Richard Newbury- Elisabetta I-Una donna alle origini del mondo moderno-Editore Claudiana-
Descrizione del libro di Richard Newbury ci regala un ritratto – affettuoso e pieno di humour – di Elisabetta I, sovrana che rifiutò di diventare regina consorte. Ereditato un paese sull’orlo della guerra civile e di religione, Elisabetta regnò per quasi mezzo secolo: pacificò e fece della debole Inghilterra cattolica una potente nazione protestante – la cui chiesa è oggi la terza tra quelle cristiane –, con il primo governo parlamentare dell’era moderna nonché una marina, una City e una lingua destinate a conquistare il mondo.
Papa Sisto V disse di lei: «Guardate come governa! È solo una donna, solo la signora di mezza isola eppure si fa temere da tutti». La presente è la terza edizione.«Nel suo divertente ritratto – che inevitabilmente si tinge dei colori dell’autore – Richard Newbury dichiara che il frutto di questa regina, che scelse di rimanere senza figli per il bene del suo paese e del suo popolo, “siamo tutti noi”, è il mondo moderno, il liberalismo che può essere sintetizzato con massima: “Tutto è lecito purché non si facciano scartare i cavalli”. Elisabetta è l’origine di quella democrazia parlamentare che, per parafrasare un suo altro grande eccentrico figlio, Winston Churchill, per quanto piena di difetti è il miglior sistema di governo che l’umanità abbia finora prodotto. Grazie, per cominciare, alla capricciosa e testarda regina dai capelli rossi, gran diva a cui, non a caso, soltanto negli ultimi vent’anni Hollywood ha dedicato tre film e altrettante pellicole sono state realizzate dalla BBC».
Dall’Introduzione di Erica Scroppo
Indice testuale
Introduzione di Erica Scroppo
1.Il naso di cleopatra
2.La figlia di papà
3.Elisabetta, la figlia di un’incestuosa ed eretica sgualdrina
4.Quando la manica divenne una barriera. Nebbia sulla manica: continente isolato
5.Nascita di un’erede al trono o della figlia illegittima di una sgualdrina?
6.Istruzione accademica e per la sopravvivenza
7.Scampare alla mannaia, ovvero: come avere successo
8.Oh signore! La regina è una donna!
9.Il settlement elisabettiano
10.Il dolce Robin
11.Il mostruoso regime delle donne
12.«Conoscevo Doris Day prima che diventasse vergine» (Groucho Marx)
13.Le due cugine
14.Un ospite indesiderato
15.Testa e croce
16.Il Ranocchio della regina
17.Figlia della discordia
18.L’apoteosi di Elisabetta e la chiave di volta della storia europea: la sconfitta dell’Armada spagnola
19.Martiri ed esuli
20.La sfida puritana, più temibile di quella papista
21.Elisabetta e i cattolici
22.La decapitazione del toyboy 23.Regina quondam reginaque futura
Biografia dell’autore
Richard Newbury storico e giornalista, vive e lavora a Cambridge e a Torre Pellice (To). Collaboratore de “La Stampa” e “Il Foglio”, per Claudiana ha pubblicato anche La regina Vittoria (2011) e Oliver Cromwell (2013).
Il “Lamento di Khajeh” (secolo XIX) è uno dei più celebri poemi popolari della Letteratura Kurda
Siyaband, bandito gentiluomo, dopo molte avventure rapisce la bellissima Khajeh, figlia del principe, che altrimenti non potrebbe sposare. I due giovani vivono felicemi per tre giorni sul monte Sipan, finchè Siyaband, andando a caccia, viene spinto da un cervo giù da un precipizio. Non teme la morte, ma piange la sorte della giovane sposa. E Khajeh si getta nel baratro, per morire abbracciata a Siyaband. è una delle leggende più popolari del folklore Kurdo.
“Lamento di Khajeh”
Siyaband, Siyaband! Non parlare. Chi avrebbe predetto una fine così triste? E non dovrei piangere, non dovrei versare lacrime calde, di sangue? Dormi, amor mio, dormi. I tuoi lamenti tristi e profondi sono lamenti di morte. Come resistere, come non piangere se i tuoi sospiri per me arrivano dritti al mio cuore? Cadono lacrime sul mio dolore. Dormi, amor mio, dormi.
Perchè piangi, Siyaband, perchè piangi ancora? Mi hai lasciato, sei corso lungo l’abisso. Sapevi che senza di te non ho protezione, sostegno. Come potrebbe la mia ferita guarire? Dormi, amor mio, dormi.
Oh Sipan, oh rocce di Sipan! Non fermatemi! Apritemi la via, portatemi da Siyaband! Oh Sipan, apri un sentiero, un passaggio, fa’ che io passi, che vada sarò di Siyaband la tomba, non solo la sposa!
Una poesia dolcemente erotica:
“Sono la rosa selvatica” (secolo XIX; qualche verso)
Sono la rosa selvatica non ancora dischiusa coperta di rugiada, tutta rorida. Se tu non mi tocchi io non fiorirò se tu non mi tocchi non esalerò il mio profumo. Sono la rosa selvatica, la rosa di montagna lontana da te… L’amore sboccia con le carezze tu, con amore, rendi morbida la terra intorno a me!
Una straziante ballata d’amore, su una donna crudele e il suo innamorato disposto al sacrificio:
“Rose di sangue” (secolo XIX)
“Guarda, c’è festa e si danza laggiù, ascolta il dahol, il flauto e lo zorna; (*) abiti variopinti, brusio di parole non manca che il frusciar della tua seta. Dammi la mano, ti prego, affrettiamoci! Corriamo alla danza, lieti del nostro amore.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare.”
“Per la tua bellezza, per la tua bellezza, per gli sguardi furtivi vicino alla sorgente: l’autunno ha già spogliato alberi e giardini. Dove trovo le rose? Ormai han le labbra chiuse.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare. Se il tuo amore fosse vero, se mi avessi dato il cuore, coglieresti le rose nel giardino del pascià.”
“Il giardino del pascià è di là del fiume, tutto circondato da sgherri assassini. Se ci vado corro mille e mille rischi, se non vado la mia diletta si offenderà.”
“Senza sosta ho cercato nel giardino del pascià, ecco le rose gialle che ho colto per te; di rose rosse, ahimè, non ne ho trovate. Verrai ora alla festa, a danzare con me?”
“Mai, se non ho rose rosse per ornarmi le chiome!”
“Non vuoi questa ferita, rossa come le rose?”
“Le armi del nemico, ahimè, ti hanno insanguinato! Vieni, appoggia il tuo capo qui sul mio seno, lascia ch’io pianga il tuo cuore amato, perso per una rosa!”
(*) Il Dahol è una specie di tamburo, lo Zorna una sorta di clarinetto.
Poesia Kurda
“La canna e il vento” di Sherko Bekas (qualche verso)
“Da quel giorno le ferite degli amanti parlano con le dita del vento e cantano, ovunque nel mondo, da quel giorno.”
Sherko Bekas fu colpito da un mandato di cattura per la sua attività poetica, si unisce ai partigiani combattenti Pesh Merga e diventa la voce della resistenza Kurda, alternando poesia e lotta armata. Nel 1987 si rifugia in Svezia, pubblicando poesie, romanzi, opere teatrali e ricevendo il premio del Pen Club svedese. Tornato nel Kurdistan liberato, diventa ministro per la Cultura della Regione autonoma del Kurdistan iracheno dalla sua fondazione (1992)
“La nostra poesia è scritta con le lacrime” di Mehmet Emin Bozarslan (qualche verso)
La fantasia tesse nuovi racconti, ricama con fili di lacrime, con colori di sangue, del sangue dei ragazzi e delle ragazze che scorre eroico sui nostri monti, su queste montagne kurde.
“Sirio” di Goran, poeta nato nel 1904 e morto, dopo persecuzioni e carcere, nel 1981. Nelle sue poesie utilizzò le forme antiche della metrica Kurda, rifiutando la metrica della poesia medio-orientale.
Il tramonto! E la memoria disperde il respiro del vento invita la mia anima scura e greve a una cerimonia di dolore.
Il mondo pacificato dal silenzio è un oceano senza confini in esso il mio pianto si alza come calda melodia.
L’oscurità ha chiuso il sipario ha velato il volto della terra immagini di desiderio indistinguibili attraverso lacrime brucianti.
Il mio cuore è spinto nel vuoto oscuro della disperazione oh se tu mi salvassi, stella – splendente Sirio!
Sirio che sorridi con le labbra rosse della prima luce tu puoi arrestare la malinconia che scorre dal mio cuore Un tuo fluido sguardo tocca il mio spirito oscuro fa che la notte che viene splenda di pietà sulla mia testa china.
Ascolta Stella dei Re; ascolta, bianca splendente Sirio! Sorgi, asciuga con i tuoi capelli le lacrime degli occhi della notte!
Ora qualche notizia storica-letteraria, tratta dalle note di Ibrahim Ahmad e Laura Schrader, in “Canti d’amore e di libertà del popolo Kurdo” (Tascabili Economici Newton)
“La poesia (…) è diventata un’arma molto efficace e forte nella lotta dei popoli per la libertà, l’autodeterminazione, la democrazia, la pace. Alcuni poeti hanno combattuto sul campo di battaglia e hanno dato la vita, come martiri. L’oppressione, la tirannia degli occupanti del Kurdistan, torturatori dei Kurdi, hanno dunque provocato una rivoluzione anche nella poesia.” (Ibrahim Ahmad)
“Per la sua posizione strategica e per le sue risorse (…) il Kurdistan è stato sottoposto a diverse dominazioni. Ma, se nelle città e presso le corti principesche i letterati – molti, non tutti – adottarono per le loro opere, nei secoli scorsi, l’arabo, il persiano, il turco, nei villaggi si sono tramandate una lingua e una poesia multiforme (…) la lingua Kurda è la lingua dell’Avesta. Alcune parole Kurde di oggi sono le stesse usate da Zardasht (Zarathustra) nelle Ghata, gli inni sacri scritti di cui rimangono pochi frammenti.”
“La poesia popolare Kurda si canta, e anche le liriche contemporanee vengono dette con voce, cadenze e tono che sono musicali (…) Il divieto islamico di far musica al di fuori del contesto religioso non ebbe alcun ascolto da parte Kurda. Fanno parte del folklore poemi epici, cavallereschi, d’amore in molte versioni, che cantano i bardi: fiabe, leggende, racconti, ballate e canti dedicati ai villaggi, alle stagioni, alla natura, all’amore.”
“Originariamente, una delle forme di poesia popolare tra le più note, il Laùk, tipico di molte aree del Kurdistan settentrionale, era composto e cantato esclusivamente dalle donne, ma non perchè fossero musiciste di mestiere. Le donne, soprattutto in occasione di fatti d’arme, cantavano le gesta del marito, del figlio, del fratello o ne celebravano il ricordo di fronte alla famiglia, al villaggio, all’assemblea della tribù. In alcuni aspetti della cultura e della lingua Kurda affiorano tracce di matriarcato, resti di una civiltà remota eppure tenace, tanto da aver resistito all’offensiva antifemminile del Corano: la donna Kurda ha mantenuto un ruolo importante, anche a capo di clan e principati in pace e in guerra, nei movimenti indipendentisti e nella resistenza. In Kurdistan, viaggiatori ed etnologi dei secoli scorsi notavano innanzitutto che le donne anzichè nascondersi sotto il velo informe in uso negli altri paesi islamici, indossavano abiti dai colori splendenti che mettono in risalto la femminilità, e che le danze popolari di donne e uomini insieme, parte integrante della vita sociale, erano motivo di scandalo per i popoli vicini.” (Laura Schrader)
Il poeta più importante della Letteratura Kurda è Ahmadi Khani (1651-1707), il “Dante Kurdo”, autore del poema epico “Mam e Zin”.
In epoca moderna i Kurdi sono stati massacrati. Leggo dalle note di Laura Schrader che:
“Fino a due anni fa in Turchia era vietato l’uso della lingua Kurda anche in privato. I familiari dei Kurdi, incarcerati e torturati anche se bambini o bambine con accuse di “separatismo”, dovevano limitarsi a guardare in silenzio, piangendo, i loro parenti nelle ore di visita, non conoscendo altra lingua che il Kurdo per comunicare con loro.”
Così Hejar ha espresso in versi la disperazione del suo popolo nella sua poesia “Il nostro destino”:
“Ai nostri oppressori, tutta la ricchezza del petrolio. A noi, neppure quel poco che serve per alimentare la lampada nelle nostre notti oscure. Gli stranieri del nostro paese si sono ingozzati, saziati del nostro patire. E noi, poveri, infelici, miserabili trasciniamo brevi esistenze di terrore. Vietata a noi la lingua materna. Vietato a noi respirare. Massacrati i nostri giovani, a migliaia e migliaia. Desiderare la libertà, chiedere la libertà è diventato un crimine per noi, i Kurdi.”
Il poeta Khabat, parlando dei bombardamenti iracheni con armi chimiche nel 1988 sulla città Kurda di Halabja, poi distrutta con la dinamite:
“Era pomeriggio. Nubi grevi di morte scendono sulla città 18 minuti terremoto paura, silenzio. Corpi rossi di sangue ritagliano aiuole di fiori.”
(da “La canzone della città uccisa”)
“L’Est” è l’espressione usata in Turchia per indicare il Kurdistan, parola che fino a due anni fa era vietato pronunciare.
Il poeta Cahit Külebi così ricorda, nei suoi versi:
“Nero sangue inonda le notti trascina morte, trascina disperazione. […] Un sorso di agonia dalla mano di chi amate è tutto quello che aveste da bere, e che berrete. Questo è l’Est. Negli occhi, sguardo di agnelli al macello.”
e il poeta Latif :
“Il cibo diventa sangue nel corpo”
e Ferhad Shakely :
“Lentamente vagano le ore nel buio di strade, vicoli, mercati trascinando dolore, tristezza ore impiccate agli alberi e ai muri gente trafitta dalle lance della sventura. Il tempo, qui, è una macchina e la manovra la polizia.”
(“Kamishli”, città del Kurdistan, in Siria)
“A sera, quando la luce lascia le fradice tristi finestre della tua stanza ti siedi, specchiandoti nel vetro scuro, annebbiato contando una a una le gocce di pioggia che battono sulle fradice tristi finestre della tua stanza. Guardi lontano. Il cielo è come un manto scuro indistinto; su di esso, neppure un fiore (…) Acuisci lo sguardo e ti accorgi che la terra si è fatta velo rosso sangue. (…) Tu sai che in questa notte tutti i tuoi sogni saranno impiccati alle forche di questa città. (…) Scorgo un barlume di luce e lo chiamo Kurdistan. O Kurdistan! Culla di lacrime, di gloria e d’amore! Terra sanguinante di sangue, suolo ferito dalle ferite. Paese addolorato dal dolore. Siedo alla finestra della notte e osservo gli infiniti percorsi dell’oscurità. (…) Il mio cuore vorrebbe come una nuvola gonfia sciogliersi in pioggia sulle vette rosate confondendosi nel crepuscolo.”
(“Kurdistan, la terra sanguinante”)
Chi volesse sentire una band Metal Kurda: Ferec (caricati su YouTube)
Poesie scelte di NINA BERBEROVA, poetessa russa-Pubblicate dal blog Avamposto-
Nina Berberova (San Pietroburgo 1901 – Philadelphia 1993) esordì come poeta giovanissima, quando ancora viveva in Russia. Emigrata prima a Berlino nel 1922, poi a Parigi nel 1923 insieme a Vladislav Chodasevič – uno dei maggiori poeti russi del Novecento –, continuò a coltivare la poesia, pubblicando però quasi esclusivamente saggi, romanzi e racconti. Solo ottantenne, dopo i riconoscimenti ottenuti dal volume di memorie Il corsivo è mio, decise di raccogliere in volume una scelta delle sue liriche composte fra il 1921 e il 1983, molte inedite, altre apparse nelle riviste russe dell’emigrazione tra gli anni Venti e i Sessanta.
NINA BERBEROVA, poetessa russa
NINA BERBEROVA Poesie scelte
Primo frammento
Non può il cuore smettere di amare.
Imbrunisce il giorno, passano gli anni,
e il cuore continua la sua esistenza
e ascolta le stagioni e le acque.
Il cuore continua a vivere.
Così sulla piazza, del tutto
a sproposito continua a farci ridere
il mangiatore di spade coperto di ferite.
E il prestigiatore che
fiammeggia come una cometa
e ha la bocca bruciacchiata
rammenta a questo cuore che:
non ha la forza di smettere di amare,
vuole vivere, del tutto a sproposito,
è così fragile, così piccolo,
non respira ma trema,
e pare divenuto vecchissimo
per i naufragi e le offese,
i banchi di sabbia, i mari e le foci.
Ma il cuore continua a vivere:
non scricchiolerà sotto lo stivale,
non struggerà nel fuoco.
………………………………………………
***
In questa notte senza vento oppure
in questi due tranquilli giorni d’inverno,
mentre io e te non parlavamo
la mia vita si è riempita di stelle piano piano.
Intanto sotto la coperta ruvida della slitta
pensavo allora a un ragazzo,
il mio palmo gelava sotto il guanto
e le redini si imbrogliavano.
E ora guardo: nell’arco sotto i sonagli
di nuovo sussulta la terra
e i nudi campi ineguali corrono
verso di me, lembi fruscianti.
Pietroburgo, 1921
Cinque Gennaio
Con una candela accenderà mio padre
durante la cena le candele ai nostri posti,
saranno inconsueti i discorsi
e il riso, e il pesce, e il vino.
La mia radiosa festa alla vigilia dell’Epifania,
il mio secondo Natale –
non conosco resistenza
all’agitarsi del mio cuore.
Pietroburgo, 1921
P.P.M.
Prima del triste e difficile addio
non dire che non ci sarà altro incontro.
Ho il dono segreto e strano
di farmi da te ricordare.
In un altro paese, nell’esilio lontano,
un tempo, quando verrà il tempo,
ti ripeterò con un’unica allusione,
un verso, un moto della penna.
E tu leggi come il pensiero mi ha ridato
e le tue parole di un tempo e l’ombra,
guarda di lontano come ho trasfigurati
questo giorno o quello appena trascorso.
Quale altro incontro vuoi per noi?
Con un unico verso ti restituisco
i tuoi passi, inchini, sguardi, parole –
di più da te non mi è dato.
Berlino, 1923
***
Mettere ai tuoi nudi piedi tutto questo mondo terribile
dove il cantante di strada col cappello teso ci evita,
dove angeli con impermeabili consunti e laceri
vagano lungo i marciapiedi sotto una pioggia funebre.
Sotto una pioggia funebre, sulle pietre della città,
mettere la legge di tutte le leggi e il segreto della creazione,
tutto questo assurdo mondo pieno di luci artificiali,
dove tu e io viviamo bisbigliando i nostri desideri.
Sono sola al mondo e non c’è un’altra me,
sei solo al mondo e non c’è un altro te,
e in noi c’è un amore unico, amico mio caro,
fino alla morte, fino alla fine. E poi ancora dopo la morte.
1926
***
Per me questa sera è troppo chiara,
per me questo vento è troppo silenzioso,
bellissimo è solo l’orizzonte:
confine di vive acque lontane.
Come una cucitura tra due teli
è troppo eterno, troppo diritto,
è parte di configurazioni universali
che non ci è dato smembrare.
La stessa linea diritta
unisce il tuo chiaro sguardo
alla luna che sorge sulle acque,
alla stella sul crinale delle montagne.
E forse ancora non sappiamo
come irrevocabili si innalzino
qui dalla terra verticali
e a quelle altezze ci conducano.
Cannes, 1927
***
La beatitudine divenga pure dolore,
l’amore diventi tradimento,
della schiuma spruzzata sulla riva
solo il sale resti sulle pietre.
E sulla croce dell’amata tomba,
dove rodono i vermi i morti occhi,
sacrilega passi più di una volta la tempesta,
turbando il cadavere con la sua forza notturna.
E sia. Ma la vita voleva essere
grandiosa, femminea e limpida,
e non posso rassegnarmi e dimenticare
la sua alba profetica e bellissima.
Parigi, 1930
D.K.
Per la vita perduta volevo amare,
per la vita perduta mi è impossibile amare.
Puoi dimenticare molte cose, puoi perdonare molte cose,
ma non devi inchinarti davanti a ciò che nulla vale.
Non da facili successi nasce questo mio orgoglio,
per la felicità della quiete ho pagato non poco:
ché nessuno mai mi ha detto – non piangere,
e perdono non l’ho ancora detto a nessuno.
Al suono del flauto danza il serpente sul bastone,
una dopo l’altra cadono cieche le spighe…
Solitudine, è regale il tuo incedere,
indocilità, è alta la tua voce spietata!
NINA BERBEROVA, poetessa russa
NINA BERBEROVAScrittrice russa naturalizzata statunitense (Pietroburgo 1901 – Filadelfia 1993). Emigrata nel 1922, solo nel 1925 si stabilì in Francia. Nella rivista dell’emigrazione russa, Poslednie novosti (“Ultime novità”), pubblicò alcune opere narrative che descrivono la realtà della periferia parigina. Al primo romanzo Poslednie i pervye (“Gli ultimi e i primi”, 1930), seguirono Povelitel´nica (1932; trad.it. La sovrana, 1996) e Bez zakata (“Senza tramonto”, 1938). Sulle Sovremennye Zapiski (“Memorie contemporanee”) intanto usciva una serie di brevi racconti (si ricorda Akkompaniatorša, 1935; trad. it. L’accompagnatrice, 1987), raccolti più tardi nel volume Oblegčenie učasti (1949; trad. it. Alleviare la sorte, 1988). Aveva intanto cominciato a dedicarsi al genere biografico, con Čajkovskij. Istorija odinokoj žizni (1936; trad. it. Il ragazzo di vetro. Čajkovskij, 1993) e Borodin (1947; trad. it. Genio e regolatezza. Aleksandr Borodin, 1993). Trasferitasi negli Stati Uniti dal 1950, insegnò letteratura russa alla Yale University e alla Princeton University. Preceduto dalla traduzione in lingua inglese (The italics are mine, 1969), nel 1972 apparve l’autobiografico Kursiv moj (trad. it. Il corsivo è mio, 1989), considerato la sua opera migliore. Nella sua produzione, che vede in primo piano un mondo femminile fatto di figure dominanti e creature succubi, si riflette il destino dell’emigrazione russa. –Fonte Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Testi selezionati da Antologia personale. Poesie 1921- 1933 (trad. di M. Calusio, Passigli, 2004)
Blog Avamposto
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Per informazioni, segnalazioni, proposte di pubblicazione e/o collaborazione, invio di materiale e quant’altro compila il form o contattaci ai seguenti recapiti:
Contatti-Blog Avamposto
Corso Siracusa 67, 10137 Torino (c/o Sergio Bertolino)
-Grazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVES
-Recensione di Pietro NARDI scritta per la Rivista PEGASO N°12 del 1931
Breve Biografia di Grazia Deledda è stata una delle più importanti e influenti scrittrici italiane del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, e nel dicembre 1927 vinse il premio Nobel per la letteratura, la prima donna italiana a farlo. Deledda fu esponente, anche se a modo suo, del verismo e del decadentismo, e scrisse sempre molte storie di contadini e paesani della sua terra, la Sardegna.
Grazia Deledda nacque a Nuoro, in Sardegna, nel settembre del 1871. Apparteneva a una famiglia benestante ed era la quinta di sette fratelli e sorelle. Ebbe un’istruzione intermittente – un po’ a scuola e un po’ con un insegnante privato – e iniziò a scrivere molto giovane, per conto suo. Le sue prime pubblicazioni arrivarono quando non aveva ancora 20 anni e il suo primo libro di qualche successo fu Anime oneste, del 1895. Pochi anni dopo, nel 1899, Deledda conobbe il mantovano Palmiro Madesani, che sposò pochi mesi più tardi trasferendosi con lui a Roma.
A Roma Deledda continuò a scrivere e pubblicare romanzi. Elias Portolu, uscito nel 1903, ottenne subito un buon successo e Deledda poté dedicarsi con grande intensità alla scrittura. In pochi anni pubblicò moltissimi libri e opere teatrali, tra cui: Dopo il divorzio, Cenere, L’edera e Canne al vento. Il suo successo fu tale che il marito si licenziò dal lavoro come funzionario al ministero delle Finanze per diventarne l’agente di sua moglie. In tutto Deledda pubblicò 56 opere in circa 40 anni di carriera e fu apprezzata e tradotta anche all’estero.
Nel 1927, Deledda fu insignita del premio Nobel per la Letteratura “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Il Nobel di Deledda fu tecnicamente quello del 1926, che la commissione del premio aveva deciso di trattenere per un anno non avendo trovato un candidato adatto a riceverlo. Deledda fu la prima donna italiana a vincere un Nobel e la seconda italiana a vincerlo per la Letteratura, dopo Giosué Carducci nel 1906. Deledda morì per un tumore al seno, il 15 agosto 1936. Cosima, quasi Grazia un racconto autobiografico rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo con il titolo Cosima.Inizio modulo
Grazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVESGrazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVESGrazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVESGrazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVESGrazia DELEDDAGrazia DELEDDA
Breve Biografia di Grazia Deleddaè stata una delle più importanti e influenti scrittrici italiane del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, e nel dicembre 1927 vinse il premio Nobel per la letteratura, la prima donna italiana a farlo. Deledda fu esponente, anche se a modo suo, del verismo e del decadentismo, e scrisse sempre molte storie di contadini e paesani della sua terra, la Sardegna.
Grazia Deledda nacque a Nuoro, in Sardegna, nel settembre del 1871. Apparteneva a una famiglia benestante ed era la quinta di sette fratelli e sorelle. Ebbe un’istruzione intermittente – un po’ a scuola e un po’ con un insegnante privato – e iniziò a scrivere molto giovane, per conto suo. Le sue prime pubblicazioni arrivarono quando non aveva ancora 20 anni e il suo primo libro di qualche successo fu Anime oneste, del 1895. Pochi anni dopo, nel 1899, Deledda conobbe il mantovano Palmiro Madesani, che sposò pochi mesi più tardi trasferendosi con lui a Roma.
A Roma Deledda continuò a scrivere e pubblicare romanzi. Elias Portolu, uscito nel 1903, ottenne subito un buon successo e Deledda poté dedicarsi con grande intensità alla scrittura. In pochi anni pubblicò moltissimi libri e opere teatrali, tra cui: Dopo il divorzio, Cenere, L’edera e Canne al vento. Il suo successo fu tale che il marito si licenziò dal lavoro come funzionario al ministero delle Finanze per diventarne l’agente di sua moglie. In tutto Deledda pubblicò 56 opere in circa 40 anni di carriera e fu apprezzata e tradotta anche all’estero.
Grazia DELEDDA
Nel 1927, Deledda fu insignita del premio Nobel per la Letteratura “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Il Nobel di Deledda fu tecnicamente quello del 1926, che la commissione del premio aveva deciso di trattenere per un anno non avendo trovato un candidato adatto a riceverlo. Deledda fu la prima donna italiana a vincere un Nobel e la seconda italiana a vincerlo per la Letteratura, dopo Giosué Carducci nel 1906. Deledda morì per un tumore al seno, il 15 agosto 1936. Cosima, quasi Grazia un racconto autobiografico rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo con il titolo Cosima.
Fonte Il Post- direttore Luca Sofri
Grazia DELEDDAGrazia DELEDDARivista PEGASO diretta da Ugo OjettiN°12 del 1931
Feminism8: torna la Fiera dell’editoria delle donne a Roma. Pratiche politiche di vita interiore-
Roma-Dal 28 febbraio al 3 marzo 2025 torna la Fiera dell’editoria delle donne alla Casa internazionale delle Donne a via della Lungara 19 si avvicenderanno più di 70 autrici tra focus, dialoghi e presentazioni. Una vera e propria immersione nel flusso continuo di incontri che caratterizzano da sempre il cuore pulsante di Feminism. Grande attesa per le madrine, la Premio Campiello Giulia Caminito e la psicoanalista femminista Manuela Fraire.
Fiera dell’editoria delle donne a Roma
Roma,– La staffetta della letteratura delle donne, fondata da un piccolo gruppo di donne lungimiranti – Anna Maria Crispino, Giovanna Olivieri, Maria Palazzesi, Stefania Vulterini, Maria Vittoria Vittori – è giunta alla sua VIII edizione. Letteratura e attualità saranno come sempre le protagoniste della quattro giorni dell’editoria delle donne che darà spazio a dibattiti dialogici e presentazioni di opere di saggistica, narrativa, poesia. Se questo che si è appena aperto è il Giubileo della speranza, vale certamente la pena, nell’ambito di Feminism8, ricordare le parole di Marìa Zambrano che, nel saggio “I beati”, definisce la speranza come “un ponte tra l’indifferenza che confina con l’annichilimento della persona umana e la piena attualizzazione della sua finalità”. Nel segno di questa suggestione il titolo di Feminism8 è, infatti, Pratiche politiche di vite interiori. Si tratta, quindi, di una rivisitazione laica, militante e in una prospettiva di genere del richiamo alla spiritualità e all’ umanesimo cui il Giubileo sprona in ottica religiosa. Troppo spesso silenziata dalla conflittualità o dall’indifferenza, troppe volte riassorbita nelle religioni confessionali, la vita interiore si declina in molteplici sfumature e diramazioni, dalla fede alla meditazione, all’ autocoscienza, alla militanza, sfuggendo perciò a ogni riduttiva catalogazione.
Questi i numeri dell’ottava edizione: 6 dialoghi che affrontano questioni di rilievo, dalle dimensioni della spiritualità alle nuove sfide poste all’informazione, passando per le relazioni tra corpo, affetti e logiche di mercato, percorsi di consapevolezza nei luoghi del conflitto e il desiderio di vivere in pace all’interno di culture diverse; 2 focus incentrati rispettivamente sulle dinamiche dell’autocoscienza e sull’ecologia; 4 dediche a donne particolarmente significative del panorama culturale quali Luce d’Eramo, Marija Gimbutas, Susan Sontag, Adriana Zarri; molte le presentazioni di iniziative culturali, di testi narrativi, poetici, saggistici e un’intera giornata -lunedì 3 marzo- rivolta alla scuola; numerose le presentazioni singole su proposta delle 66 case editrici presenti.
Promossa da Archivia, dalla Casa internazionale delle donne, dalla rivista Leggendaria, dalla collana sessismo&razzismo di Futura editrice, la manifestazione ha il sostegno di ADEI -associazione degli editori indipendenti- della SIL- società italiana delle letterate-, della Fondazione Una Nessuna Centomila, del Concorso Nazionale Lingua Madre, della casa editrice Iacobelli e si avvale della collaborazione del Centro giovani del I Municipio, delle associazioni Zalib e CCO, Crisi come opportunità, e coinvolgerà, anche quest’anno, ragazze e ragazzi dei collettivi studenteschi capitolini.
Articolo 21, liberi di… è un’associazione nata il 27 febbraio 2002 che riunisce esponenti del mondo della comunicazione, della cultura e dello spettacolo; giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome).
Dalla storia delle idee filosofiche a quella del movimento femminista, dalla storia del pacifismo a quella dei media, dalla storia della psicoterapia a quella della scienza. Ricostruire con voci e prospettive diverse la storia è un lavoro che ancora ci appassiona moltissimo: ma mai, come in questa edizione di Feminism, è diventato uno snodo cruciale il modo con cui queste riscritture e risignificazioni possono trasmettersi e elaborarsi insieme alle nuove generazioni di donne. “Passaggio di consegne” è l’eloquente titolo del libro della sociologa Marina Piazza edito da Enciclopedia delle Donne in cui si affrontano, con sguardo rivolto al futuro, le questioni più rilevanti del presente; e la stessa casa editrice propone “Fuori la guerra dalla storia”, a cura della direttora di “Marea” Monica Lanfranco, una raccolta di articoli firmati dall’antesignana del pacifismo Lidia Menapace, la prima a “porre l’attenzione al linguaggio sul doppio versante dell’antimilitarismo e dell’antisessismo”. Altre figure si affiancano alla sua, a comporre una genealogia di donne d’intelletto e d’azione capaci di filtrare attraverso diverse generazioni. Come Adrienne Rich, la filosofa che ha dato voce a chi era fuori dalla Storia, al centro del libro “Adrienne
Rich: passione e politica” curato da Rita Monticelli, Samanta Picciaiola, Maria Luisa Vezzali e Anna Zani, per Vita Activa Nuova Editrice. Come Carla Lonzi, di cui la filosofa Annarosa Buttarelli riprende una delle espressioni tipiche, “Ti darei un bacio”, per il titolo di un libro edito da Moretti e Vitali che raccoglie testi di filosofe, letterate, psicoanaliste sulle idee e sull’opera ancora così stimolanti di questa geniale femminista e critica d’arte. Come Bianca Pomeranzi, che nel libro “Femministe di un unico mondo” uscito postumo da Fandango a cura di Carla Cotti, racconta quello ch’è stato l’asse portante della sua vita, ovvero l’impegno intellettuale e politico, all’interno e al di là delle istituzioni, per il movimento femminista globale. Come Maria Occhipinti, l’iniziatrice nel 1945 della rivolta antimilitarista “Non si parte” a cui Gisella Modica e Serena Todesco hanno dedicato il volume collettaneo “Maria Occhipinti: i luoghi, le voci, la memoria”, in un necessario
avvicinamento delle sue idee e delle sue istanze al nostro presente. E ancora, come Lynn Hoffman, per la prima volta pubblicata in Italia da FrancoAngeli grazie alla traduzione e alla cura delle psicoterapeute Maria Laura Vittori, Rita Accettura e Monica Micheli, che in “Terapia familiare. Una storia intima” racconta con un linguaggio avvincente il suo percorso nell’ambito della terapia familiare e l’approdo a una posizione che lei stessa, in riferimento a Carol Gilligan, definisce “una voce differente”. In “Il cammino di Sofia” e “Le madri di idee. Le donne scienziate e il Premio Nobel” ,entrambi editi da Nemapress, la filosofa Francesca Brezzi e la matematica Elisabetta Strickland ci consegnano rispettivamente i ritratti di filosofe significative ma ancora poco o non del tutto conosciute, e i profili biografico-professionali delle scienziate a cui è stato attribuito il Premio Nobel; mentre nella raccolta di saggi “Donne nella storia dei media. Autrici, artiste, influencer tra ribalta e retroscena” edito da FrancoAngeli con la cura di Anna Lucia Natale e Paola Panarese, si evidenzia l’apporto creativo delle donne all’evoluzione dei linguaggi comunicativi e dell’industria dei media. Raccontano cambiamenti in atto, anche se in territori molto diversi, Rosella Prezzo e Paola Cavallari: prendendo in prestito il titolo a un’espressione di Gertrude Stein, la filosofa Rosella
Prezzo in “Guerre che ho (solo) visto”, edito da Moretti e Vitali, indaga sulle trasformazioni che le guerre e i suoi soggetti-armati o inermi-hanno assunto nel corso del tempo; nel saggio “Lilith se ne va. Femminismo, spiritualità e passione politica” pubblicato da Vanda Edizioni, la teologa Paola Cavallari rivisita criticamente l’indagine religiosa alla luce del movimento femminista. Si legge come un romanzo la documentata ricostruzione storica che Simona Feci, docente di storia delle donne, offre in “L’acquetta di Giulia”, edito da Viella: uno spaccato della Roma del Seicento visto attraverso quelle donne che ricorrevano al veleno per liberarsi dalle violenze coniugali. Cruciale, come si diceva, il tema della trasmissione dei saperi e delle pratiche del femminismo, ed ecco allora l’importanza di una rivista storica come “Mezzocielo”,fondata nel 1991 a Palermo da Simona Mafai, Letizia Battaglia e Rosanna Pirajno, che dalle sue radici trova sempre nutrimento per affrontare le battaglie del presente; e di un libro come “Cronario. Parole mutate mutanti” curato per le edizioni Vanda da Luciana Percovich che raccoglie le voci di coloro che hanno vissuto l’avventura della liberazione delle donne e la raccontano a chi ancora non c’era. È nel territorio della formazione scolastica che si attesta il saggio “Dietro la cattedra, sotto il banco” pubblicato da Prospero editore in cui Lea Melandri e le Cattive Maestre nel corso di un dialogo intergenerazionale riflettono sul ruolo che possono giocare le teorie e le pratiche femministe all’interno della scuola. Non è mai troppo presto per iniziare a sentire voci nuove: è alle bambine e ai bambini che si rivolge la casa editrice Settenove con due graphic novel: “Sconfinate” firmato dalla giornalista Cristina Pujol Buhigas e dall’illustratrice Rena Ortega, il racconto di viaggi di scoperta e di esplorazione compiuti da donne, e “L’età moderna. Altri sguardi, nuovi racconti” che,
attraverso i testi di Simona Feci e Marina Garbellotti e le illustrazioni di Caterina Di Paolo, racconta, oltre a storie di regine e di rivoluzionarie, anche i viaggi forzati che costrinsero donne e ragazze a lasciare le proprie terre in condizioni di schiavitù: l’altra faccia della storia di cui poco si parla, ma che è necessario conoscere. Così la storia dei corpi di intreccia a quello del pensiero nelle sue pluralità, nelll’ inclusione delle alterità e delle diversità, come sottolinea la madrina dell’’ VIII edizione di Feminism, la scrittrice Premio Campiello Giulia Caminito, attesa per presentare il suo ultimo lavoro Il male che non c’ è (Bompiani 2024): “ Niente come una fiera dell’editoria delle donne può servire a ragionare sulla forza e la debolezza dei nostri corpi in tempi dolorosi di troppa performatività. Solo le nostre maniere pensose di resistere posso creare nuovi spazi e accogliere ogni soggettività”.
Articolo 21, liberi di…è un’associazione nata il 27 febbraio 2002 che riunisce esponenti del mondo della comunicazione, della cultura e dello spettacolo; giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome).
NAWAL AL SAADAWI LA PRIMA VERA FEMMINISTA DEL MONDO ARABO
-Vanilla Magazine Club-
NAWAL AL SAADAWI è stat definita la Simone de Beauvoir del mondo arabo Nawal lottò per tutta la vita per i diritti delle donne, si definiva socialista femminista e non comunista perché Marx non le piaceva, ma non la politica quanto tutte le religioni interpretate dagli uomini hanno sempre relegato la donna a una posizione subordinata arrivando fino alla barbarie.
Nawal al Saadawi era nata il 27 ottobre 1931 a Kafr Tahla, un villaggio a nord del Cairo. La famiglia era benestante nonostante i 9 figli, il padre era un funzionario governativo piuttosto progressista, grande oppositore di Re Farouk e dell’occupazione inglese, la madre Zaynab una donna forte che avrebbe voluto studiare musica ma non le fu concesso e venne ritirata dalla scuola per farla sposare. Entrambi i genitori erano affettuosi e fautori della libertà individuale eppure a soli 6 anni Nawal subì la mutilazione genitale.
Nawal scrisse che stesa nel bagno di casa con 4 donne che le tenevano braccia e gambe aperte, “mi avevano tagliato qualcosa fra le cosce”, un trauma che restò sempre il primo pensiero della sua battaglia.
La barbara tradizione della mutilazione è pre islamica e in alcuni paesi musulmani, come l’Iran per esempio, non è mai stata praticata mentre è invece diffusissima in Africa anche fra i cristiani copti e il 98% delle donne somale e più del 90% delle donne egiziane l’hanno subita spesso nella forma peggiore, la mutilazione “faraonica” (che noi chiamiamo infibulazione) che prevede il taglio del clitoride, delle piccole e grandi labbra e la cucitura della vulva che viene riaperta dallo sposo dopo il matrimonio. Molte mummie egiziane la presentano, dimostrazione della diffusione da tempi antichissimi prima dell’arrivo dell’Islam. Nonostante sia ora vietata in alcune nazioni, la tradizione ancora resiste
Nawal era religiosa ma ribelle e scriveva ad Allah ponendogli domande, ad esempio perché la nascita di un maschietto venisse festeggiata da tutto il villaggio mentre quella di una femmina passasse nel silenzio più assoluto o perché le neonate venissero spesso sotterrate nei tempi passati come raccontavano gli anziani, o perché venissero mutilate.
“il mio dubbio riguardava ebraismo, cristianesimo e islam, fin da quando ero alle scuole elementari con le mie amiche leggevamo i tre libri sacri, l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Sebbene fossimo giovanissime, quei libri non ci convincevano, sentivamo che lì le donne venivano disprezzate”.
A soli 10 anni Nawal si oppose al matrimonio combinato volendo continuare gli studi e nel villaggio era guardata con astio per il suo rifiuto della tradizione, solo la madre la sosteneva e, non potendolo esprimere apertamente, le parole di incoraggiamento gliele diceva in un orecchio.
Nawal voleva fermamente diventare medico e scrittrice e alla fine il padre cedette e Shatra, ovvero intelligente, come veniva chiamata in famiglia, fu iscritta alla scuola media al Cairo, poi alle superiori in collegio a Helwan e infine all’Università di Giza dove si laureò in medicina nel 1955 con il massimo dei voti e specializzandosi poi in psichiatria.
Già alle superiori Nawal aveva cominciato a organizzare spettacoli con il suo Teatro delle Libertà, a scrivere e a partecipare, unica donna in mezzo agli uomini, a manifestazioni politiche.
Dopo la laurea iniziò ad esercitare nel villaggio natale affrontando i risvolti psicologici delle violenze fisiche sulle donne e delle mutilazioni, parlando di aborto e di sessualità femminile ma presto venne richiamata al Cairo e assunta all’Università.
Nei suoi libri racconta che spesso le venivano portate ragazze subito dopo la prima notte di matrimonio se non avevano perso sangue e lei mentiva confermandone la verginità per salvarne la stessa vita.
Nel 1955 sposò il suo primo marito, il medico Ahmed Helmi dal quale ebbe una figlia e in seguito un altro medico, Rashad Bey, ma entrambi i matrimoni finirono col divorzio perché i mariti volevano imporle di smettere di scrivere e esercitare sostenendo che le sue idee danneggiavano la loro carriera.
Nel 1958 Nawal venne assunta al Ministero della Sanità Pubblica diventando nel 1966 direttore del reparto di Educazione Sanitaria ma le sue idee e i suoi scritti creavano imbarazzo, nel 1969 pubblicò il libro “Donne e sesso” dove denunciava la mutilazione femminile, il rapporto fra onore e verginità, la discriminazione della donna. Il libro venne censurato e le costò il posto di lavoro al Ministero nel 1972.
Nawal non mollò, continuò a scrivere, nel 1964 aveva sposato il suo terzo marito Sherif Hetata, un medico conosciuto al ministero che era stato imprigionato per le sue idee politiche e che appoggiava la lotta per la libertà femminile. Da lui ebbe un figlio.
Il suo giornale medico “Salute” da lei fondato nel 1968 venne chiuso e a causa dei suoi scritti Nawal perse anche il posto di segretario dell’Associazione Medica, dal 1973 al 1976 fu ricercatrice alla facoltà di Medicina dall’Università Ayn Shams del Cairo affrontando il problema delle nevrosi femminili.
Nel 1975 pubblicò “Firdaus, storia di una donna egiziana” una prostituta condannata a morte per aver ucciso un violento che la schiavizzava, e nel 1977 “La faccia nascosta di Eva” dove raccontava, fra l’altro, i dettagli della sua mutilazione.
Dal 1979 al 1980 fu consulente dell’ONU per il programma delle donne in Africa e Medio Oriente
A causa delle sue prese di posizione contro Sadat nel 1981 Nawal venne arrestata e rimase in carcere due mesi fino all’uccisione del presidente in ottobre. Privata di carta e penna, in cella scrisse su un rotolo di carta igienica con la matita Kajal “Memorie dalla prigione femminile” e poco dopo la liberazione, nel 1982, fondò l’Associazione di Solidarietà delle Donne Arabe che fu dichiarata fuori legge e chiusa dal governo nel 1991. Nawal rientrò in carcere per pochi mesi e nel 1992 fu inserita nella Lista nera dei fondamentalisti islamici con la condanna a morte che la costrinsero a scappare e rifugiarsi prima in Olanda e poi negli Stati Uniti dove il marito tradusse in inglese i suoi libri dandole fama mondiale mentre lei ottenne una cattedra alla Duke University di Durham (Carolina del nord) e fu invitata a conferenze nelle più prestigiose università americane.
La coppia rientrò in Egitto nel 1996 ma le cose non erano cambiate. Nawal venne più volte accusata di apostasia e eresia, nel 2002 andò a processo e vinse la causa contro un avvocato islamico che voleva imporle in divorzio in quanto aveva abbandonato l’Islam, nel 2007 venne di nuovo denunciata per apostasia insieme a sua figlia Mona dall’Università Al Azhar per il suo libro “Dio si dimette dall’incontro al vertice”e vinse anche questa volta ma il suo libro venne accolto malissimo in Egitto e si tentò di levarle la nazionalità.
Nawal fu co-fondatrice dell’Associazione Araba per i Diritti Umani e ricevette innumerevoli i premi in occidente per la sua opera ma era delusa dall’atteggiamento indifferente delle giovani donne che non consideravano quanto fossero costati alle sua generazione le conquiste delle quali ora le giovani possono godere. Inoltre, polemicamente, sosteneva che se il velo islamico era segno di oppressione, lo sfruttamento del corpo femminile in occidente lo era altrettanto e criticava il trucco eccessivo, l’abbigliamento troppo ridotto delle donne, la chirurgia estetica, tutto a beneficio degli uomini quindi le due facce della stessa moneta ovvero donne come oggetti sessuali, facendo infuriare le femministe occidentali che li considerano invece libertà.
Dal 2008 l’Egitto la mutilazione genitale femminile è diventata reato punibile col carcere o una pena pecuniaria, anche se la piccola postilla “salvo necessità medica” permette ancora di trovare una scappatoia. Per quanto nelle città sia decisamente scesa nelle campagne continua ad essere presente e nel 2014 il 92% delle donne fra i 15 e i 49 anni l’aveva subita. Sempre nello stesso anno l’età minima per il matrimonio è stata portata a 18 anni e le donne single possono riconoscere i figli col proprio cognome.
La strada della parità è ancora lunga ma per Nawal è stato un grande successo anche se molti suoi libri sono tuttora spesso banditi in Egitto e nei paesi islamici.
Nel 2010 divorziò dal marito e gli ultimi anni li visse in un piccolo appartamento al Cairo con problemi economici avendo difficoltà ad incassare i diritti dei suoi circa 50 libri tradotti in quasi tutto il mondo.
A 80 anni nel 2011 era in piazza Tahrir a manifestare con le femministe e nel 2020 la rivista Time la inserì nelle 100 donne più importanti del ‘900.
Nawal morì il 21 marzo 2021 in ospedale al Cairo dopo una breve malattia.
“Il pericolo ha fatto parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna e ho scritto. Niente è più pericoloso della verità in un mondo che mente.”
Fonte -Vanilla Magazine Club
Nawal al SaadawiNawal al SaadawiNawal al SaadawiNawal al SaadawiNawal al SaadawiNawal al Saadawi
Natalia Ginzburg -Vita immaginaria –Nuova edizione a cura di Domenico Scarpa
Tutto ciò che Natalia Ginzburg evoca e descrive succede in noi come per la prima volta: Vita immaginaria è un libro di sveglia e di veglia, una prima volta che dura per sempre.
Il libro-Il meno conosciuto fra i libri di Natalia Ginzburg – la sua terza raccolta di scritti non narrativi, apparsa nel 1974 e mai piú ristampata finora – è anche il piú multiforme di tutti, e il piú pervicacemente battagliero. A dargli il titolo è un memorabile esercizio di autobiografia, collocato in chiusura; ma quel titolo cosí assorto e sfumante, Vita immaginaria, è anche un titolo da interpretare a rovescio: perché, di fatto, in ciascuno dei trenta testi qui radunati Natalia Ginzburg interviene, con la esitante perentorietà che rende unica la sua voce, sulla vita reale dell’oggi, di un oggi che porta date di mezzo secolo fa ma sul quale ascolteremo cose che valgono per il nostro qui-e-ora, cosí diversamente complesso ma cosí simile nelle opzioni estetiche, nelle scelte morali, nei tragici dilemmi politici che impone a ciascuno di noi.
Natalia Ginzburg
La condizione delle donne negli anni del femminismo, e quella degli ebrei e dello Stato di Israele; la bellezza e l’orrore di Roma, e la fragilità di una democrazia (la nostra) sempre sotto minaccia; alcuni scrittori da amare (Goffredo Parise, Antonio Delfini, Biagio Marin, Tonino Guerra, Italo Calvino, Lalla Romano, Elizabeth Smart, ed Elsa Morante della Storia sopra tutti); alcuni film (Sussurri e grida, Amarcord, Domenica maledetta domenica) visti con l’occhio di scrittrice; le biografie di alcuni amici (Cesare Pavese, Felice Balbo); e poi, ancora, la nostra incertezza e la nostra necessità di scegliere; la memoria dell’infanzia, da decifrare, e la vita dei figli adulti, che suscita meraviglia e insicurezza. Infine, sempre presenti, quel senso di soddisfazione che ci può addormentare, le varie specie di linguaggio falso che vanno sempre piú proliferando, la libertà che si può perdere da un momento all’altro e gli orrori della storia contemporanea ai quali ci si abitua a poco a poco, senza rendersene conto, ed è su questo vertice negativo che culmina il tutto. Non per niente, infatti, Natalia Ginzburg aveva pensato, mentre andava costruendo Vita immaginaria, di scegliere un titolo completamente diverso: Il disumano.
Natalia Levi nacque il 14 luglio del 1916 a Palermo, figlia di Giuseppe Levi, illustre scienziato triestinoebreo, e di Lidia Tanzi, milanesecattolica, sorella di Drusilla Tanzi. Il padre era professore universitario antifascista e insieme ai tre fratelli di lei sarà imprigionato e processato con l’accusa di antifascismo. I genitori diedero a Natalia e ai fratelli un’educazione atea.
Formazione e attività letteraria
Natalia trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Torino. Della sua prima giovinezza raccontò lei stessa in alcuni testi autobiografici pubblicati soprattutto in età avanzata, fra cui I baffi bianchi (in Mai devi domandarmi, 1970). Compì gli studi elementari privatamente, trascorrendo quindi in solitudine la sua infanzia; sin dalla tenera età si dedicò alla scrittura di poesie. Si iscrisse poi al Liceo – Ginnasio Vittorio Alfieri,[2] vivendo come un trauma il passaggio alla scuola pubblica. Già nel periodo liceale si dedicò alla stesura di racconti e testi brevi, primo fra tutti Un’assenza (la sua «prima cosa seria»), poi pubblicato sulla rivista Letteratura negli anni Trenta. Abbandonò invece la poesia; a tredici anni aveva fra l’altro spedito alcuni suoi componimenti a Benedetto Croce, che espresse un giudizio negativo su di essi.[3]
Esordì nel 1933 con il suo primo racconto, I bambini, pubblicato dalla rivista “Solaria“, e nel 1938 sposò Leone Ginzburg, col cui cognome firmerà in seguito tutte le proprie opere. Dalla loro unione nacquero due figli e una figlia: Carlo (Torino, 15 aprile 1939), che diverrà un noto storico e saggista, Andrea (Torino, 9 aprile 1940 – Bologna, 4 marzo 2018) e Alessandra (Pizzoli, 20 marzo 1943). In quegli anni strinse legami con i maggiori rappresentanti dell’antifascismo torinese e in particolare con gli intellettuali della casa editrice Einaudi della quale il marito, docente universitario di letteratura russa, era collaboratore dal 1933.
Nel 1940 seguì il marito, inviato al confino per motivi politici e razziali, a Pizzoli in Abruzzo, dove rimase fino al 1943.
Nel 1942 scrisse e pubblicò, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, il primo romanzo, dal titolo La strada che va in città, che verrà ristampato nel 1945 con il nome dell’autrice.
In seguito alla morte del marito, torturato e ucciso nel febbraio del 1944 nel carcere romano di Regina Coeli, nell’ottobre dello stesso anno Natalia giunse a Roma, da poco liberata, e si impiegò presso la sede capitolina della casa editrice Einaudi. Nell’autunno del 1945 ritornò a Torino, dove rientrarono anche i suoi genitori e i tre figli, che durante i mesi dell’occupazione tedesca si erano rifugiati in Toscana.
Nel 1947 esce il suo secondo romanzo È stato così che vince il premio letterario “Tempo”.
In quello stesso periodo, come ha rivelato Primo Levi a Ferdinando Camon in una lunga conversazione diventata un libro nel 1987 e poi lo stesso Giulio Einaudi in una intervista televisiva, diede parere negativo alla pubblicazione di Se questo è un uomo di Primo Levi. Il libro uscirà per una piccola casa editrice, la De Silva di Franco Antonicelli, in 2500 copie, e solo nel 1958 verrà riproposto da Einaudi diventando il grande classico che conosciamo.
Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra, con il quale concepirà la figlia Susanna (4 settembre 1954 – 15 luglio 2002) e il figlio Antonio (6 gennaio 1959 – 3 marzo 1960), entrambi portatori di handicap. Iniziò per Natalia un periodo ricco in termini di produzione letteraria, che si rivelò prevalentemente orientata sui temi della memoria e dell’indagine psicologica. Nel 1952 pubblicò Tutti i nostri ieri; nel 1957 il volume di racconti lunghi, Valentino, che vinse il premio Viareggio,[4] e il romanzo Sagittario; nel 1961Le voci della sera che, insieme al romanzo d’esordio, verrà successivamente raccolto nel 1964 nel volume Cinque romanzi brevi.
Nel decennio successivo seguirono, nella narrativa, i volumi Mai devi domandarmi del 1970 e Vita immaginaria del 1974. In questo periodo Natalia Ginzburg fu anche collaboratrice assidua del Corriere della Sera, che pubblicò numerosi suoi elzeviri su argomenti di critica letteraria, cultura, teatro e spettacolo. Tra questi, una sua lettura critica, con uno sguardo al femminile, del film Sussurri e grida[6] ottenne un forte riscontro nel panorama letterario e culturale nazionale, divenendo un punto di riferimento per la critica bergmaniana.[7]
Nella successiva produzione la scrittrice, che si era rivelata anche fine traduttrice con La strada di Swann di Proust, ripropose in modo più approfondito i temi del microcosmo familiare con il romanzo Caro Michele del 1973, il racconto Famiglia del 1977, il romanzo epistolare La città e la casa del 1984, oltre al volume del 1983 La famiglia Manzoni, visto in una prospettiva saggistica.
È l’anno 1969 a costituire un punto di svolta nella vita della scrittrice: il secondo marito morì e, mentre cominciava in Italia, con la strage di piazza Fontana, il periodo cosiddetto della strategia della tensione, la Ginzburg intensificò il proprio impegno dedicandosi sempre più attivamente alla vita politica e culturale del Paese,[8] in sintonia con la maggioranza degli intellettuali italiani militanti orientati verso posizioni di sinistra.
Nel 1971 sottoscrisse, assieme a numerosi intellettuali, autori, artisti e registi,[9] la lettera aperta a L’Espresso sul caso Pinelli,[10] documento attraverso cui si denunciano, riguardo alla morte di Giuseppe Pinelli, le presunte responsabilità dei funzionari di polizia della questura di Milano (con particolare riferimento al commissario Luigi Calabresi). Tale adesione verrà più volte ricordata dalla stampa in seguito al matrimonio della nipote della Ginzburg, Caterina, con Mario Calabresi, figlio del commissario nel frattempo assassinato. Nello stesso anno si unì ai firmatari di un’autodenuncia di solidarietà verso alcuni giornalisti di Lotta Continua accusati di istigazione alla violenza.[11]
Nel 1976 partecipò alla campagna innocentista in favore di Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono,[12] i due militanti di Potere Operaio che saranno poi condannati per i reati a loro imputati (tra cui l’omicidio dello studente nazionalista greco Mikis Mantakas).
Il 25 marzo 1988 scrisse per L’Unità un articolo divenuto famoso, dal titolo: Quella croce rappresenta tutti,[13] difendendo la presenza del simbolo religioso nelle scuole e opponendosi alle contestazioni di quegli anni.
Morte
Morì a Roma nelle prime ore dell’8 ottobre 1991. È sepolta al cimitero del Verano di Roma.
Opere
Raccolte
Cinque romanzi brevi, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1964 (contiene: La strada che va in città; È stato così; Valentino; Sagittario; Le voci della sera); col titolo Cinque romanzi brevi e altri racconti, Introduzione di Cesare Garboli, Collana ET, Einaudi, 1993; Collana ET Scrittori, Einaudi, 2005.
Opere, vol. I, Prefazione di C. Garboli, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1986, ISBN 978-88-042-5910-7. [contiene: La strada che va in città, È stato così, Racconti brevi, Valentino, Tutti i nostri ieri, Sagittario, Le voci della sera, Le piccole virtù, Lessico Famigliare, Commedie]
Opere, vol. II, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1987, ISBN 978-88-042-5910-7. [contiene: Mai devi domandarmi, Paese di mare, Caro Michele, Vita immaginaria, La famiglia Manzoni, Scritti sparsi, La città e la casa, Famiglia]
Marcel Proust, poeta della memoria, in Giansiro Ferrata e Natalia Ginzburg, Romanzi del ‘900, vol. I, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1956.
Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962; nuova ed., a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, 2005.
Mai devi domandarmi, Garzanti, Milano, 1970; poi Einaudi, Torino, 1989; dal 2002 con introduzione di Cesare Garboli [raccoglie articoli pubblicati su La Stampa e Corriere della Sera negli anni 1968-1970, con alcuni scritti inediti]
Vita immaginaria, Collana Scrittori italiani e stranieri, Milano, Mondadori, 1974; nuova ed., a cura di Domenico Scarpa, Collana Super ET, Torino, Einaudi, 2021, ISBN 978-88-062-0546-1. [raccoglie articoli pubblicati su La Stampa e Corriere della sera negli anni 1969-1974, con un inedito]
Serena Cruz o la vera giustizia, Einaudi, Torino, 1990.
È difficile parlare di sé. Conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi, a cura di Cesare Garboli e Lisa Ginzburg, Einaudi, Torino 1999. [contiene un’intervista autobiografica andata in onda a Radio 3 nella primavera del 1991]
Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino, 2001. [raccoglie scritti di letteratura e di cinema, ricordi di amici scomparsi, pronunciamenti su questioni morali, interventi politici e una Autobiografia in terza persona]
Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2016. [contiene, tra le altre cose, alcuni reportage giornalistici, la poesia Memoria e il Discorso sulle donne]
Teatro
Ti ho sposato per allegria, Torino, Einaudi, 1966.
Ti ho sposato per allegria e altre commedie, Torino, Einaudi, 1968 [contiene: Ti ho sposato per allegria; L’inserzione; Fragola e panna; La segretaria]
Paese di mare e altre commedie, Milano, Garzanti, 1971 [contiene: Dialogo; Paese di mare; La porta sbagliata; La parrucca]
Teatro, Nota di Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1990 [contiene i testi della raccolta Paese di mare e altre commedie preceduti da L’intervista e La poltrona]
Tutto il teatro, a cura di Domenico Scarpa, Nota di N. Ginzburg, Torino, Einaudi, 2005. [contiene i testi delle raccolte Ti ho sposato per allegria e altre commedie e Teatro, seguiti da Il cormorano]
Torino, Bologna e Castel Maggiore (BO), Pizzoli (AQ) le hanno intitolato una biblioteca.
Nel 2014, in occasione del XXIII anniversario della sua morte, la città di Torino ha posto sulla sua abitazione, al numero 11 di via Morgari, una lapide commemorativa, intitolandole, nel contempo, l’aiuola antistante, tra via Morgari e via Belfiore.
Nel 2016, per il centenario della sua nascita, la città di Palermo ha collocato una targa sulla sua casa natale, in via Libertà 101.
Natalia GinzburgLeone e Natalia GinzburgNatalia GinzburgNatalia Ginzburg
Brani scelti:Leonardo Sciascia – La mediocrità al potere-Brani scelti:, Il Globo, 24 luglio 1982.
Brani scelti: Leonardo Sciascia , Il Globo, 24 luglio 1982.Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.
In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.
In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia.
Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto l’8 gennaio 1921, da Pasquale (1887-1957) e Genoveffa Martorelli (1898-1979); è il primo di tre fratelli, Giuseppe (nato nel 1923) e Anna (nata nel 1926): suo padre, emigrato negli Stati Uniti a venticinque anni, era rientrato in Sicilia dopo la Grande Guerra e si era sposato nel marzo del 1920. Racalmuto è per Sciascia il luogo del precoce apprendistato culturale: nelle scuole elementari frequentate dal 1927, nella sartoria dello zio Salvatore, nel teatro gestito dallo zio Giuseppe e adibito a cinema, in casa con la madre, una sua sorella insegnante elementare e le tre zie paterne, e soprattutto fra i libri che riusciva a reperire, fossero essi I promessi sposi o I miserabili, oppure le Memorie di Casanova, i Libelli di Courier, il Paradosso sull’attor comico di Diderot, o anche libretti d’opera.
«Isola nell’isola, come ogni paese siciliano», Racalmuto era un grosso borgo (13.045 abitanti nel 1921) con un’economia basata sull’estrazione dello zolfo e del sale, a metà strada tra Agrigento (allora Girgenti) e Caltanissetta: due città emblematiche, per aver dato i natali a Luigi Pirandello la prima, per esser diventata nel 1937-38 la destinazione scolastica di Vitaliano Brancati l’altra. Le due città divennero i poli di una formazione che per il giovane Sciascia coincise con l’affrancamento da un «pirandellismo di natura» in cui si sentiva ingabbiato: «sono nato e vissuto in un’area avant la lettre pirandelliana», scrisse nel 1986, «la provincia di Girgenti era il territorio che Pirandello aveva scoperto ed esplorato: e io mi ci sono maledettamente intricato – con lo stupore, l’ansietà, la febbre dell’adolescenza – appena cominciato a leggerlo».
Sciascia si trasferisce a Caltanissetta con la famiglia nel 1935 e lì intraprende gli studi magistrali nella stessa scuola dove insegnava Brancati, con cui però non ebbe all’epoca rapporti diretti.
La guerra di Spagna aveva rimosso definitivamente quel poco di nazionalismo mussoliniano che gli si era sedimentato dentro («a scuola», si legge in LaSicilia come metafora, «quando il maestro parlava del fascismo e di Mussolini, un po’ di entusiasmo mi veniva») e lo porta su posizioni convintamente antifasciste: si avvicina così a coetanei aderenti al Partito comunista clandestino animato a Caltanissetta da Pompeo Colajanni, come Luigi (Gino) Cortese ed Emanuele Macaluso, e agli ambienti antifascisti cattolici.
Nel 1941 si iscrive alla Facoltà di Magistero di Messina, supera 17 esami, ma non si laurea. Nel frattempo, dopo un primo impiego al consorzio agrario di Racalmuto come addetto all’ammasso del grano, inizia a insegnare nella scuola elementare del suo paese, ed è nell’ambiente scolastico che conosce Maria Andronico, che sposa nel 1944 e da cui ha due figlie, Laura (1945) e Anna Maria (1946).
1947- 1978
Conosce bene per tradizione familiare la realtà delle zolfare, perché suo nonno da caruso era diventato amministratore di una miniera, suo padre era contabile in una zolfara. Tutto ciò, insieme con la storia e la vita di Racalmuto, confluisce in quello che lo scrittore riteneva essere il suo vero primo libro, Le parrocchie di Regalpetra, pubblicato da Laterza nel 1956. Da più di dieci anni Sciascia scriveva saggi e articoli, soprattutto di letteratura siciliana, in particolare di poesia, e opere originali: nel 1950 aveva pubblicato Le favole della dittatura, nel 1952 la raccolta poetica La Sicilia, il suo cuore, nel 1953 il saggio Pirandello e il pirandellismo, dove pubblica delle lettere inedite di Pirandello al critico Adriano Tilgher.
Fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta si afferma nel mondo delle lettere grazie ai libri pubblicati dall’editore Einaudi: i racconti de Gli zii di Sicilia (1958) e due romanzi, Il giorno della civetta (1961) e Il consiglio d’Egitto (1963). Nel corso degli anni Sessanta gli interessi e l’attività di Sciascia si diversificano e si ampliano, pur restando fedeli a un nucleo che ha il suo centro in Sicilia: scrive di letteratura, di storia, di arte, di politica, continuando a pubblicare romanzi (A ciascuno il suo esce nel 1966), racconti, pièces teatrali, persino documentari filmati.
Nell’agosto del 1967 si trasferisce a Palermo (passando comunque le estati in Contrada Noce, nei pressi di Racalmuto, dove stende tutti i suoi libri), e da lì osserva le vicende che alla fine del decennio cambiarono profondamente la società. I riflessi sulla sua letteratura sono in un primo tempo mediati: la repressione sovietica della Primavera di Praga gli ispira una pièce teatrale su un episodio di storia siciliana del XVIII secolo, la Recitazione della controversia liparitana (dedicata a A. D.), ovvero a Alexander Dubček, il leader della Primavera di Praga. Ma già dai primi anni Settanta Sciascia scrive libri come Il contesto. Una parodia (1971) e Todo modo (1974) che affrontano tematiche d’attualità non più legate esclusivamente alla Sicilia, anticipando fenomeni politici e sociali e prefigurando eventi drammatici.
Il contesto genera forti polemiche con parte della sinistra italiana, ma ciò nonostante Sciascia prima partecipa accanto ai comunisti alla campagna referendaria in difesa della legge sull’aborto (1974), poi, l’anno successivo, si candida e viene eletto al Consiglio comunale di Palermo, come indipendente nelle liste del PCI. Dimessosi polemicamente dopo due anni (il romanzo del 1977 Candido. Un sogno fatto in Sicilia è in sostanza il racconto di quella delusione), Sciascia è protagonista di polemiche soprattutto ma non solo politiche, trovandosi a discutere con esponenti del mondo scientifico dopo la pubblicazione de La scomparsa di Majorana nel 1975.
Ma il culmine polemico viene raggiunto nel 1978 in occasione del rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e del pamphlet che scrive a ridosso dell’evento, L’affaire Moro. Un evento determinante nella decisione di candidarsi alle elezioni europee e politiche del 1979 nelle liste del Partito Radicale, e che avrebbe segnato la sua attività parlamentare.
1980 – 1989
Le opere dei primi anni Ottanta (Il teatro della memoria del 1981, in cui ripercorre la storia dello smemorato di Collegno; La sentenza memorabile del 1982, un commento al capitolo «Degli zoppi» degli Essais di Montaigne; Kermesse del 1982, una raccolta di detti popolari della sua Racalmuto, che costuisce il nucleo di Occhio di capra, apparso due anni dopo) sono appunto una sorta di ‘vacanza’ da quell’impegno per certi versi poco congeniale allo scrittore. Sono gli anni del suo impegno alla casa editrice Sellerio, di cui orienta molte scelte.
Approdato ormai alla grande stampa nazionale – scrive su «La Stampa», «Il Corriere della Sera», «L’Espresso», pur senza abbandonare «L’Ora» e «Il Giornale di Sicilia» e altre testate –, sforna numerosi articoli di letteratura, storia e arte, che confluiscono nel 1983 in Cruciverba, terza raccolta di saggi, ormai di respiro europeo, dopo le raccolte siciliane Pirandello e la Sicilia (1961) e La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (1970). E interviene su temi di scottante attualità, come mafia e terrorismo, e sui problemi e le distorsioni della giustizia: A futura memoria (se la memoria ha un futuro) raccoglie nel 1989 gli scritti più significativi. Quell’anno torna a occuparsi del suo padre letterario con Alfabeto pirandelliano, pubblicato da Adelphi, che da tre anni era diventata la sua casa editrice, e raccoglie da Sellerio gli ultimi saggi su temi culturali in Fatti diversi di storia letteraria e civile.
Negli ultimi anni, dopo tante inchieste e cronache, Sciascia torna alla narrazione: nel 1987 con Porte aperte, ispirato al giudice racalmutese Salvatore Petrone, poi con due veri e propri romanzi d’invenzione (o di fiction, se si preferisce) percorsi da allusioni autobiografiche: Il cavaliere e la morte (1988), che si può considerare lo splendido testamento letterario dello scrittore, e Una storia semplice, uscito pochi giorni prima della morte, che lo coglie a Palermo il 20 novembre 1989.
Sciascia aveva il culto della memoria. In vita fece almeno tre scelte volte a preservare la vitalità della sua produzione: disegnò con Claude Ambroise una raccolta di opere pubblicata da Bompiani tra 1987 e 1991, affidò ad Adelphi la gestione dei singoli libri (dal 1986 a oggi tutti disponibili nel catalogo della casa editrice, insieme con una nuova raccolta delle opere, e varie sillogi di scritti dispersi) e mosse i primi passi formali per la creazione della Fondazione a lui intitolata nel suo amato paese natale, mai davvero lasciato.
La Sicilia, il suo cuore, con disegni di Emilio Greco, Bardi, Roma, 1952.
Pirandello e il pirandellismo. Con lettere inedite di Pirandello a Tilgher, Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1953.
Le parrocchie di Regalpetra, Laterza, Bari, 1956; seconda ed. ampliata, Laterza, Bari, 1963; poi, insieme con Morte dell’inquisitore, Laterza, Bari, 1967, pp. 9-158.
Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino, 1958; seconda ed., Einaudi, Torino, 1960.
Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1961.
Morte dell’inquisitore, Laterza, Bari, 1964; seconda ed., insieme con Le parrocchie di Regalpetra, Laterza, Bari, 1967, pp. 159-233.
L’onorevole, Einaudi, Torino, 1965.
Feste religiose in Sicilia, Fotografie di Ferdinando Scianna, Bari, Leonardo da Vinci Editrice, 1965, pp. 9-35 (poi in La corda pazza, 1970).
A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966.
Racconti siciliani, Istituto Statale d’Arte per la decorazione e la illustrazione del libro, Urbino, 1966 (poi in Il mare colore del vino, 1973, tranne Arrivano i nostri, incluso in Il fuoco nel mare, 2010).
Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D., Einaudi, Torino, 1969.
La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Einaudi, Torino, 1970.
Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, Edizioni Esse, Palermo, 1971.
Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino, 1971.
Il mare colore del vino, Einaudi, Torino, 1973.
Todo modo, Einaudi, Torino, 1974.
La scomparsa di Majorana, Einaudi, Torino, 1975.
Il fuoco nel mare, Illustrazioni di Simon Sautier, Emme, Milano, 1975 (poi in Il fuoco nel mare, 2010).
Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia, Einaudi, Torino, 1977.
I Siciliani, Foto di Ferdinando Scianna, Testi di Dominique Fernandez e Leonardo Sciascia, Einaudi, Torino, 1977 (poi in Occhio di capra, 1984).
L’affaire Moro, Sellerio, Palermo, 1978; seconda ed. con la Relazione di minoranza presentata dal deputato Leonardo Sciascia, Sellerio, Palermo, 1983.
Dalle parti degli infedeli, Sellerio, Palermo, 1979.
Nero su nero, Einaudi, Torino, 1979.
Il teatro della memoria, Einaudi, Torino, 1981.
Leonardo Sciascia, La palma va a nord, a cura di Valter Vecellio, Quaderni Radicali, Roma, 1981; seconda ed., Gammalibri, Milano, 1982; poi parzialmente in Valter Vecellio, Saremo perduti senza la verità, La Vita Felice, Milano, 2003.
La sentenza memorabile, Sellerio, Palermo, 1982.
Cruciverba, Einaudi, Torino, 1983
Il volto sulla maschera. Mosjouskine – Mattia Pascal, Mondadori, Milano, 1980 (poi in Cruciverba, 1983).
Kermesse, Sellerio, Palermo, 1982 (poi in Occhio di capra, 1984).
Storia della povera Rosetta, Sciardelli, Milano, 1983 (poi in Cronachette, 1985).
Occhio di capra, Einaudi, Torino, 1984.
Stendhal e la Sicilia, Sellerio, Palermo, 1984 (poi in Fatti diversi di storia letteraria e civile, 1989).
Per un ritratto dello scrittore da giovane, Sellerio, Palermo, 1985 (poi in Per un ritratto dello scrittore da giovane, 2000).
Cronachette, Sellerio, Palermo, 1985.
La strega e il capitano, Bompiani, Milano, 1986.
1912+1, Milano, Adelphi, 1986.
Ore di Spagna. Fotografie di Ferdinando Scianna e una nota di Natale Tedesco, Pungitopo, Marina di Patti, 1988.
Porte aperte, Adelphi, Milano, 1987.
Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano, 1988.
Il sale della terra, Fotografie di Ferdinando Scianna, a cura di Franco Sciardelli, Il Sole 24 Ore, Milano, 1989, pp. 5-7 (suppl. a «Il Sole 24 Ore», 16 aprile 1989).
Alfabeto pirandelliano, Adelphi, Milano, 1989.
Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo, 1989.
Una storia semplice, Adelphi, Milano, 1989.
A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano, 1989.
Curatele e traduzioni
Il fiore della poesia romanesca (Belli, Pascarella, Trilussa, Dell’Arco), antologia a cura di Leonardo Sciascia, premessa di Pier Paolo Pasolini, Salvatore Sciascia, Caltanissetta, 1952.
Gonzalo Alvarez, Isla del recuerdo (Isola del ricordo), a cura di Leonardo Sciascia, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, 1958.
Jaki (con 12 riproduzioni), a cura di Leonardo Sciascia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1965.
Manuel Azaña, La veglia a Benincarlò, traduzione di Leonardo Sciascia e Salvatore Girgenti, Einaudi, Torino, 1967.
Narratori di Sicilia, antologia a cura di Leonardo Sciascia e Salvatore Guglielmino, Mursia, Milano, 1967; seconda ed. a cura di Salvatore Gugliemino, Mursia, Milano, 1991.
La noia e l’offesa. Il fascismo e gli scrittori siciliani, [Ricerca antologica a cura di Elvira Giorgianni (ma in realtà a cura di Leonardo Sciascia)], Sellerio, Palermo, 1976; seconda ed., Sellerio, Palermo, 1991.
Acque di Sicilia, a cura di Leonardo Sciascia, fotografie di Lisetta Carmi, Dalmine, Bergamo, 1977 (poi in Cruciverba, 1983).
Alberto Savinio, Torre di guardia, a cura di Leonardo Sciascia, Con un saggio di Salvatore Battaglia, Sellerio, Palermo, 1977.
Delle cose di Sicilia. Testi inediti o rari, a cura di Leonardo Sciascia, Sellerio, Palermo, vol. I, 1980; vol. II, 1982; vol. III, 1984; vol. IV, 1986.
Omaggio a Pirandello, a cura di Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano, 1986 (Almanacco Bompiani 1987) (poi in Alfabeto pirandelliano, 1989).
Vitaliano Brancati, Opere (1932-1946), a cura di Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano, 1987 (introduzione inclusa in Per un ritratto dello scrittore da giovane, 2000).
Alla piacente, a cura di Leonardo Sciascia, contributi di Dario Del Corno, Pietro Gibellini e Leonardo Sciascia, Bompiani, Milano, 1988 (contributo incluso in Fatti diversi di storia letteraria e civile, 1989).
Alberto Savinio, Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, Bompiani, Milano, 1989 (introduzione inclusa in Per un ritratto dello scrittore da giovane, 2000).
Raccolte di testi postume
Ricordare Sciascia, a cura di Paolo Cilona. Con Note di Matteo Collura e Antonio Maria Di Fresco, Publisicula, Palermo, 1991.
Leonardo Sciascia, Quaderno, Introduzione di Vincenzo Consolo. Con una Nota di Mario Farinella, Nuova Editrice Meridionale, Palermo, 1991.
Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto. Scritti di Leonardo Sciascia sul giornale del suo paese, a cura di Salvatore Restivo, Editoriale «Malgrado Tutto», Racalmuto, 1991.
Sebastiano Gesù, Le maschere e i sogni. Scritti di Leonardo Sciascia sul cinema, Maimone, Catania, 1992.
Leonardo Sciascia, Per un ritratto dello scrittore da giovane, a cura di Maria Andronico Sciascia, Adelphi, Milano, 2000.
Giuseppe Giacovazzo, Sciascia in Puglia, Edisud, Bari, 2001.
Leonardo Sciascia, L’adorabile Stendhal, a cura di Maria Andronico Sciascia, con un saggio di Massimo Colesanti, Adelphi, Milano, 2003.
Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Sellerio, Palermo, 2003; seconda ed., con una Postfazione del curatore, 2019.
Storia d’una amicizia. Scritti di Leonardo Sciascia sull’opera di Bruno Caruso, Premessa di Antonio Di Grado. Postfazione di Antonio Motta, Kalós, Palermo, 2009.
Leonardo Sciascia, Il fuoco nel mare. Racconti dispersi (1947-1975), a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano, 2010.
Troppo poco pazzi. Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, a cura di Renato Martinoni, con dvd allegato, Olschki, Firenze, 2011.
Leonardo Sciascia e la Jugoslavia. «Racconto ai miei amici di Caltanissetta della Jugoslavia e di voi: con entusiasmo, con affetto», a cura di Ricciarda Ricorda, Olschki, Firenze, 2015.
Leonardo Sciascia, Fine del carabiniere a cavallo. Saggi letterari (1955-1989), a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano, 2016.
Leonardo Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano, 2018.
Raccolte di opere
Leonardo Sciascia, Opere, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano, vol. I: 1956-1971, 1987; vol. II: 1971-1983, 1989; vol. III: 1984-1989, 1991.
Leonardo Sciascia, Opere, a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano, vol. I: Narrativa – Teatro – Poesia, 2012; vol. II: Inquisizioni – Memorie – Saggi, tomo i: Inquisizioni e Memorie, 2014; tomo ii: Saggi letterari, storici e civili, 2019.
Restano esclusi dalle due raccolte di opere e dalle raccolte di testi (elencate al punto 3), numerosi scritti di carattere saggistico e pubblicistico: saggi letterari, storici e civili, interventi su quotidiani e periodici, recensioni, introduzioni, testi di accompagnamento a libri d’arte, cataloghi di mostre, risvolti e note editoriali, ecc. La produzione letteraria dispersa (racconti ed elzeviri, poesie e traduzioni poetiche, dialoghi e interviste impossibili) è invece inclusa nel volume I delle Opere Adelphi).
Interviste
Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, a cura Marcelle Padovani, Mondadori, Milano, 1979.
Leonardo Sciascia – Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa, Sperling & Kupfer, Milano, 1981.
Leonardo Sciascia, Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio, a cura di Michele Porzio, Mondadori, Milano, 1992.
Sciascia ha rilasciato inoltre numerose interviste pubblicate in quotidiani, periodici, volumi, solo in piccola parte raccolti in La palma va a nord, 1981.
Piero Calamandrei- Il fascismo come regime della menzogna Editori Laterza-Bari
Piero Calamandrei
Descrizione del libro di Piero Calamandrei-«Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d’occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c’è ancora il nostro specchio. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di Liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata.»
I capitoli inediti di un’opera di Piero Calamandrei: un bilancio del ventennio all’indomani della Liberazione, un inno alla libertà ritrovata, un’analisi a caldo del regime.
Il regime della menzogna costituzionale
Lo Stato legalitario è uno strumento di legalità che si presta alla politica di qualsiasi partito: il meccanismo formale con cui le leggi si creano e si applicano è come uno stampo vuoto, nel quale, attraverso un procedimento tecnico fissato una volta per sempre, si può colare qualsiasi metallo. Per arrivare attraverso questo meccanismo a fare approvare una legge che abolisca la proprietà privata non si deve seguire un procedimento formalmente diverso da quello che condurrebbe ad ottenere una legge che gelosamente la conservi: qua e là, basta che si formi nel libero voto delle opinioni e degli interessi una maggioranza in un senso o in un altro, perché il metodo legalitario possa servire ugualmente a trasformare in diritto l’ideale politico di quella maggioranza. Per questo nei programmi dei partiti di opposizione che operano nell’ambito dello Stato legalitario non c’è come necessaria premessa la riforma dei meccanismi costituzionali: attraverso i quali, se se ne accetta il metodo, ogni partito può arrivare a conquistar il governo col voto ed aver tradotti in leggi i propri postulati economici e sociali.
Ma ci sono altri partiti, ai quali più propriamente si adatta l’attributo di rivoluzionari, i quali prima che i problemi di sostanza, attinenti al contenuto del diritto, si pongono i problemi di forma, attinenti al modo di formularlo: i quali ritengono, cioè, che prima di passare alla risoluzione delle concrete questioni economiche e sociali, sia necessario stabilire un “ordine nuovo”, un nuovo metodo per creare le leggi destinate a risolverle. Tra questi partiti, per i quali la questione costituzionale attinente alla forma dello Stato si presenta al primo posto come premessa necessaria di ogni altra riforma di carattere più sostanziale, fu il fascismo: il quale, sia nel suo primo tumultuoso affacciarsi alla vita politica, sia più tardi nella dottrina formatasi dopo il suo trionfo (per non sbagliare, mi riferirò sempre, nel citare i capisaldi di questa dottrina, a fonti autentiche), è stato anzitutto negazione polemica dei metodi costituzionali dello Stato liberale e proposito o velleità di costruire, in luogo di questo, un nuovo meccanismo di legalità attraverso il quale la volontà dello Stato, cioè il diritto, potesse manifestarsi in maniera più genuina e più energica che non attraverso i logori ingranaggi della libertà, del suffragio popolare e della divisione dei poteri.
La iniziale perplessità del fascismo su tutti i problemi politici sostanziali, che passavano in seconda linea di fronte all’urgenza, in cui tutte le ambizioni si trovavano fino ad allora concordi, di dar la scalata al potere, si riscontra, malamente dissimulata, anche nella successiva elaborazione teorica della dottrina; al centro della quale, in luogo di coerenti e consapevoli direttive politiche proposte all’attività pratica del governo, si trovano disquisizioni filosofiche sulla natura dello Stato, e vuote esaltazioni di esso, concepito come strumento di forza e di dominio. Essenziale per questa dottrina è l’autorità: come si conquista, come si tiene, come si impone, ma a quali scopi sociali questa autorità venga esercitata, in quali direzioni essa si adoperi in servizio della civiltà, ciò sembra secondario in quella dottrina. Quando avrò la forza in mano, sembra dire l’autore, vedrò caso per caso che cosa mi convenga fare: “Il fascismo politicamente vuol essere una dottrina realistica: praticamente aspira a risolvere solo i problemi che si pongono storicamente da sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione. Per agire tra gli uomini, come nella natura, bisogna entrare nel processo della realtà e impadronirsi delle forze in atto”.
Quasi sembrerebbe di sentire in questo passo un’eco dello spirito antidogmatico del liberalismo, il quale nella sua espressione più genuina non vuol farsi sostenitore di programmi organici e completi di riforme economiche, perché insegna che l’ordine e il contenuto delle soluzioni debbono essere suggeriti dalle circostanze concrete via via che esse propongono alla politica i problemi pratici da risolvere. Ma nel liberalismo questa ripugnanza ad accettare programmi aprioristici è naturale, come omaggio alla libertà che non può essere ipotecata da soluzioni anticipate e che, attraverso le forme dello Stato liberale, deve trovar aperta la via a risolvere i problemi concreti nel modo storicamente più aderente alla realtà che via via si presenta sempre nuova e imprevedibile. Viceversa, in una dottrina che nega la libertà e pone in luogo di essa l’autorità, questo confessato agnosticismo su tutto quel che riguarda la soluzione dei problemi politici concreti può esser sintomo rivelatore del profondo indifferentismo ideale di un movimento il quale, avendo come unico dogma il potere, è pronto ad adottare caso per caso qualsiasi politica che gli serva a mantenerlo.
Ma quali sono dunque i caratteri giuridici di questo nuovo strumento istituzionale che il fascismo contrappone allo Stato legalitario? Quando, dalla polemica negativa contro i difetti del metodo liberale, il fascismo passa alla ricostruzione degli organi destinati alla produzione del diritto, in che consiste la tanto vantata originalità dell’ordinamento costituzionale uscito da questa dottrina?
Prima di rispondere a questa domanda, bisogna premettere, per colui che nel lontano avvenire vorrà scrivere pacatamente la storia del fascismo, una avvertenza: guardarsi dal credere che per farsi un’idea esatta del regime fascista possa bastare il leggerne la descrizione nelle leggi da esso create. Creder che per ricostruire l’aspetto giuridico di una civiltà sia sufficiente interrogare le leggi del tempo senza occuparsi di ricercare se e come erano in fatto applicate, è sempre un errore storico, perché quasi sempre tra le leggi come sono scritte e la loro applicazione pratica vi è un certo scarto, e la legalità proclamata nei codici è temperata nella realtà sociale da una certa dose di illegalismo che l’autorità non è in grado di impedire. Ma l’errore diventerebbe particolarmente grave di fronte a un regime come quello fascista, il quale ha avuto il carattere singolarissimo, anzi unico nella storia, di appoggiare i propri ordinamenti costituzionali, quasi arco su due colonne, da una parte sulla legalità ufficiale, dall’altra sull’illegalismo ufficioso: cioè da una parte sulle leggi e dall’altra sulla violazione delle medesime adoprata anch’essa, al par delle leggi, come strumento politico di governo.
In verità nella legislazione fascista abbondano, come si vedrà, le leggi “costituzionali”: e grande risalto fu dato, nei primi anni del regime, alla preparazione della cosiddetta “riforma costituzionale”, lo studio della quale fu solennemente affidato ad una commissione tecnica di diciotto insigni specialisti, che popolarmente furono chiamati i “soloni” (e, dai più maligni, “i fessoloni”). Ma chi si fermasse a considerare soltanto questo corpus di leggi costituzionali che si tengono in vetrina per presentarle, vedrebbe del sistema politico fascista soltanto la facciata, cioè le istituzioni di gala, quelle che si tengono in vetrina per presentarle agli ospiti di riguardo nei giorni di cerimonia: mentre in realtà la parte più importante del sistema, era costituita dai congegni interni, appositamente predisposti nelle retrostanze, per annientare o per snaturare le leggi apparenti tenute in mostra dinanzi agli occhi del pubblico.
Era un po’ difficile, in verità, dare di un siffatto sistema una definizione in termini giuridici!
Una rivoluzione, quand’è una rivoluzione vera, sopprime una dopo l’altra le istituzioni giuridiche e con esse la legalità dell’ordinamento abbattuto; e mentre prepara le nuove leggi in cui dovrà stabilmente fissarsi la sua vittoria, apre necessariamente, tra il vecchio regime ed il nuovo, uno hyatus di illegalismo, sulla natura del quale i giuristi non trovano ardui problemi da risolvere: è l’inevitabile illegalismo di fatto che segue le rivoluzioni vittoriose, male accetto ma transitorio, che non è fine a se stesso e dura solo quanto occorre per ricostruire la nuova legalità. Né difficile è la definizione giuridica di un’altra sorta di illegalismo: quello che impera in quei regimi dove il principe apertamente si proclama legibus solutus e governa come tale. Qui si sa di che si tratta: è il tradizionale illegalismo dei tiranni, senza mezzi termini e senza maschera; e quindi ben definibile e classificabile; che almeno ha il merito della sincerità.
Ma quando ci si mette a cercare una definizione giuridica del regime fascista, in cui si incontra questo singolarissimo paradosso che è una legalità appoggiata sull’illegalismo, ovvero un illegalismo non di fatto ma di diritto, il compito di chi voglia descrivere in maniera chiara questo ibrido ordinamento diventa quanto mai arduo. Era ammirevole l’impegno con cui i professori di diritto costituzionale cercavano di sciogliere i mille indovinelli che venivano fuori da quel regime: era rivoluzione o non era? La monarchia rappresentativa c’era ancora o era stata abolita? Contava più il capo dello Stato o il capo del governo? Lo Statuto era ancora in vigore o era stato soppresso? C’era ancora l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, ovvero si era introdotta una distinzione tra iscritti che hanno tutti i diritti e non iscritti che hanno tutti i doveri? I detti interpreti aguzzavano gli espedienti della loro ermeneutica su quelle leggi; e credevano di trovare in esse la risposta a tutti quei problemi. Ma non si accorgevano, o figuravano di non accorgersi, che la soluzione, più che alle leggi, sarebbe stato necessario chiederla a quella pratica politica a cui le leggi servivano soltanto da schermo figurativo.
In verità nel regime fascista c’è stato qualcosa di più profondo, di più complicato, di più torbido dell’illegalismo: c’è stata la simulazione della legalità, la truffa, legalmente organizzata, alla legalità. A tutte le tradizionali classificazioni delle forme di governo bisognerebbe aggiungere una nuova parola che riuscisse a significare questo novissimo tipo di regime: il governo dell’indisciplina autoritaria, della legalità adulterata, dell’illegalismo legalizzato, della frode costituzionale…
In un regime siffatto le istituzioni vanno prese non per quello che è scritto nelle leggi, ma per quello che è sottinteso tra le righe di esse: e le parole non hanno più il significato registrato nel vocabolario, ma un significato diverso e assai spesso opposto a quello comune, intelligibile soltanto agli iniziati.
Come meglio si vedrà dal seguito di queste considerazioni, il carattere in cui si riassumono le singolari qualità di questo regime è quello della doppiezza: in senso proprio ed in senso traslato. Il sistema fascista risulta infatti dalla combinazione di due ordinamenti giudiziari uno dentro l’altro: quello ufficiale, che si esprime nelle leggi, e quello ufficioso, che si concreta in una pratica politica sistematicamente contraria alle leggi. A questa duplicità di ordinamento corrisponde una doppia stratificazione di organi: una burocrazia di stato e una burocrazia di partito, pagate entrambe dagli stessi contribuenti, e ricongiunte al vertice in colui che è insieme il manovratore dell’una e dall’altra, “capo del governo” e insieme “duce del fascismo”. Ma tra la burocrazia dell’illegalismo e quella della legalità non vi è antitesi, anzi vi è una segreta alleanza e una specie di reciproca vicarietà: tanto che per volersi render conto esattamente di quello che è il regime, non si deve chieder la spiegazione ad una sola di esse, ma bisogna piuttosto cercarla nel punto ove esse si incontrano, a mezza strada tra legalità e illegalismo.
La menzogna politica, che può sopravvenire in tutti i regimi come corruzione e degenerazione di essi, qui è stata sistematicamente assunta, fin da principio, come strumento normale e fisiologico di governo. Ciò apparirà in maniera evidente dall’esame di quei quattro capisaldi della dottrina fascista, che potrebbero denominarsi le sue quattro finzioni costituzionali: il totalitarismo, la rivoluzione, il consenso, la monarchia.
La finzione del totalitarismo
Totalitarismo: per vent’anni questa parola ci ha ossessionato. Era uno di quei vocaboli catapulta che quando i gerarchi li scaricavano enfiando le gote e sporgendo la quadrata mandibola, davano alla folla la sensazione quasi fisica dell’irresistibile schiacciamento. Nella maschia oratoria fascista tutto diventava totalitario: dalla dedizione al duce alle adunate dei gregari, dalla riforma scolastica alla consegna dell’olio agli ammassi. Ma i sostantivi per i quali questo attributo era stato originariamente inventato dal suo creatore (giustamente celebrato dai filologi più avvertiti come rinnovatore della lingua italiana) erano soprattutto due: “regime” e “Stato”. Regime totalitario, Stato totalitario… Quale realtà politica si nascondeva sotto questo aggettivo rintronante?
Qualunque professore di dottrine politiche (ce n’era uno per ogni cantonata) avrebbe potuto spiegarvelo in quattro parole: di fronte al frazionamento e alla disgregazione dei regimi liberaldemocratici, in cui l’unità dello Stato era perpetuamente messa in pericolo dalle lotte dei partiti e dalle tendenze anarchiche del sindacalismo, ecco finalmente, col fascismo, il regime che armonizza e unifica tutte le forze sociali, e tutte le “potenzia” senza che alcuna vada dispersa; ecco finalmente raggiunto, qui, perfetta identificazione dell’interesse privato nell’interesse pubblico, l’annientamento di ogni egoismo individuale nel sentimento di disciplina nazionale… Questo è il totalitarismo: un monumentale blocco d’acciaio, in cui tutti i cittadini si trovano finalmente fusi, emulsionati, amalgamati…
Ma sarà meglio che cerchiamo di capir per conto nostro, senza scomodar le guide autorizzate, che cosa c’era sotto queste belle immagini.
La teoria del totalitarismo è riassunta in una nota formula: “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, la quale, secondo la glossa autentica, significa nella sua faccia negativa che “nulla di umano, di spirituale, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato”; e nella sua faccia positiva che “lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo”.
Sotto l’aspetto negativo è chiaro, e più chiaro diventa nel commento dell’autore, che cosa la formula voglia dire. Non solo si nega, ma addirittura si dichiara “non pensabile” l’esistenza fuori dello Stato di una vita morale individuale: la libertà, la dignità spirituale, è, per il fascismo, un dono che la persona riceve dallo Stato; anzi la persona è tale solo in quanto lo Stato abbia soffiato in essa il creator suo spirito. Che nell’uomo esista per natura un pensiero che le leggi esterne non possono costringere, una volontà libera che non riconosce alcuna tirannia, una coscienza morale che vive sola padrona di sé in una quarta dimensione posta fuori dal tiro dello Stato che può colpire soltanto con armi a tre dimensioni, tutto questo è, più che negato, ignorato dal fascismo: “Nulla di umano, di spirituale esiste… fuori dello Stato”; è proprio scritto così. Anche la morale è una creazione dello Stato, è volontà dello Stato “etico”: cosicché in sostanza morale e diritto si identificano, e non può neanche sorgere il problema del contrasto tra legge giuridica e giustizia morale, dato che quello che lo Stato pone come diritto, è, per il solo fatto che chi lo pone è lo Stato, volontà morale: “Lo Stato, come volontà etica universale, è creatore del diritto”. Tutto questo è assai chiaro; ma non è altrettanto originale. Si tratta infatti, semplicemente, di una brutale caricatura della deificazione hegeliana dello Stato, che tradotta in termini politici vuol dire un esasperato assolutismo in adorazione della propria onnipotenza; lo schiacciamento della libertà sotto la religione fascista dell’autorità: “Lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo”. È una concezione non soltanto antindividualistica e antiliberale, ma anche, essenzialmente, anticristiana. Se si ricercano nel campo pratico le conseguenze giuridiche di queste premesse filosofiche, si vede che esse significano nient’altro che il ritorno ad un’autocrazia peggiore, poiché estesa anche al campo spirituale, di quelle rovesciate dalla rivoluzione francese. Aboliti quei “diritti di libertà” che lo Stato legalitario aveva posti a salvaguardia della persona umana come barriere non valicabili dalla stessa legalità, la legge torna ad essere in ogni campo onnipotente: e può anche, se così piace allo Stato, ristabilire la schiavitù. Dato che la personalità giuridica non si considera più come necessario riflesso di una preesistente personalità morale che lo Stato deve limitarsi a riconoscere, ma come creazione ex novo dello Stato che può a suo arbitrio rifiutarla e ritoglierla, niente si oppone a che, in cosiffatto regime, l’uomo sia legalmente retrocesso a cosa. Questo vuol dire dunque, sotto questo primo aspetto negativo, il totalitarismo: una specie di teocrazia senza dio, in cui lo Stato si è assunto anche il potere di creare le anime.
Ma il totalitarismo, si è visto, non ha soltanto questa portata negativa, di annullamento dell’individuo nello Stato; nell’altra faccia, quella positiva, esso si presenta come esaltazione dei valori individuali, dei quali lo Stato fascista sarebbe “sintesi ed unità”: ogni individuo, “in quanto esso coincida con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica”, trova nello Stato il suo “potenziamento”: fuori dello Stato è nulla, dentro lo Stato esso diventa tutto: e nel sottoporsi all’autorità dello Stato trova in questa soggezione “la sola libertà che possa essere una cosa seria”, cioè la libertà dell’individuo nello Stato”.
Messo di fronte a queste formule per lui misteriose, il giurista che poco si intende di filosofia cerca di tradurle in proposizioni che abbiano un senso pratico chiaramente intelligibile alla sua tecnica. Egli vede nello Stato uomini che comandano e uomini che ubbidiscono, nel diritto regole formulate da uomini a cui altri uomini sono chiamati ad ubbidire; egli chiama libertà individuale quella zona di attività esterna nei limiti della quale, stabiliti dalla legge, l’individuo può comportarsi come meglio crede senza essere soggetto ad alcuno; e vede nella soggezione il contrario della libertà. E il suo spirito semplificatore lo porta a ricercare i meccanismi pratici che si annidano sotto il fumo del linguaggio filosofico: come son ripartite, nello Stato totalitario, le funzioni del comandare e dell’ubbidire? Chi sono i governanti e chi i governati? Quali persone concorrono effettivamente, colla loro volontà, a creare quei comandi che poi devono valere come volontà dello Stato, cioè a creare il diritto?
Si legge che il totalitarismo è la sintesi e la messa in valore della vita di tutto il popolo: guardiamo dunque attraverso quali sistemi pratici tutto il popolo concorre nello Stato fascista alla creazione del diritto.
Il fascismo respinge energicamente “l’assurda menzogna convenzionale dell’egualitarismo politico”. Esso “nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere la società umana; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini; che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco, com’è il suffragio universale…”. Lo Stato “…non è numero, come somma di individui formanti la maggioranza di un popolo. E perciò il fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggiore numero, abbassandolo al livello dei più; ma è la forma più schietta di democrazia, se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi; anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti”.
Si può innanzitutto osservare che in questa polemica contro il sistema elettorale dei regimi liberali e democratici, si cerca a bella posta, con superficiale espediente giornalistico, di far confusione tra l’uguaglianza di fatto e la uguaglianza giuridica. Lo Stato legalitario non è in alcun modo basato sull’assurda credenza, smentita dalla natura, che tutti gli uomini siano di fatto qualitativamente uguali, né pretende che tutti i cittadini possano di fatto concorrere al governo in misura uguale, come unità aritmeticamente equivalenti; ma crede che per far affiorare le direttive politiche corrispondenti alle forze sociali più vive e per trovar gli uomini meglio adatti a governare in conformità di esse, non esista metodo più perfetto (o meno imperfetto) di quello che dà a tutti i cittadini in ugual misura la libertà giuridica di esprimer pubblicamente le proprie idee, di raggrupparsi secondo esse in partiti, e di concorrere col voto alla elezione di coloro che dovranno tradurle in leggi. Non dunque equivalenza quantitativa di tutti i cittadini: ma libertà giuridica data ugualmente a ciascuno di immettere nella lotta politica le proprie qualità personali, in modo che, nelle idee e negli uomini, le qualità migliori possano affermarsi e prevalere. È un sistema, dunque, che vede nella libertà il miglior filtro dei valori umani. Si potrà sostenere che questo sistema ha dei difetti, si potranno suggerire, se ci sono, sistemi migliori; ma non è lecito, se non si vuol cambiare le carte in tavola, far apparire come un sistema indirizzato a soffocare la qualità sotto la quantità livellatrice quello che è, viceversa, essenzialmente un metodo per allargare sulla totalità del popolo la ricerca e la educazione della qualità, per dare a tutte le idee e a tutti gli uomini che valgano, in qualunque ceto sociale, la possibilità di rivelarsi e di farsi valere.
Ma guardiamo qual è, in contrapposto a questo che si afferma superato, il metodo di selezione delle idee e degli uomini proposto dal totalitarismo fascista.
Prima di tutto, abolizione dei partiti: un partito solo, che esclude ed annienta tutti gli altri e che pretende di coincidere, esso solo con lo Stato. “Un partito che governa totalitariamente una nazione è un fatto nuovo nella storia” sentenzia gravemente l’inventore della dottrina; in questo ha perfettamente ragione, perché i partiti finora avevano avuto storicamente un senso, solo in quanto fossero più d’uno e in contrasto tra loro: cioè porzioni o frazioni della vita politica dello Stato, che rappresentava il tutto di cui essi, anche etimologicamente, erano le “parti” contrapposte. Ma quando, com’è avvenuto col fascismo, i partiti si riducono ad uno e quest’uno si dilata fino ad abbracciare in sé la totalità della vita politica (sicché si è potuto parlare del fascismo come di un partito-Stato e di uno Stato-partito), allora l’idea stessa di partito dovrebbe dissolversi; e la stessa espressione di “partito totalitario” dovrebbe apparire come una contraddizione in termini, come quella di chi dicesse che l’intero è parte di sé medesimo. E in verità, durante questi vent’anni coloro che guardavano con superficiale buon senso l’evoluzione della vita pubblica italiana, non riuscivano a spiegarsi il fenomeno indubbiamente nuovo nella storia di questo partito che dopo aver sgominato tutti gli altri partiti ed esser rimasto padrone unico e incontrastato del campo, continuava tuttavia, pur governando lo Stato senza opposizioni, a stare in armi contro le opposizioni che non c’erano, come un duellante che dopo aver steso in terra l’avversario continuasse a rimanere in guardia, puntando la spada contro il vento; e i pacifici cittadini, nel veder questa gente vestita di nero che dopo dieci o quindici anni dal trionfo continuava ad aggirarsi per le piazze con aria truce e con tanto di pugnale alla cintola, si domandavano: “Ma con chi l’hanno?”.
Non capivano, questi loici pieni di ingenuità, che la sopravvivenza paradossale di questo partito totalitario colle sue gerarchie armate costituenti dal centro alla periferia un duplicato apparentemente inutile della burocrazia dello Stato, era (come meglio si vedrà tra poco) uno strumento necessario della “rivoluzione continua” coltivato a bella posta per mantenere gli spiriti in stato di perpetua mobilitazione per conservare al regime quel certo tono eccitante di illegalismo che giustificava il continuar delle sopraffazioni e delle ruberie.
Prima conseguenza di questo tipico carattere del totalitarismo, che è la soppressione di tutti i partiti fuor che di quello al potere, è stata la esclusione dalla vita pubblica (e qui, come si è visto, vita pubblica voleva dire molte volte vita professionale) di tutti i cittadini che non fossero iscritti al partito fascista. Abolita la libertà di stampa e di associazione, tolta a tutti la possibilità di manifestare in forma legale opinioni che dissentissero da quelle del partito dominante, la gran maggioranza dei cittadini fu condannata al perpetuum silentium ed all’ozio politico: esser fuori dal partito voleva dire, politicamente, esser fuori dallo Stato. E questa fu, nonostante che potesse superficialmente apparire come una prova di forza, la fatale debolezza del fascismo: quella che doveva togliergli inesorabilmente ogni possibilità di avvenire. Mentre si proclamava a parole la espressione totalitaria di tutte le forze vive della nazione, si metteva al bando la grandissima maggioranza dei cittadini, e così, col rinunciare a cercare in mezzo ad essi un contributo di uomini e di idee, a ridurre la vita politica dello Stato, la sintesi universale di tutto un popolo, a sfogo partigiano di una sola minoranza faziosa. A ben guardare, se per Stato totalitario si deve intendere quello che apre la strada alle qualità dei migliori, ricercandole e ridestandole in mezzo al popolo senza distinzioni di tendenza o di ceti, questa denominazione si addice ai regimi liberali e democratici, assai meglio che a quello fascista; perché solo in quelli, attraverso la dialettica dei partiti, non c’è voce che vada perduta, e la vita pubblica dello Stato riesce veramente, attraverso la libertà di opposizione che è anch’essa una forma di collaborazione, ad essere la sintesi di tutto un popolo. Anche nel campo spirituale, la libertà è ricchezza: dove c’è libertà non vi è frazione sia pur minima della nazione che sfugga a questa gara di qualità, attraverso la quale la vita pubblica perpetuamente si ossigena e si rinnovella; mentre una dittatura di partito finisce con l’impoverire anche spiritualmente lo Stato, perché si condanna da sé a trarre uomini ed idee da quel suo piccolo campo chiuso che ogni giorno diventa più sterile e più maligno, mentre al di là della siepe fertili distese rimangono incolte. Ma si può dire almeno che dentro a questo angusto recinto il fascismo abbia saputo introdurre ed attuare un metodo di selezione delle qualità migliore di quello praticato nello Stato legalitario? Si potrebbe infatti pensare che quella feconda opposizione delle idee che non era più permessa come distinzione e opposizione di partiti fosse però ammessa nell’interno del partito unico, in modo che i vantaggi del metodo liberale fossero messi a profitto entro questa più limitata cerchia: e che dentro di essa fosse tollerato e magari incoraggiato il formarsi di diverse tendenze, e consentita la critica reciproca, e concesso ai fascisti di raggrupparsi intorno ad esse e di scegliere da sé, in ciascun gruppo, i propri capi.
Niente di tutto questo. Ogni tanto, specialmente tra i fascisti universitari, affioravano correnti eterodosse che invocavano la libertà di critica e di discussione politica: non per tutti i cittadini, si intende, ma almeno per gli iscritti al partito. Pareva, sul primo momento, che a queste correnti giovanili si volesse consentire libero sfogo: si lasciavano fondare giornaletti che parevano destinati a rimettere in onore l’intelligenza, a riportare nella gioventù l’abitudine
Piero Calamandrei
Breve biografia di Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana.Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
Frida Kahlo Rivera, Painter; Imogen Cunningham (American, 1883 – 1976); San Francisco, California, United States; 1931; Gelatin silver print; 29.2 * 23.9 cm (11 1/2 * 9 7/16 in.); 2017.129; In Copyright (https://rightsstatements.org/vocab/InC/1.0/)
Frida Kahlo Rivera-Ero fatta per essere aquilone
Frida Kahlo Rivera è senza ombra di dubbio la pittrice messicana più famosa e acclamata di tutti i tempi, famosa anche per la sua vita assai travagliata.
Frida Kahlo Rivera è senza ombra di dubbio la pittrice messicana più famosa e acclamata di tutti i tempi, famosa anche per la sua vita assai travagliata.
Sosteneva di essere nata nel 1910, figlia della rivoluzione messicana e del Messico moderno. La sua attività artistica troverà grande rivalutazione dopo la sua morte, in particolare in Europa con l’allestimento di numerose mostre.
Frida Kahlo biografia-Avv.Irene Bertazzo-Autrice della Biografia
Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (1907 – 1954) nasce da genitori ebrei tedeschi emigrati dall’Ungheria a Città del Messico, il 6 luglio del 1907, anche se lei dichiarava di essere nata nel 1910, con la rivoluzione, con il nuovo Messico.
Del padre, Frida dice «grazie a mio padre ebbi un’infanzia meravigliosa, infatti, pur essendo molto malato (ogni mese e mezzo aveva un attacco epilettico, nda) fu per me un magnifico modello di tenerezza, bravura (come fotografo e pittore, nda) e soprattutto di comprensione per tutti i miei problemi».
Della madre, invece, diceva che era molto simpatica, attiva e intelligente, ma anche calcolatrice, crudele e religiosa in modo fanatico.
A 6 anni Frida si ammala di poliomelite: piede e gamba destra rimangono deformi, tanto che Frida li nasconde prima con pantaloni e poi con lunghe gonne messicane. Così, se quando è piccola viene soprannominata dagli altri bambini “Frida pata de palo” (gamba di legno), quando diventa grande è ammirata per il suo aspetto esotico.
Nel 1922, dopo il liceo presso il Colegio Alemán, la scuola tedesca in Messico, Frida si iscrive alla Escuela Nacional Preparatoria di Città del Messico con l’obiettivo di diventare medico.
Durante questo periodo Frida fa parte dei “cachucas”, un gruppo di studenti che sostiene le idee socialiste nazionaliste del ministro della pubblica istruzione, Vasconcelos, richiedendo riforme scolastiche; inoltre mostra interesse per le arti figurative ma non ha ancora pensato di intraprendere la carriera artistica.
Il 17 settembre 1925, l’autobus diretto a Coyoacàn, su cui Frida Kahlo era salita con il suo ragazzo, Alejandro Gomez, per tornare a casa dopo la scuola, si scontra con un tram.
«Salii sull’autobus con Alejandro.. Poco dopo, l’autobus e un treno della linea di Xochimilco si urtarono.. Fu uno strano scontro; non violento, ma sordo, lento e massacrò tutti. Me più degli altri. È falso dire che ci si rende conto dell’urto, falso dire che si piange. Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro».
Frida rimane tra le aste metalliche del tram. Il corrimano si spezza e la trapassa da parte a parte… Alejandro la raccoglie e nota che Frida ha un pezzo di metallo piantato nel corpo. Un uomo appoggia un ginocchio sul corpo di Frida ed estrae il pezzo di metallo.
La prima diagnosi seria sopraggiunge un anno dopo l’incidente: frattura della terza e della quarta vertebra lombare, tre fratture del bacino, undici fratture al piede destro, lussazione del gomito sinistro, ferita profonda dell’addome, prodotta da una barra di ferro entrata dall’anca destra e uscita dal sesso, strappando il labbro sinistro. Peritonite acuta. All’ammalata viene prescritto di portare un busto di gesso per 9 mesi, e il completo riposo a letto per almeno 2 mesi dopo le dimissioni dall’ospedale.
«Da molti anni mio padre teneva…una scatola di colori a olio, un paio di pennelli in un vecchio bicchiere e una tavolozza.. nel periodo in cui dovetti rimanere a lungo a letto approfittai dell’occasione e chiesi a mio padre di darmela…Mia madre fece preparare un cavalletto, da applicare al mio letto, perché il busto di gesso non mi permetteva di stare dritta. Così cominciai a dipingere il mio primo quadro».
La madre di Frida, Matilde, poi trasforma il letto di Frida in un letto a baldacchino e ci monta sopra un enorme specchio, in modo che Frida, immobilizzata, possa almeno vedersi.
Così nascono quegli autoritratti che ce la ricordano, con i suoi occhi sovrastati dalle sopracciglia scure, particolarmente marcate, che si uniscono alla radice del naso come ali d’uccello: «dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio».
Con queste rappresentazioni Frida infrange i tabù relativi al corpo e alla sessualità femminile. Diego Rivera, suo futuro marito, dirà di lei «la prima donna nella storia dell’arte ad aver affrontato con assoluta ed inesorabile schiettezza, in modo spietato ma al contempo pacato, quei temi generali e particolari che riguardano esclusivamente le donne».
Via via che i mesi passano, Frida si dedica con crescente consapevolezza alla pittura. Avanza lentamente, produce a piccole dosi e piccoli formati: ciò che la sua salute le permette di fare, a seconda del fatto che riesca a star seduta o solamente distesa: «i miei quadri sono dipinti bene, non con leggerezza bensì con pazienza. La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore».
Più di un anno dopo, verso la fine del 1927 si riprende, tanto da poter condurre una vita abbastanza normale, nonostante i dolori dovuti ai vari busti, e le cicatrici derivate dalle diverse operazioni.
Nel 1928 Frida si unisce ad un gruppo di artisti e di intellettuali che sostengono un’arte messicana indipendente, lontana dall’accademismo e legata all’espressione popolare: il mexicanismo, che si esprime nella pittura murale, particolarmente incoraggiata dallo Stato anche per le sue finalità edificanti e la possibilità di raccontare la storia nazionale anche alla grande massa analfabeta.
Frida, dal canto suo, per esprimere idee e sentimenti, crea un proprio linguaggio figurativo; il mondo contenuto nelle opere di Frida si rifà soprattutto all’arte popolare messicana e alla cultura precolombiana; vi sono infatti, immagini votive popolari, raffigurazioni di martiri e santi cristiani, ancorati nella fede del popolo; negli autoritratti, inoltre, Frida si rappresenta quasi sempre in abiti di campagna o con costume indio. Del Messico, poi, ritroviamo, nelle opere di Frida, la flora e la fauna, i cactus, le piante della giungla, le scimmie, i cani itzcuintli, i cervi e i pappagalli.
Nei primi mesi del 1928, German del Campo, uno dei suoi amici del movimento studentesco, le fa conoscere un gruppo di giovani raccolto intorno al comunista cubano Julio Antonio Mella, che si trova in esilio in Messico e che ha una relazione con la fotografa Tina Modotti. È proprio Tina a far conoscere a Frida Diego Rivera: un pittore e muralista molto famoso, anche se i due, in realtà si erano già conosciuti nel 1923, mentre Diego lavorava nell’anfiteatro Bolivar. Di quell’incontro Diego ricorda di questa ragazza «…aveva una dignità e una sicurezza di sé del tutto inusuali e negli occhi le brillava uno strano fuoco».
Quando Frida incontra Diego per la seconda volta, lui è un uomo pesante, gigantesco, Frida lo prende in giro chiamandolo “elefante”: è già stato sposato due volte e ha quattro figli.
Il 21 agosto del 1929 si sposano. Lei ha 22 anni, lui quasi 43.
A causa della malformazione pelvica, dovuta all’incidente, Frida non riesce a portare a termine le sue gravidanze, e così, 3 mesi dopo il matrimonio, Frida deve abortire. È la prima volta. Nel novembre del 1930 Frida e Diego si trasferiscono per 4 anni negli Stati Uniti per motivi artistici e politici. A Detroit Frida rimane incinta per la seconda volta, ma la tripla frattura delle ossa del bacino ostacola la corretta posizione del bambino. Frida decide comunque di tenere il bambino, nonostante la sua pessima condizione fisica ed il rischio. Tuttavia, il 4 luglio perde il bambino per un aborto spontaneo.
Nel 1934 ritornano in Messico, Frida è costretta ad abortire per la terza volta, e si separa da Diego che, nel frattempo, aveva avuto diverse avventure con altre donne, compresa la sorella di Frida, Cristina.
Frida comincia ad avere rapporti con altri uomini e con donne e ad essere molto attiva anche dal punto di vista politico. Nel 1936 in Spagna scoppia la guerra civile e se, Tina Modotti, l’amica di Frida, lascia immediatamente Mosca per andare in Spagna, lei si impegna a distanza nella lotta per la difesa della Repubblica Spagnola, organizzando riunioni, scrivendo lettere, raccogliendo viveri di prima necessità, pacchi di vestiti e di medicine per inviarli al fronte.
Nel 1937, poi, nella sua Casa Azul, ospita Lev e Natalja Trotskij, i quali sono in viaggio dal 1929, espulsi dall’Unione Sovietica.
Negli anni Quaranta, la fama di Frida è talmente grande che le sue opere vengono richieste per quasi tutte le mostre collettive allestite in Messico.
Nel 1943 viene chiamata ad insegnare, assieme ad altri artisti, alla nuova scuola d’arte della pedagogia popolare e liberale: l’Esmeralda. Frida, per ragioni di salute, è presto costretta a tenere le lezioni nella sua casa. I suoi metodi sono poco ortodossi: «Muchacos, chiusi qui dentro, a scuola, non possiamo fare niente. Andiamo fuori, in strada, dipingiamo la vita della strada». I suoi alunni la ricordano: «l’unico aiuto che ci dava era quello di stimolarci….non diceva niente sul modo in cui dovevamo dipingere o sullo stile, come faceva il maestro Diego…Ci insegnò soprattutto l’amore per la gente, ci fece amare l’arte popolare».
Nel 1950 subisce sette operazioni alla colonna vertebrale e trascorre nove mesi in ospedale. Dopo il 1951, a causa dei dolori, non riesce più a lavorare se non ricorrendo a farmaci antidolorifici; forse è proprio dovuta a questi la pennellata più morbida, meno accurata, il colore più spesso e l’esecuzione più imprecisa dei dettagli.
Nel 1953, alla sua prima mostra personale, allestita dalla amica fotografa Lola Alvarez Bravo, partecipa sdraiata su un letto, dato che se i medici le hanno assolutamente proibito di alzarsi. È Diego ad avere l’idea di trasportare il grande letto a baldacchino di Frida fin nel centro di Città del Messico. Stordita dai farmaci, partecipa alla festa rimanendo a letto, bevendo e cantando con il pubblico accorso numeroso. Nell’agosto dello stesso anno, i medici decidono di amputarle la gamba destra fino al ginocchio.
Nel 1954 si ammala di polmonite. Durante la convalescenza, il 2 luglio, partecipa ad un dimostrazione contro l’intervento statunitense in Guatemala, reggendo un cartello con il simbolo della colomba che reca un messaggio di pace. Muore per embolia polmonare la notte del 13 luglio, nella sua Casa Azul, sette giorni dopo il suo quarantasettesimo compleanno. La sera prima di morire, con le parole «sento che presto ti lascerò», aveva dato a Diego il regalo per le loro nozze d’argento.
rida Kahlo // Frida Kahlo Rivera, Photo by Imogen Cunningham, 1931
Autrice della Biografia Avv. Irene Bertazzo
Irene Bertazzo–Avvocato … ma sta cercando di uscire dal tunnel del diritto. Diplomata in pianoforte, vorrebbe sperimentare l’arte dell’insegnare ai bambini. Appassionata di libri, arte, giardinaggio e tutto ciò che è vivo e colorato. Adora ascoltare la radio e le piacerebbe, magari, lavorarci; per ora, come volontaria, collabora in una radio locale (Radio Cooperativa) alla trasmissione Partecipare è cambiare, come conduttrice e autrice di rubriche; attualmente si occupa della rubrica Grandi donne: storie di donne rimaste nella storia, grazie alla quale ha incontrato l’enciclopedia delle donne.
Frida Kahlo Rivera, Painter; Imogen Cunningham (American, 1883 – 1976); San Francisco, California, United States; 1931; Gelatin silver print; 29.2 * 23.9 cm (11 1/2 * 9 7/16 in.); 2017.129; In Copyright (https://rightsstatements.org/vocab/InC/1.0/)
Frida Kahlo opere d’arte più importanti
Tra le numerose opere della grande pittrice messicana vanno almeno citate:
The Frame (autoritratto) (1938)
Due nudi nel bosco (1939)
Le due Frida (1939)
Il Sogno (Il Letto) (1940)
La colonna rotta (1944)
Mosè (o Nucleo solare) (1945)
Cervo ferito (1946)
Autoritratto (1948)
L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io, Diego e il signor Xólot (1949)
Fonte- Enciclopedia delle donne –Società per l’enciclopedia delle donne APS, via degli Scipioni 6, 20129, MILANO,
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