-3, pp. 458s.
Marco Capra (a cura di), Toscanini. la vita e il mito di un Maestro immortale, Milano, Rizzoli, 2017
Piero Melograni, Toscanini. La vita, le passioni, la musica, Milano, Mondadori, 2007.
Adriano Bassi, Arturo Toscanini, Collana I Signori della Musica, Milano, Targa Italiana, 1991
(EN) B.H. Haggin, Contemporary Recollections of the Maestro, Boston, Da Capo Press, 1989 (ristampa di Conversations with Toscanini e di The Toscanini Musicians Knew)
Harvey Sachs, Toscanini, Boston, Da Capo Press, 1978 (edizione italiana EDT/Musica, 1981). – Nuova ed. ampliata in pubblicazione nel giugno 2017.
(EN) Harvey Sachs, Reflections on Toscanini, Prima Publishing, 1993.
Arturo Toscanini, Lettere (The Letters of Arturo Toscanini. Compiled, edited and selected by Harvey Sachs, Knopf, 2002), traduzione di Maria Cristina Reinhart, a cura di Harvey Sachs, Milano, Il Saggiatore, 2017 [col titolo Nel mio cuore troppo d’assoluto: le lettere di Arturo Toscanini, Saggi Garzanti, 2003], ISBN978-88-428-2344-5.
Howard Taubman, The Maestro. The Life of Arturo Toscanini, Westport, Greenwood Press, 1977.
(EN) Joseph Horowitz, Understanding Toscanini. A Social History of American Concert Life, Berkeley, University of California Press, 1994.
(EN) Tina Piasio, “Arturo Toscanini”, in Italian Americans of the Twentieth Century, ed. George Carpetto and Diane M. Evanac, Tampa, FL, Loggia Press, 1999, pp. 376-377.
(EN) William E. Studwell, “Arturo Toscanini.” In The Italian American Experience: An Encyclopedia, ed. S.J. LaGumina, et al., New York, Garland, 2000, pp. 637-638.
“Le Sabine”opera di Jacques-Louis David è un dipinto ad olio su tela di grandi dimensioni – misura infatti 385 x 522 – eseguito da Jacques-Louis David tra il 1796 e il 1799 ed esposto a Parigi al Museo del Louvre. Il soggetto non rappresenta il RattodelleSabine da parte dei Romani, tema già trattato da Giambologna e Poussin, per esempio, ma un episodio leggendario delle origini di Roma nell’VIII secolo, di cui parlano Plutarco e Livio (Ab Urbe condita, I, 9, 5-10).Si tratta di un dipinto di genere storico appartenente alla corrente neoclassica, che segna un’evoluzione nello stile di David dopo la Rivoluzione francese e qualificato da lui stesso come puramente greco. David iniziò il dipinto all’inizio del 1796 e la sua realizzazione durò quasi quattro anni. Il maestro fu assistito da Delafontaine, responsabile della documentazione, e da Jean-Pierre Franque, che in seguito fu sostituito da Jérôme-Martin Langlois e da Jean-Auguste-Dominique Ingres. David dipinse Le Sabine senza aver ricevuto da qualcuno la commissione del quadro e alla fine del 1799 espose il dipinto al Louvre nell’ex gabinetto di architettura.
Nonostante la sua mostra fosse a pagamento, LeSabine attirò un gran numero di visitatori fino al 1805.
Anche la scelta di esporre un quadro e di farlo vedere previo pagamento di un biglietto d’entrata, può sembrare a noi moderni un fatto normale ma, nella mentalità del tempo, costituì un importante passo avanti nella definizione della libertà creativa dell’artista, il quale, precedentemente alla Rivoluzione, era stato in qualche modo sottomesso alla volontà della committenza: per la Francia, in particolare, a quella del re. In questa occasione, David scrisse un testo che giustificava sia questa forma di esposizione sia la nudità dei guerrieri che avevano scatenato grandi polemiche.
Dopo l’espulsione degli artisti dal Louvre tra cui lo stesso David, il dipinto fu spostato nell’ex chiesa del Collegio Cluny in Place de la Sorbonne che fungeva ormai da personale laboratorio di David. Nel 1819 David vendette LeSabine e la sua tela gemella LeonidaalleTermopili” ai musei reali per 100.000 franchi. Prima esposto al PalaisduLuxembourg e, dopo la morte del pittore, il dipinto tornò al Louvre nel 1826.
Al centro del dipinto di David si riconosce Ersilia, moglie di Romolo, che spalancando le braccia cerca di impedire lo scontro tra il marito e Tazio, re dei Sabini. Attorno a lei, le altre donne mostrano i bambini nati dall’unione con i Romani. La difesa della famiglia prevaleva sulla vendetta dell’onore ferito. Queste donne non sono diventate mogli e madri per loro scelta, ma tali oramai sono: sentono pertanto l’imperativo morale di preservare quanto è stato costruito.
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza-
Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo.Piero Calamandrei.. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
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