Londra- Per la prima volta nella storia, una donna dirigerà la National Portrait Gallery: è Victoria Siddall
Londra-Per la prima volta nella sua storia, la National Portrait Gallery sarà diretta da una donna: Victoria Siddall, classe 1977, già direttrice di Frieze, è infatti la nuova direttrice del museo di Londra.
Per la prima volta nella sua storia, la National Portrait Gallery di Londra sarà diretta da una donna: la nuova direttrice del museo inglese è infatti Victoria Siddall, nominata ieri dal Board of Trustees dell’istituto. La nuova direttrice assumerà l’incarico nell’autunno del 2024. Siddall ha una lunga esperienza alla guida di istituti nel mondo dell’arte, sia nel pubblico sia nel privato: tra le sue ultime esperienze si può annoverare il suol ruolo di co-fondatrice, tra il 2020 e il 2021, di Gallery Climate Coalition e Murmur, due associazioni che promuovono la responsabilità nei confronti dell’ambiente nel settore dell’arte e della musica. Inoltre, ha lavorato negli ultimi due anni in un altro importante museo londinese, la Tate. È stata inoltre direttrice globale di Frieze, con lei è stata fondata la fiera Frieze Masters e ha quindi guidato le fiere di Freize a Londra, New York e Los Angeles e ha lanciato quella di Seul. È stata anche trustee della National Portrait Gallery, tra il luglio del 2023 e l’agosto del 2024.
Victoria Siddall
Siddall, classe 1977, si è laureata all’Università di Bristol, in Letteratura Inglese e Filosofia. Dopo aver cominciato la sua carriera da Christie’s nel 2000, ha raggiunto Frieze nel 2004 dove dapprima ha lavorato come responsabile dello sviluppo, dopodiché nel 2012 ha lanciato Frieze Masters e ha ricoperto il ruolo di direttrice della prima edizione della fiera. Nel 2015 è diventata direttrice globale delle fiere di Frieze a Londra e New York. Nel 2019 ha seguito lo sviluppo di Frieze Los Angeles ai Paramount Studios e nel gennaio 2021 è diventata Board Director di Frieze: in questa posizione si è occupata del lancio di Frieze Seul. Parallelamente, è stata nel consiglio di Studio Voltaire, una delle più importanti gallerie senza scopo di lucro di Londra, che ogni anno organizza un programma pubblico di mostre e spettacoli. Ha ricoperto anche il ruolo di presidente del Board of Trustees di Studio Voltaire. Nel 2021 ha lanciato il progetto Artists for ClientEarth che ha raccolto 6,5 milioni di dollari grazie alle donazioni di lavori, poi venduti, di artisti come Cecily Brown, Rashid Johnson, Antony Gormley e Beatriz Milhazes. Come direttrice e fondatrice di Murmur, ha seguito lo sviluppo e il fundraising per la nuova associazione, raccogliendo oltre un milione di sterline da organizzazioni d’arte e di musica. Siddall è la tredicesima direttrice della storia dell’istituto e succede a Nicholas Cullinan, che ha lasciato la National Portrait Gallery per andare a dirigere, lo scorso giugno, il British Museum, dopo aver diretto per tredici anni il museo dei ritratti. Nel frattempo il museo è stato diretto ad interim da Michael Elliott.
“Sono lieto di dare il benvenuto a Victoria Siddall come nuova direttrice della National Portrait Gallery”, ha detto David Ross, presidente del Board of Trustees del museo. “La sua forza come leader culturale è considerevole, così come la sua conoscenza del mondo dell’arte, la sua comprensione del pubblico e il suo profilo internazionale. So che lei ha la visione e la determinazione per continuare a rafforzare i nostri recenti successi e per guidare la prossima fase dello sviluppo della Galleria, e non vedo l’ora di lavorare con lei”.
“Sono davvero onorata di avere l’opportunità di guidare la National Portrait Gallery”, dice Victoria Siddall, “un museo che conserva la più grande collezione al mondo di ritratti ed è unica nel suo essere sulle persone e per le persone. L’arte racchiusa tra le sue pareti racconta storie di conquiste dell’umanità e di ciò che ci unisce come società, ispirando e formando la nostra visione del mondo e il nostro posto al suo interno. Questo è forse il più emozionante periodo della storia della National Portrait Gallery, a seguito della recente riapertura e del progetto Inspiring People che il team ha consegnato in maniera così precisa sotto la guida di Nicholas Cullinan. È stato costruito il palcoscenico perfetto e sono davvero emozionata di lavorare con i miei nuovi colleghi, con i trustees del museo e con i suoi sostenitori, e ovviamente con gli artisti, perché guardiamo verso il futuro e ci avventuriamo in un nuovo capitolo”.
“Victoria Siddall porterà ricchezza d’esperienza in questo ruolo e io sono lieta che la National Portrait Gallery stia facendo la storia nominando la sua prima donna alla direzione”, dichiara Lisa Nandy, segretaria di Stato britannica per la Cultura, i Media e lo Sport. “La sua leadership guiderà la Galleria di bene in meglio, sviluppandola a seguito della riapertura dello scorso anno, e sono emozionata all’idea di vedere che cosa lei e il team della National Portrait Gallery ci riserveranno nei prossimi anni”.
Giovanni Franzoni, al secolo Mario Franzoni, più noto come Dom Franzoni (Varna, 8 novembre 1928 – Canneto di Fara in Sabina, 13 luglio 2017), è stato un teologo e scrittore italiano.
Biografia di Giovanni Franzoni-Nato a Varna, in Bulgaria, dove i genitori si erano stabiliti per motivi di lavoro, tornò in Italia e trascorse la propria adolescenza a Firenze. Franzoni venne poi ammesso all’Almo collegio Capranica di Roma e iniziò la formazione al sacerdozio, nell’ordine benedettino, compiendo gli studi teologici presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. Fu ordinato sacerdote nel 1955 ed iniziò ad insegnare storia e filosofia nel collegio dell’abbazia benedettina di Farfa. Nel marzo 1964 fu eletto abate dell’abbazia di San Paolo fuori le mura a Roma e, in tale veste, partecipò alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II, risultando il più giovane tra i padri conciliari.
In quegli anni avviò l’esperienza della comunità cristiana di base di San Paolo, in cui si coniugava l’ascolto del Vangelo con la lettura delle situazioni politiche ed ecclesiali e la presa di posizione in senso progressista e marxista. Alcune di queste scelte, come l’opposizione al concordato tra Stato e Chiesa, la condanna verso la guerra in Vietnam e la solidarietà con le lotte operaie dell’autunno caldo, gli procurarono la contrarietà della Santa Sede che lo invitò a dimettersi dalla carica di abate, il 12 luglio 1973, pochi giorni dopo aver pubblicato la lettera pastorale La terra è di Dio. La goccia che fece traboccare il vaso fu l’aperta critica, espressa da alcuni membri della comunità cristiana di base, verso le operazioni finanziarie compiute dallo IOR che, nella primavera del 1973, avevano ricevuto la ferma deplorazione del sistema bancario internazionale.
Giovanni Battista Franzoni
« La verità è che da parte della gerarchia non si nega il diritto ad una scelta, si nega il diritto ad una scelta opposta a quella che la gerarchia stessa ha compiuto. »
(dal corsivo di Fortebraccio, Dalla parte di lor signori, l’Unità, 25 giugno 1972)
Nel 1974 prese apertamente posizione per la libertà di voto dei cattolici al referendum sul divorzio, definendolo «un bisturi necessario» e sottolineando che il matrimonio non poteva essere un sacramento per i non cattolici. Seguirono forti critiche dalle gerarchie ecclesiastiche, non meno che dagli esponenti politici della Democrazia Cristiana e la mediazione di Mario Agnes, presidente dell’Azione cattolica, oltre al sostegno espresso da David Maria Turoldo, Ernesto Balducci e Carlo Carretto, non bastarono ad evitare la sospensione “a divinis” di dom Franzoni. Il 2 agosto 1976, dopo il suo dichiarato appoggio al PCI durante la campagna elettorale, fu dimesso dallo stato clericale .
Giovanni Battista Franzoni
Continua, da allora, la sua attività di animatore della comunità di San Paolo e del coordinamento nazionale delle comunità cristiane di base, cui affianca una feconda attività di riflessione in campo ecumenico e solidale, anche collaborando con la rivista “Confronti”, da lui fondata nel 1973 con il nome di “Com-Nuovi tempi”. È uno dei protagonisti del dialogo dei cristiani con il mondo marxista e con i movimenti di liberazione in America Latina ed è impegnato nel movimento per la pace, fino alla fondazione dell’associazione “Amicizia Italia-Iraq – L’Iraq agli iracheni” (2003).
Nel 1991 si è sposato con Yukiko Ueno, una giornalista giapponese atea, conosciuta in Nicaragua alla fine degli anni ottanta. Il matrimonio è stato celebrato, con rito civile, presso l’ambasciata italiana a Tokyo.
È socio onorario dell’associazione Libera Uscita per la depenalizzazione dell’eutanasia, dopo aver assunto una posizione piuttosto critica sul caso di Eluana Englaro: l’ex prelato ha infatti dichiarato che quella della ragazza poteva definirsi “non più vita, ma tortura”[7]. Alle elezioni politiche del 2006 ha votato per il Partito dei Comunisti Italiani e alle europee del 2009 concede la sua preferenza alla Lista Anticapitalista.
Giovanni Battista Franzoni
Opere
La terra è di Dio. Lettera pastorale, Roma, COM, 1973; Roma, Com nuovi tempi, 2003.
Il mio regno non è di questo mondo. Una risposta alla notificazione della CEI sul Referendum, Roma, COM, 1974.
Omelie a San Paolo fuori le Mura, Milano, A. Mondadori, 1974.
Le comunità di base. Per la riappropriazione della parola di Dio, dei gesti sacramentali, dei ministeri, dell’autonomia politica dei credenti, Genova, Lanterna, 1975.
Tra la gente, Roma, CNT, 1976.
Il posto della fede, Roma, Coines, 1977.
Il diavolo, mio fratello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1986.
Le tentazioni di Cristo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1990.
La solitudine del samaritano. Una parabola per l’oggi, Roma, Theoria, 1993. ISBN 88-241-0321-9.
Farete riposare la terra. Lettera aperta per un Giubileo possibile, Roma, EdUP, 1996. ISBN 88-86268-26-2.
Merda. Note di teologia delle cose ultime, Roma, EdUP, 1997. ISBN 88-86268-32-7.
Giobbe, l’ultima tentazione, Roma, Com nuovi tempi, 1997.
Lo strappo nel cielo di carta. Riso, fecondità, cibo: note di teologia delle cose ultime, Roma, EdUP, 1999. ISBN 88-86268-63-7.
Il valore dei valori. Il processo dell’educazione e la formazione della persona, con Francesco Florenzano e Salvatore Natoli, Roma, EdUP, 1999. ISBN 88-86268-71-8.
Le ombre di Wojtyla, con Mario Alighiero Manacorda, Roma, Editori Riuniti, 1999. ISBN 88-359-4801-0.
Anche il cielo è di Dio. Il credito dei poveri, Roma, EdUP, 2000. ISBN 88-86268-92-0.
La donna e il cerchio, Roma, Com nuovi tempi, 2001.
Ofelia e le altre, Roma, Datanews, 2001. ISBN 88-7981-162-2.
La morte condivisa. Nuovi contesti per l’eutanasia, Roma, EdUP, 2002. ISBN 88-8421-049-6.
La solitudine del samaritano, ovvero L’elogio della compassione, Roma, ICONE, 2002. ISBN 88-87494-26-6.
Eutanasia. Pragmatismo, cultura, legge, Roma, EdUP, 2004. ISBN 88-8421-097-6.
Del rigore e della misericordia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005. ISBN 88-498-1198-5.
Autobiografia di un cattolico marginale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, ISBN 978-88-498-39604-7.
Opere
Giovanni Battista Franzoni
I, Le cose divine. Omelie (1970-73), Il posto della fede (1977), Roma, EdUP, 2006. ISBN 88-8421-130-1.
II, I beni comuni. La terra è di Dio (1973), Farete riposare la terra (1996), Anche il cielo è di Dio (2000), Roma, EdUP, 2006. ISBN 88-8421-162-X.
IV, La donna e il cerchio spezzato. La donna e il cerchio (2001), Ofelia e le altre (2002), Roma, EdUP, 2010. ISBN 978-88-8421-220-7.
Essenziale e fantastico:Franz Kafka oltre l’angoscia –
Articolo di Alberto Corsani
Se Franz Kafka non fosse stato uno scrittore eccelso – come si scoprì più tardi, perché l’amico Max Brod disattese la promessa di distruggere i manoscritti dei testi non pubblicati in vita – e se non fosse morto a 40 anni di tubercolosi, Franz Kafka avrebbe potuto essere un creatore di fumetti e si sarebbe divertito di fronte ai disegni animati. Può sembrare strano, ma la consapevolezza dell’assurdo che caratterizza le nostre vite, l’angoscia provocata dai rapporti delle persone con il potere, tutto ciò che, insomma, caratterizza la vulgata intorno all’autore praghese, coesisteva in realtà in lui con una propensione alla risata, con il grottesco, il giocoso, il fantastico.
Franz Kafka
A questo filone appartengono alcuni racconti: per esempio Il cavaliere del secchio (1917, tre paginette scarse): l’estrema povertà e la disperazione di un uomo senza più carbone per scaldarsi lo spingono a. mendicare al carbonaio qualche palettata del “peggiore”, da pagare in seguito. La moglie del carbonaio nega il credito, e allora al poveraccio non resta che salire a cavalcioni sul secchio, per volare via: «… Così dicendo salgo nelle regioni delle Montagne di ghiaccio e mi sperdo per non più ritornare». Sarà un sogno? O un delirio? O la commiserazione di sé? Il racconto realistico si trasforma in poesia assoluta ed evocativa: «Tutto il carbone consumato, vuoto il secchio; assurda la paletta; la stufa che manda freddo…».
«Kafka, che pur essendo boemo scriveva in tedesco, amava l’essenzialità – mi dice il germanista Marino Freschi, per molti anni docente di Letteratura tedesca nell’Università di Roma e poi a Napoli, autore anche di saggi su Goethe, Hesse, Joseph Roth –. Rifuggiva dalle ridondanze del neobarocco di quegli anni. E il suo sguardo, che colse prima di tanti altri quelle che sarebbero state le angosce dei nostri contemporanei, pervaso da un senso “apocalittico” che egli derivava dalla consapevolezza che la cultura ebraica europea stesse per scomparire, non è però solo tragico. È intessuto di elementi comici, grotteschi: egli stesso amava stare con gli amici e, addirittura, dette di persona lettura ad alta voce dei primi capitoli del Processo (1925) suscitando le risate e ridendo egli stesso. Addirittura, avendo l’abitudine di disegnare, considerava i disegni alla stessa stregua dei propri racconti».
Franz Kafka
Ma la produzione di Kafka, oltre ai racconti pubblicati in vita e ai tre romanzi, che tanto insistono sulla colpa, sulla punizione, su una giustizia e una Legge incomprensibile, è fatta anche di altri scritti…: «In Kafka – prosegue Freschi – non è possibile considerare i romanzi e racconti separatamente dagli scritti di altra natura: i diari, per esempio, e le lettere inviate alle due donne importanti della sua vita, Felice Bauer e soprattutto Milena Jesenská. In queste ultime – in larga parte lettere d’amore – egli discetta di ebraismo, dal suo punto di vista molto particolare, che non era quello del sionismo, ma quello della consapevolezza che un mondo stava cambiando». È ovvio che non si possa in poche righe affrontare l’opera di uno dei massimi autori del 900, ma si può dire che il peso incombente del potere, il disagio di fronte al padre, la perdita di identità che leggiamo in molte sue pagine siano state una grande anticipazione della letteratura successiva…
«Il testo più emblematico è La metamorfosi –, che consiglierei di leggere per primo insieme al Processo: con la sua estrema precisione ed economia formale Kafka descrive il protagonista che, “svegliandosi una mattina da sogni agitati”, si trova trasformato in un enorme insetto. Il risveglio è tutto meno che una redenzione, è un precipitare nell’assurdo, nell’animalità della nostra condizione. L’uomo contemporaneo si rende conto che sta ricevendo delle botte, ma sa che le sta ricevendo da se stesso. Il problema è in lui. E tuttavia Kafka, pur nella malattia, pur consapevole degli abissi dell’umanità, è disperato, ma non rassegnato».
Sarà questa una caratteristica da cui tutta la successiva letteratura non potrà più prescindere. Sia nel modo di narrare sia nei temi affrontati: gli ultimi racconti sono basati sugli animali: Josephine la cantante; Indagini di un cane; La tana utilizzano personaggi antropomorfizzati (come i “cani musicanti”) e processi mentali che dagli animali ci riconducono alle nostre paure, individuali e collettive. Il mistero siamo noi; nonostante le sue pagine possano sembrare inquietanti, Kafka ha cercato di fare un po’ di chiarezza. Gliene siamo ancora grati.
Franz Kafka
I testi e i commenti critici
Molte le edizioni in italiano delle opere di Kafka, anche in edizioni economiche e nei “Meridiani” di Mondadori. A queste si aggiungono le nuove traduzioni per Il Saggiatore dei tre romanzi Il castello, Il disperso («America»), Il processo. Monumentale l’edizione di Tutti i romanzi, tutti i racconti e i testi pubblicati in vita, a c. di Mauro Nervi, Bompiani, 2023, con testo tedesco a fronte, apparato bibliografico e varianti, per un totale di 2270 pagine.
Fra i testi critici “storici” vanno menzionati quello di Max Brod Franz Kafka. Una biografia (Passigli, 2020) e quello di K. Wagenbach Kafka. Una battaglia per l’esistenza (Il Saggiatore, 1968-2023). Il Saggiatore sta pubblicando una biografia in più volumi da parte di Reiner Stach, di cui è uscito nel 2016 Questo è Kafka (Adelphi), una serie di “frammenti” che fissano altrettanti momenti e atteggiamenti singolari dell’autore praghese. Il più importante fra gli studi italiani è quello di Giuliano Baioni, Kafka. Letteratura ed ebraismo (Einaudi 1984 – Ed. di Storia e Letteratura, 2008), e un recente studio di Roberto Calasso è stato dedicato agli ultimi tre racconti basati sugli animali (L’animale della foresta, Adelphi, 2023).
Fra i testi di autori di cultura ebraica troviamo Günther Anders (con il problematico e polemico Kafka. Pro e contro – Quodlibet, 2006) e Hannah Arendt con lo scritto di poche fulminanti pagine «F. Kafka. L’uomo di buona volontà» in L’ebreo come paria (Giuntina 2017). Ma il volume più importante è quello curato da L. Arigone e M. Palma, che hanno riunito una serie di scritti del filosofo e critico Walter Benjamin (Il mio Kafka, Castelvecchi, 2024).
Un volume di grande formato, uscito nel 2022 per Adelphi, contiene I disegni di Kafka, a cura di Andreas Kilcher.
Franz Kafka
Milena Jesenská e Kafka
Uno dei più importanti carteggi di Kafka è quello con Milena Jesenská, giornalista e politica praghese, che di lui tradusse in lingua cèca le opere pubblicate in tedesco fino a quel momento e morì nel lager di Ravensbrück nel 1944. Si frequenteranno solo quattro giorni nel 1920, ma la comunanza dei loro spiriti darà luogo, da parte di lui, ad alcuni capolavori nel genere epistolare. Le varie edizioni delle lettere di Kafka, si trovano nella traduzione storica di E. Pocar e da pochi anni anche nell’edizione critica a c. di G. Massino e C. Sonino (Giuntina, 2019).
Resta fondamentale il libro di Margarete Buber Neumann Milena, l’amica di Kafka (Adelphi, 1986 e succ.) e così la raccolta delle sue lettere, con traduzione di Claudio Canal (Milena di Praga. Lettere di Milena Jesenská 1912-1940, Città aperta, 2002, ormai introvabile). Laura Boella le ha dedicato un capitolo nel libro dedicato a cinque intellettuali definite “imperdonabili”: (oltre a lei, E. Hillesum, M. Cvetaeva, I. Bachmann, C. Campo): Le imperdonabili, Mimesis, 2013.
Ma soprattutto bisogna leggere i testi di Milena Jesenská, tralasciando che sia stata oggetto delle lettere d’amore di Kafka. Suoi articoli e saggi, scritti dopo la scomparsa di lui, sono contenuti in una raccolta breve (In cerca della terra di nessuno, Castelvecchi, 2014) e in una più ampia dal titolo Qui non può trovarmi nessuno (Giometti & Antonello, 2018). È qui compreso un breve articolo intitolato «Trasloco», che dà idea della splendida complessità della sua scrittura, in cui viene evocata il progressivo svuotamento di un alloggio, con dettagli su pareti, carta da pacchi, e «i mobili disposti in un nuovo disordine…» che sono al tempo stesso realistici ma anche commoventi. L’autrice indica per via empatica i sentimenti a cui Kafka ci conduceva per le sue vie immaginifiche. Eppure, almeno intellettualmente, si trovarono bene insieme…
Fonte-Riforma.it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Frida Kalho -Viva la vida, il sogno e la rivoluzione-
Articolo di Sara Rotondi-Ass. La Città Futura
Una delle più grandi pittrici del Ventesimo secolo: la ‘pintora mexicana’ per eccellenza, intensa, meravigliosa e potente. Quelli della sua generazione potrebbero tracciare un diagramma della loro vita. A Palazzo Albergati di Bologna entra Frida Kahlo al secolo Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio1907 – Coyoacán,13 luglio 1954). La mostra su Frida inaugurata lo scorso 19 novembre, sarà visibile fino al prossimo marzo 2017. Che dire, imperdibile.
Ritratti, autoritratti, la storia dell’artista a tutto tondo che si fonde in maniera inscindibile con la storia della donna. E accanto a lei, a fare da sfondo, gli uomini (e le donne) di Frida: su tutti, il pittore e ‘muralista’ Diego Rivera e la cantante Chavela Vargas che alla veneranda età di 83 anni calcola di aver bevuto più di 45 mila litri di tequila. I grandi amor fou.
Lungi dal ripercorrere la biografia, tracciamo una linea ‘umile’ sul suo grande spessore umano e intellettuale. Dai suoi ideali di amore (quelli veri lontani da beceri romanticismi) all’amore per la libertà.
Ciò che l’acqua mi ha dato. Intensa e piena di passione la sua carriera pittorica, in cui la sua opera non è circoscritta alla semplice narrazione di eventi, ma è anche ricerca interiore. Opere che si uniscono con la tradizione messicana e con il surrealismo. Andrè Breton, in occasione di una mostra a Parigi nel 1939 afferma che Frida è “una surrealista creatasi con le proprie mani e un raro punto di contatto tra l’ambito artistico e quello politico, che speriamo un giorno si possa fondere in un’unica coscienza rivoluzionaria” [1]. Un surrealismo che emerge nel quadro Ciò che l’acqua mi ha dato: immagini di paura, sessualità, memoria e dolore fluttuano nell’acqua di una vasca da bagno, dalla quale affiorano le gambe dell’artista.
Morte e ciclo dell’esistenza. Nella sua opera emerge il dolore, l’erotismo represso (segno di vitalità immune e repressione borghese), subconscio ma anche morte. Citiamo una delle sue opere più famose dove il concetto dell’inazione collegata alla morte è intenso e struggente. Il sogno (1940) Frida Kahlo dorme e lo scheletro è sveglio, vigile. Intorno ci sono delle nuvole, il sonno di Frida è tranquillo, mentre su di lei crescono delle piante che rappresentano la vita. Per l’artista la morte è una rinascita, forma di ringraziamento per la vita e una sorta di celebrazione del ciclo vitale dell’esistenza. La morte è quindi un processo, un cammino verso qualcosa d’altro.
Autoritratto con i capelli tagliati. Fervida femminista, in un dipinto del 1940 affiora il sui ideale di donna con una vera e propria esegesi della definizione culturale delle donne. Adottando trasgressivamente alcuni elementi dell’esteriorità maschile, denuncia apertamente come il potere sia una sorta di travestimento.
Avventura, passione, tequila, e revolución: spirito politico e comunismo. Non solo pittrice, ma anche grande attività per gli ideali libertari dell’epoca. Frida è una comunista convinta che si è battuta contro le ingiustizie e l’omogeneità del sistema: nel 1928 diventa un’attivista del Partito Comunista Messicano per sostenere la lotta di classe armata partecipando a numerose manifestazioni con adeguato physique du rôle.
L’amore come essenza della vita: Ti meriti un amore “Non so scrivere lettere d’amore” affermava Frida Kahlo. Ma in realtà poche donne hanno saputo giocare con le parole e le emozioni come ha fatto lei. Il tutto in un lirismo struggente. “Da quando mi sono innamorata di te, ogni cosa si è trasformata ed è talmente piena di bellezza… L’amore è come un profumo, come una corrente, come la pioggia. Sai, cielo mio, tu sei come la pioggia ed io, come la terra, ti ricevo e accolgo” scrive in una splendida missiva a Josè Bartoli nel 1946. L’amore, quello passionale, quello unico, quello che ti crea dipendenza anche quando si trasforma in sofferenza: “Ti meriti un amore che ti ascolti quando canti, che ti appoggi quando fai la ridicola, che rispetti il tuo essere libera, che ti accompagni nel tuo volo, che non abbia paura di cadere. Ti meriti un amore che ti spazzi via le bugie che ti porti il sogno, il caffè e la poesia”.
Tutto questo e Frida: amore e rivoluzione.
Frida Kahlo.*gelatin silver print.*Oct. 16 / 1932
Opere:
Autoritratto con vestito di velluto – (1926) – collezione privata
Autoritratto – (1926)
Ritratto di Alicia Galant – (1927) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Miguel N. Lira – (1927) – Instituto Tlaxcalteca de Cultura, Tlaxcala
L’autobus – (1929) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto – (1930)
Autorretratto con mono (autoritratto con scimmia) – (1930) – Albright-Knox Art Gallery, Buffalo (New York)
Frida e Diego – (1931) – San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco
Ritratto di Eva Frederick – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Luther Burbank – (1931) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ospedale Henry Ford (o Il letto volante) – (1932) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti – (1932)
La mia nascita – (1932)
Il mio vestito è appeso là (o New York) – (1933)
Qualche piccola punzecchiatura – (1935) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
I miei nonni, i miei genitori e io – (1936)
Autoritratto dedicato a Lev Trockij – (1934) – National Museum of Women in the Arts, Washington D.C.
Frida e l’aborto – (1936) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo defunto Dimas Rosas all’età di tre anni – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La mia balia e io – (1937) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ricordo – (1937)
Ciò che ho visto nell’acqua e ciò che l’acqua mi ha dato – (1938)
I frutti del cuore – (1938)
Il cane itzcuintli con me – (1938)
Quattro abitanti del Messico – (1938)
Due Nudi nella Giungla (La Terra Madre) – (1939) – Collezione Privata
Il suicidio di Dorothy Hale – (1939) – Phoenix Art Museum, Phoenix
Le due Frida – (1939) – Museo de Arte Moderno, Città del Messico
Autoritratto con collana di spine – (1940)
Autoritratto con i capelli tagliati – (1940) – Museum of Modern Art, New York
Autoritratto con scimmia – (1940)
Autoritratto per il Dr. Eloesser – (1940)
Il sogno (o Il letto) – (1940)
Cesto di fiori – (1941)
Io con i miei pappagalli – (1941)
Autoritratto con scimmia e pappagallo – (1942)
Autoritratto con scimmie – (1943)
La novella sposa che si spaventa all’aprirsi della vita – (1943)
Retablo – (1943 circa)
Ritratto come una Tehuana (o Diego nel mio pensiero) – (1943)
Pensando alla morte (1943) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Radici (1943) – Collezione privata
Diego e Frida 1929-1944 – (1944)
Fantasia – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il fiore della vita – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La colonna spezzata – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Ritratto di Donna Rosita Morillo – (1944) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il pulcino – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
La maschera – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Mosè (o Il nucleo solare) – (1945)
Ritratto con scimmia – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Senza speranza – (1945) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il piccolo cervo – (1946)
Autoritratto con i capelli sciolti – (1947)
Albero della speranza mantieniti saldo – (1946)
Il sole e la vita – (1947)
Autoritratto – (1948)
Diego e io – (1949) – Collezione privata
L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra, Diego, io e il signor Xolotl – (1949)
Autoritratto con ritratto del Dr. Farill – (1951)
Ritratto di mio padre – (1951) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Perché voglio i piedi se ho le ali per volare – (1953) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Autoritratto con Diego nel mio Cuore – (1953-1954) – Collezione Privata
Autoritratto con Stalin (o Frida e Stalin) – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Il cerchio – (1954 circa) – Museo Dolores Olmedo Patiño, Città del Messico
Il marxismo guarirà gli infermi – (1954 circa) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico
Viva la vita – (1954) – Museo de Frida Kahlo, Città del Messico.
Note:
[1] In Andrè Breton, Le Surréalisme et la Peinture, Éditions Gallimard, Parigi 1965; tr. it. di Ettore Capriolo, Il Surrealismo e la Pittura, Marchi Editore, Firenze 1966, “Frida Kahlo”, p. 143.
Fonte- Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi-
Frida Kalho
Biografia di Frida Kahlo a cura di Irene Bertazzo-
Fonte-ENCICLOPEDIA DELLE DONNE-
Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón nasce da genitori ebrei tedeschi emigrati dall’Ungheria a Città del Messico, il 6 luglio del 1907, anche se lei dichiarava di essere nata nel 1910, con la rivoluzione, con il nuovo Messico.
Del padre, Frida dice «grazie a mio padre ebbi un’infanzia meravigliosa, infatti, pur essendo molto malato (ogni mese e mezzo aveva un attacco epilettico, nda) fu per me un magnifico modello di tenerezza, bravura (come fotografo e pittore, nda) e soprattutto di comprensione per tutti i miei problemi».
Della madre, invece, diceva che era molto simpatica, attiva e intelligente, ma anche calcolatrice, crudele e religiosa in modo fanatico.
A 6 anni Frida si ammala di poliomelite: piede e gamba destra rimangono deformi, tanto che Frida li nasconde prima con pantaloni e poi con lunghe gonne messicane. Così, se quando è piccola viene soprannominata dagli altri bambini “Frida pata de palo” (gamba di legno), quando diventa grande è ammirata per il suo aspetto esotico.
Nel 1922, dopo il liceo presso il Colegio Alemán, la scuola tedesca in Messico, Frida si iscrive alla Escuela Nacional Preparatoria di Città del Messico con l’obiettivo di diventare medico.
Durante questo periodo Frida fa parte dei “cachucas”, un gruppo di studenti che sostiene le idee socialiste nazionaliste del ministro della pubblica istruzione, Vasconcelos, richiedendo riforme scolastiche; inoltre mostra interesse per le arti figurative ma non ha ancora pensato di intraprendere la carriera artistica.
Il 17 settembre 1925, l’autobus diretto a Coyoacàn, su cui Frida Kahlo era salita con il suo ragazzo, Alejandro Gomez, per tornare a casa dopo la scuola, si scontra con un tram.
«Salii sull’autobus con Alejandro.. Poco dopo, l’autobus e un treno della linea di Xochimilco si urtarono.. Fu uno strano scontro; non violento, ma sordo, lento e massacrò tutti. Me più degli altri. È falso dire che ci si rende conto dell’urto, falso dire che si piange. Non versai alcuna lacrima. L’urto ci trascinò in avanti e il corrimano mi attraversò come la spada il toro».
Frida rimane tra le aste metalliche del tram. Il corrimano si spezza e la trapassa da parte a parte… Alejandro la raccoglie e nota che Frida ha un pezzo di metallo piantato nel corpo. Un uomo appoggia un ginocchio sul corpo di Frida ed estrae il pezzo di metallo.
La prima diagnosi seria sopraggiunge un anno dopo l’incidente: frattura della terza e della quarta vertebra lombare, tre fratture del bacino, undici fratture al piede destro, lussazione del gomito sinistro, ferita profonda dell’addome, prodotta da una barra di ferro entrata dall’anca destra e uscita dal sesso, strappando il labbro sinistro. Peritonite acuta. All’ammalata viene prescritto di portare un busto di gesso per 9 mesi, e il completo riposo a letto per almeno 2 mesi dopo le dimissioni dall’ospedale.
«Da molti anni mio padre teneva…una scatola di colori a olio, un paio di pennelli in un vecchio bicchiere e una tavolozza.. nel periodo in cui dovetti rimanere a lungo a letto approfittai dell’occasione e chiesi a mio padre di darmela…Mia madre fece preparare un cavalletto, da applicare al mio letto, perché il busto di gesso non mi permetteva di stare dritta. Così cominciai a dipingere il mio primo quadro».
La madre di Frida, Matilde, poi trasforma il letto di Frida in un letto a baldacchino e ci monta sopra un enorme specchio, in modo che Frida, immobilizzata, possa almeno vedersi.
Così nascono quegli autoritratti che ce la ricordano, con i suoi occhi sovrastati dalle sopracciglia scure, particolarmente marcate, che si uniscono alla radice del naso come ali d’uccello: «dipingo me stessa perché trascorro molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio».
Con queste rappresentazioni Frida infrange i tabù relativi al corpo e alla sessualità femminile. Diego Rivera, suo futuro marito, dirà di lei «la prima donna nella storia dell’arte ad aver affrontato con assoluta ed inesorabile schiettezza, in modo spietato ma al contempo pacato, quei temi generali e particolari che riguardano esclusivamente le donne».
Via via che i mesi passano, Frida si dedica con crescente consapevolezza alla pittura. Avanza lentamente, produce a piccole dosi e piccoli formati: ciò che la sua salute le permette di fare, a seconda del fatto che riesca a star seduta o solamente distesa: «i miei quadri sono dipinti bene, non con leggerezza bensì con pazienza. La mia pittura porta in sé il messaggio del dolore».
Più di un anno dopo, verso la fine del 1927 si riprende, tanto da poter condurre una vita abbastanza normale, nonostante i dolori dovuti ai vari busti, e le cicatrici derivate dalle diverse operazioni.
Nel 1928 Frida si unisce ad un gruppo di artisti e di intellettuali che sostengono un’arte messicana indipendente, lontana dall’accademismo e legata all’espressione popolare: il mexicanismo, che si esprime nella pittura murale, particolarmente incoraggiata dallo Stato anche per le sue finalità edificanti e la possibilità di raccontare la storia nazionale anche alla grande massa analfabeta.
Frida, dal canto suo, per esprimere idee e sentimenti, crea un proprio linguaggio figurativo; il mondo contenuto nelle opere di Frida si rifà soprattutto all’arte popolare messicana e alla cultura precolombiana; vi sono infatti, immagini votive popolari, raffigurazioni di martiri e santi cristiani, ancorati nella fede del popolo; negli autoritratti, inoltre, Frida si rappresenta quasi sempre in abiti di campagna o con costume indio. Del Messico, poi, ritroviamo, nelle opere di Frida, la flora e la fauna, i cactus, le piante della giungla, le scimmie, i cani itzcuintli, i cervi e i pappagalli.
Nei primi mesi del 1928, German del Campo, uno dei suoi amici del movimento studentesco, le fa conoscere un gruppo di giovani raccolto intorno al comunista cubano Julio Antonio Mella, che si trova in esilio in Messico e che ha una relazione con la fotografa Tina Modotti. È proprio Tina a far conoscere a Frida Diego Rivera: un pittore e muralista molto famoso, anche se i due, in realtà si erano già conosciuti nel 1923, mentre Diego lavorava nell’anfiteatro Bolivar. Di quell’incontro Diego ricorda di questa ragazza «…aveva una dignità e una sicurezza di sé del tutto inusuali e negli occhi le brillava uno strano fuoco».
Quando Frida incontra Diego per la seconda volta, lui è un uomo pesante, gigantesco, Frida lo prende in giro chiamandolo “elefante”: è già stato sposato due volte e ha quattro figli.
Il 21 agosto del 1929 si sposano. Lei ha 22 anni, lui quasi 43.
A causa della malformazione pelvica, dovuta all’incidente, Frida non riesce a portare a termine le sue gravidanze, e così, 3 mesi dopo il matrimonio, Frida deve abortire. È la prima volta. Nel novembre del 1930 Frida e Diego si trasferiscono per 4 anni negli Stati Uniti per motivi artistici e politici. A Detroit Frida rimane incinta per la seconda volta, ma la tripla frattura delle ossa del bacino ostacola la corretta posizione del bambino. Frida decide comunque di tenere il bambino, nonostante la sua pessima condizione fisica ed il rischio. Tuttavia, il 4 luglio perde il bambino per un aborto spontaneo.
Nel 1934 ritornano in Messico, Frida è costretta ad abortire per la terza volta, e si separa da Diego che, nel frattempo, aveva avuto diverse avventure con altre donne, compresa la sorella di Frida, Cristina.
Frida comincia ad avere rapporti con altri uomini e con donne e ad essere molto attiva anche dal punto di vista politico. Nel 1936 in Spagna scoppia la guerra civile e se, Tina Modotti, l’amica di Frida, lascia immediatamente Mosca per andare in Spagna, lei si impegna a distanza nella lotta per la difesa della Repubblica Spagnola, organizzando riunioni, scrivendo lettere, raccogliendo viveri di prima necessità, pacchi di vestiti e di medicine per inviarli al fronte.
Nel 1937, poi, nella sua Casa Azul, ospita Lev e Natalja Trotskij, i quali sono in viaggio dal 1929, espulsi dall’Unione Sovietica.
Negli anni Quaranta, la fama di Frida è talmente grande che le sue opere vengono richieste per quasi tutte le mostre collettive allestite in Messico.
Nel 1943 viene chiamata ad insegnare, assieme ad altri artisti, alla nuova scuola d’arte della pedagogia popolare e liberale: l’Esmeralda. Frida, per ragioni di salute, è presto costretta a tenere le lezioni nella sua casa. I suoi metodi sono poco ortodossi: «Muchacos, chiusi qui dentro, a scuola, non possiamo fare niente. Andiamo fuori, in strada, dipingiamo la vita della strada». I suoi alunni la ricordano: «l’unico aiuto che ci dava era quello di stimolarci….non diceva niente sul modo in cui dovevamo dipingere o sullo stile, come faceva il maestro Diego…Ci insegnò soprattutto l’amore per la gente, ci fece amare l’arte popolare».
Nel 1950 subisce sette operazioni alla colonna vertebrale e trascorre nove mesi in ospedale. Dopo il 1951, a causa dei dolori, non riesce più a lavorare se non ricorrendo a farmaci antidolorifici; forse è proprio dovuta a questi la pennellata più morbida, meno accurata, il colore più spesso e l’esecuzione più imprecisa dei dettagli.
Nel 1953, alla sua prima mostra personale, allestita dalla amica fotografa Lola Alvarez Bravo, partecipa sdraiata su un letto, dato che se i medici le hanno assolutamente proibito di alzarsi. È Diego ad avere l’idea di trasportare il grande letto a baldacchino di Frida fin nel centro di Città del Messico. Stordita dai farmaci, partecipa alla festa rimanendo a letto, bevendo e cantando con il pubblico accorso numeroso. Nell’agosto dello stesso anno, i medici decidono di amputarle la gamba destra fino al ginocchio.
Nel 1954 si ammala di polmonite. Durante la convalescenza, il 2 luglio, partecipa ad un dimostrazione contro l’intervento statunitense in Guatemala, reggendo un cartello con il simbolo della colomba che reca un messaggio di pace. Muore per embolia polmonare la notte del 13 luglio, nella sua Casa Azul, sette giorni dopo il suo quarantasettesimo compleanno. La sera prima di morire, con le parole «sento che presto ti lascerò», aveva dato a Diego il regalo per le loro nozze d’argento.
Frida Kalho
ENCICLOPEDIA DELLE DONNE
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AGRICOLTURA-L’aratro pesante invenzione che cambiò il mondo dell’agricoltura medievale-
AGRICOLTURA-L’aratro pesante-La grande invenzione che cambiò radicalmente il mondo dell’agricoltura medievale fu quella dell’aratro pesante. In epoca antica e durante l’alto medioevo era ben noto il cosiddetto aratro semplice, uno strumento a vomere (la parte che taglia la terra) simmetrico e in legno che riusciva a malapena a scalfire superficialmente le zolle del terreno e quindi non rimescolava granché la terra, garantendo raccolti di scarsa rilevanza.
Inoltre erano strumenti molto fragili, che poco si adattavano al duro terreno del nord Europa, che in effetti neppure i romani avevano mai coltivato in maniera seria e continuativa (per non parlare dei barbari, che spesso non ci provavano neppure).
Londra, British Library-L’ARATURA
Dal nord della Francia al resto d’Europa
Attorno all’undicesimo secolo, però, nel nord della Francia fece la sua comparsa un nuovo tipo di aratro, chiamato presto aratro pesante, in cui il vomere era asimmetrico, mentre lo strumento in generale era dotato di ruote e, dato che non doveva più essere per forza spinto da un uomo e poteva essere quindi appesantito per farlo entrare più in profondità, necessitava di essere attaccato a buoi o cavalli.
Fu una rivoluzione: l’aratro pesante, come il nome lascia intendere, penetrava più profondamente nel terreno, rimestando completamente le zolle e garantendo una produttività maggiore dei campi. Questo favorì, nel giro di pochi decenni, un poderoso aumento demografico che solo la venuta della peste avrebbe interrotto; inoltre, buoi e cavalli trovarono ampio impiego, anche grazie alle successive invenzioni del giogo frontale per i primi e del collare da spalla per i secondi, portando anche a una sempre più netta distinzione tra contadini ricchi – che potevano permettersi il nuovo aratro, già di per sé costoso, e gli animali che servivano a metterlo in funzione – e contadini poveri.
Le innovazioni agricole nel basso Medioevo
Nel basso Medioevo, a partire dall’anno Mille, l’aumento della produzione agricola porta ad una crescita demografica che favorisce la nascita di nuovi borghi. I maggiori raccolti non solo soltanto favoriti da un miglioramento del clima ma anche dall’introduzione di alcune innovazioni.
La produttività del suolo è in rapporto strettissimo con la quantità e la qualità delle arature. I progressi più significativi sono almeno quattro: l’aratro pesante, il collare da spalla, il ferro da cavallo e il mulino.
L’aratro pesante
L’invenzione dell’aratro pesante aumenta la qualità dell’aratura.
Nei secoli prima del Mille, i contadini utilizzano l’aratro semplice con il vomere in legno temperato che finisce a punta di freccia e si limita a scalfire superficialmente la terra, non rovescia le zolle e richiede un massiccio lavoro manuale con la vanga per completare l’opera. Per il contadino, quindi, la fatica è maggiore.
Tra il XI e il XII secolo, invece, fu inventato un aratro a vomere asimmetrico e versoio di ferro, dotato di avantreno mobile e di ruote. Questo aratro pesante penetrava in profondità e. per mezzo del versoio, ribaltava la zolla.
Nel XII secolo, si iniziò anche ad arare quattro volte all’anno consentendo alla terra di ossigenarsi maggiormente aumentando così la sua fertilità.
Foto e Poesie del Festival Riviviamo il Centro Storico anno 2005-
Immagini e poesie a cura di Paolina Carli-
Arch. Antonio ZACCHIA , Sindaco di Toffia:”…Quando si spengono le luci negli improvvisati palcoscenici per le vie diel Borgo tutto sembra perfino superato! Solo il ricordo delle scene vissute, le immagini dei fotografi Eugenio Spallazzi e Massimo Maccaroni, i racconti e la raccolta di Poesie di Paolina Carli mi rendono profondamente felice!…”
Digitalizzazione a cura dell’Associazione Culturale DEA SABINA
Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-Riviviamo il Centro Storico anno 2005-
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Padoan: per un’Europa antifascista, di pace, diritti e solidarietà
Siamo di fronte a una crisi della democrazia. Il 27 giugno si è aperta a Bologna la festa nazionale dell’ANPI con un dibattito a cui ha partecipato anche la presidente di Libertà e Giustizia. Con Rosy Bindi, Maurizio Landini, Piero Ignazi e Gianfranco Pagliarulo.
Bologna-Festa degli 80 anni dell’ANPI
Grazie all’ANPI per questo invito. Essere qui, per me, è essere a casa. E dove altro si potrebbe stare, quando in tutta Europa riemergono vecchi e nuovi fascismi? Quando in Italia – dove tutto è cominciato un secolo fa – gli eredi di quella stagione e della sua parte più tetra, la Repubblica Sociale Italiana, sono al governo, unico caso tra i grandi Paesi europei?
Eppure non parlerei, come molti hanno fatto in questi giorni, di un’onda nera. Siamo di fronte a una crisi della democrazia. L’Europa ha dimenticato i Trattati come l’Italia ha dimenticato la Costituzione, e in questa faglia si insinuano e crescono le destre estreme. L’Unione europea, che si dichiara “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, ha lasciato che a debordare fosse la sicurezza – intesa nella sua accezione più negativa, come costruzione di muri, respingimento, abbandono in mare, retoriche di guerra, interessi di lobby economiche. Ha lasciato che il Parlamento, sua unica istituzione elettiva, fosse messo all’angolo rispetto a Commissione e Consiglio, e che la società civile, motore della democrazia partecipativa promossa dai Trattati, fosse lasciata ai margini. Sta a noi ridare vita alle istituzioni democratiche, non lasciarle sfaldare, costringerle a vere politiche sociali, in ascolto dei reali bisogni cittadini; perché quando a prevalere sono gli interessi egoistici dei governi degli Stati membri, le retoriche populiste, le scorciatoie autoritarie, la destra appare forte, capace di convincere le persone sempre più impoverite e isolate a darle credito.
Tricolore Anpi
In Italia, nonostante un allarmante astensionismo, molti sono i segni di fratture e crepe che corrono nel disegno autoritario dell’estrema destra al governo, e al contempo di un risveglio democratico che si manifesta nel Paese. Un segnale importante è venuto dalle recenti elezioni amministrative, non solo perché sei capoluoghi di Regione su sei sono andati al fronte progressista, o campo largo, ma perché hanno mostrato che, dove si trovano figure capaci di unire su progetti condivisi, come a Perugia, a Civitavecchia, rinasce la partecipazione politica, la volontà di difendere la cosa pubblica, e crolla l’astensionismo.
Di fronte al risultato delle urne, la seconda carica dello Stato ha reagito affermando la volontà di cambiare la legge elettorale con l’eliminazione dei ballottaggi. La ratio è che le normative che non sono funzionali al potere della destra devono essere eliminate.
Una volontà tanto più problematica per chi, avendo mostrato un’attitudine plebiscitaria, afferma di volersi rivolgere direttamente al “popolo”; un’uscita che ricorda la celebra frase di Bertolt Brecht: «Poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
Anche le affermazioni della presidente Meloni mostrano una tensione contraddittoria: a cercare legittimità popolare, e ad essere al contempo indifferente alla volontà popolare, che sembra valere solo se a lei favorevole. Non dimentichiamo che, dando le spalle la galleria dei ritratti dei passati Presidenti del Consiglio, durante l’annuncio della “madre di tutte le riforme”, si è rivolta direttamente agli “italiani” con un video in cui magnificava la possibilità di scegliere da chi essere governati, anziché lasciare la scelta ai partiti – quasi che nei partiti non fosse cresciuta, e quasi che questa non fosse la base della democrazia rappresentativa.
Ma quando il cammino del “premierato” si è fatto più impervio, ha fatto ricorso a un’espressione che non lascia dubbi: «o la va o la spacca». Ovvero la determinazione a travolgere a ogni costo l’assetto istituzionale disegnato dalla Costituzione del ’48. Salvo poi, alla domanda se intendesse dimettersi in caso di bocciatura della sua riforma in sede di referendum abrogativo, rispondere “chisseneimporta”: un motto degli Arditi divenuto slogan del Ventennio, che afferma la volontà di restare al governo a qualsiasi costo.
Il rapporto con “il popolo”, quel “popolo” a cui ha chiesto di chiamarla per nome persino sulla scheda elettorale, al quale ha creduto di poter far accettare che la governabilità – questa posizione passiva, questa cambiale in bianco data per cinque anni – passasse per la delegittimazione, persino l’irrisione, del Parlamento, dei partiti, della figura del Presidente della Repubblica, e per la cancellazione dei Senatori a vita, non sembra funzionare poi così bene. Stanno a dimostrarlo la crescente affezione e affidamento al Presidente della Repubblica, e la mobilitazione spontanea dei democratici per contrastare il concorso delle tre riforme volute dal governo, disegnerebbe un assetto istituzionale capace di limitare i controlli e i contrappesi sul Potere esecutivo e sul Presidente del Consiglio. Anche a costo di rovesciare il tavolo, con radicali modifiche costituzionali in senso autoritario, e con la criminalizzazione dell’opposizione e del dissenso.
In questa logica, si inseriscono l’attacco frontale all’indipendenza e all’autonomia della Magistratura, perseguito con la riforma della Giustizia, in aperto contrasto con la normativa europea, e il ddl Sicurezza, che introduce il reato di rivolta penitenziaria, applicato anche alla protesta pacifica e non violenta. Con una pena fino a 8 anni di carcere e la perdita dei benefici penitenziari. Senza dimenticare l’emendamento che prevede di togliere all’autorità giudiziaria le indagini per tortura e violenze e affidarle all’avvocatura dello Stato.
Eppure proprio in questo procedere, in questa progressiva perdita della maschera, si vedono i segni di un cedimento: li si vede nelle scivolate rovinose di una classe politica spesso inadeguata, raccolta nella fretta di procedere all’occupazione di ogni minimo spazio di potere (dalla Rai alle istituzioni culturali, dall’Antimafia alle società partecipate) che ha avuto come ultima “hit” l’affermazione del ministro della Cultura, per cui la cosiddetta scoperta delle Americhe si sarebbe basata sulle teorie di Galileo.
Uno stillicidio, un florilegio che sarebbe divertente, non fosse tragico in un Paese tra i primi in Europa per abbandono scolastico e analfabetismo funzionale degli adulti.
Ma questa perdita di serietà, dove chiunque può dire enormità senza scusarsi, alla lunga non paga, in un Paese segnato da preoccupazioni che mettono a rischio il lavoro, la cura, la serenità della vecchiaia, il futuro dei figli.
Così come non paga la semina di proclami, goliardia, oscure minacce, vittimismo, frasi che alludono a slogan del Ventennio , come “tireremo dritto” – il magma cui Giorgia Meloni ci ha abituato, e che meriterebbe una nuova Fenomenologia, come quella di Umberto Eco – che ha raggiunto un nuovo stadio quando la presidente del Consiglio, reduce dallo smacco elettorale italiano e dall’ininfluenza nelle trattative per la scelta delle figure apicali dell’Unione europea, ha diramato un video che trasuda livore, non consono a chi rappresenta un Paese fondatore e tra le maggiori economie dell’Unione: la sinistra «incita alla guerra civile»; «c’è chi mi vorrebbe massacrata e appesa a testa in giù»; la sinistra «ha fatto liste di proscrizione dei parlamentari del Sud».
È un terreno di irrealtà, controproducente per il Paese, che rivela fragilità.
La forza – a questa destra – può dargliela solo la nostra indeterminatezza, la nostra divisione. Il nostro lasciare i cittadini e le cittadine in uno sgomento senza risposte.
Abbiamo davanti una grande battaglia, sapendo che il campo di gioco è truccato, invaso dalla volontà di affermare una democrazia “del capo”, una democrazia “decidente”.
Ma siamo avvertiti. Abbiamo già visto come, in Ungheria, la «democrazia illiberale» promessa dal primo ministro Viktor Orban in un discorso pronunciato nel luglio 2014, abbia preso compiutamente piede. In quel discorso, Orban affermava che i regimi autoritari – come quelli di Russia, Cina e Turchia – sono il futuro. «Dobbiamo abbandonare i metodi e i princìpi liberali nell’organizzazione di una società», dichiarava. «Stiamo costruendo uno Stato volutamente illiberale, uno Stato non liberale».
Vale allora la pena di tenere sempre a mente le parole di Piero Calamandrei, ne Il fascismo come regime della menzogna: tra i partiti, «per i quali la questione costituzionale attinente alla forma dello Stato si presenta al primo posto come premessa necessaria di ogni altra riforma di carattere più sostanziale, fu il fascismo», scriveva, «il quale è stato anzitutto negazione polemica dei metodi costituzionali dello Stato liberale e proposito o velleità di costruire, in luogo di questo, un nuovo meccanismo di legalità, attraverso il quale la volontà dello Stato, cioè il diritto, potesse manifestarsi in maniera più genuina e più energica che non attraverso i logori ingranaggi della libertà, del suffragio popolare e della divisione dei poteri».
Per mettere in salvo i «logori ingranaggi della libertà» è necessaria oggi un’opposizione unita, che sappia parlare con le persone, che non le abbandoni alla semina di propaganda governativa e ai suoi linguaggi incattiviti e irresponsabili.
Dobbiamo tornare alle Vite minuscole, quelle raccontate da Pierre Michon. Come quella raccontata ieri da un amico su Facebook: dopo 26 ore sdraiato su una barella del pronto soccorso, l’anziano padre, finalmente dimesso, gli ha detto: «scusa, lasciamo così, non pieghiamo le lenzuola?»
Esiste un “popolo della Costituzione”. Pronto a tornare in piazza, senza temere il conflitto, senza abbandonare chi confligge. Senza perdere la tenerezza.
Fonte- Libertà e Giustizia- A difesa dei principi costituzionali, dei diritti e della democrazia
Nata il 18 novembre 2002 con una presentazione pubblica al Piccolo Teatro di Milano, tenuta a battesimo da un gruppo di garanti tra cui figuravano Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Enzo Biagi, Umberto Eco, Alessandro Galante Garrone, Claudio Magris, Guido Rossi, Giovanni Sartori e Umberto Veronesi.
Nel suo manifesto costitutivo, dichiarava con lungimiranza la necessità di “dare un senso positivo all’insoddisfazione crescente verso la politica, trasformandola in partecipazione e proposta”, ponendosi come “anello mancante fra i migliori fermenti della società e lo spazio ufficiale della politica”.
Da allora, Libertà e Giustizia è stata presenza e pungolo nella vita politica e culturale del Paese, con le sue grandi battaglie per la democrazia e la difesa della Costituzione, con l’articolazione della sua dirigenza, con i suoi circoli radicati nelle città.
Daniela Padoan, saggista e scrittrice impegnata sulla testimonianza della Shoah e sui diritti umani e ambientali, è stata eletta presidente il 22 aprile 2023. All’atto dell’insediamento si è impegnata a continuare l’opera di cultura politica a difesa della Costituzione, istitutiva di Libertà e Giustizia, rimarcandone il fulcro antifascista, consapevole che “un progressivo svuotamento della rappresentanza e dell’effettività dei diritti è stato compiuto già prima dell’insediamento del governo in carica, ma che ora ci troviamo di fronte al progetto di una riscrittura della storia che non può avere altro nome che revisionismo”.
La nuova Presidente ha chiesto all’assemblea elettiva un mandato ad estendere l’impegno associativo alla dimensione europea e al nesso inscindibile tra giustizia sociale e ambientale, in dialogo costante con movimenti e organizzazioni della società civile.
Daniela Padoan Presidente Libertà e Giustizia, Scrittrice
Daniela Padoan-Presidente Libertà e Giustizia, Scrittrice
Scrittrice, saggista, si occupa da anni di razzismo e dei totalitarismi del Novecento, con particolare attenzione alla testimonianza delle dittature e alle pratiche di resistenza femminile ai regimi.
Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni settanta, nonché figura a tratti controversa, suscitò spesso forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi e della società dei consumi allora nascente in Italia (in tal senso definì i membri della borghesia italiana “bruti stupidi automi adoratori di feticci”), così come anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti (definì questi ultimi “figli di papà” e il Sessantotto un evidente episodio di “sacro teppismo di eletta tradizione risorgimentale”). Il suo rapporto con la propria omosessualità fu al centro del suo personaggio pubblico.[8] Pier Paolo Pasolini, primogenito dell’ufficiale di fanteria bolognese Carlo Alberto Pasolini e della maestra friulana Susanna Colussi di Casarsa della Delizia, nacque nel quartiere Santo Stefano di Bologna il 5 marzo 1922,[9] in via Borgonuovo 4, dove ora c’è una foresteria militare e una targa in marmo che lo ricorda.[10]
Suo nonno Gaspare Argobasto Pasolini, nato nel 1845, era imparentato al ramo secondario dei Pasolini dall’Onda, un’antica famiglia nobile ravennate.[11][12][13][14] Sia il nonno Argobasto che il padre Carlo Alberto erano amanti del gioco d’azzardo, passione che porterà la famiglia alla rovina economica.[15]
Pier Paolo Pasolini
A causa dei frequenti trasferimenti del padre, la famiglia, che da Bologna si era già trasferita a Parma, nel 1923 si stabilì a Conegliano e nel 1925 a Belluno, dove nacque il fratello Guido Alberto. A Belluno venne mandato all’asilo dalle suore, ma dopo pochi giorni si rifiutò di andarci e la famiglia acconsentì.[16] Nel 1927 i Pasolini furono nuovamente a Conegliano, dove Pier Paolo venne iscritto alla prima elementare, non avendo ancora compiuto sei anni.
L’anno successivo traslocarono a Casarsa della Delizia, in Friuli, ospiti della casa materna, poiché il padre era agli arresti per alcuni debiti.[17] La madre, per far fronte alle difficoltà economiche, riprese l’insegnamento. Terminato il periodo di detenzione del padre, ricominciarono i trasferimenti a un ritmo quasi annuale. Fondamentali rimasero i soggiorni estivi a Casarsa.
Pier Paolo Pasolini
«… vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana.[18]»
Nel 1929 i Pasolini si spostarono nella vicina Sacile, sempre in ragione del mestiere del capofamiglia, e in quell’anno Pier Paolo aggiunse alla sua passione per il disegno quella della scrittura, cimentandosi in versi ispirati ai semplici aspetti della natura che osservava a Casarsa.[19] Dopo un breve soggiorno a Idria, in Venezia Giulia (oggi in Slovenia), la famiglia ritornò a Sacile, dove Pier Paolo affrontò l’esame di ammissione al ginnasio. Venne rimandato in italiano, per poi superare la prova a ottobre.[19] A Conegliano cominciò a frequentare la prima classe, ma a metà dell’anno scolastico 1932-1933 il padre fu trasferito a Cremona, dove la famiglia rimase fino al 1935 e Pier Paolo frequentò il Liceo Ginnasio Daniele Manin.[20] Fu questo un triennio di intense fascinazioni e di un precoce ingresso nell’adolescenza, come testimonia il vibrante tratto autobiografico Operetta marina, scritto alcuni anni più tardi e pubblicato postumo insieme a Romàns.
Successivamente il padre ebbe un nuovo trasferimento a Scandiano, con gli inevitabili problemi di adattamento per il tredicenne, causati anche dal cambiamento di ginnasio a Reggio Emilia, che raggiungeva in treno.[19]
PIER PAOLO PASOLINI
In Pier Paolo crebbe la passione per la poesia e la letteratura, mentre lo abbandonava il fervore religioso del periodo dell’infanzia. Completato il ginnasio a Reggio Emilia, frequentò il Liceo Galvani di Bologna, dove incontrò il primo vero amico della giovinezza, il reggiano Luciano Serra. A Bologna, dove avrebbe trascorso sette anni, Pier Paolo coltivò nuove passioni, come quella del calcio, e alimentò la sua passione per la lettura comprando numerosi volumetti presso le bancarelle di libri usati sotto il portico della Libreria Nanni, circa di fronte a piazza Maggiore. Le letture spaziavano da Dostoevskij, Tolstoj e Shakespeare ai poeti romantici del periodo di Manzoni.[19]
Al Liceo Galvani di Bologna fece conoscenza con altri amici, tra i quali Ermes Parini, Franco Farolfi, Sergio Telmon,[21]Agostino Bignardi, Daniele Vargas, Elio Melli, e con loro costituì un gruppo di discussione letteraria. Intanto la sua carriera scolastica proseguiva con eccellenti risultati e nel 1939 venne promosso alla terza liceo con una media tanto alta da indurlo a saltare un anno per presentarsi alla maturità in autunno. Si iscrisse così, a soli diciassette anni, alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna e scoprì nuove passioni culturali, come la filologia romanza e soprattutto l’estetica delle arti figurative, insegnata al tempo dall’affermato critico d’arte Roberto Longhi,[22] laureandosi con lode.[23][24]
Pier Paolo Pasolini
Frequentava intanto il Cineclub di Bologna, dove si appassionò al ciclo dei film di René Clair; si dedicò allo sport e fu nominato capitano della squadra di calcio della Facoltà di Lettere;[22] faceva gite in bicicletta con gli amici e frequentava i campeggi estivi che organizzava l’Università di Bologna. Con gli amici – l’immagine da offrire ai quali era sempre quella del “noi siamo virili e guerrieri”, perché non percepissero nulla dei suoi travagli interiori – si incontrava, oltre che nelle aule dell’Università, anche nei luoghi istituiti dal regime fascista per la gioventù, come il GUF, i campeggi della “Milizia”, le competizioni dei Littoriali della cultura.[22] Procedevano in questo periodo le letture delle Occasioni di Montale, di Ungaretti e delle traduzioni dei lirici greci di Quasimodo, mentre fuori dall’ambito poetico leggeva soprattutto Freud e ogni cosa che fosse disponibile in traduzione italiana.[22]
Pier Paolo Pasolini
Nel 1941 la famiglia Pasolini trascorse come ogni anno le vacanze estive a Casarsa e Pier Paolo scrisse poesie che allegava alle lettere per gli amici bolognesi tra i quali, oltre l’amico Serra, erano inclusi Roberto Roversi e il cosentinoFrancesco Leonetti, verso i quali sentiva un forte sodalizio:
«L’unità spirituale e il nostro modo unitario di sentire sono notevolissimi, formiamo già cioè un gruppo, e quasi una poetica nuova, almeno così mi pare.[25]»
Il padre era stato richiamato in servizio ed era partito per l’Africa Orientale, dove verrà fatto prigioniero dagli inglesi.[26] I quattro giovani pensarono di fondare una rivista dal titolo Eredi alla quale Pasolini volle conferire un programma sovraindividuale:
«Davanti a Eredi dovremo essere quattro, ma per purezza uno solo.[25]»
La rivista non vedrà la luce a causa delle restrizioni ministeriali sull’uso della carta, ma quell’estate del 1941 rimarrà per i quattro amici indimenticabile. Cominciarono intanto ad apparire nelle poesie di Pasolini alcuni frammenti di dialogo in friulano, anche se le poesie inviate agli amici continuavano a essere composte da versi improntati alla letteratura in lingua italiana.
Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini- da “Le ceneri di Gramsci”
“Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci… Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.”
– Pier Paolo Pasolini, da “Le ceneri di Gramsci”-Pier Paolo PASOLINI
-Valentina Bandiera-Il Petrarca nel III millennio Dal Secretum al regresso emotivo-
-Divergenze Edizioni-
“Il Francesco Petrarca nel III Millennio” è un saggio breve, che indaga la scienza dei rapporti e delle funzioni che animarono il dissidio del poeta, alla luce degli sviluppi attuali. Un’analisi che va dal Secretum all’odierno incubo del regresso emotivo-
Francesco Petrarca,come altri autori, è noto al grande pubblico per aver perso la testa per una donna. Un venerdì santo del 1327, il sei aprile per la precisione, l’allora ventitreenne vide Laura in una chiesa e cominciò a lodarla… e lo fece anche dopo un altro tragico venerdì, quello della sua morte causata dalle peste.
Valentina Bandiera
Petrarca, non è però solo l’autore del “Canzoniere” con le poesie in vita e in morte di Madonna Laura, è una delle tre corone, è il padre dell’Umanesimo, è il primo poeta laureato e anche il primo filologo.
Petrarca ha scritto opere di rilievo in volgare pur riuscendo a elaborare tesi (come dissidi) anche in latino. Già questa premessa basterebbe per voler conoscere più approfonditamente uno dei pilastri della letteratura italiana, ed è questo l’obiettivo di Valentina Bandiera con “Il Petrarca nel III millennio. Dal Secretum al regresso emotivo”, edito da Divergenze.
Si tratta di un saggio breve e conciso che racconta la vita e le opere di Petrarca, offrendo numerosi spunti per poterne cogliere l’attualità.
In ottanta pagine l’autrice sintetizza il percorso biografico e autoriale mettendo a disposizione del lettore la sua conoscenza approfondita del Petrarca e offrendo allo stesso tempo una visione moderna per creare delle connessioni significative con la contemporaneità.
Non a caso Petrarca rimarrà un modello imprescindibile per secoli, riuscendo a arrivare fino al Novecento e tuttora è ancora possibile scorgere un’eco in qualche poeta più contemporaneo.
Petrarca è stato anche un grande romanziere di se stesso, producendo una notevole quantità di scritti attorno alla sua persona, disseminando parti di sé in lettere e opere, come nel suo famoso confessionale, il “Secretum” un testo che ha poco da invidiare ai diari psicanalitici.
Petrarca ci ha fornito numerose informazioni, provando anche a sviarci di tanto in tanto, riscrivendo e correggendo la sua biografia come forse avrebbe fatto con la sua vita. La sua non era una radicale revisione, piuttosto un voler aggiustare e limare qualche dettaglio per aderire a quel modello di perfezione a cui tanto anelava. Petrarca è stato un uomo in crisi che è riuscito a portare il pesante fardello medievale e allo stesso tempo proiettarsi verso l’umanesimo.
Questo, di pari passo alla sua incredibile modernità nell’autoanalizzarsi e nello scendere nei propri abissi, lo rende a tutt’oggi un autore godibilissimo.
Petrarca ha cantato l’instabilità dei sentimenti, rendendo partecipe il lettore di quell’impossibilità spirituale di affrontare il dolore e spesso di accettare la gioia ma con quella capacità di trasformare le emozioni in immagini e in suoni rendendole così eterne.
Il Petrarca nel III millennio. Dal Secretum al regresso emotivo
di Valentina Bandiera Edito Divergenze, 2020 divergenze.eu
La Storia, il più celebre e discusso tra i romanzi di Elsa Morante
Descrizione
A questo romanzo (pensato e scritto in tre anni, dal 1971 al 1974) Elsa Morante consegna la massima esperienza della sua vita “dentro la Storia” quasi a spiegamento totale di tutte le sue precedenti esperienze narrative: da “L’isola di Arturo” a “Menzogna e sortilegio”. La Storia, che si svolge a Roma durante e dopo la seconda guerra mondiale, vorrebbe parlare in un linguaggio comune e accessibile a tutti.
Elsa Morante
RIASSUTO
A Roma, devastata dalla guerra, vive Ida Ramundo una maestra ebrea di trentasette anni, vedova e madre di Nino. Una sera di gennaio del 1941 Ida viene violentata da un soldato tedesco ubriaco. Frutto della violenza è Useppe, un bambino allegro e vivace.
Nel 1943 un bombardamento distrugge la casa di Ida che con i figli si trasferisce in un ricovero per sfollati a Pietralata. Tra stenti, disperazione e umana solidarietà trascorrono gli anni della guerra. Nino si arruola prima nelle camicie nere, poi partecipa alla lotta partigiana. Conosce l’ebreo e anarchico umanitario Davide Segre con cui ritorna a casa.
Nel 1945 alla fine del conflitto per Ida continuano le difficoltà e le sofferenze. Mentre Davide tenta l’inserimento con il lavoro in fabbrica al Nord, Nino non riesce a trovare una sua strada, si dà al contrabbando e resta ucciso in uno scontro con la polizia. Solo la presenza Useppe consente a Ida di superare il dolore. Anche Davide fallito il suo tentativo torna a Roma e diventa amico di Useppe.
Un giorno viene trovato morto nella baracca in cui vive, ucciso dalla droga. Intanto si manifesta l’epilessia, finora latente, di Useppe, di fronte alla quale Ida non può nulla. Una violenta crisi epilettica uccide il bambino. Ida non regge al dolore e perde la ragione. Ricoverata in manicomio muore nove anni più tardi.
Fonte: Wuz.it
Elsa Morante
Recensione del romanzo La Storia della scrittrice Elsa Morante,
con analisi precisa della storia e dei personaggi.
Articolo di Stefano Benucci
Questo non è un romanzo, è un mondo intero! C’è la grande letteratura, ci sono le drammatiche vicende di una famiglia romana negli anni del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra, l’amore, la disperazione la miseria, la fame, il dramma, la tenerezza e c’è la storia di Roma e dell’Italia di quegli anni ed anche la storia del resto del mondo che viene velocemente spartito dalle grandi potenze. Si tratta di un romanzo di ben oltre mille pagine molto articolato e pieno di sfaccettature con decine e decine di personaggi difficile da descrivere in poche righe. Il corso narrativo del romanzo si dipana intorno a Ida, giovane vedova e maestra elementare, di origine ebrea, che vive a Roma con l’irrequieto figlio adolescente Nino (detto Ninnuzzo). Ida, nel 1941, viene violentata da un soldato tedesco. Da questo drammatico evento nasce il piccolo Giuseppe (detto Useppe). Sono tempi durissimi, l’occupazione tedesca, la deportazione degli ebrei, i primi bombardamenti, i rifugi di fortuna, la fame. Mai in nessun libro ho trovato una descrizione così coinvolgente di quello che succedeva in quei giorni. Mai ho letto una così efficace rappresentazione della disperazione, della solitudine, della forza di volontà di una madre che lotta contro ogni avversità per la vita di un figlio. Ninnuzzo è sempre fuori, chissà dove, prima camicia nera e avanguardista, poi partigiano e stalinista, poi contrabbandiere. La povera Ida attraversa gli anni più duri della nostra storia in modo drammatico. Mi fermo qui per non spoilerare ma devo dire anche che il romanzo è infarcito di decine di personaggi credibilissimi, alcuni appena accennati, altri ben definiti che aiutano a capire l’Italia di allora. Una citazione particolare per il piccolo Useppe, personaggio tenerissimo, che nella seconda parte del romanzo diventa protagonista assoluto alla scoperta delle miserie della Roma appena uscita dalla guerra, sempre scortato dalla gigantesca cagna Bella che stravede per lui. Un libro consigliatissimo. L’unica controindicazione è che dà un po’ di dipendenza e che appena finite le 1.300 pagine si prova un senso di vuoto ma del resto con i veri capolavori succede.
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