Roma 07 marzo 2025-Articolo di Mirella Manocchio-Storia e attualità della Giornata della donna: purtroppo molto rimane ancora da fare.Ma davvero vogliamo vedere ancora una volta fiorai colmi di mazzi di mimose pronti per essere comprati o regalati? Ma davvero vogliamo assistere a comitive di sole ragazze o donne che affollano ristoranti e locali da ballo? Ma davvero noi donne vogliamo i nostri cellulari e le chat di gruppo zeppe di messaggi e meme augurali? Personalmente dico: “no grazie!”
La pastora Mirella Manocchio è presidente della Federazione donne evangeliche in Italia
Non credo che abbia ancora senso festeggiare o celebrare la Giornata internazionale della Donna se si crede che regalare un mazzo di mimose o inviare un messaggio augurale possa racchiudere il senso del rispetto e dell’amore che tutte le donne meritano. E nemmeno se si pensa che questa sorta di libera uscita una tantum possa sostituire la dovuta libertà che la donna deve avere nell’intessere relazioni, nel dipanare i propri interessi personali, nel crescere e trovare soddisfazione a livello lavorativo e familiare, insomma nel vivere la propria vita. Troppo velocemente si sono dimenticate le motivazioni e gli accadimenti che hanno dato origine all’istituzione di questa “Festa”, sebbene sia stata ufficialmente istituita abbastanza di recente dalle Nazioni Unite quale Giornata internazionale: nel 1975.
La pastora Mirella Manocchio è presidente della Federazione donne evangeliche in Italia
La vulgata collega l’origine a un incendio accaduto nel 1908 nell’industria tessile Cotton di New York in cui varie operaie rimasero uccise. In realtà tale incendio non è chiaramente documentato; in ogni caso i fatti che hanno portato all’istituzione della Festa della donna sono legati alla rivendicazione dei diritti, tra i quali il diritto di voto. A esempio, durante il VII Congresso della II Internazionale socialista, svoltosi a Stoccarda nel 1907, furono in discussione la questione femminile e il diritto di voto alle donne. In seguito i partiti socialisti si impegnarono a lottare con le donne per riuscire ad introdurre il suffragio universale. In questa partita avevano giocato un ruolo importante già dal 1800, e continuarono ad averlo anche a inizio ‘900, tante donne evangeliche (a esempio Elisabeth Candy Stanton, Lucrezia Mott, Frances E. Willard) che si impegnarono anche per i pieni diritti delle donne in ambito ecclesiastico. La prima Giornata internazionale dedicata alla rivendicazione dei diritti delle donne ebbe vita nel 1910, ma solo successivamente durante la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste, nel 1921, fu stabilito che l’8 marzo fosse la Giornata internazionale dell’operaia.
La pastora Mirella Manocchio è presidente della Federazione donne evangeliche in Italia
In Italia la celebrazione fu istituita dopo il settembre 1944 dalla neonata Unione Donne italiane (Udi) e si svolse il successivo 8 marzo nelle zone liberate dell’Italia. Anche nel nostro paese la celebrazione si legò alla questione del diritto di voto e ai diritti delle donne in generale: in particolare questo avvenne negli anni ’60-70 quando le manifestazioni avevano al centro l’abolizione del cosiddetto “delitto d’onore”, la parità nel diritto di famiglia, il divorzio e l’aborto. Le donne evangeliche erano impegnate in queste battaglie e le conducevano non solo in piazza l’8 marzo, ma pure nelle proprie case e nelle chiese, come ricorda Doriana Giudici – sindacalista e presidente della Fdei dal 1989 al 1998 – nel volume Le ragazze che volevano cambiare il mondo.
Far memoria di questo vissuto non è archeologia sociologica o teologica, ma è la necessità di ricentrarci nelle nostre radici per guardare con consapevolezza quanto ancora vi è da fare – tanto – in merito a una reale parità di diritti, quanto di tali diritti viene quotidianamente messo in discussione, anche in Europa e negli Stati Uniti, e quale radicale cambio di struttura mentale e sociale è da operare. La riflessione di studiose e teologhe che puntano ad avere una prospettiva e una modalità intersezionale alle questioni sul piatto ci può aiutare e interrogare, ma sarebbe tragico se ci lasciasse indifferenti. Come non ci possono lasciare indifferenti gli accadimenti di abusi e discriminazioni emersi di recente in ambiti accademici protestanti e ai vertici di alcune chiese evangeliche perché ci sbattono in faccia – se ce ne fosse stato bisogno – che nessuna realtà ecclesiastica è immune da una tragica e tossica commistione tra “ruolo di potere e violenza”, seppur variamente declinata.
Lasciamo sugli alberi le mimose, ma in questo 8 marzo di un mondo squassato da molteplici conflitti e da chi, come Trump e la sua amministrazione, mette a serio rischio il diritto internazionale e le strutture istituzionali che faticosamente se ne fanno garanti, facciamoci ancora interpellare dalla Parola che ci dice che per grazia di Dio portiamo nel nostro corpo i segni anticipatori della resurrezione di Gesù Cristo, impegniamoci ancora – donne e uomini insieme – a costruire relazioni umane giuste e rispettose, improntate all’amore nella libertà, senza sopraffazioni e ruoli di genere precostituiti e condizionanti.
La pastora Mirella Manocchio è presidente della Federazione donne evangeliche in Italia
La pastora Mirella Manocchio è la nuova presidente della Federazione donne evangeliche in Italia con la pastora battista Gabriela Lio, presidente uscente.
Roma (NEV), 27 marzo 2023 – La pastora metodista Mirella Manocchio è la nuova presidente della Federazione delle donne evangeliche in Italia (FDEI). Manocchio prende il testimone dalla pastora battista Gabriela Lio, presidente uscente.
L’elezione è avvenuta in seno al XIII Congresso FDEI conclusosi ieri a Firenze. A breve, un approfondimento e l’intervista NEV a Mirella Manocchio.
Mirella Manocchio è pastora della chiesa metodista di via XX Settembre a Roma. Laureata in Scienze politiche e in teologia. Già presidente dell’Opera per le chiese evangeliche metodiste in Italia (OPCEMI), fra i suoi incarichi c’è anche quello di coordinatrice della Commissione battista, metodista, valdese (BMV) per il culto e la liturgia e membro della Commissione (metodista e valdese) “famiglie, matrimonio, coppie, genitorialità”.
Nata nel 1976 da un Congresso interdenominazionale dei movimenti femminili delle chiese battiste, metodiste e valdesi, la Federazione delle donne evangeliche in Italia (FDEI) è un movimento di donne impegnate a “testimoniare la liberazione di Cristo per ogni creatura umana, con particolare riferimento alla condizione femminile nella chiesa e nella società” (Statuto, art. 2). La FDEI è basata sul volontariato e si propone di portare nelle chiese la riflessione sul ruolo della donna e di incoraggiare la partecipazione delle donne evangeliche alla vita della chiesa e della società.
Nel 1998 la FDEI ha deciso di allargarsi ad altre organizzazioni femminili di area evangelica (luterane, avventiste, dell’Esercito della Salvezza e della Chiesa riformata ticinese). L’organo di collegamento tra i gruppi della FDEI è il “Notiziario”, pubblicato ogni tre mesi come inserto del settimanale evangelico “Riforma”. La FDEI produce anche i “Quaderni”, dove sono pubblicati gli atti dei convegni nazionali e regionali e dei campi studi estivi. In occasione del passaggio dal secondo al terzo millennio, la FDEI ha redatto il “Manifesto delle donne protestanti”, un documento per il dialogo fra donne e uomini. Nel 2000 ha inaugurato l’Archivio delle donne presso l’archivio del Centro culturale di Torre Pellice (Torino).
Da alcuni anni la FDEI pubblica il quaderno dei “16 giorni per combattere la violenza”, letture, riflessioni, dati e proposte di azione per ogni giorno dal 25 novembre, Giornata mondiale contro la discriminazione delle donne al 10 dicembre, Giornata per i Diritti umani.
-Poesie di Fernanda Romagnoli –Interlinea Edizioni
Fernanda Romagnoli, dimenticata poetessa, è una delle più grandi voci del Novecento italiano, con il potere di folgorare il lettore con la sua poesia.
Falsa identità
Falsa identità Prima o poi qualcuno lo scopre: io sono già morta da viva. È di donna straniera la faccia tra i capelli in giù sporta che subito si ritira, l’ombra che dietro le tende s’aggira di sera, il passo che viene alla porta e non apre. Suo il canto che intriga i vicini coprendo i miei gridi sepolti. Qualcuno prima o dopo lo scopre. Ma intanto…
Lei a proclamarsi non esita, lei mostra il mio biglietto da visita. Io nel buio, in catene, a un palmo da voi di distanza, sul muro graffio questa riga contorta: testimonianza che mio era il nome alla porta, ma il corpo non ero io.
Il tredicesimo invitato
Grazie – ma qui che aspetto? Io qui non mi trovo. Io fra voi sto qui come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto e mangia nel piatto scompagnato. E fra tutti che parlano – lui ascolta. Fra tante risa – cerca di sorridere. Inetto, benché arda, a sostenere quel peso di splendori, si sente grato se alcuno casualmente lo guarda. Quando in cuore si smarrisce atterrito «Sto per piangere!» E all’improvviso capisce che siede un’ombra al suo posto: che – entrando – lui è rimasto fuori.
Ad occhi chiusi
E mentre dormi, e dura l’armistizio fra l’anima ed il corpo suo sudario, vorrei scenderti in petto, mescolarmi allo stormo dei palpiti al comizio dei sentimenti. In balìa, sorpreso senza sigilli: stai come un diario di bordo pieno d’isole e di venti, come un albero offerto al plenilunio. Terribile e indifeso (questo taglio fra i cigli, fino all’animia…) E non oso più decrifarti. Sacro – simile a morte – il tuo riposo. Meglio che incognite le sigle, che i cifrari siano confusi. Meglio ch’io seguiti ad amarti ad occhi chiusi.
Niente
Morte, se vieni per condurmi via, lascia che ombra su ombra io ripercorra la gente. In quest’incrocio di rotte casuali, ci siamo incontrati – fra vivi – così inutilmente. Per migliaia di giorni, ogni giorno: all’andata, al ritorno. Per migliaia di notti, ogni notte, coi ginocchi, coi fiati. Non ci siamo scambiati niente.
Lei
Lei non ha colpa se è bella, se la luce accorre al suo volto, se il suo passo è disciolto come una riva estiva, se ride come si sgrana una collana. Lo so. Lei non ha colpa del suo miele pungente di fanciulla, della sua grazia assorta che in sè non chiude nulla. Se tu l’ami, lei non ha colpa. Ma io – la vorrei morta.
Tu Tu, che chiamiamo anima.
Colore negro, odore ebreo. Tu profuga,
tu reietta, intoccabile. Tu transfuga
dal soffio dell’origine.
Non ti spetta razione, né coperta,
né foglio di reimbarco.
Per registri e frontiere
non esisti.
Ma in sere come queste, di cangianti
vaticini fra i monti,
ad ogni varco
può apparire improvvisa la tua faccia
d’eremita o brigante.
“Fronda smossa,
pietra caduta…” trasale in sé il passante
che la tua ombra assilla
di crinale in crinale,
mentre corri ridendo nell’occhiata
del cielo, che ti nomina e sigilla.
Capro espiatorio Uggiola alla fessura, cagna-luce.
Qualcuno il mio sonno ha legato
quattro zampe in un mazzo. All’aurora
chi aprirà? Voglio alzarmi. Ho paura.
Nel pozzo del cranio
– senza uscita –. Nel buio sacrario
sconsacrato. (La luce come un’unghia
sotto le porte). Capro espiatorio
già caduto sul fianco, otre di sangue
già mezzo vuoto – come scalci ancora
forte, mia vita.
Oggetti I piccoli oggetti, i piccoli
amici schiavi, che tirano
troppo in lungo la vita! Miei cari,
vi licenzio in tronco. È più dura
forse per me: ma chi monco,
chi gobbo, chi spelato da lebbra;
e il mazzo di chiavi risputato
da ogni serratura.
Gli ipocriti inermi! Bisbigliano
aiuto, pietà.
E s’uncinano a tutti gli appigli,
a tutti i ricordi come labbra
s’attaccano, come vermi.
Giù nel sacco – un tonfo – coraggio!
Non sarà un lungo viaggio.
In cantina, il bel dormitorio.
Col teatrino dei topi, il tanfo
del vino, la grata
(tarlata) del parlatorio
per la piuma, per la foglia di passo.
Tra vecchi fratelli… Diciamo
che a noi padroni va peggio,
quand’è l’ora nostra… Ma adesso
muoviamoci, andiamo.
Fernanda Romagnol
Fernanda Romagnoli, dimenticata poetessa, è una delle più grandi voci del Novecento italiano, con il potere di folgorare il lettore con la sua poesia.
Nata a Roma il 5 novembre 1916, si diploma in pianoforte al Conservatorio di Santa Cecilia della capitale.
Nel 1943 pubblica la sua prima raccolta, Capriccio, con l’editore Signorelli.
Nel frattempo fa parte della redazione di alcune riviste del tempo, come La Fiera Letteraria. Nel 1973 pubblica per Guanda Confiteor, raccolta premiata da Vittorio Sereni.
Sette anni dopo, Attilio Bertolucci, da lei considerato il proprio maestro, la consacra facendo pubblicare con Garzanti Il tredicesimo invitato, la sua opera più importante.
Sempre Bertolucci, in un’intervista del 1991, afferma: «Preferisco non fare nomi. O forse potrei limitarmi a due donne di sicuro valore: Alda Merini e Amelia Rosselli, cui vorrei aggiungere Fernanda Romagnoli che è una poetessa che è morta e non ha ancora avuto quello che merita».
Purtroppo, infatti, la poetessa viene via via dimenticata, si ammala di epatite e si spegne a Roma nel 1986.
C’è nella poesia di Fernanda Romagnoli una forte tensione emotiva, una potenza inaspettata. La forza nel verificare arriva all’estremo travolgendo chiunque legga.
Donatella Bisutti curatrice della nuova versione de Il tredicesimo invitato e altre poesie (2003) descrive la poesia della Romagnoli in questo modo: «È una poesia dell’anima, dello spirito, dell’energia incontenibile dello spirito.»
Da ciò non comprendiamo come sia possibile che tale autrice possa essere accantonata. Allo stesso tempo è vero che la poetessa, già in vita, rifiutava qualsiasi salotto letterario, rimanendo nella sua Roma. Gli unici contatti con alcuni letterati degli anni (Bertolucci in primis, o Nicola Lisi) lì ebbe attraverso delle lettere.
Sembra quasi un’autopunizione inflittasi, dettata forse dal matrimonio con un militare o da un carattere taciturno e introverso che trova il suo linguaggio, la sua esplosione nella scrittura. Questo lo deduciamo anche solo dai titoli scelti per le raccolte pubblicate. Il Confiteor, ad esempio, è la preghiera penitenziale della celebrazione eucaristica, Il tredicesimo invitato indica qualcuno che non dovrebbe esserci, perché semplicemente porta sfortuna.
Allo stesso tempo non si può dire che la poesia della Romagnoli sia pacata, stretta nello schema di una vita vissuta in solitaria. È chiaro, quindi, che la poetessa trova nel verseggiare la propria vocazione, il modo per rendere visibile quel genio, quel valore insito in lei.
È in poesie come Falsa identità che dà prova di questo. Fernanda si distacca da un mondo che non le appartiene (io sono già morta / da viva) e ricalca il tema della morte, molto spesso trattato. In una poesia dedicata al padre la poetessa, invece, scrive:
Così mio padre mi s’accende accanto nel buio che mi fascia. “Vieni per dare o per chiedere?” m’affanno “È la medesima cosa!
Quindi la poesia di Fernanda marca quell’oltre che le fu precluso nella vita. Il grido della poetessa giunge ancora chiaro e comprensibile.
Senza pietà, senza pietà, Signore, il Tuo immenso lasciarmi. Senza fine, senza fine il mio grido Ti voglio!
scrive in Senza requie, oppure:
ed io, abbagliata, più non mi difendo – confitta nel limo terrestre come uno spino -.
in Quando.
Un grido lacerante, soffocato, che solo nel pensiero della morte trova come uscire fuori, prepotente, invadendo il resto.
– io – che piangete morta. Invaderò la casa: un solo giro come fa il lampo.
in Avvento
E tu già stavi disciolta da noi vivi. Verso incerte balugini dischiusa. Maturavi sola – nella placenta della morte
in Sola.
È una terribile pena quella a cui Fernanda è stata condannata. Una donna che viva si ritrova morente, sepolta ancora fremente.
otre di sangue già mezzo vuoto – come scalci ancora forte, mia vita.
Da Capro espiatorio
Quella donna dal viso indifeso Un poco sfiorita- che passa nello specchio in una scolorita veste rossa, senza fruscio, di fretta, rialzando sul capo i capelli con mano distratta: quella donna dall’anima dimessa dicono che son io.
Ed anche l’amore è un sentimento sofferto, fatto di gelosie quasi adolescenziali, che definiscono meglio il quadro caratteriale della poetessa
Se tu l’ami, lei non ha colpa. Ma io – la vorrei morta.
in Lei.
o da perentorie esclamazioni di colpevolezza:
Meglio ch’io seguiti ad amarti ad occhi chiusi.
Donatella Bisutti, grande estimatrice della Romagnoli, ci mette di fronte ad una certezza dicendo: «Forse lo spirito di Fernanda ha ancora bisogno di placarsi e non riesce a farlo. Forse è ancora alla ricerca di un perdono.»
Anche noi lo crediamo, come crediamo che questo spirito abbia bisogno di essere riscoperto e mai più nascosto.
Fortunatamente per la rivista Nuova Corrente di Interlinea è uscito recentemente “Ogni gloria e misura sconvolgendo.” Studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli, un volume che propone una rilettura della sua poesia con alcuni inediti e approfondimenti.
Nuova corrente 161. «Ogni gloria e misura sconvolgendo». Studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli Copertina flessibile – 1 luglio 2018
Un destino di silenzio, lo definì qualcuno. E così sembra essere stato il destino di Fernanda Romagnoli. Assente in molte antologie, dimenticata, ignorata. Eppure Paolo Lagazzi la definisce “una poetessa grandissima”. E una poeta così grande non può e non deve rassegnarsi a un destino di silenzio. Non può e non deve essere un’ombra nella Storia.
Prima o poi qualcuno lo scopre:/io sono già morta/da viva.
Nasce a Roma il 5 novembre 1916. A diciotto anni si diploma in pianoforte al conservatorio di S. Cecilia, e a vent’anni conclude gli studi magistrali, da privatista. Tra il 1941 e il 1944 lavora come impiegata nel Consiglio Nazionale delle Ricerche.
La sua prima raccolta di poesie, Capriccio, viene pubblicata nel 1943, edizione Signorelli, con la prefazione di Giuseppe Lipparini. L’anno successivo si trasferisce a Erba con la famiglia, e poi torna a Roma nel 1946. Si sposa con Vittorio Raganella, un ufficiale di cavalleria con il quale dal 1948 al 1965 vive a Firenze, Pinerolo e Caserta. Infine Roma.
Tra il 1961 e il 1965 è maestra in alcune sedi di montagna. Ma perlopiù sarà moglie, madre, e poeta. Ruoli che non s’intersecano, abiti che Romagnoli indossa scompagnati. Come se la vita e la scrittura fossero due strade parallele, e questo la porta a vivere costanti sensi di colpa.
Fernanda Romagnol
Io nel buio, in catene, a un palmo/da voi.
È del 1965 la seconda raccolta di versi, Berretto rosso, pubblicato da Sestante. Sono i primi anni Settanta che la vedono amica di Carlo Betocchi e Nicola Lisi, e nel 1973 esce la terza raccolta di poesie, Confiteor, edita da Guanda. Questo fu possibile grazie ad Attilio Bertolucci che dirà della sua poetica “uno scontro tra il quotidiano e il visionario”.
Io distendo le mani, che vi piova la chiarità…/tu aprimi i capelli/o brezza di levante.
Romagnoli passa dallo stampo ottocentesco della prima raccolta, a liriche visionarie e metafisiche. Una poetica che all’inizio parla di comunione di elementi, la natura percepita a livello sensoriale, un’atmosfera panica che ricorda D’Annunzio e Pascoli, con reminiscenze quasi leopardiane.
[…] i grandi fiori/dissetati splendevano, che un tempo/come piccoli pugni si serravano/per resistere a un marzo di gran vento.
Negli anni Settanta, Fernanda Romagnoli collabora con alcune riviste letterarie, «La Fiera Letteraria» e «Forum Italicum», per la radio Approdo. Scrive quelle che saranno le poesie de Il tredicesimo invitato che uscirà nel 1980 per Garzanti. La poesia che dà il titolo alla raccolta riporta a quel destino, al vivere in disparte.
Grazie – ma qui che aspetto? /Io qui non mi trovo. Io fra voi/sto come il tredicesimo invitato, /… E all’improvviso capisce/che siede un’ombra al suo posto:/che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori.
Il senso di inadeguatezza e l’estraneità alla vita sociale che Romagnoli vive, e soffre, sono espliciti, tangibili, e ne scaturisce un’insoddisfazione che la fa sentire scomoda dentro qualunque ruolo. Moglie, madre e poeta. Ruoli che non riuscirà mai a gestire come vorrebbe.
Fernanda Romagnol
Avrà un difficile rapporto con la figlia, con la quale non farà in tempo a spiegarsi veramente. Scrive una poesia per lei, che fa così:
Si stringe chiusa, dura, /come nelle sue ciglia/la margherita sotto il temporale… Ma il mattino /dritta come una pianta, /spensierata, m’è presso il capezzale/che con l’aroma del caffè mi canta/ “sveglia”, col carillon del cucchiaino.
Vive ogni ruolo con sensi di colpa, che serpeggiano nelle sue poesie. Poesie che, tralasciate le atmosfere naturalistiche, si concentrano sugli oggetti di uso quotidiano. Oggetti da cui ci separiamo a fatica, così vicini ma al tempo stesso così estranei. La poesia Oggetti è dedicata proprio a loro.
I piccoli oggetti, i piccoli/amici schiavi, che tirano/troppo in lungo la vita! … Gli ipocriti inermi! Bisbigliano/ aiuto, pietà.
Talvolta gli oggetti sono intrisi di significati metaforici, come nella poesia Bruco, dove Romagnoli osserva con lucidità e freddezza una vita che finisce. Solo un feroce distacco dalle cose le permette di sopportare il pensiero della morte.
Tagliato in due col suo frutto/il bruco si torce, precipita/nel piatto, ove un attimo orrendo /sopravvive al suo lutto.
Questo scrivere delle piccole cose di tutti i giorni ricorda la poetica di Kavafis. Ma il quotidiano è una tenaglia che stringe forte e Romagnoli si trova a vivere un continuo conflitto interiore, un conflitto dell’anima, e un senso di precarietà che la farà sentire estranea alla vita stessa.
Tu, che chiamiamo anima. Tu profuga, /reietta, indesiderabile. Tu transfuga/dal soffio dell’origine. /… Per registri e frontiere:/non esisti.
Fernanda Romagnoli si muove tra un forte desiderio di ribellione e un’amara rassegnazione al quotidiano.
Morte, se vieni per condurmi via, /lascia che ombra su ombra/io ripercorra la gente. /In quest’incrocio di rotte/casuali, ci siamo incontrati/ – fra vivi – così inutilmente.
Paragonata a Salinas, Caproni e Carducci, Romagnoli viene accostata anche a un’altra poeta, Emily Dickinson. Entrambe propense all’isolamento, a quel vivere in disparte, un certo distacco dal resto del mondo. Un distacco totale per Dickinson che vivrà tra le mura domestiche, reclusa nella propria stanza, mentre Romagnoli, pur non arrivando a questo estremo, vivrà in disparte, silenziosa, come un ospite che non vuole disturbare. E, come per Dickinson, nella poetica di Romagnoli emerge la tensione al divino.
Con Lui non abbiamo contatti. /Firma e sigillo: l’impronta del suo pollice…/ Le finestre non guardano che pietre, / da che segarono l’albero e l’uccello/portò altrove il suo canto.
Fernanda Romagnol
Quella di Romagnoli è stata definita una poesia dell’anima. Anima che ha bisogno di evadere, spaziare, essere libera.
Così a portata d’anima! / «Tu aspettami!» /Non udì. Sfavillò vuota la cruna. /Anima – o forma umana:/ah, già svanita.
Ma c’è un altro aspetto che ci fa ricordare Dickinson: il dolore, la malattia. Proprio il dolore, a partire dagli anni Settanta, sarà un compagno sgradito ma fedele di Fernanda Romagnoli. Un’epatite contratta nel periodo bellico la costringerà, nel 1977, a subire un intervento chirurgico al fegato. Nonostante i ripetuti ricoveri, Romagnoli non trascura la poesia.
Poi ti raggiungerò/là dove – abbandonata/la via terrestre, simile/a rotaia in disuso – s’incammina lo spirito, esitante.
In questo verso la vita viene paragonata a una rotaia in disuso, una similitudine come se ne trovano tante nelle sue liriche. E si trovano anche metafore, anafore, rime e assonanze.
Questo cuore mio, gonfio di pietre, / suona ancora conchiglie/ e il sudore dell’anima concima praterie di camelie.
E ancora:
…se tu l’ami, lei non ha colpa. /Ma io la vorrei morta.
Se in vita Romagnoli ebbe un breve periodo di notorietà, veloce come una meteora, dopo la morte sprofondò nell’oblio.
Voglio alzarmi. Ho paura. /Nel pozzo del cranio/ – senza uscita -. Nel buio sacrario/sconsacrato.
Alcune poesie inedite saranno pubblicate poco prima della sua morte dal quotidiano «Reporter», grazie a Ginevra Bompiani e Gianfranco Palmery, e dalla rivista «Arsenale».
Fernanda Romagnol
Ma sarà solo nel 2003 che Donatella Bisutti, dedicandoci anima e corpo, riuscirà a far ripubblicare, dall’editore Sheiwiller, Il tredicesimo invitato. Ma fu un’altra meteora, poi ancora quel destino che ritorna, di nuovo il silenzio. Di nuovo l’oblio. È per questo che abbiamo voluto scrivere di lei, e per lei. Perché ancora una volta potesse uscire da quel silenzio.
E affacciati guardando fluttuare/questa frangia di sera sui palazzi, /che di sprazzi vermigli ci colora.
Riportiamo il pensiero di Barbara Lanati circa la sua biografia su Emily Dickinson, facendolo nostro e dedicandolo a Fernanda Romagnoli.
Avrei voluto che fosse stata lei a parlare di sé. Lei tuttavia non c’è. Nonostante la sua assenza, non voglio attribuirle ciò che lei non avrebbe voluto le fosse attribuito. Né voglio offrirne un’immagine in cui non avrebbe voluto riconoscersi.
Fernanda Romagnoli muore all’età di settant’anni, a Roma, presso l’Ospedale Sant’Eugenio. È il 9 giugno 1986.
Fu feroce/il dettato di resa. In un minuto/la tua carne divenne un ectoplasma/dai gesti incomprensibili…/Maturavi/sola – nella placenta della morte.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Ogni gloria e misura sconvolgendo, studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli, «Nuova Corrente»
«Poesia», rivista trimestrale di poesia
Donatella Bisutti, Il fantasma di Fernanda, in «Le Voci della Luna», quadrimestrale di Informazione e Cultura Letteraria e Artistica
Emilia Sirangelo, Fernanda Romagnoli: l’esilio di un poeta
Pozzo-Martini
PAOLA POZZO Ottenuto il diploma presso lo Ied, illustra libri per ragazzi in Italia e all’estero, ed. San Paolo e Grimm Press di Tawian; lavora nella moda per Giorgio Kauten; disegna biglietti augurali e carte regalo per La Carterie di Panini e Auguri Mondadori. Illustra poesie per B. Mondadori Scolastica.
Per le ed. San Paolo pubblica un libro per ragazzi sulla pace.
Giornalista pubblicista, scrive recensioni presso una rivista. Vince vari concorsi letterari di narrativa breve, tra cui GialloMilanese e Keltia edizioni.
Pubblica racconti su tre antologie di genere Steampunk.
Vive a Milano.
Un destino di silenzio, lo definì qualcuno. E così sembra essere stato il destino di Fernanda Romagnoli. Assente in molte antologie, dimenticata, ignorata. Eppure Paolo Lagazzi la definisce “una poetessa grandissima”. E una poeta così grande non può e non deve rassegnarsi a un destino di silenzio. Non può e non deve essere un’ombra nella Storia.
Prima o poi qualcuno lo scopre:/io sono già morta/da viva.
Nasce a Roma il 5 novembre 1916. A diciotto anni si diploma in pianoforte al conservatorio di S. Cecilia, e a vent’anni conclude gli studi magistrali, da privatista. Tra il 1941 e il 1944 lavora come impiegata nel Consiglio Nazionale delle Ricerche.
La sua prima raccolta di poesie, Capriccio, viene pubblicata nel 1943, edizione Signorelli, con la prefazione di Giuseppe Lipparini. L’anno successivo si trasferisce a Erba con la famiglia, e poi torna a Roma nel 1946. Si sposa con Vittorio Raganella, un ufficiale di cavalleria con il quale dal 1948 al 1965 vive a Firenze, Pinerolo e Caserta. Infine Roma.
Tra il 1961 e il 1965 è maestra in alcune sedi di montagna. Ma perlopiù sarà moglie, madre, e poeta. Ruoli che non s’intersecano, abiti che Romagnoli indossa scompagnati. Come se la vita e la scrittura fossero due strade parallele, e questo la porta a vivere costanti sensi di colpa.
Io nel buio, in catene, a un palmo/da voi.
È del 1965 la seconda raccolta di versi, Berretto rosso, pubblicato da Sestante. Sono i primi anni Settanta che la vedono amica di Carlo Betocchi e Nicola Lisi, e nel 1973 esce la terza raccolta di poesie, Confiteor, edita da Guanda. Questo fu possibile grazie ad Attilio Bertolucci che dirà della sua poetica “uno scontro tra il quotidiano e il visionario”.
Io distendo le mani, che vi piova la chiarità…/tu aprimi i capelli/o brezza di levante.
Romagnoli passa dallo stampo ottocentesco della prima raccolta, a liriche visionarie e metafisiche. Una poetica che all’inizio parla di comunione di elementi, la natura percepita a livello sensoriale, un’atmosfera panica che ricorda D’Annunzio e Pascoli, con reminiscenze quasi leopardiane.
[…] i grandi fiori/dissetati splendevano, che un tempo/come piccoli pugni si serravano/per resistere a un marzo di gran vento.
Negli anni Settanta, Fernanda Romagnoli collabora con alcune riviste letterarie, «La Fiera Letteraria» e «Forum Italicum», per la radio Approdo. Scrive quelle che saranno le poesie de Il tredicesimo invitato che uscirà nel 1980 per Garzanti. La poesia che dà il titolo alla raccolta riporta a quel destino, al vivere in disparte.
Grazie – ma qui che aspetto? /Io qui non mi trovo. Io fra voi/sto come il tredicesimo invitato, /… E all’improvviso capisce/che siede un’ombra al suo posto:/che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori.
Il senso di inadeguatezza e l’estraneità alla vita sociale che Romagnoli vive, e soffre, sono espliciti, tangibili, e ne scaturisce un’insoddisfazione che la fa sentire scomoda dentro qualunque ruolo. Moglie, madre e poeta. Ruoli che non riuscirà mai a gestire come vorrebbe.
Avrà un difficile rapporto con la figlia, con la quale non farà in tempo a spiegarsi veramente. Scrive una poesia per lei, che fa così:
Si stringe chiusa, dura, /come nelle sue ciglia/la margherita sotto il temporale… Ma il mattino /dritta come una pianta, /spensierata, m’è presso il capezzale/che con l’aroma del caffè mi canta/ “sveglia”, col carillon del cucchiaino.
Vive ogni ruolo con sensi di colpa, che serpeggiano nelle sue poesie. Poesie che, tralasciate le atmosfere naturalistiche, si concentrano sugli oggetti di uso quotidiano. Oggetti da cui ci separiamo a fatica, così vicini ma al tempo stesso così estranei. La poesia Oggetti è dedicata proprio a loro.
I piccoli oggetti, i piccoli/amici schiavi, che tirano/troppo in lungo la vita! … Gli ipocriti inermi! Bisbigliano/ aiuto, pietà.
Talvolta gli oggetti sono intrisi di significati metaforici, come nella poesia Bruco, dove Romagnoli osserva con lucidità e freddezza una vita che finisce. Solo un feroce distacco dalle cose le permette di sopportare il pensiero della morte.
Tagliato in due col suo frutto/il bruco si torce, precipita/nel piatto, ove un attimo orrendo /sopravvive al suo lutto.
Questo scrivere delle piccole cose di tutti i giorni ricorda la poetica di Kavafis. Ma il quotidiano è una tenaglia che stringe forte e Romagnoli si trova a vivere un continuo conflitto interiore, un conflitto dell’anima, e un senso di precarietà che la farà sentire estranea alla vita stessa.
Tu, che chiamiamo anima. Tu profuga, /reietta, indesiderabile. Tu transfuga/dal soffio dell’origine. /… Per registri e frontiere:/non esisti.
Fernanda Romagnoli si muove tra un forte desiderio di ribellione e un’amara rassegnazione al quotidiano.
Morte, se vieni per condurmi via, /lascia che ombra su ombra/io ripercorra la gente. /In quest’incrocio di rotte/casuali, ci siamo incontrati/ – fra vivi – così inutilmente.
Paragonata a Salinas, Caproni e Carducci, Romagnoli viene accostata anche a un’altra poeta, Emily Dickinson. Entrambe propense all’isolamento, a quel vivere in disparte, un certo distacco dal resto del mondo. Un distacco totale per Dickinson che vivrà tra le mura domestiche, reclusa nella propria stanza, mentre Romagnoli, pur non arrivando a questo estremo, vivrà in disparte, silenziosa, come un ospite che non vuole disturbare. E, come per Dickinson, nella poetica di Romagnoli emerge la tensione al divino.
Con Lui non abbiamo contatti. /Firma e sigillo: l’impronta del suo pollice…/ Le finestre non guardano che pietre, / da che segarono l’albero e l’uccello/portò altrove il suo canto.
Quella di Romagnoli è stata definita una poesia dell’anima. Anima che ha bisogno di evadere, spaziare, essere libera.
Così a portata d’anima! / «Tu aspettami!» /Non udì. Sfavillò vuota la cruna. /Anima – o forma umana:/ah, già svanita.
Ma c’è un altro aspetto che ci fa ricordare Dickinson: il dolore, la malattia. Proprio il dolore, a partire dagli anni Settanta, sarà un compagno sgradito ma fedele di Fernanda Romagnoli. Un’epatite contratta nel periodo bellico la costringerà, nel 1977, a subire un intervento chirurgico al fegato. Nonostante i ripetuti ricoveri, Romagnoli non trascura la poesia.
Poi ti raggiungerò/là dove – abbandonata/la via terrestre, simile/a rotaia in disuso – s’incammina lo spirito, esitante.
In questo verso la vita viene paragonata a una rotaia in disuso, una similitudine come se ne trovano tante nelle sue liriche. E si trovano anche metafore, anafore, rime e assonanze.
Questo cuore mio, gonfio di pietre, / suona ancora conchiglie/ e il sudore dell’anima concima praterie di camelie.
E ancora:
…se tu l’ami, lei non ha colpa. /Ma io la vorrei morta.
Se in vita Romagnoli ebbe un breve periodo di notorietà, veloce come una meteora, dopo la morte sprofondò nell’oblio.
Voglio alzarmi. Ho paura. /Nel pozzo del cranio/ – senza uscita -. Nel buio sacrario/sconsacrato.
Alcune poesie inedite saranno pubblicate poco prima della sua morte dal quotidiano «Reporter», grazie a Ginevra Bompiani e Gianfranco Palmery, e dalla rivista «Arsenale».
Ma sarà solo nel 2003 che Donatella Bisutti, dedicandoci anima e corpo, riuscirà a far ripubblicare, dall’editore Sheiwiller, Il tredicesimo invitato. Ma fu un’altra meteora, poi ancora quel destino che ritorna, di nuovo il silenzio. Di nuovo l’oblio. È per questo che abbiamo voluto scrivere di lei, e per lei. Perché ancora una volta potesse uscire da quel silenzio.
E affacciati guardando fluttuare/questa frangia di sera sui palazzi, /che di sprazzi vermigli ci colora.
Riportiamo il pensiero di Barbara Lanati circa la sua biografia su Emily Dickinson, facendolo nostro e dedicandolo a Fernanda Romagnoli.
Avrei voluto che fosse stata lei a parlare di sé. Lei tuttavia non c’è. Nonostante la sua assenza, non voglio attribuirle ciò che lei non avrebbe voluto le fosse attribuito. Né voglio offrirne un’immagine in cui non avrebbe voluto riconoscersi.
Fernanda Romagnoli muore all’età di settant’anni, a Roma, presso l’Ospedale Sant’Eugenio. È il 9 giugno 1986.
Fu feroce/il dettato di resa. In un minuto/la tua carne divenne un ectoplasma/dai gesti incomprensibili…/Maturavi/sola – nella placenta della morte.
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Fernanda Romagnoli
Ogni gloria e misura sconvolgendo, studi sulla poesia di Fernanda Romagnoli, «Nuova Corrente»
«Poesia», rivista trimestrale di poesia
Donatella Bisutti, Il fantasma di Fernanda, in «Le Voci della Luna», quadrimestrale di Informazione e Cultura Letteraria e Artistica
Emilia Sirangelo, Fernanda Romagnoli: l’esilio di un poeta
Elizabeth Jane Howard-la vita , gli amori e le lettere-
Pubblichiamo il ritratto del Guardian di Elizabeth Jane Howard, la scrittrice di cui abbiamo pubblicato Il lungo sguardo e stiamo pubblicando la saga dei Cazalet.
Famosa e bella, si sposò giovane e, dopo una serie di tresche amorose, abbandonò il primo marito e la figlia per diventare una scrittrice. Sposò successivamente Kingsley Amis e, fino al loro rancoroso divorzio, la vita domestica ha adombrato la sua opera. Alle soglie degli ottanta ha pubblicato una candida autobiografia.
Elizabeth Jane Howard
Elizabeth Jane Howard incappò nella sua bellezza come in una favola, aveva diciotto anni e risiedeva in una sontuosa casa nel Sussex: «Il calzolaio lavorava in una piccola capanna alla fine del villaggio. Era un uomo dall’aspetto gentile e tragico e molto bravo nel suo lavoro. Era sordo e ritardato, ma sapeva leggere e scrivere, e aveva una lavagna sulla quale ognuno scriveva i propri ordini…
I nostri sorrisi quel mattino si erano allargati a mo’ di saluto, e scrissi ciò di cui avevo bisogno – nuove suole e tacchi – sulla sua lavagna. Si rigirò le mie scarpe tra le mani con uno sguardo assente – non le stava guardando realmente – afferrò la lavagna all’improvviso, vi scrisse furiosamente, e me la spinse tra le mani. Si leggeva: “Tu amorevole ragazza come principessa, me piacere sposare te”. Poi ci fu una pausa, e “?”.
Alzai lo sguardo, il suo volto riluceva di propositi. Mi mise la penna tra le mani e ripulì attentamente la lavagna per la mia risposta. Scrissi: “Tu molto gentile. Non posso sposare nessuno devo imparare a battere a macchina per la guerra”. Lesse, e il suo volto cambiò lentamente, come il sole che tramonta. Alzò le spalle con dolcezza e scrisse, “Martedì. 12s 6d non farti bombardare”.
“Grazie, cercherò di non farmi bombardare”. Sorrise con una profonda tristezza e sotto la mia risposta scrisse “Arrivederci Arrivederci”, e sottolineai le parole sulla lavagna per salutarlo».
La storia è presa dall’autobiografia, Slipstream. Poco dopo l’incontro con il calzolaio, Howard venne sedotta dall’ammaliante Peter Scott, ufficiale su una nave militare nel Canale della Manica, figlio dell’esploratore polare Robert Falcon Scott, che era morto nell’Antartico nel 1912
Lavorò per poco tempo come attrice in teatri di provincia; rimase comunque un’ingenua. La figura della bella e giovane ragazza ammirata per tutto eccetto le sue reali virtù ricorre spesso nei dodici romanzi di Howard. In Slipstream si capisce quanto di autobiografico ci fosse, sebbene i personaggi nell’autobiografia siano meno vivi di quelli presenti nei suoi romanzi.
Elizabeth Jane Howardby Madame Yevonde, bromide print on velvet card mount, January 1967
Elizabeth Jane Howard, meglio nota come Jane, nacque nel 1923, la più grande dei figli di David Howard, il quale giocava a fare il mercante di legname con molto meno entusiasmo di quando sparava, danzava e faceva la corte alle donne; e Kit, nata Somervell, figlia di un compositore, la quale per il matrimonio rinunciò alla sua carriera di ballerina nel Ballet Rambert, senza riuscire a trovare nulla con cui sostituirla.
David Howard venne arruolato nel Corpo dei Mitraglieri nel 1914, diciassettenne, e sopravvisse quattro anni sul fronte occidentale. Raccontò a sua figlia che vinse la sua seconda croce militare urinando su una mitragliatrice per raffreddarla cosicché potesse continuare a sparare. Della sua esperienza militare, altrimenti, non parlò mai.
Dirigeva l’azienda di legname di famiglia, sebbene non sia particolarmente esatto dire che lui o suo fratello vi lavorassero per davvero: «Erano molto affermati e godevano di buona reputazione, ma non sapevano gestire i soldi», dice Howard.
«Si divertivano un mondo. Tutti avevano qualcosa da fare, così loro facevano questo». Suo padre si faceva accompagnare in auto in ufficio tutte le mattine durante la depressione degli anni Trenta, quando si poteva parcheggiare ovunque in Piccadilly. Ballare, andare alle feste e le donne, che cadevano ai suoi piedi a frotte, era tutto ciò che amava.
Alla fine, al termine della seconda guerra mondiale, un’amante lo accalappiò definitivamente. Divorziò – la prima volta che accadeva nella famiglia Howard – e si risposò; la nuova matrigna si impegnò con solerzia nel separare il marito dai figli.
Difficile trovare qualcuno che parli bene della madre di Jane Howard, Kit, la prima ballerina abbandonata in maniera umiliante da suo marito. Martin Amis, il figlioccio di Howard, ricordava Kit alla fine della sua vita come «una snob e una brontolona», specialmente nei confronti del «dolce» Colin, il figlio che ora progetta e produce altoparlanti hi-fi.
Elizabeth Jane Howard
Nonostante a Colin Howard non piaccia questa descrizione di Kit, dice: «È piuttosto ovvio che la mamma preferisse i figli maschi [ce n’era anche un altro, Robin], e non riuscisse a veder nulla di buono in Jane. Una volta, dopo aver letto uno dei romanzi di Jane, dissi: “Credo che scriva in maniera davvero meravigliosa”, e la mamma rispose: “Peccato che non abbia nulla di cui scrivere”. E so che se io avessi scritto qualunque cosa che fosse stata anche solo buona la metà, si sarebbe sperticata in elogi imbarazzanti».
Anche il pittore Sargy Mann, un amico di lunga data di Jane e Colin, ritiene che l’atteggiamento di Kit abbia prodotto danni permanenti. «In un certo senso Jane è sempre alla ricerca di qualcosa di irraggiungibile. Credo sia l’amore materno, in realtà».
Kit Howard diede a sua figlia due consigli brutalmente inutili: «Non rifiutare mai tuo marito – comunque tu ti senta», e «le persone come noi non fanno scene né rumore quando partoriscono».
Questo non preparò Jane al matrimonio con il talentuoso, onesto e ammaliante Peter Scott. Lei aveva diciannove anni, lui trentadue, e lei presto scoprì di non amarlo. L’intimità con le donne non era il suo forte, sebbene non avesse problemi nel sedurle. Lei era sola, era una spendacciona ed era oppressa dall’intelligenza e dal carattere dominante della suocera, la scultrice Kathleen Scott, che aveva sposato Lord Kennet dopo che il suo primo marito era deceduto.
Howard non poteva fare a meno di tradire, e cominciò con il fratellastro di Peter Scott. Nel giro di cinque anni il matrimonio si era arenato nelle latitudini antartiche della gentilezza distaccata. Nel 1947 lasciò Scott e la figlia neonata Nicola per diventare una scrittrice. Si trasferì in un scalcinato appartamento del XVIII secolo dalle parti di Baker Street: «Ricordo la mia prima notte passata là, una lampadina senza plafoniera sul soffitto, il pavimento di legno pieno di chiodi minacciosi, la decadenza che si respirava sotto l’odore della vernice umida e la spiacevole sensazione che fosse tutto lurido a eccezione della mia camicia da notte. Soprattutto mi sentivo sola, e l’unica cosa di cui ero certa era che volevo scrivere».
Nonostante la povertà, lo scoramento, e quella che sembrava una successione senza fine di uomini intelligenti che ritenevano il suo talento assai meno interessante del loro, ebbe successo. Martin Amis scrisse nella sua autobiografia, Esperienza che: «Lei è, assieme a Iris Murdoch, la più interessante scrittrice della sua generazione. Un’istintiva, come Muriel Spark, il suo sguardo è poetico e bizzarro, e ha una saggezza penetrante».
Elizabeth Jane Howard
Nel 1950 pubblicò il suo primo romanzo, The Beautiful Visit. Era diverso, energico e incredibilmente sensuale: è sempre stata una scrittrice per cui odori e sapori erano di grande importanza. Jonathan Cape, che lo pubblicò, la inseguì attorno al tavolo della sala riunioni dopo averle accordato 50 sterline di anticipo.
L’anno seguente vinse il premio John Llewellyn Rhys per il miglior romanzo scritto da un’under 30. Cape provò a reclamare un 10% in quanto agente ma lei lo stroncò. Era diventata una professionista, ma per la stragrande maggioranza dei dieci anni successivi non riuscì a guadagnarsi da vivere con i suoi romanzi, per quanto venissero lodati.
I soldi della famiglia Howard non sopravvissero per molto al padre. L’azienda di legname fallì durante la generazione di Howard, quando Robin ebbe la sfortuna di dirigerla dopo che lo zio e il padre l’avevano depredata. La residenza venne venduta e i mobili andarono dispersi. Howard possiede ancora una ciocca di capelli di Mozart, un cimelio di famiglia della madre, ma è pressoché tutto ciò che è sopravvissuto dei fasti della sua infanzia.
Durante gli anni Cinquanta Howard visse separata dalla figlia. Nicola, ora Nicola Starks, disegnatrice di gioielli, dice di non essersi mai opposta a questa disposizione: «Lei era semplicemente una bellissima estranea che di tanto in tanto veniva a farmi visita».
Come gran parte dei bambini del suo rango, i legami emotivi più stretti Nicola li aveva con la bambinaia, con la quale viveva e che condivideva con la famiglia di Josie Baird, una cugina di uno degli amanti sposati di Howard, che aveva quattro bambini e una casa spaziosa nei pressi di Regents’ Park.
Questa sistemazione era molto comoda, ma dopo che Peter Scott si risposò e Nicola andò a vivere con la sua nuova matrigna, Josie Baird si ammalò gravemente di tbc e Howard cominciò ad andare a trovarla in ospedale.
«Era incredibilmente fantasiosa, mi dava un grande sostegno ed era estremamente affidabile», afferma la Baird. «Le sono ancora grata da allora. Ha la grandiosa qualità dell’empatia».
Negli anni Cinquanta gli uomini si mettevano in fila per Howard. Baird racconta: «Ricordo quanto fosse bella. Aveva una linea perfetta e si vestiva sempre con degli ottimi colori. Aveva gusti interessanti, ma non infallibili. Non tutti gli uomini ne erano attratti, ma chi ne era affascinato la trovava molto attraente».
In Slipstream Howard racconta di come Arthur Koestler le chiese a pochi giorni dal loro primo incontro di sposarlo, poi la costrinse a rimanere incinta e abortire, e dopodiché la scaricò. Cecil Day Lewis non permise che il proprio matrimonio con l’amica di lei, Jill Balcon, lo trattenesse, sebbene Howard fosse affranta dal senso di colpa, e mise fine alla tresca non appena poté.
Lewis fece da madrina a uno dei bambini nati dal matrimonio, Tamasin Day Lewis, autrice di libri di cucina, che per un certo periodo fu anche la fidanzata di Martin Amis. Laurie Lee portò Howard in Spagna per farla riprendere da un’infelice storia di amore. Come la prese sua moglie?
Howard dice: «Penso che a Kathy probabilmente dispiacesse essere lasciata a casa. Sapeva che eravamo amanti. Eravamo tutti amici; e lo siamo sempre stati. Laurie la tradiva costantemente. Ma penso che lei riconoscesse, come molte altre persone, che non era quella la cosa più importante in un matrimonio. Nemmeno io penso che lo sia. Ciò che importa è quello che hai con l’altra persona, non quello che non hai. Credo abbia passato dei momenti piuttosto difficili, come la stragrande maggioranza delle persone che sposano un artista. So che a Mr Blair non piacerebbe quello che sto per dire, ma gli artisti non sono come le altre persone. Alle altre persone piace pensare di venire per prime, e quando si ha a che fare con un artista non è più così».
Nel 1956 pubblicò Il lungo sguardo, una riflessione su un matrimonio raccontato a ritroso. La scrittrice Angela Lambert dice: «Non capirò mai perché Il lungo sguardo non venga riconosciuto come uno dei grandi romanzi del XX secolo. Credo che mai nessuno sia riuscito a esprimere con tanta delicatezza il modo in cui la bellezza giovanile sia stata dominata e sfruttata. Ha un’intelligenza meravigliosa – sottile e dolorosa».
Alla fine degli anni Cinquanta Howard imparò, dice, a lavorare in maniera adeguata, nonostante le brevi avventure con Cyril Connolly e Kenneth Tynan: «Con i libri mi capita di soffrire terribili ansie quando sento che non sono per niente buoni. Ma non sono molto brava a giudicare. Penso che ormai sia probabilmente un po’ tardi per imparare, ho quasi ottant’anni. Mi sento molto ignorante. Ci sono un sacco di cose che non so fare, e di cui non so nulla. Mi sarebbe piaciuto davvero molto andare all’università e frequentare un corso di letteratura inglese. Leggo forsennatamente per recuperare, ma ancora non sono erudita nel modo in cui lo è il mio figlioccio. Da questo deriva una maggiore facilità nell’esprimersi. Non ho scritto saggi per altri e non mi è mai stato detto di fare questo o quello, e credo che sarebbe stato ottimo per me».
Come parte integrante di questo spirito di auto-miglioramento, decise di smettere di fare l’amante, e rimase sposata per un po’ di tempo con Jim Douglas Henry, un futuro scrittore di storie dell’orrore di successo.
Kingsley Amis and Elizabeth Jane Howard
Scrisse The Sea Change, forse il suo romanzo meno soddisfacente, che tratta della trasformazione e della redenzione di una vecchia e ricca coppia rovinata dall’accumularsi di una serie di disgrazie; iniziò a lavorare a After Julius, un romanzo sul coraggio, il dovere e l’amore; e le venne chiesto un aiuto nell’organizzare il Cheltenham Literary Festival del 1962.
Con Joseph Heller, Carson McCullers e il romanziere francese Romain Gary organizzò un dibattito su sesso e letteratura. Altri organizzatori aggiunsero Kingsley Amis, che lei accettò dopo feroci proteste. Arrivò con la moglie, Hilly, che se ne andò a dormire presto, e lui rimase alzato a parlare e bere con Howard, all’inizio per dovere sociale, fino alle quattro del mattino. La loro unione divenne ufficiale in inverno: Tom Maschler, l’editore, affittò loro la casa. Martin Amis, in Esperienza, raccontò come la sua innocenza infantile ebbe fine quando la nonna gallese gli disse: «Tuo padre ha un’amichetta a Londra».
Kingsley Amis scriveva poesie nelle quali Howard veniva descritta come una principessa delle favole, e raffinate lettere d’amore. Alcune delle lettere che lei indirizzò a lui finirono nelle mani di Hilly, la quale le passò a un avvocato. Nessuno tuttavia sembrava aspettarsi una loro fuga.
Amis era stato un adultero straordinariamente vigoroso e creativo per gran parte del suo matrimonio. Hilly aveva contraccambiato a sua volta con amori extraconiugali. Ma avevano tre bambini e stavano programmando di passare un anno a Maiorca, vicino a Robert Graves.
Il matrimonio sembrava poter reggere. Amis si sentì autorizzato a passare tre settimane con Howard in Spagna prima che la famiglia si trasferisse. Quando la coppia ritornò, lui rimase di stucco nello scoprire che la casa di famiglia a Cambridge era deserta. Hilly aveva portato i figli a Maiorca senza di lui. Così Amis si trasferì con Howard e si sposarono nel 1965. I primi anni furono meravigliosamente felici.
«Per molto tempo in casa c’è stata quella confidenza e liberalità spiritosa che si raduna attorno a un matrimonio vivace», ha scritto Martin Amis in Esperienza. Il suo incontro con l’amichetta non era stato di buon auspicio: un paio di settimane dopo la separazione della famiglia, quando i due amanti vivevano ancora in un appartamento in affitto a Baker Street, lui e il fratello Philip arrivarono a mezzanotte.
Gli adulti non avevano sospettato niente finché il campanello non suonò; ai bambini non era stato detto che il padre condivideva un appartamento con una donna. Comparve dietro di lui nell’ingresso, in vestaglia da notte con i capelli fino alla vita, intenta a cucinare uova e pancetta.
Da quel momento il suo impegno da matrigna non diminuì. Riconobbe l’intelligenza di Martin e si assicurò che la mettesse a frutto. Parla con affetto e rispetto del suo carattere come della sua scrittura. Una sera dei primi tempi, quando se ne stava «stravaccato con la delusione dipinta in faccia, trasudando noia da ogni poro, gli chiesi cosa avrebbe voluto fare da grande».
“Lo scrittore”, rispose. “Tu, lo scrittore? Ma se non hai mai letto nulla”. Mi guardò e disse: “Dammi un libro allora”».
Lei ritenne che fosse una risposta intelligente e raffinata e gli diede Orgoglio e pregiudizio. Nel giro di un’ora trepidava per sapere la fine. Lei si rifiutò di dirglielo e lui lo lesse tutto. Lo iscrisse in un istituto per la preparazione agli esami nel Sussex, assicurando il preside che si trattava di uno studente che aveva le potenzialità per accedere a Oxford, ed in effetti si rivelò tale.
«Jane fu una matrigna strepitosa», scrisse lui successivamente. «Era generosa, calorosa, e piena di risorse; salvò la mia istruzione e per questo nessuno sa quanto le sia debitore.»
Elizabeth Jane Howardby Francis Goodman, 2 1/4 inch square film negative, 1966
Nel 1969, gli Amis comprarono Lemmons, una casa in stile Re Giorgio che occupava tre acri nella periferia settentrionale di Londra. Dava rifugio a uno scombinato assortimento di familiari e amici: Kit Howard visse lì fino a quando morì nel 1971; Colin condivise l’abitazione per otto anni.
Anche al suo amico, il pittore Sargy Mann, venne data una parte della casa fino a quando non se ne andò per sposarsi con un’altra pittrice, Frances Carey. Cecil Day Lewis si trasferì lì per morire quando ormai non c’era più molto da fare per il suo cancro, e scrisse la sua ultima poesia celebrando la casa e i suoi abitanti.
Tutto lo splendore bohémien ruotava attorno a Kingsley. «Credo fosse meraviglioso per tutti eccetto che per Jane», dice Sargy Mann. Howard si ritrovò a cucinare e gestire una casa abitata da otto o più persone, scrivendo sempre meno.
Racconta: «Lavoravo molto poco con Kingsley. Semplicemente non ne avevo l’energia. Non mi sentivo affatto apprezzata, non da Kingsley: lui era sempre gentile e rispettava il mio lavoro, ma non pensava a quanto fosse difficile cucinare per otto persone e fare la spesa e i vari tragitti in auto e i conti e scrivere le lettere e scrivere. Lui si svegliava e scriveva. Poi pranzava, faceva una passeggiata o un riposino, e poi scriveva di nuovo».
Lentamente, il castello delle fiabe si trasformò, fino a che la principessa non assomigliò a una strega, e il principe che l’aveva salvata si rivelò orchesco. Sargy Mann racconta: «Non mi piace ammetterlo ma una delle ragioni per le quali non aiutai di più Jane è che ero troppo occupato a stare al fianco destro di Kingsley. Dovevi adularlo. E se era di buon umore, andava alla grande. È facile fare cattiva pubblicità a Kingsley perché per molti versi era uno stronzo, ma per molti altri era straordinario».
Verso la metà degli anni Settanta, ha detto Howard, l’alcol o l’età avevano eroso l’abilità di Amis a letto. Lei si risentì e lui si risentì del suo risentimento. Se lei non scriveva nulla di letterario, lui scriveva romanzi amareggiati per sbarazzarsi di lei nell’immaginazione – La rinuncia di Jake e Stanley and the Women.
Lei li trovò così dolorosi che non lesse nessuno dei suoi lavori successivi, come Vecchi diavoli. Un volume di sue poesie era poggiato nello studio di Howard quando venne fotografata recentemente, ma i lavori da lei preferiti sono oggi pressoché dimenticati.
«Quando stava esplorando la narrativa di genere, in un certo senso gli si addiceva di più. Non li apprezzo. Quelli brutti sono davvero brutti, sinceramente, ma, in tutti ci sono sempre delle briciole di meraviglia.
Modificazione H.A. (un romanzo di fantascienza) è un libro notevole. E penso che sia un libro notevole anche Ending Up. Anche L’uomo verde è molto buono».
Più d’ogni altra cosa lei disprezza l’idea di un romanzo comico: «I romanzi migliori hanno della comicità; in Jane Austen ci sono dei momenti, situazioni, personaggi e dialoghi molto, molto divertenti. Ma i suoi non sono romanzi comici. Penso che le commedie migliori provengano da persone molto depresse, persone molto tristi, con un’acuta consapevolezza della morte e della sofferenza, che usano per farti ridere.
Mi sorprende sempre quanto raramente il loro pubblico se ne renda conto».
Nel 1975 il gruppo di Lemmons si separò, e gli Amis si traferirono a Hampstead, dove non c’era spazio per la famiglia allargata, né per il fiorente rancore. Nel 1980, Howard infine lasciò Kingsley con la lettera di un avvocato inviata da un centro termale dove si era ritirata per una settimana con un manoscritto, scritto per un quarto, intitolato Getting it Right.
Lei si offrì di tornare se lui avesse smesso di bere, ma non era una cosa su cui lui si sarebbe accordato. Lui guadagnava circa 80.000 sterline l’anno, lei meno di un decimo, sebbene avesse comprato la casa a Hampstead. Getting it Right era stato accolto candidamente ma l’aiutò ben poco a rifinanziare le sue fortune.
Racconta: «Meno i miei libri vendevano meglio erano accolti, ma non appena cominciai a vendere passai immediatamente di moda». Nel 1982, su consiglio di Martin Amis, cominciò a lavorare a una serie di romanzi, ispirati all’esperienza della sua famiglia, sulla trasformazione della società inglese nella seconda guerra mondiale.
A ristorare le sue finanze fu La saga dei Cazalet – ne scrisse quattro in quindici anni -, e nel 1990 si trasferì in una casa stile Re Giorgio nel Suffolk, vicino a Sargy Mann. Kingsley Amis morì quell’anno, portandole ancora rancore. La casa nel Suffolk, il giardino e il prato attigui divennero più belli sotto la sua cura. Gli amici la venivano a trovare, iniziò una vita all’insegna della felicità, della produttività e dell’ordine.
Nel 1955, dopo la seconda partecipazione a Desert Island Discs (una trasmissione radio della bbc in onda dal 1942 N.d.T.), un fan le scrisse, desideroso di sapere altro. La sedusse in poco tempo, per quanto famiglia e amici nutrissero dei sospetti. Avrebbe potuto benissimo sposarla se non che Nicola controllò la sua autobiografia: lui affermava che sua moglie fosse morta in un incidente a cavallo. Di tutto ciò non c’era traccia nei registri di Somerset House.
Al ritorno dalle vacanze Howard trovò Nicola e Colin a spiegarle, con tanto di prove, che lo spasimante era un bugiardo cronico e l’aveva tradita. Da questa esperienza uscì il suo libro più strano e tenebroso, Falling, pubblicato nel 1999, nel quale l’eroina è inseguita da una figura di inesauribile malevolenza che lei ha incontrato entrando nella casa sbagliata.
Questa malvagità è incarnata da un giardiniere di nome Henry; ai capitoli scritti in prima persona si alternano quelli in terza della voce del narratore che osserva l’eroina.
«Non c’è nulla per te là», le viene detto quando la sua malvagità viene rivelata. «Non c’è cuore. Niente tra la testa e i genitali».
Howard lo ritiene il suo romanzo più riuscito. Non appena pubblicato ricevette una lettera di apprezzamento con una scrittura familiare: «Una nuova avventura ha inizio», si leggeva. La firma era «Henry», il pretendente escluso si era riconosciuto nel giardiniere del romanzo. Quella fu la fine delle sue speranze romantiche.
La malattia, seria e spiacevole, interruppe il lavoro sulla sua autobiografia.
È difficile immaginare un’altra bella donna scrivere con tanta disinvoltura e tanto distacco di una colostomia. L’artrite la obbliga ad alzarsi dalla sedia con uno strattone che assieme all’autocontrollo, per un momento, rende il suo viso leonino. Non può più dedicarsi molto al giardinaggio. Ma, come i suoi libri, la casa cela un sacco di vividi piaceri dietro una facciata convenzionale.
Il giardino che ha curato, e il prato che arriva fino a un’isola sul fiume dietro di esso, formano un mondo privato e incantato. Sul ponte ha aspettato per dare da mangiare a un cigno nero perfettamente combaciante con il suo riflesso sulle acque calme. Non sapeva, dice Howard, quale dei due libri dovrebbe essere il prossimo a essere scritto.
La vita in uno sguardo.
Nata a: Londra, il 26 marzo 1923, figlia di David Liddon Howard e Katharine (Kit) Howard.
Istruzione: Scuola per infermiere e governanti.
Sposata dal 1942 al 1951 con Peter Scott (una figlia, Nicola, nata nel 1943); dal 1957 al 1960 con Jim Douglas-Henry; dal 1965 al 1982 con Sir Kingsley Amis.
Impiego: dal 1939 al 1950, attrice, modella, segretaria e infine scrittura e editoria.
Pubblicazioni: 12 romanzi, inclusi 1950 The Beautiful Visit, 1956 Il lungo sguardo, 1959 The Sea Change, 1965 After Julius, 1969 Something in Disguise (1982 serie TV), 1972 Odd Girl Out, 1982 Getting It Right, dal 1990 al 1995 La saga dei Cazalet; 1999 Falling. Also short stories, ha scritto inoltre sceneggiature, sceneggiati televisivi e un’autobiografia, Slipstream, nel 2002.
Traduzione di Simone Traversa
Fonte Il blog di Fazi Editore » Elizabeth Jane Howard: «Non ho mai pensato che Kingsley Amis fosse migliore di me come scrittore»
Quel misterioso “per sempre”. Pupi Avati e l’amore di una vita in una lettera-
Pupi Avati, regista che ha segnato la storia del cinema raccontando l’Italia profonda (la provincia, il Medio Evo, le ambizioni della modernità) ha fatto una cosa bellissima. Ha scritto una lettera d’amore a sua moglie, Amelia Turri, affettuosamente chiamata Nicola, con cui è sposato dal 1964. Un amore che riemerge fortissimo, non diverso da quello giovanile (“l’innamorato ha una sola età, quella dell’adolescenza”, scrive), e anzi miracolosamente intatto. C’è la stessa paura della perdita, l’innominabile gelosia, la gratitudine nell’immaginare che “dentro mia moglie, a quel giacimento di bellezza che c’è in lei, ci sia tutta la mia vita, che nel suo sguardo ci sia io a tutte le mie età” (“Ritorno in me, quando ritorno in te”, scrive Edoardo Sanguineti). C’è un sentimento di infinito, di divina “attesa infantile” e di promessa (il misterioso “per sempre” pronunciato il giorno del matrimonio); lo stesso che già animava il suo film su Dante (di cui Avati ha parlato ad Altritaliani due anni fa: «Il Dante» di Pupi Avati: il ragazzo che conosce il nome delle stelle. Di tutte.). “Vorrei soprattutto che (…) quel misterioso “per sempre” si avverasse”, scrive Avati. Siamo felici di pubblicare su Altritaliani questa lettera (già uscita, il 24 gennaio, su Il Foglio), «un cadeau» di Pupi Avati per i lettori del nostro sito. *******
Pupi Avati e l’amore di una vita in una lettera
Mi sono rinnamorato di mia moglie a ottantasei anni, ed è qualcosa che ha a che fare con l’ineffabile. Di Pupi Avati Disponeva di un team di corteggiatori migliori di me. Mi scelse forse più per sorprendere se stessa che per altro. Il sentimento riemerge da vecchi in una declinazione struggente. Perché mi è stata donata una vita intera. So che la ragazza che sposai sessant’anni fa non leggerà mai questa mia confidenza e quindi mi sento libero di essere assolutamente sincero. In questo ultimo quarto della mia vita sto scoprendo di essermi rinnamorato di lei. Fra i miei coetanei c’è una distinzione evidente fra le mogli di prima del successo e quelle di dopo il successo. La prima in genere dopo averti supportato nell’affrontare la più impervia delle salite è destinata, come risarcimento, una volta raggiunta la vetta, a scomparire, a venire risucchiata nell’anonimato. È quella che accettò di sposarti quando non eri nulla di più del modello base dell’italiano medio, privo di ogni accessorio, di ogni esplicita peculiarità, ma segretamente ambiziosissimo. La prima è quella che nelle tante sere di depressione, quando fosti tentato di rinunciare ai tuoi sogni, ha ereditato il ruolo di tua madre che continuava a ripeterti che ce l’avresti fatta. La prima è quella che, per il suo bene, avrebbe dovuto desiderare il tuo insuccesso, per salvare la vostra famiglia dalla catastrofe, avrebbe dovuto gioire delle tue difficoltà crescenti. Come mia moglie, restata definitivamente la sola a sopportarmi forse per non aver mai raggiunto l’invasamento che procura il raggiungere un consolidato successo. Se, a metà degli anni Sessanta, provai per lei la più forte attrazione che abbia mai provato, il rinnamorarsi a ottantasei anni di quella stessa ragazza ha a che fare con l’ineffabile. O con la demenza senile. Opto per la prima ipotesi che mi ha indotto a vedere il mio lungo percorso di vita sempre con un senso di attesa infantile. Come se non fosse disdicevole attendersi lo straordinario. Ed è del tutto straordinario il riaffacciarsi di questo sentimento per quella stessa ragazza che corteggiai per anni prima di convincerla, per sfinimento, a sposarmi. Insomma questo sentimento, in questo tratto conclusivo della mia esistenza, si è riappalesato in modo inatteso e probabilmente sconveniente. E il primo test che mi ha confermato quanto si trattasse realmente di amore è la gelosia. So che è di cattivo gusto solo alludervi, specie alla mia età, tuttavia è così. Hai nuovamente quella paura di perderla che ti indusse a renderle invivibili i primi anni del matrimonio. Ma non avrei potuto fare altrimenti, convinto che l’amore sfugga alla ragione. L’innamorato ha una sola età, quella dell’adolescenza, quella in cui è al culmine della sua capacità di immaginare. Immaginare che dentro mia moglie, a quel giacimento di bellezza che c’è in lei, ci sia tutta la mia vita, che nel suo sguardo ci sia io a tutte le mie età: quando suonavo, quando vendevo i surgelati, quando nacquero i nostri figli e la lasciai sola a Bologna la notte in cui toccò al nostro Tommaso. Essendoci sempre. Traducendosi nel solo hard disk che contenga la gran parte dei file della mia vita. E c’era nelle separazioni, e nelle rappacificazioni, nei subbugli affettivi e nei ricongiungimenti difficili, dandomi figli superbi e amore e sacrifici e anche insofferenza e rancore. Nei suoi occhi ci sono gli infiniti giorni del dolore per la perdita di un nipotino, il rammarico per le mie reiterate sconfitte, in tutti gli ambiti, da quello musicale a quello cinematografico. Il solo settore per il quale fui universalmente considerato talentuoso fu quello dei surgelati, nel quale veramente eccelsi e che tuttavia abbandonai tramortito dall’“Otto e mezzo” Felliniano. Raggiunti i settant’anni insorse fra di noi una sorta di crescente pudore. L’avvertire il preannunciarsi con tutte le evidenze di un incombente declino fisico e di patirne la vergogna che andava traducendosi in un insieme di pudori (in un film di qualche anno fa a proposito di rapporti fra coniugi anziani feci dire a Pozzetto che da vecchi non ci si abbraccia più). E questo tempo che mi ha dato è l’intera sua vita, rinunciando alle molte ambizioni personali che avrebbe legittimamente potuto nutrire, per rassegnarsi, come d’altra parte i miei figli e mio fratello, a vivere il mio egocentrismo come uno stigma, un evidente disturbo mentale. L’ambiente cinematografico, soprattutto vissuto da chi vi accedeva dalla provincia, non era il più raccomandabile per garantire al nostro matrimonio quei requisiti indispensabili alla sua salvaguardia. Furono gli anni in cui, per una folgorazione per il cinema, scompaginai non solo la mia vita, ma la sua, quella di mia madre, e dell’intero contesto famigliare, riuscendo a convincerli che sarebbe stato sufficiente avere la possibilità di una sola “opera prima” per accedere con tutti gli onori a questo sfavillante mondo. Incominciando a impostare quel discorso di ringraziamento che avrei dovuto pronunciare alla ineluttabile cerimonia degli Oscar. Ma che mai mi occorse. Tale fu la mia ingenuità e peraltro la sua che, disponendo di un team di corteggiatori per censo e avvenenza preferibile a me, mi scelse, forse più per sorprendere se stessa che per altro.
Pupi Avati e l’amore di una vita in una lettera photo prise à Paris le 15/01/23 par Basile Mesré-Barjon
E così questa ragazza che avrebbe potuto avere una sua storia d’amore con un rassicurante bolognese dalle estati a Riccione e dagli inverni a Cortina, si trovò sballottata fra Bologna e Roma, partorendo figli, frastornata dal mio vaniloquio di ville a Beverly Hills, rassegnandosi a vivere i primi tempi nella stanza di una pensione per studenti che mio fratello e mia madre gestivano a Roma. In attesa dei trionfi e dei meritati riconoscimenti, che in realtà se vennero accadde molto tardi e in modo del tutto fuggevole. Fu in quegli anni che, con il mio incaponirmi nel rifiutare la resa, la nostra storia d’amore nelle sue temperature, nella sua qualità, subì un affievolirsi. Gli anni più difficili del nostro matrimonio, quelli in cui fummo più prossimi a una definitiva separazione, furono quelli in cui ero totalmente concentrato nella folle impresa di transitare dai rassicuranti bastoncini di pesce alla chimerica Macchina da Presa. Se il successo può dare alla testa, l’insuccesso produce quelle tossine per le quali cerchi attorno a te soprattutto la menzogna, l’elogio bugiardo. Che lei fosse definitivamente quella tessera del puzzle che avevo trovato, insostituibile, me lo conferma il fatto che anche quegli anni dolorosi furono superati, prova che la misteriosa energia che ci riconduceva sempre a condividere lo stesso destino non fosse dovuta al caso ma a qualcosa di più alto, che ha segnato la vita di quella ragazza e la mia fino a indurmi ora a certificarlo scrivendone, nella convinzione di non essere il solo fra i tanti, più o meno miei coetanei, che stiano scoprendo in loro stessi questo sentimento così anacronistico e tuttavia così vitale, che stanno provando nei riguardi della persona con la quale stanno affrontando la vecchiaia. La stagione più cattiva dell’anno. E allora, senza farti notare, la guardi con nostalgia e riconoscenza e sai che dentro quegli occhi c’è la parte grande della tua vita, di quel furtivo sesso prematrimoniale, nel fulgore di quel suo corpo santificato dall’impaccio della reciproca nudità, Di due che si amano, e i corpi Profumano l’uno dell’altro, Che pensano uguali pensieri E non hanno bisogno di parole E si sussurrano uguali parole Che non hanno bisogno di significato. Solo la poesia sacra di Eliot sa restituirci quell’esperienza sublime.
Pupi Avati e l’amore di una vita in una lettera
Mai avresti immaginato un percorso più irto di difficoltà per arrivare a quell’unione in cui, negli anni successivi, avete usato la reciproca conoscenza non più per darvi piacere ma per darvi dolore. Quando, in una notte degli anni Sessanta, riuscii a disvelarle tutto quello che lei rappresentava nei miei sogni, quando quella stessa notte la conquistai, pensai di non dover più chiedere altro a tutta la mia umana esistenza, se non l’arrivare a sposarla pronunciando entrambi quel “per sempre”, che pronunciammo, nella Chiesa di San Giuseppe a Bologna il mattino del 27 giugno 1964. E tra le infinite inibizioni che il progresso ci impone, c’è il cancellare quella locuzione avverbiale dal nostro lessico, privando di sacralità ogni nostro agire, ammucchiando confusamente i ruoli e andando addirittura orgogliosi per la quantità di macerie che stiamo lasciando alle spalle, dove il proselitismo laico non fa altro che privare gli ultimi (sì, gli ultimi, quelli del “Discorso della montagna”) della possibilità di essere attesi da un mondo di angeli misericordiosi che li risarciscano delle tante sofferenze patite. A questo diffuso nichilismo, improvvisamente in una fase della vita, l’ultima, non considerata da nessuno, riemerge nella parte più intima di te stesso l’amore. Nella sua declinazione più struggente, quella che fa della tua sposa la tessera giusta che mancava al tuo puzzle, quella che intuisti come tale quando la vedesti per mano a un principe (Gianluigi Zucchini, il più grande conquistatore della Bologna primi anni Sessanta). Non vi è nulla che eguagli l’emozione di quel pomeriggio in via Rizzoli. Credo sia giunto il momento in cui tornare a confidare negli altri, il tempo in cui non si debba avere paura di aprirsi, in un mondo che tuttavia sa ormai premiare solo il cinismo. Credo sia necessario farlo, pur nel rischio del dileggio, ispirati da quelle ineffabili regole di vita del “Discorso della montagna” che ancora oggi sa indicarci il solo percorso per una convivenza possibile a tutti. Senza alcuna eccezione. Oggi, in cui il cortile della mia infanzia si rabbuia, il mio tempo rispetto al suo si consuma più in fretta. O è lei che usa meglio il suo, riempiendo la sua giornata di più cose, di più rancori, di più bellezze, senza mentire a se stessa. Io, per rendere vivibile la mia giornata, debbo frugare nel grande invaso delle mie memorie, dove si celano i tanti io che cercai di essere. Oggi vorrei che a mia moglie piacesse la mia vita, vorrei la trovasse ardita, coraggiosa, imprevedibile, mai rassegnata. Vorrei così che si rinnamorasse di me, come io in questo tramonto, mi sto rinnamorando di lei. E vorrei soprattutto che in questo lungo e insidioso nostro percorso di insofferenze e gioie, quel misterioso “per sempre” si avverasse. Pupi Avati
Fonte-Altritaliani – lettera (già uscita, il 24 gennaio, su Il Foglio)
Come attrice, Katerina Gogou (1940-1993) non ha fatto parlare molto di sé nell’ambiente del cinema, avendo recitato sì in numerosi film ma (quasi) sempre con ruoli da comparsa. Ma come poetessa, era e rimane la bestia nera della letteratura moderna greca. Nata sotto l’occupazione nazista, passata attraverso il regime dei colonnelli e la Resistenza, ha dato voce all’anima nera del quartiere Exarcheia di Atene, vivendone e cantandone la rivolta anarchica e la disperazione umana. Nelle sei raccolte di poesie da lei pubblicate c’è spazio solo per questo suo mondo, il sottobosco fatto di prostitute, drogati, pazzi, fuorilegge, sovversivi. Dopo aver a lungo contribuito alla rinascita del movimento anarchico greco, Katerina Gogou trascorse i suoi ultimi anni dentro e fuori le cliniche psichiatriche. Morì per una overdose di pillole e alcol; ai suoi funerali parteciparono migliaia di persone.
Katerina Gogou -Poetessa e Attrice greca (1940-1993)
*** Katerina Gogou (1940-1993) was a Greek anarchist poetess who is a representative figure of the ‘80s radical political and cultural scene of Exarchia. The impact of her poems, lately rediscovered and taken into consideration by the mainstream media, has always been influential in the radical movement.
Katerina was born in Athens in 1940 and the first years of her life were marked by the famine and the Nazi occupation, the resistance and the civil war. The defeat of the communists was followed by a period of strict censorship, police terror and island camps for political prisoners. Gogou finished high school and she started her parcours artistique following some drama and dance courses. The only place she could make a living as an actress, was in the Greek comedy industry, a major factor in social reproduction of capitalist and patriarchal values at the time. The roles assigned to her were those of the naive domestic servant, the silly little sister or the undisciplined school pupil. Despite this, Katerina developed a critical view of society, diverging not only from its progressive conformism but also from its conformist progressivism.
At the end of the ‘70s, Greek society experienced substantial changes and radicalization with an autonomous factory workers movement as well as factory and university occupations. It was in this period that she was writing her early poems. Her writings are a mirror of the marginalized parts of the society of the time, taking the side of drug addicts, prostitutes, criminals, homosexuals, the homeless and immigrants.
In 1978 Gogou published her first collection of poems, Three Clicks Left. At the same time she reengaged in cinema, this time as a protagonist in critical and intellectual movies. The first two of them were directed by her husband, Pavlos Tassios, with whom she had her only daughter, Myrto, while the third movie was directed by Andreas Thomopoulos.
Katerina Gogou -Poetessa e Attrice greca (1940-1993)
What I fear most
is becoming “a poet”…
Locking myself in the room
gazing at the sea
and forgetting…
I fear that the stitches over my veins might heal
and, instead of having blur memories about TV news,
I take to scribbling papers and selling “my views”…
I fear that those who stepped over us might accept me
so that they can use me.
I fear that my screams might become a murmur
so that to serve putting my people to sleep.
I fear that I might learn to use meter and rhythm
and thus I will be trapped within them
longing for my verses to become popular songs.
I fear that I might buy binoculars in order to bring closer
the sabotage actions in which I won’t be participating.
I fear getting tired – an easy prey for priests and academics –
and so turn into a “sissy”…
They have their ways …
They can utilize the routine in which you get used to,
they have turned us into dogs:
they see to us being ashamed for not working…
they see to us being proud for being unemployed…
That’s how it is.
Keen psychiatrists and lousy policemen
are waiting for us in the corner.
Marx…
I am afraid of him…
My mind walks past him as well…
Those bastards…they are to blame…
I cannot -fuck it- even finish this writing…
Maybe…eh?…maybe some other day…
25 maggio
Un mattino aprirò la porta
e uscirò per strada
come ieri.
E non penserò a nulla se non
a un pezzo di padre e un pezzo di mare
— quello che m’hanno lasciato — e la città.
La città che hanno fatto decomporre.
E i nostri amici che si persero.
Un mattino aprirò la porta
dritta dritta nel fuoco
e come ieri entrerò
urlando «fascisti!»
alzando barricate e tirando pietre
con una bandiera rossa a splendere nel sole.
Aprirò la porta
ed è ora che ti dica
— non che abbia paura —
ma ecco, vorrei dirti di come non ho fatto in tempo
e di come tu debba imparare
a non scendere in strada
senza armi come me
— perché io non ho fatto in tempo —
perché allora ti perderai, come me
«indeterminata»
fatta a pezzi
di mare, infanzia
e bandiere rosse.
Un mattino aprirò la porta
mi perderò con il sogno della rivoluzione
nella sconfinata solitudine delle strade
che bruceranno,
nella sconfinata solitudine di barricate di carta
con il solito titolo — non gli credere! —
di «provocatore».
Katerina Gogou -Poetessa e Attrice greca (1940-1993)
*
Non rimane nessuno in questa città
Non rimane nessuno in questa città!
Non rimane nessuno?
Cos’è successo che i suoi abitanti se ne sono andati via di fretta
e hanno lasciato le porte aperte,
le luci accese…
Grossi uccelli ciechi si scontrano
con le ali spiegate
terrorizzati
Il mare entra dentro in città
sommerge la terraferma metodicamente
una nave di lebbrosi dementi
naviga fuori dalle porte
e si dispiega lentamente… piano…
lentamente…
Gli anni della mia infanzia
bambini inflessibili, induriti
dissepolti da un cane giallo
che di continuo me li riporta
salgono le acque
le mie mani si mettono in croce da sole
come morte.
Non c’è nessuno qui?
Nessuno?
Nessuno
Guardo davanti una strada bianca di sabbia
Di nuovo la fosca barca con la fenice di pietra
e il barcaiolo di marmo
In questo posto non c’è neanche un bambino
BZZZZUNBBBZZZUNNN
un bambino?
Vieni che giochiamo alle automobiline. Vieni bambino!
Vieni, uccellino? Cip cip cip cip cip, vieni!
Vieni, uccellino…
Quale ricordo umano mi trattiene qui?
Giorgos…
Myrtò…
Di quale terrore il segno mi trattiene qui,
cui non è stata resa giustizia?
Giorgos…
Myrtò…
Di quale pianeta la fine vergognosa
m’hanno lasciato come spauracchio perché qui io morissi di paura…
Perché non passo oltre,
dove il vento ferisce i fuochi a baionetta?
Sono rimasta come goccia da una stalagmite.
Dentro questa bottiglia vuota,
l’hanno gettata via un’estate di tanto tempo fa
i miei amici.
E ci rimango dentro.
Altri tempi lontani
che ritorneranno,
l’ultimo SOS di solidarietà
da decifrare.
*
Katerina Gogou -Poetessa e Attrice greca (1940-1993)
La solitudine
La solitudine…
non ha il colore triste degli occhi
di un’amante rannuvolata.
Non gironzola indolente
ancheggiando in sale da ballo
e gelidi musei.
Non è fatta di gialle cornici dei «buoni» tempi andati
e di naftalina nei bauli della nonna
di nastri viola e cappelli di paglia a larga tesa.
Non allarga le gambe con risolini soffocati
sguardo bovino sospiri trattenuti
e biancheria intima assortita.
La solitudine.
Ha il colore dei pakistani la solitudine
e si misura a piatti
insieme ai loro cocci
sul fondo di un pozzo di luce.
Sta paziente in piedi in coda
Bournazi – Aghìa Varvàra – Kokkinià
Toumba – Stavropoli – Kalamarià
Con ogni tempo
le suda la testa.
Eiacula urlando cala la saracinesca incatenata
occupa i mezzi di produzione
accende fuochi nella proprietà privata
di domenica è una visita parenti ai carcerati
nel cortile hanno lo stesso passo sia i criminali che i rivoluzionari
la si vende e la si compra soldo a soldo respiro a respiro
nei mercati degli schiavi della terra — qui vicino c’è piazza Klotziàs —
svegliati di buon’ora
Svegliati per vedere.
È una puttana nelle case di malaffare
è il «turno tedesco» per il fante in sentinella
e gli ultimi interminabili chilometri della strada nazionale — centro
per le carni appese a un gancio dalla Bulgaria.
E quando il suo sangue è strozzato e non ha altro in mano
questo ho vissuto, questo ho imparato, questo dico
e di tutto quello che ho letto una cosa ho trattenuto bene:
«L’importante è rimanere umani»
La cambieremo, la vita!
Nonostante tutto, Maria.
*
Qualche volta
Qualche volta si apre la porta piano piano, ed entri.
Porti un vestito tutto bianco e scarpe di lino.
Ti chini e mi infili affettuosamente nel palmo della mano
settantadue dracme e te ne vai.
Ho aspettato dove mi hai lasciata
affinché tu mi ritrovassi.
Però dev’essere passato molto tempo
perché mi si sono allungate le unghie
e i miei amici hanno paura di me.
Ogni giorno mi cucino patate,
non ho più un briciolo di fantasia.
E quando sento chiamarmi Katerina, mi spavento.
Bisogna, credo, che denunci qualcuno.
Ho conservato dei ritagli di giornale con sopra
qualcuno che, dicono, sei tu.
So che i giornali mentono,
perché hanno scritto che ti hanno sparato alle gambe.
Lo so che non mirano mai alle gambe.
Il Bersaglio è il cervello.
Stai attento, eh?
*
Katerina Gogou -Poetessa e Attrice greca (1940-1993)
Gli amici per quanto mi riguarda
Gli amici per quanto mi riguarda sono neri uccelli
che fanno l’altalena sulle terrazze
di case sgarrupate
Exarchìa via Patissia Metaxourghìo Mets.
Fanno quello che gli capita.
Rappresentanti di ricettari ed enciclopedie
aprono strade e uniscono deserti
interpreti al cabaret di via Zenone
rivoluzionari professionisti
messi spalle al muro hanno mollato
ora prendono pasticche e alcol per
addormentarsi
ma sognano e stanno svegli.
Le mie amiche per quanto mi riguarda sono fili di ferro tesi
sulle terrazze di case vecchie
Exarchìa Victoria Concaki Grizi.
Ci avete conficcato milioni di mollette di ferro
le vostre colpevoli decisioni congressuali
sottane in prestito
bruciature di sigarette
strane emicranie
silenzi minacciosi leucorree
s’innamorano di omosessuali
tricomoniasi ritardo mestruale
il telefono il telefono il telefono
gli occhiali rotti l’ambulanza nessuno.
Fanno quello che gli capita.
Sono sempre in giro i miei amici
perché gli state col fiato sul collo.
Tutti i miei amici dipingono col nero
perché gli avete distrutto il rosso
scrivono in una lingua nota solo a loro
perché la vostra è buona solo per leccare.
I miei amici sono uccelli neri
e fili di ferro
sulle vostre mani e alla vostra gola.
I miei amici.
*
Col rosso
Con la testa in frantumi
per la morsa delle vostre contrattazioni
nell’ora di punta
e contromano
darò fuoco a un gran falò.
E lì ci butterò
tutti i libri di marxismo
in modo che Mirtò non sappia mai
le cause della mia morte.
Potete dirle
che non ho retto alla primavera
o che sono passata col rosso
sì… questo è più credibile.
Col rosso questo dovete dire
col rosso…col rosso
questo dovete dire…
Questo è più credibile
col rosso… questo dovete dire
col rosso, col rosso
questo dovete dire.
Col rosso, col rosso,
col rosso.
*
Come fa presto ad andarsene la luce
Come fa presto a andarsene la luce dalla nostra vita, fratello mio…
Dentro le nostre palpebre allergiche
lentamente la vita preme con le unghie
sta’ a vedere che le scopriamo il gioco
si allontana si dilegua… guarda è diventata un puntino gira l’angolo… sparita.
Buuuuuio!
Guardo dei negativi fotografici e sembrano persone
tizzoni rossi nei loro occhi di lupi in trappola
unghie in prestito — come si sono ridotti così — dentiere straniere
sanguisughe si attaccano alla nostra laringe tirano i nostri bottoni
sta’ a vedere che tiriamo avanti ancora un po’.
Sono quelli del treno — li ricordo bene
che quando decidemmo il nostro primo sogno di metterci in viaggio
ci scaraventarono sulle rotaie dell’elettrificata
come sacchi vuoti in un passaggio incustodito
come peso superfluo.
Quelli che: «siamo vissuti» — scritto tra virgolette
con mille canne ci tengono sotto tiro
dalla terrazza della compagnia telefonica
freddo freddo e melò nelle nostre magliette di cotone
facciamo come se avessimo il cappotto
e un nervo viola — hai visto, tutti noi l’abbiamo —
colpisce ancora sotto il nostro occhio.
Quanto è cara la vita, fratello mio
quant’è scaduta la qualità, coraggio.
Parecchie volte — ma io non mollo
vanno in testa-coda gli antidepressivi
e la bilancia oscilla
davanti non c’è altro allora piego il collo e mi prendo tra i denti
il mio cervello sanguinante e vado indietro indietro torno indietro
per salvarmi
e poi non trovo la strada
perché anche là è tutta merda — come se non lo sapessi —
dappertutto cancelli sfondati e crateri di obice
mi spavento mi confondo per un nonnulla non ho dove andare
solo la porta del SUPERMERCATO è aperta
e mi ci piazzo dentro
come un avvoltoio guardo dove vanno a finire i soldi
e il valore d’uso
delirium tremens lo chiaman loro IO HO VOGLIA DI RUBARE
Allora mi metto davanti tutti gli stereo a suonare tutti insieme
ogni marca una musica diversa
e gli altoparlanti al massimo a spaccare le orecchie
e poi con una buona forbicina Singer
taglio in tondo le loro bocche le allargo
sopra ci incollo la mia anima bacio della morte
e ci svuoto dentro gli psicofarmaci
le loro farmacie e insieme i loro farmacisti.
Morte a Bisanzio e al diavolo le dinastie
il diaframma della mia etnia le pacifiche invasioni
le Kodak e le G. Stavru in vendita allettanti
che vadano a morire.
Morte agl’Immortali
bandiere nere e rossa la luce si apre
— SI APRIRÀ — la strada la bocca
gli occhi il cuore e il cervello.
Così si deve fare cadrà la porta.
E la macchina con l’antico rullino. No. No sempre e sempre gli uomini
negativi neri e noi BRUCIATURE DI SOLE.
*
Katerina Gogou -Poetessa e Attrice greca (1940-1993)
9 anni
Quando la mattina ti sveglierai
e non troverai sul pavimento
pillole maglione e reggiseno
e busserai forte alla porta
senza sentire dietro te il mio isterico «piantala»
non scoppiare a piangere ma vieni a cercarmi
nella foto di me bambina che ti guarda.
Io non ho mai veduto.
Nemmeno nel mio stupido scrivere. Ti ho mentito.
Ti dicevo sempre com’erano belli gli uomini i colori e la musica.
Tu conteggia solo il cottimo che ho fatto
e con quello saprai come sono vissuta.
Conteggia poi l’affitto
mai ci bastavano a pagarlo.
E quanta luce ho bruciato
cercando un modo.
E va’ avanti, e va’ a chiedere a tuo padre
per l’ultima volta i soldi
e digli che sono in debito.
Poi sciacquati la faccia
e non lasciare che nessuno ti dica
cosa è successo a tua madre.
Solamente con queste
prove stupide
costruisci un sole di quelli che solo tu hai in mente
e sotto questo sole
scrivi con le tue divertenti lettere infantili
HA SALDATO! SALDATO! SALDATO! HA SALDATO!
*
Chiuso. Questo era.
Chiuso. Questo era.
Vedi, mi s’è perduta la vita
fra uomini gialli
vetri sporchi
e compromessi indicibili.
Comincio a invecchiare
come quel piccolo salice
che t’avevo mostrato all’angolo della strada.
E non è che voglio vivere.
È, cazzo, che non sono vissuta.
E che non ti rivedrò.
*
Antropogonia
Perché ombre sono gli dèi, inumani,
fra chi è sepolto.
Dentro le nubi e in monti e statue della notte
si conficcano
invidiarono l’uomo hanno, invidiano
e hanno paura.
E gli intermediari
goffi, zoppi e superbi
portatori d’acqua
in anfore bucate
con l’amore
e con i sogni
portarono ai mortali
il terrore
per follia o per morte
di voler essere immortali
alla terra inchiodati.
E incisero dovunque
in corpo, in anima e mente
con il mito
che malattia offensiva è la solitudine
e non libertà.
E sulla malattia in suppurazione
mentirono molto
perché imparassero a correre
così da smarrire la visione
dell’invisibile e della politica
perché è il tempo più veloce
che agisce immobile.
E ancora peggio
della pena e del nutrimento
della loro autodistruzione
con grande inganno chiamarono «eroi»
i nostri beneamati mortali
derivato dell’eroina.
E gli dei come sommo violento potere
resero onore ai cortigiani
chiamandoli con ironia semidei.
E gli intermediari — semidei
che si nascondono dietro le muse
e con alti calzari
definirono il nome
di sé poeti e consolatori
ma è sempre con loro la nostra guerra
e loro — se sono — sono utili
nelle pause di pace.
Tanto hanno sofferto i mortali
che al giacinto
avevano unito l’anima
e puri, belli e splendenti
non sapevano
il tradimento
e gli avevano creduto.
Ma ora muoviti
curiamo con calma
le nostre ali lucenti
cominciamo daccapo la strada
usciamo nella radura
non capiti che altri di noi
bevano un’acqua d’oblio
e così pur essendoci uguali
soffrano di grandi passioni
e così come noi maledicemmo
loro ci maledicano.
*
[Bianca]
Bianca è
la razza ariana,
il silenzio,
i globuli bianchi,
il freddo,
i camici dei dottori,
gli abiti dei morti,
l’eroina.
… Queste poche parole per restituire il nero.
*
Katerina Gogou -Poetessa e Attrice greca (1940-1993)
[Ciò che temo di più…]
Ciò che temo di più
è di diventare «un poeta»…
Chiudermi in una stanza
ad ammirare il mare
e dimenticare…
Ho paura che i punti sulle vene possano cicatrizzare
e, invece di avere ricordi confusi sulle notizie alla televisione,
mi metto a scarabocchiare fogli e a vendere «le mie opinioni»…
Ho paura che quelli che ci hanno scavalcato possano accettarmi
in maniera da usarmi.
Ho paura che le mie urla possano diventare un mormorio
utile a far addormentare la mia gente.
Ho paura che potrei imparare ad usare la metrica e il ritmo
finendo intrappolata dentro di essi
desiderando che i miei versi diventino canzoni popolari.
Ho paura che potrei comprare binocoli per far avvicinare
le azioni di sabotaggio a cui non prendo parte.
Ho paura di diventare stanca — facile preda per preti e accademici —
e trasformarmi così in una «femminuccia»…
Loro hanno le loro maniere…
Loro possono utilizzare la routine a cui sei abituato,
ci hanno trasformato in cani:
ci guardano mentre ci vergogniamo di non lavorare…
ci guardano essere orgogliosi di essere disoccupati…
Ecco com’è.
Psichiatri entusiasti e schifosi poliziotti
ci stanno aspettando all’angolo.
Marx…
Ho paura di lui…
La mia mente va anche oltre a lui…
Quei bastardi… è loro la colpa…
Merda, non riesco nemmeno a finire di scrivere…
Forse… eh?… forse un altro giorno…
*
[n. 17]
Ero un albero che si è spezzato
Hanno spezzato tutti i miei rami
Perché tutti i bambini perduti vi trovavano rifugio
Per giocare all’impiccato
*
Difendo ANARCHIA
Non mi fermare. Sto sognando.
Abbiamo vissuto a capo chino secoli di ingiustizia.
Secoli di solitudine.
Ora no. Non mi fermare.
Ora e qui, per sempre e ovunque.
Ho un sogno di libertà.
Facciamo sì che la bellissima unicità
di ciascuno
ripristini
l’Armonia dell’Universo.
Avanti, giochiamo. Conoscenza è gioia.
Non è una mobilitazione scolastica.
Io sogno perché amo.
Grandi sogni nel cielo.
Gli operai delle fabbriche occupate
produrranno cioccolata per il mondo.
Io sogno perché SO e POSSO.
I banchieri generano i «rapinatori»
Le prigioni i «terroristi»
La solitudine gli «emarginati»
Il prodotto il «bisogno»
I confini gli eserciti.
La proprietà tutto.
Violenza genera violenza.
Non domandare. Non mi fermare.
È il momento di ristabilire
la sublime prassi dell’etica.
Facciamo della Vita una poesia.
E della Vita una prassi.
È un sogno possibile possibile possibile.
TI AMO
e non mi fermare, non sto sognando. Sto vivendo.
Tendo le mani
all’ Amore alla solidarietà
alla Libertà.
Quante volte sarà necessario e sempre dal principio
Difendo ANARCHIA
AUTOPSY REPORT 2.11.75
…the body lay face-down in a parallel
connecting to the Vatican.
One of his hands full of blood gestured in open palm as insult to CPI
and the other clutching his genitals
to the culture specialists.
Blood clotting on his hair as leeches
on the veiled homosexual syndromes
of all men of earth throughout the realm.
His face disfigured by the framework of the class he denied
a black and blue volunteer of the ragtag proletariat.
The fingers of the left hand
broken by social realism
thrown away to floodlit trash.
The jaw broken
by the uppercut of a union organizer
a hired thug.
The ears chewed by a sonofabitch who couldn’t get an erection.
The neck broken and severed from the body
on the basic principle of independent function.
The mother everywhere.
That was the death of the communist and homosexual PASOLINI,
who every Monday, Wednesday and Friday, riding a small 50cc
bike, ran to make sure the cinemas would play the movies in
Egaleo, in Liverpool and most importantly in Ostia, he ran holding
tightly against his body the cans of movie reels and of rundown
neighborhoods. Also the little striped flag of poetry.
Goodbye.
∗∗∗
Katerina Gogou -Poetessa e Attrice greca (1940-1993)
My own friends are blackbirds
who play see-saw on roofs of crumbling houses
Exarchia, Patisia, Metaxurgio, Metz.
They do whatever comes along.
Peddlers of cookbooks and encyclopedias
they build roads and connect deserts
barkers for Zinonos Str. dives
professional rebels
cornered in the old days and forced to drop their pants
now they swallow pills and alcohol to sleep
but they have dreams so they don’t sleep.
My own women-friends are taut wires
on roof terraces of old houses
Exarchia, Victoria, Koukaki, Ghizi.
You’ve pinned on them a million steel clothes’ pins
your guilt, party-meeting decisions, borrowed dresses
cigarette burn-marks, strange headaches
threatening silences, vaginitis
they fall in love with gays
trichomonas, late-periods
the telephone the telephone the telephone
broken glasses and no one for an ambulance.
They do whatever comes along.
My friends are always on the move
because you haven’t given them an inch.
All my friends paint with black
because you’ve debased the red for them
they write in a symbolic tongue
because your own’s only for ass-licking.
My friends are blackbirds and wires
in your hands. At your throat.
My friends.
∗∗∗
Yannis told me
not to lean my head on the wall
when reading or when smoking.
In prison he said
that’s why they always had headaches.
In the evening an argument broke out about those who had signed a statement.
Chronis said
that if they had invented the statement
we had invented not signing.
I said endurance has its limits people are made of flesh and bone
I spoke about the Stalinists and the method
of executing the very best as traitors
who died screaming LONG LIVE THE PARTY.
Sifis said
the statement is only the beginning.
Then they will ask who are your friends.
Then where do they live.
I said shit a million people, why? For what party?
Yorgos said for the one we are going to make.
Around the table we were 3 laborers, 2 who had signed, Yiorgos unemployed
and I in privileged position I work this year. We smoked.
They were drinking. Yannis most of all
—how in hell’s he going to ride the motorbike—
They didn’t want me speaking like that.
Afterwards I left earlier I had a headache
again I’d been leaning on the wall. They didn’t know I knew.
That I was never going to sign.
Not for any party.
That I had only thrown a jacket—January ’79—
over the freezing cold carried by those who signed. . .
Katerina Gogou -Poetessa e Attrice greca (1940-1993)
Katerina Gogou (Κατερίνα Γώγου) nacque ad Atene il 01 giugno 1940 fu un’attrice e poetessa greca. Le sue poesie si distinguono per il loro carattere anarchico e anticonvenzionale. Si occupava di poesia in un’epoca dove gli altri poeti si dedicavano alle pubbliche relazioni, ma soprattutto lei stessa era poesia. Morì suicida, assumendo pillole e alcool, il 03 ottobre 1993.
Katerina Gogou (Greek: Κατερίνα Γώγου; 1940–1993) was a Greek poet, author and actress.
Personal life
Katerina Gogou was born in 1940 during the Second World War and the Axis Occupation of Greece, for which she did not spend a pleasant childhood. She had a strict father with whom she lived during her childhood. Afterwards, in her teenage years, she lived with her mother.[1]
She was married to film director Pavlos Tassios, with whom she had a daughter.[1]
Later in her life she got addicted to alcohol and drugs. She was found dead in her apartment in October 1993 due to a drug overdose.[1]
Career
Acting
From the age of 5 years she started acting in children’s plays. Professionally she debuted in theater with Dinos Iliopoulos’ theater company in the play Ο Κύριος πέντε τοις εκατό (Mr. five percent) in 1961. She made her first cinematographic appearance in the film Ο άλλος (The other one / The other person). Most of the films she participated in were Finos Film productions. She became more widely known for roles of cheerful and carefree women like in the movies Το ξύλο βγήκε από τον παράδεισο (The wood came out of paradise – note that “ξύλο”, literally translating to “wood”, in Greek is an idiom meaning “the act of hitting someone”) and Μια τρελή τρελή οικογένεια (A crazy crazy family). She has received the award for best actress in a lead role in Thessaloniki International Film Festival for the film Το βαρύ πεπόνι (The heavy melon – this phrase in Greek is an idiom referring to someone who tries to appear as a macho man), directed by Pavlos Tasios.[citation needed]
Poetry and writing
As a poet she was known for her revolutionary and aggressive writing. She was an anarchist and her political identity was often reflected in her poems, such as “Υπερασπίζομαι την Αναρχία” (I support/defend Anarchy) or “Εμένα οι φίλοι μου είναι μαύρα πουλιά” (My friends are black birds).[citation needed]
She also wrote some books with one of them, Τρία κλικ αριστερά (Three Clicks Left), being translated into English in 1983 by Jack Hirschman and published by Night Horn Books in San Francisco[2] and also into Turkish in 2018 by Turkish author Mahir Ergun and published by Belge International Publishing House in Istanbul.[3]
Political activism
Katerina Gogou was participating actively in the anarchist movement, especially in the Exarcheia neighborhood of Athens. She supported anarchist prisoners and participated in movements for the liberation of political prisoners. She had been arrested several times, one of which as a suspect for the murder of two police officers by the Revolutionary Organization 17 Noemvri, for which she was declared innocent. She had a bad relationship with the police, having filed a complaint after being attacked by police officers during a protest.[1]
Andreadis, Athena (1998). “The Rehearsal of Misunderstanding. Three Collections by Contemporary Greek Women Poets”. Harvard Review (15): 22–27. ISSN1077-2901. JSTOR27561114.
Demetriou, Demetra (2015). “‘I Defend Anarchism.’ Deconstructing Authority or Mythicizing Terrorism in Greece’s Metapolitefsi: The Poetry of Katerina Gogou”. Forum for Modern Language Studies. 51 (1): 68–84. doi:10.1093/fmls/cqu067. ISSN0015-8518.
Lucy Maud Montgomery nacque a New London, in Canada, nel 1874 e morì a Toronto nel 1942. Nella sua vita pubblicò numerosi libri per ragazzi, raggiungendo l’apice della popolarità nel 1908 con Anna dai capelli rossi, primo di una serie di otto romanzi, tutti pubblicati da Gallucci con una nuova traduzione di grande successo. Stampate in decine di lingue, le storie di Anna hanno continuato ad avere seguito fino a oggi, grazie anche alla celebre serie animata giapponese che la tv italiana ha trasmesso a partire dal 1980 e alla recente fiction distribuita da Netflix in tutto il mondo. La produzione letteraria della Montgomery, che va ben oltre Anna dai capelli rossi, è oggetto negli ultimi anni di una meritata riscoperta. Tra le sue opere più note ci sono la trilogia di Emily di New Moon, interamente pubblicata da Gallucci, e i due romanzi di Pat di Silver Bush, intenso omaggio al sentimento profondo che legò per tutta la vita Lucy Maud Montgomery all’Isola del Principe Edoardo, dove la scrittrice trascorse la sua infanzia.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Anne of Green Gables is a beloved book. Readers fell in love with the story and main character right from the very beginning, when it was first published in 1908. Since then, the book has become a literary classic, captivating generations of readers with charm and spirit. It has even helped shape young adult literature, introducing a heroine whose imagination, intelligence, and determination resonated across time.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Born on Prince Edward Island in 1874, Lucy’s childhood was shaped by both tragedy and imagination. Her mother died of tuberculosis before Lucy turned two, and her grief-stricken father left town alone, placing his young daughter in the care of her strict grandparents in the rural town of Cavendish.
There, in a house overlooking the island’s rolling fields and red cliffs, Maud, as she preferred to be called, found solace in books and the natural beauty around her. Often left alone, she developed a deep inner world, filling her solitude with stories she created in her mind.
By teenage years, Maud had begun writing in earnest, filling notebooks with poetry and short stories. She later wrote in her autobiography that storytelling ran in the family and that she had inherited the talent from her relatives. But Maud was also encouraged by a teacher, and as a result, submitted her first poem for publication at the age of 16. It was accepted by a local newspaper.
After high school, Maud pursued higher education, enrolling in Prince of Wales College, where she completed the two-year teaching program in just one year, graduating with honors. Then, she worked as a schoolteacher in small rural communities, a common path for educated women of her time.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Teaching provided financial independence, but her true passion remained writing. In the evenings, after long days in the classroom, she filled pages with poetry and prose, submitting stories to magazines across Canada and beyond. The rejection letters piled up, but so did her determination.
In 1895, Montgomery took a bold step and enrolled at Dalhousie University in Halifax, Nova Scotia, to study literature. But after a year, financial constraints forced her to return to Cavendish. There, she continued teaching while also caring for her ailing grandmother. And just as before, she continued writing, publishing hundreds of short stories and poems in literary magazines, building a reputation as a skilled storyteller.
In 1905, she wrote a novel inspired by a childhood anecdote about an orphaned girl mistakenly sent to a family expecting a boy. She expanded on that small idea, bringing to life the spirited Anne Shirley in Anne of Green Gables. Confident in her work, Maud submitted the manuscript to several publishers, only to receive rejection after rejection.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Undeterred, she set the manuscript aside in a hatbox for two years before trying again. In 1907, she sent it to L.C. Page & Company in Boston, and this time, the response was different. The publisher saw potential in the novel and agreed to print it. When Anne of Green Gables was released in 1908, it became an immediate success, selling over 19,000 copies in its first five months. It was just the beginning.
Ironically, though, Maud didn’t consider Anne of Green Gables her best work. That honor went to Emily of New Moon. “It is the best book I have ever written—and I have had more intense pleasure in writing it than any of the others—not even excepting Green Gables. I have lived it, and I hated to pen the last line and write finis,” Maud wrote about it.
Years later, Maud would be asked by an editor to write her autobiography. She obliged and began the story with the following:
“WHEN the Editor of Everywoman’s World asked me to write ‘The Story of My Career,’ I smiled with a little touch of incredulous amusement. My career? Had I a career? Was not — should not — a ‘career’ be something splendid, wonderful, spectacular at the very least, something varied and exciting? Could my long, uphill struggle, through many quiet, uneventful years, be termed a ‘career’? It had never occurred to me to call it so; and, on first thought, it did not seem to me that there was much to be said about that same long, monotonous struggle. But it appeared to be a whim of the aforesaid editor that I should say what little there was to be said; and in those same long years I acquired the habit of accommodating myself to the whims of editors to such an inveterate degree that I have not yet been able to shake it off. So I shall cheerfully tell my tame story. If it does nothing else, it may serve to encourage some other toiler who is struggling along in the weary pathway I once followed to success.”
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Lucy Maud Montgomery nasce il 30 novembre 1874 ma la madre muore 21 mesi dopo e lei viene affidata e cresciuta dai nonni materni che vivono in una piccola comunità rurale sull’Isola del Principe Edoardo, Cavendish.
Vicino alla scuola di Cavendish che Maud frequentava c’era un boschetto di abeti rossi attraversato da un ruscello dove gli scolari riponevano le proprie bottiglie di latte, come abbiamo visto fare nel cartone animato “Anna dai capelli rossi”.
Scrisse la prima poesia a 9 anni intitolata Autumn.Con il primo denaro guadagnato dalla vendita di un racconto a una rivista, acquistò 5 volumi di poesia: Tennyson, Byron, Milton, Longfellow, Whittier.
Spesso mi capita di identificarla con Anne, il suo alter ego ma è proprio lei a confessare: “Non fosse stato per gli anni da me trascorsi a Cavendish, Anne of Green Gables non sarebbe mai stata scritta”.
Durante la sua breve carriera di insegnante, Montgomery ha insegnato in tre scuole dell’isola: Bideford, Belmont e Lower Bedeque rispettivamente. Lasciò l’insegnamento per un anno (1895-1896) per studiare corsi selezionati di letteratura inglese presso la Dalhousie University di Halifax, in Nuova Scozia, diventando una delle poche donne del suo tempo a cercare un’istruzione superiore. Fu durante il suo soggiorno a Dalhousie che ricevette i primi pagamenti per i suoi scritti.
Nel 1898, mentre Montgomery insegnava a Lower Bedeque, suo nonno Macneill morì improvvisamente. Tornò subito a Cavendish per prendersi cura di sua nonna che altrimenti avrebbe dovuto lasciare la sua casa. Rimase con sua nonna per i successivi tredici anni, ad eccezione di un periodo di nove mesi nel 1901-1902, quando lavorò come correttore di bozze per The Daily Echo ad Halifax.
Non vi ricorda qualcosa?
Nel 1905 scrisse il suo primo e più famoso romanzo, Anne of Green Gables . Inviò il manoscritto a diversi editori, ma, dopo aver ricevuto rifiuti da tutti, lo ripose in una cappelliera. Non si lasciò abbattere e ci riprovò; fu pubblicato finalmente nel 1908 e divenne immediatamente un best-seller!
La proposta dell’editore di scrivere la storia della sua carriera, a 42 anni e dopo aver pubblicato Anne of Green Gables, le diede la certezza di aver raggiunto una di quelle vette sublimi e di essere considerata quindi una scrittrice di successo. Lucy Maud Montgomery scelse come titolo della sua autobiografia un verso di una poesia, Alla Genziana a frange, letta per caso in un giornale e conservata tra i libri di scuola, che recita:
Poi un sussurro fiorisce dal tuo sonno
Come posso scalare
Il sentiero alpino, così duro, così impervio,
Che conduce a vette sublimi;
come posso raggiungere il lontano traguardo
di una vera e onorata fama,
e scrivere sulla sua lucente pergamena,
un umile nome di donna.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Nel libro ripercorre soprattutto gli anni della sua infanzia e ci confessa che lei era una ragazzina dalla fervida immaginazione con l’abitudine di dare un nome a tutte le cose che la circondano. Lucy Maud svela spontaneamente i retroscena che hanno suggerito alcuni degli episodi più esilaranti che vedono Anne come protagonista (come l’incidente della torta farcita), e soprattutto i riferimenti autobiografici tra l’autrice e la sua eroina sui quali spesso ci si interroga. Così veniamo a sapere che come Anne anche la piccola Lucy entrò in classe con il cappello ancora indosso suscitando l’ilarità generale e sprofondando in un tremendo imbarazzo e che anche lei aveva paura di attraversare da sola, specialmente verso sera, il boschetto infestato. Aveva un quadernino Lucy, in cui annotava idee per trame, avvenimenti e personaggi e proprio lì andò a scovare quella relativa a una “Coppia di anziani fa domanda a un orfanatrofio per un bambino. Per errore viene inviata loro una bambina”.
Una passione di Lucy Maud Montgomery erano gli scrapbooks. Lucy ha realizzato e composto tantissimi album, ognuno a tema diverso; in una mostra organizzata sugli scrapbooks che le sono appartenuti, sono stati rintracciati degli evidenti collegamenti con Anna di Tetti Verdi: le foto di giovani donne sembrano corrispondere ad alcuni dei personaggi descritti nel romanzo; le descrizioni di piante e fiori possono essere collegate a ritagli dai cataloghi di semi di John Lewis Childs.E poi ci sono le maniche a sbuffo, ci sono molte foto di ragazze in abiti bianchi con maniche a sbuffo, magari quelle pubblicizzate sulla rivista Ladies ‘Home Journal. Al link li potete sfogliare
A proposito dei suoi romanzi Lucy Maud Montgomery dichiarava che: Anne era la realizzazione di un sogno, La ragazza delle storie era il suo preferito “la ragazza che più di ogni altra è me stessa è Pat di Silver Bush”. E poi, Enrico De Luca, studioso e traduttore del ciclo intitolato ad Anne di Tetti Verdi, ci rivela che terminato Emily di Luna Nuova, nel febbraio del 1922 Lucy scrisse che Emily era il miglior romanzo che aveva scritto.
A questo punto non sappiamo quale suo romanzo ella amasse di più!
Dopo la morte di nonna Macneill nel marzo del 1911, Montgomery sposò il reverendo Ewan Macdonald, con cui era segretamente fidanzata dal 1906. Da sposati si trasferirono a Leaskdale, in Ontario, dove Macdonald era ministro della chiesa presbiteriana. Ebbe tre figli: Chester (1912), Hugh (nato morto nel 1914) e Stuart (1915); assisteva il marito nei suoi doveri pastorali; curava la loro casa; e ha continuato sempre a scrivere romanzi, nonché racconti e poesie.
Ha continuato a scrivere nonostante il suo dolore per la morte del figlio neonato Hugh, gli orrori della prima guerra mondiale, la morte del suo amato cugino Frede Campbell e la scoperta che suo marito soffriva di malinconia religiosa.
Maud Montgomery Macdonald morì a Toronto, Ontario, il 24 aprile 1942; Ewan Macdonald morì nel novembre del 1943. Morta, Montgomery tornò nella sua amata Isola del Principe Edoardo, dove fu sepolta nel cimitero di Cavendish, vicino al sito della sua vecchia casa. Tutti i suoi 20 libri tranne uno, sono ambientati sull’isola del Principe Edoardo.
Luciano Canfora, Eric Hobsbawm, Marx e i suoi scolari-Stilo Editrice
Descrizione del libro di Luciano Canfora, Eric Hobsbawm-Circa venti anni addietro, il grande storico britannico Eric Hobsbawm pubblicò un’ampia voce biografica su Karl Marx nell’Oxford Dictionary of National Biography. Questo scritto, che rispecchia la riflessione più matura di Hobsbawm sulla figura e sul pensiero di Marx , segna, nonostante la brevità, un passo avanti e, si potrebbe dire, conclusivo nell’ambito della riflessione di lunga durata dedicata da Hobsbawm alla figura di Marx. Il testo è preceduto da una ricerca di Luciano Canfora incentrata sulle indicazioni politiche operative lanciate in modo discontinuo da Marx durante la sua lunga militanza, e soprattutto durante il lungo esilio. Ciò che viene qui messo in evidenza è il peso costituito dalla rilettura che Engels diede di quelle indicazioni sommarie e discontinue: rilettura che determinò il modo di essere e di condurre la propria azione politica da parte della socialdemocrazia europea e tedesca in particolare. Al termine di questa vicenda vi è lo scontro durissimo tra gli eredi di Engels e l’emergente leninismo. Un’attenzione particolare viene dedicata all’esito italiano di questo scontro, imperniato sulla originalità, sanamente eretica dei maggiori esponenti del marxismo italiano Gramsci e Togliatti.
Biografia degli autori
Luciano Canfora è professore emerito dellʼUniversità di Bari. Dirige i «Quaderni di storia» e collabora con il «Corriere della Sera». Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo: La meravigliosa storia del falso Artemidoro (Sellerio, 2011); Il mondo di Atene (Laterza, 2011); Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno, 2012); Spie, URSS, antifascismo. Gramsci 1926-1937 (Salerno, 2012); La guerra civile ateniese (Rizzoli, 2013); La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone (Laterza, 2014); Augusto. Figlio di dio (Laterza, 2015); Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio (Laterza, 2016); La schiavitù del capitale (il Mulino, 2017).
Eric Hobsbawm (1917-2012), già docente a Cambridge (King’s College, Birkbeck College), è stato il maggiore storico del socialismo e dell’Europa otto e novecentesca. Tra le sue pubblicazioni: Il secolo breve (Rizzoli, 1995), Storia d’Europa, vol. I, L’età contemporanea. Secoli XIX-XX (Einaudi, 1996), Gente che lavora. Storie di operai e contadini (Rizzoli, 2001), Imperialismi (Rizzoli, 2007), La fine della cultura (Rizzoli, 2013). Ha diretto l’ampia e polifonica Storia del marxismo per Einaudi.
Vent’anni fa la scomparsa di Mario Luzi- Il Poeta che visse nel giusto della vita.Articolo di Luigi Oliveto-
Mario Luzi il Poeta che visse il giusto della vita-Vent’anni fa, il 28 febbraio 2005, nella sua casa fiorentina in via di Bellariva, moriva Mario Luzi, voce tra le più significative della poesia del Novecento. Una poesia connotata dall’incessante limìo attorno al mistero dell’esistenza umana: tanto luminosa nei suoi aspetti di compartecipazione al creato, quanto esperienza dolorosa di ombre e tenebre. Un universo lirico, quello luziano, ove stupore, inquietudine, meditazione, pronunciamento, si innervano nella parola («vola alta parola») a dire comunque la «maestà del mondo». Tale, infatti, è stato l’insistito scandaglio della riflessione poetica di Luzi: cogliere il continuo divenire del mondo nella sua osmosi drammatica e stupefacente di vita e morte, luce e ombre, creato e incompiuto. Ecco, allora, uomo, cosmo, natura, come sospesi tra il presente e il non-ancora, tra l’espresso e l’inesprimibile, tra la precarietà del presente e la definitiva pienezza.
Giusto qualche giorno prima della sua scomparsa, egli aveva licenziato alcuni versi che parlavano di un termine, di una vetta che si approssimava e di cui «ne davano un chiaro avvertimento / i magri rimasugli / di una tappa pellegrina». «Lì – scriveva il poeta – avrebbe la sua impresa / avuto il luminoso assolvimento / da se stessa nella trasparente spera / o nasceva una nuova impossibile scalata… / Questo temeva, questo desiderava».
Quei versi sembrarono, allora, andare a sigillare non solo la fine di una vita, ma, ancora di più, la conclusione di un percorso poetico instancabilmente contrassegnato dal dubbio, dalla domanda, dall’invocazione, dalla ricerca dell’essenza eterna delle cose. Lo stesso sublime tormento che il poeta aveva trasferito nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), laddove in una sorta di cammino penitenziale ed iniziatico, si cercava di ricomporre, in parole nuove, tutti i contrari dell’esperienza umana: vita-morte, eternità-finitezza, sogno-realtà, la concretezza e l’insondabile, l’esistenza e l’arte. La poesia di Mario Luzi ha di continuo indagato questi opposti, intendendo così – lo confidava nella premessa al Libro di Ipazia (1978) – «attivare dei punti di assillo e di sofferenza presenti anche se latenti nel tempo e nell’umano. Come fontane che riprendessero a versare acqua, o piaghe a sanguinare».
E quando al poeta occorse dare un luogo per contemplare un siffatto tormento, non allestì scene fittizie, ma trasfigurò a metafora geografie reali: quelle delle terre toscane, delle Crete senesi, della Val d’Orcia, dell’Amiata. Sono i luoghi che il poeta – ebbe a scrivere Lorenzo Mondo – intese ridisegnare in «un universo purgatoriale di ombre ansiose in paesaggi aspri e desolati […] dove agisce la lezione dell’onnipresente Dante e di Eliot». Del resto Luzi – e qui fu Andrea Zanzotto ad affermarlo – è da ritenersi «grandissimo poeta del paesaggio e del dramma che la natura porta con sé e dell’uomo che vive in questa dimensione». Mentre Alberto Asor Rosa non mancò di cogliere una specie di «universale panpsichismo» che si manifesta proprio attraverso «l’energia affettuosa e in ultima analisi tutta mondana con cui Luzi ha cantato fino all’ultimo terre e paesaggi della sua Toscana».
In quelle plaghe – sosteneva il poeta – sembra racchiuso il ‘divenire’ della vita e della morte. È dunque terra che richiama gli scomparsi o i venturi? Forse entrambi – si rispondeva – perché è terra che assorbe morte, ma per restituirla in vita. Dunque, essere dentro quel paesaggio non è solo trovarsi nel tormentoso scorrere del tempo, ma anche compartecipare a una pietas comune, ad una memoria ad infinitum che è misura – appunto infinita – del tempo e del dolore. E a proposito di condivisa pietas verso l’esperienza umana, avrebbe scritto ancora: «Sia grazia essere qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo. Sia così».
Del resto Luzi restò sempre fedele alla dichiarazione di poetica enunciata, poco più che ventenne, nella sua opera d’esordio (La barca, 1935), con l’immagine di quello scafo che, nel flusso dell’esistenza, conduce, in ascesa, dal delta alla sorgiva: «Amici dalla barca si vede il mondo / e in lui una verità che procede / intrepida, un sospiro profondo / dalle foci alle sorgenti».
Evidenziò lo stesso Asor Rosa come il dettato poetico di Luzi, sempre così alto e nobile, mai, però, risultò disgiunto da una profonda umanità: «era sembrata stupenda e ammirevole quella sua sintesi fra una purissima, persino aristocratica voce di poesia e il coraggio etico-politico delle opinioni. E alla fine era non solo stimato e apprezzato ma amato: con quel consenso concorde, che riconosce la grandezza umana quando c’è».
È vero. Si ricorderanno, ad esempio, certi suoi versi di poesia civile come quelli, sferzanti e indignati, scritti durante gli anni di piombo, poi confluiti nella raccolta Al fuoco della controversia (1978): «Muore ignominiosamente la repubblica. / […] Tutto accade ignominiosamente, tutto / meno la morte medesima – cerco di farmi intendere / dinanzi a non so che tribunale / di che sognata equità. E l’udienza è tolta.» Oppure le accorate parole formulate il 7 gennaio 1997 a Reggio Emilia per il bicentenario del Tricolore (cento anni prima la prolusione era toccata a Giosuè Carducci): «Per la nostra nazione sono oggi necessari due sentimenti, come l’amore e la speranza, che l’hanno sorretta nelle grandi prove a cui è stata chiamata, dalle guerre del Risorgimento alla lotta della Resistenza alle difficili vicissitudini attuali. Bisogna fondare la nostra scommessa sulla mai soddisfatta aspettativa di un paese giusto, attraverso un invito toccante a riesaminare il nostro stato reale nel nome della solidarietà, della volontà comune e della speranza».
Anche nel discorso preparato per la nomina a senatore a vita (discorso che non fece in tempo a pronunciare) Luzi aveva ripreso questi concetti parlando di un’Italia «in fieri come le sue cattedrali». La nazione – avrebbe detto il neo nominato senatore a vita – «si unisce e ascende a se stessa, la sanzione di quella ascesa è lo Stato, per il quale penso si debbano avere, data la nostra storia, speciali riguardi». Per poi concludere che «revolution e amelioration» possono equamente curare lo Stato, «ma tradirlo e spregiarlo non dovrebbe essere consentito a nessuno».
È desolatamente ovvio dire che nel frangente storico in cui ci troviamo, nell’emergenza di una crisi di civiltà che pare non avere idee, volontà, intelligenze e sensibilità in grado di fronteggiarla, vorremmo tanto poter sentire la voce di Mario Luzi – voce flebile, elegantemente misurata, parsimoniosa ma efficace nell’andare all’osso delle cose – per ricordarci che «le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza». Insomma, una voce che abbia, tantomeno, autorevolezza e pietas per consolarci.
Luigi Oliveto
Luigi Oliveto
Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita dapoeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poetadelle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004), Mario Luzi. Un segno indelebile (2016). Esce nel 2020 la raccolta di racconti Le rose di Kathryn. Nell’album Indy e Lib (cinque ristampe) adatta, per i bambini della scuola primaria, il testo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», edizione patrocinata dalla Federazione Italiana dei Club Unesco. È autore di trasmissioni culturali per la televisione e di docufilm pubblicati in Dvd. È direttore del portale toscanalibri.it.
a cura di Roberto Nencini e Luigi Oliveto
Un segno indelebile è quello lasciato da Siena nella poesia di Mario Luzi, che fu legato alla città del Palio e al suo territorio fin dall’adolescenza. I contributi, accompagnati da immagini e documenti rari – tra cui anche corrispondenze epistolari inedite – definiscono un quadro il più possibile completo del rapporto del poeta fiorentino con una città e un terra che hanno profondamente inciso nella formazione del suo immaginario, della sua estetica, della sua morale. “La testimonianza letteraria di tale legame”, scrive Luigi Oliveto, “può far dire che Luzi sia stato l’ultimo scrittore del novecento a sostenere un racconto di Siena in chiave mitica. Egli, infatti, asseriva che la città è, allo stesso tempo, una realtà urbana (umana) e un mito. In forza del fatto che essa riesce a operare miticamente non solo nella memoria, ma anche nella immaginazione di chi la viva nel presente”.
Testi di Roberto Barzanti, Luigi Oliveto, A. Nino Petreni, Carlo Fini, Stefano Carrai, Roberto Nencini, Luca Lenzini, Elisabetta Nencini, Stefano Verdino, Paola Lambardi, Cesare Viviani.
Richard Newbury- Elisabetta I-Una donna alle origini del mondo moderno-Editore Claudiana-
Descrizione del libro di Richard Newbury ci regala un ritratto – affettuoso e pieno di humour – di Elisabetta I, sovrana che rifiutò di diventare regina consorte. Ereditato un paese sull’orlo della guerra civile e di religione, Elisabetta regnò per quasi mezzo secolo: pacificò e fece della debole Inghilterra cattolica una potente nazione protestante – la cui chiesa è oggi la terza tra quelle cristiane –, con il primo governo parlamentare dell’era moderna nonché una marina, una City e una lingua destinate a conquistare il mondo.
Papa Sisto V disse di lei: «Guardate come governa! È solo una donna, solo la signora di mezza isola eppure si fa temere da tutti». La presente è la terza edizione.«Nel suo divertente ritratto – che inevitabilmente si tinge dei colori dell’autore – Richard Newbury dichiara che il frutto di questa regina, che scelse di rimanere senza figli per il bene del suo paese e del suo popolo, “siamo tutti noi”, è il mondo moderno, il liberalismo che può essere sintetizzato con massima: “Tutto è lecito purché non si facciano scartare i cavalli”. Elisabetta è l’origine di quella democrazia parlamentare che, per parafrasare un suo altro grande eccentrico figlio, Winston Churchill, per quanto piena di difetti è il miglior sistema di governo che l’umanità abbia finora prodotto. Grazie, per cominciare, alla capricciosa e testarda regina dai capelli rossi, gran diva a cui, non a caso, soltanto negli ultimi vent’anni Hollywood ha dedicato tre film e altrettante pellicole sono state realizzate dalla BBC».
Dall’Introduzione di Erica Scroppo
Indice testuale
Introduzione di Erica Scroppo
1.Il naso di cleopatra
2.La figlia di papà
3.Elisabetta, la figlia di un’incestuosa ed eretica sgualdrina
4.Quando la manica divenne una barriera. Nebbia sulla manica: continente isolato
5.Nascita di un’erede al trono o della figlia illegittima di una sgualdrina?
6.Istruzione accademica e per la sopravvivenza
7.Scampare alla mannaia, ovvero: come avere successo
8.Oh signore! La regina è una donna!
9.Il settlement elisabettiano
10.Il dolce Robin
11.Il mostruoso regime delle donne
12.«Conoscevo Doris Day prima che diventasse vergine» (Groucho Marx)
13.Le due cugine
14.Un ospite indesiderato
15.Testa e croce
16.Il Ranocchio della regina
17.Figlia della discordia
18.L’apoteosi di Elisabetta e la chiave di volta della storia europea: la sconfitta dell’Armada spagnola
19.Martiri ed esuli
20.La sfida puritana, più temibile di quella papista
21.Elisabetta e i cattolici
22.La decapitazione del toyboy 23.Regina quondam reginaque futura
Biografia dell’autore
Richard Newbury storico e giornalista, vive e lavora a Cambridge e a Torre Pellice (To). Collaboratore de “La Stampa” e “Il Foglio”, per Claudiana ha pubblicato anche La regina Vittoria (2011) e Oliver Cromwell (2013).
Il “Lamento di Khajeh” (secolo XIX) è uno dei più celebri poemi popolari della Letteratura Kurda
Siyaband, bandito gentiluomo, dopo molte avventure rapisce la bellissima Khajeh, figlia del principe, che altrimenti non potrebbe sposare. I due giovani vivono felicemi per tre giorni sul monte Sipan, finchè Siyaband, andando a caccia, viene spinto da un cervo giù da un precipizio. Non teme la morte, ma piange la sorte della giovane sposa. E Khajeh si getta nel baratro, per morire abbracciata a Siyaband. è una delle leggende più popolari del folklore Kurdo.
“Lamento di Khajeh”
Siyaband, Siyaband! Non parlare. Chi avrebbe predetto una fine così triste? E non dovrei piangere, non dovrei versare lacrime calde, di sangue? Dormi, amor mio, dormi. I tuoi lamenti tristi e profondi sono lamenti di morte. Come resistere, come non piangere se i tuoi sospiri per me arrivano dritti al mio cuore? Cadono lacrime sul mio dolore. Dormi, amor mio, dormi.
Perchè piangi, Siyaband, perchè piangi ancora? Mi hai lasciato, sei corso lungo l’abisso. Sapevi che senza di te non ho protezione, sostegno. Come potrebbe la mia ferita guarire? Dormi, amor mio, dormi.
Oh Sipan, oh rocce di Sipan! Non fermatemi! Apritemi la via, portatemi da Siyaband! Oh Sipan, apri un sentiero, un passaggio, fa’ che io passi, che vada sarò di Siyaband la tomba, non solo la sposa!
Una poesia dolcemente erotica:
“Sono la rosa selvatica” (secolo XIX; qualche verso)
Sono la rosa selvatica non ancora dischiusa coperta di rugiada, tutta rorida. Se tu non mi tocchi io non fiorirò se tu non mi tocchi non esalerò il mio profumo. Sono la rosa selvatica, la rosa di montagna lontana da te… L’amore sboccia con le carezze tu, con amore, rendi morbida la terra intorno a me!
Una straziante ballata d’amore, su una donna crudele e il suo innamorato disposto al sacrificio:
“Rose di sangue” (secolo XIX)
“Guarda, c’è festa e si danza laggiù, ascolta il dahol, il flauto e lo zorna; (*) abiti variopinti, brusio di parole non manca che il frusciar della tua seta. Dammi la mano, ti prego, affrettiamoci! Corriamo alla danza, lieti del nostro amore.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare.”
“Per la tua bellezza, per la tua bellezza, per gli sguardi furtivi vicino alla sorgente: l’autunno ha già spogliato alberi e giardini. Dove trovo le rose? Ormai han le labbra chiuse.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare. Se il tuo amore fosse vero, se mi avessi dato il cuore, coglieresti le rose nel giardino del pascià.”
“Il giardino del pascià è di là del fiume, tutto circondato da sgherri assassini. Se ci vado corro mille e mille rischi, se non vado la mia diletta si offenderà.”
“Senza sosta ho cercato nel giardino del pascià, ecco le rose gialle che ho colto per te; di rose rosse, ahimè, non ne ho trovate. Verrai ora alla festa, a danzare con me?”
“Mai, se non ho rose rosse per ornarmi le chiome!”
“Non vuoi questa ferita, rossa come le rose?”
“Le armi del nemico, ahimè, ti hanno insanguinato! Vieni, appoggia il tuo capo qui sul mio seno, lascia ch’io pianga il tuo cuore amato, perso per una rosa!”
(*) Il Dahol è una specie di tamburo, lo Zorna una sorta di clarinetto.
Poesia Kurda
“La canna e il vento” di Sherko Bekas (qualche verso)
“Da quel giorno le ferite degli amanti parlano con le dita del vento e cantano, ovunque nel mondo, da quel giorno.”
Sherko Bekas fu colpito da un mandato di cattura per la sua attività poetica, si unisce ai partigiani combattenti Pesh Merga e diventa la voce della resistenza Kurda, alternando poesia e lotta armata. Nel 1987 si rifugia in Svezia, pubblicando poesie, romanzi, opere teatrali e ricevendo il premio del Pen Club svedese. Tornato nel Kurdistan liberato, diventa ministro per la Cultura della Regione autonoma del Kurdistan iracheno dalla sua fondazione (1992)
“La nostra poesia è scritta con le lacrime” di Mehmet Emin Bozarslan (qualche verso)
La fantasia tesse nuovi racconti, ricama con fili di lacrime, con colori di sangue, del sangue dei ragazzi e delle ragazze che scorre eroico sui nostri monti, su queste montagne kurde.
“Sirio” di Goran, poeta nato nel 1904 e morto, dopo persecuzioni e carcere, nel 1981. Nelle sue poesie utilizzò le forme antiche della metrica Kurda, rifiutando la metrica della poesia medio-orientale.
Il tramonto! E la memoria disperde il respiro del vento invita la mia anima scura e greve a una cerimonia di dolore.
Il mondo pacificato dal silenzio è un oceano senza confini in esso il mio pianto si alza come calda melodia.
L’oscurità ha chiuso il sipario ha velato il volto della terra immagini di desiderio indistinguibili attraverso lacrime brucianti.
Il mio cuore è spinto nel vuoto oscuro della disperazione oh se tu mi salvassi, stella – splendente Sirio!
Sirio che sorridi con le labbra rosse della prima luce tu puoi arrestare la malinconia che scorre dal mio cuore Un tuo fluido sguardo tocca il mio spirito oscuro fa che la notte che viene splenda di pietà sulla mia testa china.
Ascolta Stella dei Re; ascolta, bianca splendente Sirio! Sorgi, asciuga con i tuoi capelli le lacrime degli occhi della notte!
Ora qualche notizia storica-letteraria, tratta dalle note di Ibrahim Ahmad e Laura Schrader, in “Canti d’amore e di libertà del popolo Kurdo” (Tascabili Economici Newton)
“La poesia (…) è diventata un’arma molto efficace e forte nella lotta dei popoli per la libertà, l’autodeterminazione, la democrazia, la pace. Alcuni poeti hanno combattuto sul campo di battaglia e hanno dato la vita, come martiri. L’oppressione, la tirannia degli occupanti del Kurdistan, torturatori dei Kurdi, hanno dunque provocato una rivoluzione anche nella poesia.” (Ibrahim Ahmad)
“Per la sua posizione strategica e per le sue risorse (…) il Kurdistan è stato sottoposto a diverse dominazioni. Ma, se nelle città e presso le corti principesche i letterati – molti, non tutti – adottarono per le loro opere, nei secoli scorsi, l’arabo, il persiano, il turco, nei villaggi si sono tramandate una lingua e una poesia multiforme (…) la lingua Kurda è la lingua dell’Avesta. Alcune parole Kurde di oggi sono le stesse usate da Zardasht (Zarathustra) nelle Ghata, gli inni sacri scritti di cui rimangono pochi frammenti.”
“La poesia popolare Kurda si canta, e anche le liriche contemporanee vengono dette con voce, cadenze e tono che sono musicali (…) Il divieto islamico di far musica al di fuori del contesto religioso non ebbe alcun ascolto da parte Kurda. Fanno parte del folklore poemi epici, cavallereschi, d’amore in molte versioni, che cantano i bardi: fiabe, leggende, racconti, ballate e canti dedicati ai villaggi, alle stagioni, alla natura, all’amore.”
“Originariamente, una delle forme di poesia popolare tra le più note, il Laùk, tipico di molte aree del Kurdistan settentrionale, era composto e cantato esclusivamente dalle donne, ma non perchè fossero musiciste di mestiere. Le donne, soprattutto in occasione di fatti d’arme, cantavano le gesta del marito, del figlio, del fratello o ne celebravano il ricordo di fronte alla famiglia, al villaggio, all’assemblea della tribù. In alcuni aspetti della cultura e della lingua Kurda affiorano tracce di matriarcato, resti di una civiltà remota eppure tenace, tanto da aver resistito all’offensiva antifemminile del Corano: la donna Kurda ha mantenuto un ruolo importante, anche a capo di clan e principati in pace e in guerra, nei movimenti indipendentisti e nella resistenza. In Kurdistan, viaggiatori ed etnologi dei secoli scorsi notavano innanzitutto che le donne anzichè nascondersi sotto il velo informe in uso negli altri paesi islamici, indossavano abiti dai colori splendenti che mettono in risalto la femminilità, e che le danze popolari di donne e uomini insieme, parte integrante della vita sociale, erano motivo di scandalo per i popoli vicini.” (Laura Schrader)
Il poeta più importante della Letteratura Kurda è Ahmadi Khani (1651-1707), il “Dante Kurdo”, autore del poema epico “Mam e Zin”.
In epoca moderna i Kurdi sono stati massacrati. Leggo dalle note di Laura Schrader che:
“Fino a due anni fa in Turchia era vietato l’uso della lingua Kurda anche in privato. I familiari dei Kurdi, incarcerati e torturati anche se bambini o bambine con accuse di “separatismo”, dovevano limitarsi a guardare in silenzio, piangendo, i loro parenti nelle ore di visita, non conoscendo altra lingua che il Kurdo per comunicare con loro.”
Così Hejar ha espresso in versi la disperazione del suo popolo nella sua poesia “Il nostro destino”:
“Ai nostri oppressori, tutta la ricchezza del petrolio. A noi, neppure quel poco che serve per alimentare la lampada nelle nostre notti oscure. Gli stranieri del nostro paese si sono ingozzati, saziati del nostro patire. E noi, poveri, infelici, miserabili trasciniamo brevi esistenze di terrore. Vietata a noi la lingua materna. Vietato a noi respirare. Massacrati i nostri giovani, a migliaia e migliaia. Desiderare la libertà, chiedere la libertà è diventato un crimine per noi, i Kurdi.”
Il poeta Khabat, parlando dei bombardamenti iracheni con armi chimiche nel 1988 sulla città Kurda di Halabja, poi distrutta con la dinamite:
“Era pomeriggio. Nubi grevi di morte scendono sulla città 18 minuti terremoto paura, silenzio. Corpi rossi di sangue ritagliano aiuole di fiori.”
(da “La canzone della città uccisa”)
“L’Est” è l’espressione usata in Turchia per indicare il Kurdistan, parola che fino a due anni fa era vietato pronunciare.
Il poeta Cahit Külebi così ricorda, nei suoi versi:
“Nero sangue inonda le notti trascina morte, trascina disperazione. […] Un sorso di agonia dalla mano di chi amate è tutto quello che aveste da bere, e che berrete. Questo è l’Est. Negli occhi, sguardo di agnelli al macello.”
e il poeta Latif :
“Il cibo diventa sangue nel corpo”
e Ferhad Shakely :
“Lentamente vagano le ore nel buio di strade, vicoli, mercati trascinando dolore, tristezza ore impiccate agli alberi e ai muri gente trafitta dalle lance della sventura. Il tempo, qui, è una macchina e la manovra la polizia.”
(“Kamishli”, città del Kurdistan, in Siria)
“A sera, quando la luce lascia le fradice tristi finestre della tua stanza ti siedi, specchiandoti nel vetro scuro, annebbiato contando una a una le gocce di pioggia che battono sulle fradice tristi finestre della tua stanza. Guardi lontano. Il cielo è come un manto scuro indistinto; su di esso, neppure un fiore (…) Acuisci lo sguardo e ti accorgi che la terra si è fatta velo rosso sangue. (…) Tu sai che in questa notte tutti i tuoi sogni saranno impiccati alle forche di questa città. (…) Scorgo un barlume di luce e lo chiamo Kurdistan. O Kurdistan! Culla di lacrime, di gloria e d’amore! Terra sanguinante di sangue, suolo ferito dalle ferite. Paese addolorato dal dolore. Siedo alla finestra della notte e osservo gli infiniti percorsi dell’oscurità. (…) Il mio cuore vorrebbe come una nuvola gonfia sciogliersi in pioggia sulle vette rosate confondendosi nel crepuscolo.”
(“Kurdistan, la terra sanguinante”)
Chi volesse sentire una band Metal Kurda: Ferec (caricati su YouTube)
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