Tamburello dei secoli per addormentare l’uomo
imprigionato nel cuore muto dell’universo.
Mezza mela d’oro da mangiare per il bambino
finché non si sentirà eterno.
Alberi, ponti, torri, montagne, mari, strade.
E tutto ciò che va alla deriva svanirà.
Quando essi non vivono più, nello spazio, liberi,
tu continuerai a vivere.
E quando ci stanchiamo (perché dobbiamo stancarci).
E quando ce ne andremo (perché vi lasceremo).
Quando nessuno si ricorda che un giorno moriremo
(perché moriremo).
Tamburello dei secoli per addormentare l’uomo,
mezza mela d’oro che misura il nostro tempo,
quando non sentiamo più, quando non saremo più,
tu continuerai a vivere.
“Luna d’agosto” testo originale spagnolo
Pandereta de siglos para dormir al hombre
preso en el corazón mudo del universo.
Media manzana de oro para que el niño coma
hasta sentirse eterno.
Árboles, puentes, torres, montes, mares, caminos.
Y todo a la deriva se irá desvaneciendo.
Cuando ellos ya no vivan, en el espacio, libre,
tú seguirás viviendo.
Y cuando nos cansemos (porque hemos de cansarnos).
Y cuando nos vayamos (porque te dejaremos).
Cuando nadie recuerde que un día nos morimos
(porque nos moriremos),
pandereta de siglos para dormir al hombre,
media manzana de oro que mide nuestro tiemo,
cuando ya no sintamos, cuando ya no seamos,
tú seguirás viviendo.
Accanto al mare
Se muoio, che mi mettano nudo, nudo accanto al mare. Saranno le acque grigie il mio scudo e non si dovrà lottare.
Se muoio che mi lascino da solo. Il mare è il mio giardino. Non può, chi amava le onde, desiderare un’altra fine.
Sentirò la melodia del vento, la misteriosa voce. Sarà finalmente vinto il momento che miete come falce.
Che miete incubi. E quando la notte inizierà ad ardere, sognando, singhiozzando, cantando, io nascerò di nuovo.
José Hierro
(Traduzione di Alessandro Ghignoli)
da “José Hierro, Poesie scelte”, Raffaelli Editore, 2004
∗∗∗
Junto al mar
Si muero, que me pongan desnudo, desnudo junto al mar. Serán las aguas grises mi escudo y no habrá que luchar.
Si muero que me dejen a solas. El mar es mi jardín. No puede, quien amaba las olas, desear otro fin.
Oiré la melodía del viento, la misteriosa voz. Será por fin vencido el momento que siega como hoz.
Que siega pesadumbres. Y cuando la noche empiece a arder, soñando, sollozando, cantando, yo volveré a nacer.
José Hierro
da “José Hierro, Quinta del 42”, Editora Nacional, 1952
Una splendida poesia d’amore di José Hierro
Se fosse vero che due anime
camminano congiunte, senza
che i corpi si conoscano;
Se fosse vero
che si son toccate da sempre,
che bevvero la stessa luce,
che lo stesso destino le culla;
Se fosse vero che son foglie
dello stesso arbusto, eterno e verde;
Se fosse vero che il loro trionfo
si compie il dì che avranno
gli occhi dell’anima gemella
fissi nella loro carne presente;
Se tutto ciò fosse vero,
come mai quel giorno di settembre
non ti cercai, chiamai, portai;
Come mai ignoravo che esistessi,
Come mai non trattenni la stella
che t’arrossava la fronte;
Come mai potevo cantare
sotto la fiamma del ponente;
Come mai poteva non esistere
il tuo passato di ora, che mi doleva.
Come ha potuto essere.
E come non lo impedii, con unghie, denti,
cuore…
VORREI NON ODIARE QUESTA SERA
(José Hierro del Real)
Vorrei non odiare questa sera,
non portare sulla mia fronte la nube oscura.
Questa sera vorrei avere occhi più chiari
per posarli sereni nella lontananza.
Dev’essere bellissimo poter dire:
“Credo nelle cose che esistono e in altre
che probabilmente non esistono,
in tutte le cose che possono salvarmi,
anche ignorando il loro nome;
conosco la frutta dorata che dona l’allegria.”
Vorrei non odiare questa sera,
sentirmi leggero, essere fiume che canta,
essere vento che muove la spiga.
Guardo a ponente. S’abbuiano i lunghi percorsi
che vanno nella notte,
che donano la loro stanchezza alla notte,
che entrano nella notte
a sognare nella sua grande menzogna.
Le strade non portano
Le strade non portano
a nessuna meta; tutte
terminano in noi.
La fiamma del crepuscolo
ci fonde in unità.
È bello camminare,
sognare, cantare. Bello
essere gran tenerezza
con un cuore vicino,
(con un dolore remoto).
La sera si denuda,
mostra i suoi ori profondi.
Ogni forma ci incanta
col suo vino gioioso.
Ormai non c’è nulla: – passato,
futuro, ombre, gioie -,
fuori di noi.
La sera spolvera
il suo caldo tesoro.
I suoi pampini di fuoco
stillano nei nostri occhi.
La sera è nostra. Il mondo
fu fatto per noi.
Siamo il suo centro vivo
e gira il tempo intorno.
Passa e non può ferire
col suo dolore remoto
il nostro cuore vicino.
Le strade non portano
a nessuna meta; tutte
terminano in noi.
(Traduzione di Oscar Macrì)
BIOGRAFIA José Hierro
José Hierro . (Madrid, 3 de abril de 1922-21 de diciembre de 2002). è stato un poeta spagnolo, critico d’arte e membro dell’Accademia Reale della Lingua. La sua famiglia si trasferì a Santander quando era bambino e lì studiò per diventare perito industriale, fino al 1936. La sua prima poesia, Una bala le ha matado, fu pubblicata nel 1937. Alla fine della guerra civile fu arrestato e processato. Rimase in carcere fino al 1944, dove iniziò a interessarsi sistematicamente di letteratura. Quando fu rilasciato si trasferì a Valencia, dove si dedicò alla scrittura, collaborò a un dizionario mitologico e, insieme a José Luis Hidalgo, partecipò alla fondazione della rivista Corcel. Nel 1944 scrive la prima critica pittorica dell’opera di Modesto Ciruelos. Negli anni ’40 torna a Santander dove collabora alla rivista della Camera di Commercio. Nel 1946 entra a far parte dell’innovativo gruppo “Proel”, editore dell’omonima rivista di poesia, nella quale pubblica il suo primo libro di poesie, Tierra sin nosotros, nel 1947. Nel 1950 scrive Con las piedras, con el viento (Con le pietre, con il vento) e nel 1953 appare Antología poética (Antologia poetica). Stabilitosi a Madrid, inizia a lavorare per la Radio Nacional de España, oltre a scrivere critiche d’arte e a collaborare con riviste e giornali. Nel 1955 pubblica Estatuas yacentes e nel 1962 il volume Poesías completas. Ha tenuto un gran numero di conferenze sulla poesia e sull’arte nella maggior parte delle capitali europee e le sue poesie appaiono nelle più importanti antologie di poesia contemporanea. Ha ricevuto il Premio Nacional de las Letras nel 1990, anno di pubblicazione di Agenda. Nel 1998 ha pubblicato Cuaderno de Nueva York e ha ricevuto il Premio Cervantes. Ha ricevuto la laurea Honoris Causa dall’Università di Torino nel 2002. È morto alla fine dello stesso anno.
José Hierro del Real. (Madrid, 3 de abril de 1922-21 de diciembre de 2002). Poeta español, crítico de arte y académico de la Real Academia de la Lengua.
Su familia se traslada a Santander siendo niño y allí estudia la carrera de perito industrial, que tuvo que interrumpir en 1936. Su primer poema, Una bala le ha matado, aparece publicado en 1937.
Al finalizar la Guerra Civil es detenido y procesado. Permanece en la cárcel hasta 1944 y allí empieza a interesarse de forma sistemática por la literatura, apareciendo ya en sus primeros escritos diversos hechos vividos durante la contienda.
Cuando sale de prisión se traslada a Valencia, donde se dedica a escribir, colabora en un diccionario mitológico y, junto a José Luis Hidalgo, participa en la fundación de la revista Corcel. En 1944 realiza la primera crítica pictórica sobre la obra de Modesto Ciruelos.
Durante los años 40 vuelve a Santander y, además de trabajar en diferentes oficios, colabora en la revista de la Cámara de Comercio, donde escribe sobre economía y sobre los hombres ilustres de la industria cántabra.
En 1946 se relaciona con el renovador grupo “Proel”, editor de la revista poética del mismo nombre en la que publica su primer libro de poemas, Tierra sin nosotros, en 1947.
En 1950 escribe Con las piedras, con el viento y en 1953 aparece Antología poética, una amplia selección de su obra lírica.
Durante esa época fija su residencia en Madrid, donde comienza a trabajar en Radio Nacional de España, además de realizar crítica de arte y colaborar en revistas y periódicos.
En 1955 se publica Estatuas yacentes y en 1962 el volumen Poesías completas.
Durante las décadas siguientes continúa creando poesía, participa en actividades literarias, realiza crítica de arte analizando la obra de artistas del campo de la pintura y de la escultura, y forma parte de numerosos jurados literarios. Pronuncia gran número de conferencias sobre poesía y arte en la mayoría de las capitales europeas y sus poemas figuran en las más destacadas antologías de poesía contemporánea.
Premio Nacional de las Letras, en 1990, año en el que ve la luz Agenda.
En 1998 publica Cuaderno de Nueva York y recibe el Premio Cervantes.
Nombrado Doctor Honoris Causa por la Universidad de Turín, en 2002. Fallece a finales de ese mismo año.
José Hierro está considerado como una de las voces más representativas de la poesía social de posguerra.
Fin da subito si delineano all’interno del movimento futurista due atteggiamenti ideologici: uno nazionalista e l’altro anarcoide, con colorature socialisticheggianti. Questa sorta di divisione interna fra destra e sinistra futuriste non si notano a livello creativo: in entrambi i casi il futurismo all’inizio è un movimento compatto avente quale obiettivo primario la distruzione del cosiddetto passatismo, che ad esempio in pittura concerne l’accademia, il gusto classico, la morale borghese, l’arte consolatoria. È solo dopo la Marcia su Roma con la dittatura di Benito Mussolini che il futurismo aderisce ufficialmente al fascismo, identificandosi in toto con esso, in una situazione doppiamente paradossale perché da un lato il futurismo è l’unica avanguardia ad aderire a un regime di destra, così come il fascismo è il solo dei totalitarismi (rispetto a nazismo, franchismi, stalinismo) a proteggere, favorire, esaltare, soprattutto nelle arti figurative, un movimento sperimentale.
Dimenticata in fretta nell’Italia del secondo dopoguerra – almeno fino agli anni Sessanta con la riscoperta dello storico dell’arte Maurizio Calvesi – l’estetica del futurismo gode di prestigio e ammirazione negli altri paesi europei e soprattutto negli Stati Uniti, in cui gli studiosi progressisti trovano, specie nei proclami teorici, molte anticipazioni delle cosiddette neoavanguardie. Ma a intuire la novità futurista esiste già nel 1921 tale Antonio Gramsci il quale, in una nota non firmata, sul giornale «L’Ordine Nuovo» (da lui stesso fondato) il 5 gennaio 1921 scrive: “I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i futuristi: quando sostenevano i futuristi, i gruppi operai dimostravano di non spaventarsi della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma, come i futuristi, questi operai sostenevano la storicità, la possibilità di una cultura proletaria, creata dagli operai stessi”.
Si tratta di un ragionamento che parte da una constatazione ben precisa, risalente a quanto dimostrato dal futurismo medesimo nei quattordici anni di assidua militanza artistica: “I futuristi – continua Gramsci – hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme, di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica”.
Si tratta di un passo che viene riscoperto solo negli anni Settanta del XX secolo quando si iniziano i primi studi sul Gramsci recensore di spettacoli teatrali, un’esperienza da cui trarrà giovamento anni dopo, quando, rinchiuso nelle patrie galere da Mussolini per tappargli la bocca e impedirgli l’attività giornalistica, riuscirà miracolosamente a redigere alcuni scritti pubblicati solo nel 1948, che saranno alla base delle politiche culturali del Partito Comunista Italiano, che di futurismo, all’epoca, proprio non ne vuole sentire parlare.
Tuttavia rileggendo un celebre passo dei Quaderni del carcere è palese quanto il ricordo del futurismo possa aver ispirato a Gramsci questa profonda riflessione: «(…) l’arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare la cultura si giunge a modificare il “contenuto” dell’arte e che si lavora a creare una nuova arte, non dall’esterno (pretendendo un’arte didascalica, a tesi moralistica), ma dall’intimo, perché si modifica tutto l’uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria».
Prof.Giovanni Fighera-100 ANNI DI CALVINO/ Come vedere la città invisibile
La vera città è per Calvino civitas, luogo di condivisione e spazio di umanità in cui le persone collaborano per vivere insieme in una condizione migliore, non urbs, ovvero il complesso delle mura e degli edifici costruiti all’interno.
Ne La giornata di uno scrutatore, alla fine di una giornata di osservazione al Cottolengo, una vera e propria città all’interno di Torino, Amerigo Ormea può riflettere con maggiore lucidità sulla convivenza umana e comprende che la città dell’homo faber rischia sempre di scambiare le sue istituzioni per il fuoco segreto senza il quale le città non si fondano né le ruote delle macchine vengono messe in moto; e nel difendere le istituzioni, senza accorgersene, può lasciar spegnere il fuoco.
Assistendo ad una scena commovente e piena di carità, Amerigo comprende che «anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, […] l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città».
L’interesse di Calvino per le città è pressoché costante; le sue considerazioni non riguardano soltanto l’urbanizzazione con i relativi problemi dell’inquinamento e dello sviluppo delle megalopoli ma anche la dimensione dell’umano. La riflessione di Calvino, conclusasi ne La giornata di uno scrutatore con la provocazione sulla presenza della perfezione anche in un mondo apparentemente imperfetto come il Cottolengo, prosegue negli anni successivi: lo scrittore è in costante ricerca e sempre in attesa di una risposta. Calvino non aveva visto al Cottolengo la bellezza che ivi era presente fino a quando non ha iniziato a guardare. Ma anche guardare non è spesso sufficiente. Occorre molte volte compiere prima un’altra operazione. Quale?
In un’intervista rilasciata all’Espresso Calvino lo esplicita chiaramente: «Dietro la città che si vede ce n’è una che non si vede ed è quella che conta». Per vedere la città che si nasconde dietro l’apparenza è necessario togliere prima ciò che impedisce di vedere bene. Solo così si rivelano Le città invisibili. L’opera viene pubblicata nel 1972. Come nasce? Calvino risponde: «È un libro che mi porto dietro da alcuni anni, ogni tanto scrivevo una pagina, cioè una città. Uno stato d’animo, una riflessione, una lettura, una suggestione visiva, mi veniva di trasformarli in un’immagine di città» (intervista all’Espresso, 1972).
Calvino scrive prima le descrizioni delle città, come fossero quadri poetici: «Le città invisibili sono nate come poesie. Poesie in prosa, poesie che quasi sempre si sviluppano come brevi racconti, perché io scrivo racconti da anni, che anche quando vorrei scrivere una poesia mi salta fuori un racconto». Ad un certo punto il romanziere ha pensato di dare forma unitaria al testo, strutturandolo anche in forma numerica: «La posizione in cui viene a trovarsi ogni racconto deve rispondere a funzioni diverse, molto difficili da combinare» (intervista all’Espresso, 1972). Non è un vero e proprio romanzo, secondo Calvino. Certamente è un libro unitario, che contiene molti racconti dedicati a città immaginarie, non reali. Il libro nasce dall’idea di riscrivere Il Milione. Calvino cerca nuove modalità narrative e, al contempo, intende cimentarsi nel rifacimento di opere già scritte. I racconti delle città sono legati da una cornice sottolineata dall’uso del carattere corsivo. Il narratore è Marco Polo che è arrivato in Estremo Oriente dall’imperatore Kublai Khan e nel suo viaggio prende nota di tutte quelle città che vede fino ai lontani confini e racconta tutto all’imperatore.
Cinquantacinque sono i capitoli come altrettante sono le città descritte. L’autore non attribuisce loro nomi cinesi o orientali, perché non è suo intento indagare l’Oriente. Sceglie tutti nomi di donna, magari di imperatrici bizantine o nomi medioevali. Calvino riflette sulle città, perché «la vita urbana è diventata talmente disagevole che si sente il bisogno di interrogarci su cos’è, su cosa dovrebbe essere la città per noi». Calvino non crede che le megalopoli rappresentino la fine della città, anzi «il suo contrario» (intervista all’Espresso, 1972). Calvino non intende soffermarsi sulla «futurologia apocalittica», che pur sfiora nell’opera. Dopo Le città continue si trovano, infatti, Le città nascoste: «Una città infelice può contenere, magari solo per un istante, una città felice; le città future sono già contenute nelle presenti come insetti nella crisalide».
Calvino non intende neanche soffermarsi sull’attualità di questo o di quel paese, vuole documentare la realtà della vita in comune, «di che cosa è stata la città degli uomini, come luogo della memoria e dei desideri, e di come oggi è sempre più difficile vivere nelle città anche se non possiamo farne a meno» (Italo Calvino parla del suo nuovo libro «Le città invisibili», 1972).
Memoria e desiderio sono le due modalità per vivere intensamente il presente, senza cadere nella trappola del passato, come avvertiva già Amerigo Ormea ne La giornata di uno scrutatore: «Il passato (proprio per il fatto d’avere un’immagine così compiuta nella quale non si poteva pensare di cambiar nulla come in questo dormitorio) gli pareva una gran trappola. E il futuro, quando ci se ne fa un’immagine (cioè lo si annette al passato), diventava una trappola esso pure».
La memoria è un fecondo rapporto con le proprie radici, consapevole dei doni da custodire che la tradizione ci ha affidato. Il desiderio è lo spazio del cuore che si spalanca ad una creatività figlia di sogni che diventano realtà, se gli diamo spazio. Passato e futuro possono essere nel presente solo nello spazio della memoria e del desiderio.
Centenaire de la naissance d’Italo Calvino, un festival d’événements à Paris pour le fêter
Autrice dell’Articolo – Evolena
N’OUBLIEZ PAS ! Le 15 octobre, 100 ans se seront écoulés depuis la naissance d’Italo Calvino (à Cuba). Par sa riche production littéraire, la profondeur de sa pensée, il est considéré comme un pilier de la littérature du XXe siècle en Italie et au-delà. Calvino était et continue à être une référence pour la culture italienne et parmi les auteurs les plus lus, y compris dans les écoles à tous niveaux. Romancier, écrivain, journaliste, personnalité marquante pour son engagement politique et civique, intéressé par le monde du théâtre, du cinéma, de la musique, de la bande dessinée et de l’art. Calvino est un monde en soi. Sans cesse, de nouvelles suggestions et de nouvelles interprétations émergent, comme le démontrent les nombreuses initiatives organisées en Italie et à l’étranger pour célébrer ce Centenaire. Il a vécu 13 ans à Paris, de 1967 à 1980, et ces années ont été fondamentales pour lui. Il n’est donc pas étonnant que la communauté italienne de Paris s’associe aux célébrations de ce Centenaire. Pour vous permettre de vous orienter plus facilement dans cette riche actualité calvinienne, Altritaliani vous propose un récapitulatif chronologique des événements parisiens qui nous ont été signalés et de saisir ces occasions pour lire, relire l’oeuvre d’Italo Calvino.
Mardi 3 octobre – Maison de l’Italie à la Cité universitaire, 7a Bd Jourdan, 75014 Paris A 19h00 Vernissage de l’exposition « Calvino à la Maison » avec Andrea Kerbaker, Commissaire de l’exposition, Claudia Vena, responsable de l’installation et Fabio Gambaro, auteur de «Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventura di Calvino a Parigi ». L’exposition est réalisée par le centre culturel Kasa dei Libri de Milan avec la Maison de l’Italie, en partenariat avec l’Institut Culturel Italien de Paris et la Monte Paschi Banque.
Réservation obligatoire pour le vernissage : https://my.weezevent.com/calvino-a-la-maison-vernissage-exposition
L’exposition sera ouverte du 4 octobre au 6 novembre avec deux autres temps forts. Vous pouvez découvrir le programme complet sur le site de la Maison de l’Italie : https://maison-italie.org/wordpress/index.php/calvino-a-la-maison/
Mardi 10 octobre – Maison de la recherche (4, rue des Irlandais 75005) A partir de 9h00une journée d’étude consacrée à Italo Calvino «Méditations parisiennes de Calvino. Perspectives littéraires, philosophiques et historiques».
Cette journée, qui se veut interdisciplinaire, propose la rencontre avec des spécialistes de l’œuvre calvinienne, des historiens de la culture, des philosophes et des sociologues.
PROGRAMME EN PDF A TELECHARGER ICI
A suivre une présentation du livre de Fabio Gambaro «Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventura di Calvino a Parigi ». Une table ronde avec Yves Hersant, Christophe Mileschi et Martin Rueff, viendra clore la journée.
Cet événement est ouvert à tous et est organisé par l’association Italiques en partenariat avec le LECEMO (CIRCE) – Sorbonne Nouvelle Paris 3 et Historia Magistra.
Réservation obligatoire pour la journée : https://my.weezevent.com/calvinojour
Mercredi 11 octobre – Librairie italienne La Tour de Babel 10, rue du Roi de Sicile 75004 Paris M Saint-Paul A 19h30 présentation du livre de Fabio Gambaro Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventure di Calvino a Parigi (Feltrinelli). Ce livre retrace les 13 années pendant lesquelles Italo Calvino a vécu à Paris de 1967 à 1980. C’est à cette époque, marquée par la révolte étudiante et par les dernières avant-gardes européennes, que l’auteur italien entre en contact avec les représentants de l’Oulipo, ce qui façonnera de manière significative sa production, notamment Les villes invisibles,Le château des destins croisés et Si une nuit d’hiver un voyageur.
Vendredi 13 octobre – Librairie italienne La Tour de Babel 10, rue du Roi de Sicile 75004 Paris M Saint-Paul A 19h30. Mise en espace de quelques nouvelles de Gli amori difficili (Les amours difficiles) par Bruno La Brasca et Serena Rispoli
L’amour et l’absence au centre des contes de ce recueil sont interprétés par la voix et les gestes de Bruno La Brasca et Serena Rispoli.
mardi 17 octobre à 19h30 | PARIS/INVISIBILE | Mairie du 9ème arrondissement – Salle du Conseil
Une mise en espace/installation créée à l’occasion du centenaire de la naissance du grand écrivain Italo Calvino « Imprégnés de Calvino, fuyant la représentation, on a suivi un sentier oulipien qui nous a permis de pénétrer la ville, les villes, Paris, par le prisme de l’invisibilité. Plus que le récit d’une aventure, l’aventure obscène d’un récit. J’habite Paris ou j’habite à Paris? »
Avec : Bruno La Brasca, Gerardo Maffei, Gaspard Njock
Mise en scène : Gerardo Maffei
Installation visuelle : Gaspard Njock
Dramaturgie : Bruno La Brasca, Gerardo Maffei
Production et organisation : Les Ateliers de CriBeau
Entrée libre dans la limite des places disponibles, Réservation préférable : lesateliersdecribeau@gmail.com
Mercredi 18 octobre – Librairie italienne La Tour de Babel 10, rue du Roi de Sicile 75004 Paris M Saint-Paul A 19h30 Calvino et la Ligurie
Avec Martin Rueff, traducteur du livre Liguries(Editions Nous) et Gianmarco Parodi, auteur de Nella città invisibile – Viaggio nei luoghi calviniani (Ed. Piemme)
Dans Liguries, on découvre un Calvino arpenteur minutieux des paysages, homme de l’espace et non du temps, animé par une pulsion de voir et de décrire qui fut aussi forte que celle de raconter. Liguries est constitué de cinq proses et d’un ensemble de poèmes (les « Eaux fortes de Ligurie », rédigés pendant la période de la Résistance)
Au fil des pages, Gianmarco Parodi part quant à lui à la découverte des lieux (réels)
qui ont inspiré la création littéraire de l’un des écrivains contemporains les plus marquants de notre époque.
Dans cet itinéraire, la ville de Sanremo en Ligurie (où Parodi est né) occupe une place centrale, revenant à plusieurs reprises dans les livres de Calvino.
Maison de l’Italie à la Cité universitaire, 7a, Bd Jourdan, 75014 Paris Jeudi 19 octobre à 19h, Christophe Mileschi et Martin Rueff présentent le livre Le métier d’écrire. Correspondance (1940-1985), une récolte de plus de trois cents lettres choisies d’Italo Calvino (Gallimard, sortie prévue le 5 octobre 2023).
Plus de trois cents lettres choisies d’Italo Calvino dessinent le portrait complexe et attachant, inattendu et captivant de cet écrivain si bien connu et si secret. Les premières missives de la jeunesse, adressées aux parents et aux amis, laissent progressivement la place aux lettres consacrées au métier d’écrire. C’est que Calvino, par son activité d’écrivain, comme à travers sa profession d’éditeur, n’a cessé de s’adresser aux auteurs et artistes de son temps qu’il lisait et qui le lisaient : Pavese, Vittorini, Morante, Ortese, Pasolini, Antonioni, Sciascia, Moravia, Eco, Magris, et bien d’autres. La vie culturelle et littéraire italienne du siècle dernier nous est ainsi offerte dans ses tensions, ses constructions, ses réalisations.
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Jeudi 19 octobre – La Libreria, 89, rue du Fbg Poissonnière 75009 Paris (M°Poissonnière) A 19h Présentation du livre illustré et adapté par Sara Colaone, Il Barone rampante d’Italo Calvino (Mondadori) – Romanzo a fumetti, en présence de l’autrice et en compagnie de Domenico Biscardi
L’univers de Calvino en images, une évidence et une source féconde d’inspiration. Et ce soir-là, ce sera pour La Libreria une joie de recevoir Sara Colaone, talentueuse autrice de bandes dessinées, qui s’est attaquée avec fantaisie et respect au merveilleux Baron perché d’Italo Calvino : le résultat est un album enchanteur à mettre entre les mains de lecteurs de tous âges.
Vous pourrez également admirer ses planches ainsi que celles d’autres illustrateurs de Calvino à l’Institut culturel italien dans la cadre de l’exposition « Calvino imaginaire. Les mondes de Calvino (ré)interprétés par les bandes dessinées et les illustrateurs » qui ouvre la veille
jeudi 19 octobre à 18h30| Calvinologie. Lecture musicale |Mairie du 9ème arrondissement – Salle du Conseil – 6 rue Drouot
Eva, la cinquantaine, vit cloîtrée dans son luxueux appartement de Manhattan du fait d’une étrange affection. Chaque année, à la même période, le mal la rattrape, inexorable, et étend un peu plus son empire. Impossible d’arriver quelque part…
Le 18 septembre 1985 le téléphone sonne et un mystérieux interlocuteur demande à parler à Eva. C’est Italo Calvino qui appelle, de l’hôpital de Sienne où il vit ses dernières heures. Il le sait, il ne passera pas la nuit, et prie Eva de sortir de chez elle pour récupérer le texte d’une conférence qu’il doit donner le lendemain à Harvard, et de la prononcer à sa place. Eva panique, terrifiée à l’idée d’affronter le dehors. Et pourquoi l’écrivain l’a-t-il choisie, elle, parfaite inconnue ?
Avec : Maria Laura Baccarini (voix et chant), Manuel Magrini (piano)
Texte : Yann Apperry
Musique : Massimo Nunzi
Entrée libre dans la limite des places disponibles, Réservation préférable : lesateliersdecribeau@gmail.com
Lundi 30 octobre – Institut culturel italien, 50 rue de Varenne, 75007 Paris A 19h, projection du film Italo Calvino. Lo scrittore sugli alberi, de Duccio Chiarini, 2023, 76′ (Prix Italia 2023) en présence du réalisateur
’aventure de l’écrivain italien le plus indéfinissable du XXe siècle est racontée dans ce documentaire qui relit son parcours artistique à travers l’une de ses œuvres les plus connues, « Il Barone Rampante ». Le défi du film est d’offrir un nouveau regard sur l’auteur le plus connu du XXe siècle, notamment grâce à des séquences inédites, des photos et des lettres autographes qui lui ont été accordées en exclusivité. Ce documentaire utilise le livre peut-être le plus symbolique d’Italo Calvino comme un prisme à travers lequel reconstruire le rapport entre l’œuvre de l’auteur et les contextes historiques et politiques qu’il a traversés, dans sa recherche constante de la bonne distance par rapport aux choses du monde.
Mardi 6 novembre – Maison de l’Italie, 7a, Bd Jourdan, 75014 A 19h, finissage de l’exposition « Italo Calvino à la maison » avec une nouvelle présentation du livre Lo scoiattolo sulla Senna de Fabio Gambaro à la présence de l’auteur et de Andrea Kerbaker, conservateur de l’exposition.
Michèle Gesbert est née à Genève. Après des études de langues et secrétariat de direction elle s’installe à Paris dans les années ’70 et travaille à l’Ambassade de Suisse (culture, presse et communication). Suit une expérience associative auprès d’enfants en difficulté de langage et parole. Plus tard elle attrape le virus de l’Italie, sa langue et sa/ses culture(s). Contrairement au covid c’est un virus bienfaisant qu’elle souhaite partager et transmettre. Membre-fondatrice et présidente d’Altritaliani depuis 2009. Coordinatrice et animatrice du site.
Raffaele Boianelli -Il giovane Pertini un eroe italiano.
Un’odissea senza fine: 1925-1943
Editore Tra le righe libri
DESCRIZIONE-
L’otto luglio 1978 Sandro Pertini fu eletto a stragrande maggioranza settimo Presidente della Repubblica italiana. Qualche anno dopo, il suo sorriso festante durante la finale dei mondiali di calcio di Spagna ’82 lo immortalò nell’immaginario collettivo e nazional-popolare. Non tutti sanno, però, che dietro quel sorriso gioioso ed energico si celava una giovinezza completamente sacrificata alla causa dell’antifascismo, un dolore strisciante fatto di umiliazioni, privazioni e torture di durata quasi ventennale. Dal delitto Matteotti, punto di svolta della sua parabola di vita personale e politica, passando per le prime aggressioni squadriste che gli impediranno di svolgere la professione di avvocato, fino ad arrivare agli anni dell’esilio vissuti in Francia tra Parigi e Nizza e ai terribili anni passati in carcere e al confino come prigioniero politico “spavaldo e fegatoso”. Questa è la storia di un giovane uomo capace di combattere per un ideale politico e umano “non solo senza paura ma anche senza speranza”.
Ci ha lasciato il 13 ottobre 2023, all’età di ottant’anni
Poesie di Louise Glück
Il papavero rosso
Il massimo
è non avere
mente. Sentimenti:
oh, quelli ne ho; mi
governano. Ho
un signore in cielo
che si chiama sole, e mi apro
per lui, mostrandogli
il fuoco del mio cuore, fuoco
come la sua presenza.
Che altro può essere una simile gloria
se non un cuore? Oh, sorelle e fratelli,
eravate come me una volta, tanto tempo fa,
prima di essere umani? Vi
concedeste di aprirvi
una volta per poi non aprirvi
mai più? Perché in verità
adesso io sto parlando
come voi. Io parlo
perché sono distrutta.
Vespro
Una volta credevo in te; ho piantato un fico.
Qui, in Vermont, paese
senza estate. Era una prova: se l’albero viveva,
allora tu esistevi.
Questa logica dice che non esisti. O esisti
esclusivamente nei climi caldi,
nella torrida Sicilia, in Messico, in California,
dove crescono inimmaginabili
albicocche e fragili pesche. Forse
vedono la tua faccia in Sicilia; qui, vediamo appena
l’orlo del tuo vestito. Devo addestrarmi
a dare una parte dei pomodori a John e a Noah.
Se c’è giustizia in qualche altro mondo, a quelli
come me, che la natura spinge
a vite di astinenza, dovrebbe toccare
la parte più abbondante di tutte le cose, di tutti
gli oggetti della fame, l’insaziabilità
essendo lode di te. E nessuno loda
più appassionatamente di me, con
desiderio più dolorosamente frenato o più merita
di sedere alla tua destra, se esiste, partecipando
del perituro, il fico immortale,
che non viaggia.
I gigli bianchi
Mentre un uomo e una donna fanno
un giardino tra loro come
un letto di stelle, qui
fanno passare la sera d’estate
e la sera diventa
fredda del loro terrore: potrebbe
finire, sarebbe capace
di devastazione. Tutto, tutto
può perdersi, nell’aria odorosa
le strette colonne
che salgono inutilmente e, di là,
un ribollente mare di papaveri –
Taci, mio amato. Non mi importa
quante estati vivo per tornare:
questa sola ci ha dato l’eternità.
Ho sentito le tue mani
seppellirmi per liberare il suo splendore.
(Traduzione di Nicola Gardini da The Wild Iris 1992).
Approccio all’orizzonte (18)
Una mattina mi sono svegliata incapace di muovere il braccio destro.
Avevo sofferto periodicamente di notevoli
dolori su quel lato, il mio braccio da pittrice,
ma in questo caso non c’era dolore.
In effetti, non c’era sensibilità.
Il mio medico è arrivato entro un’ora.
Ci fu subito la richiesta di altri dottori,
vari test, procedure —
Ho mandato via il dottore
e invece ho assunto il segretario che trascrive queste note,
le cui capacità, mi è stato assicurato, sono adeguate alle mie esigenze.
Si siede accanto al letto a testa bassa,
possibilmente per evitare di essere ritratto.
Quindi iniziamo. C’è un senso
di allegria nell’aria,
come se gli uccelli cantassero.
Dalla finestra aperta arrivano ventate di aria dolce e profumata.
Il mio compleanno (ricordo) si sta avvicinando velocemente.
Forse i due grandi momenti collideranno
e vedrò me stessa incontrarsi, andare e venire –
Naturalmente, gran parte del mio io originale
è già morto, quindi un fantasma sarebbe costretto
ad abbracciare una mutilazione.
Il cielo, ahimè, è ancora lontano,
non proprio visibile dal letto.
Esiste ora come ipotesi remota,
un luogo di libertà del tutto svincolato dalla realtà.
Mi ritrovo a immaginare i trionfi della vecchiaia,
immacolati, visionari disegni
fatti con la mia mano sinistra –
“Sinistra”, anche, come “residuo”.
La finestra è chiusa. Di nuovo silenzio, moltiplicato.
E nel mio braccio destro, ogni sensibilità scomparsa.
Come quando la hostess annuncia la conclusione
attraverso l’audio del servizio di bordo.
La sensibilità è scomparsa – mi viene in mente
che sarebbe una bella lapide.
Ma ho sbagliato a suggerire
che questo sia già accaduto.
In effetti, sono stata perseguitata dalla sensibilità;
è il dono dell’espressione
che così spesso mi ha delusa.
Mi ha delusa, mi ha tormentata, praticamente per tutta la vita.
Il segretario alza la testa,
pieno di astratta deferenza
ispirata dall’approccio della morte.
Non può aiutare, realmente, ma essere emozionante,
questo emergere della forma dal caos.
Una macchina, vedo, è stata installata vicino al mio letto
per informare i miei visitatori
del mio progresso verso l’orizzonte.
Il mio stesso sguardo continua a spostarsi su di essa,
linea instabile delicatamente
ascendente, discendente,
come una voce umana in una ninna nanna.
E poi la voce si ferma.
A quel punto la mia anima si sarà fusa
con l’infinito, rappresentato
da una linea retta,
come un segno meno.
Non ho eredi
nel senso che non ho nulla di sostanziale
da lasciare.
Forse il tempo attutirà questa delusione.
Per chi mi conosce bene non sarà una novità;
Lo capisco. Quelli a cui
sono legata dall’affetto
perdoneranno, spero, le distorsioni
imposte dall’occasione.
Sarò breve. Così si conclude,
come dice la hostess,
il nostro breve volo.
E tutte le persone che non si conosceranno mai
si affollano nel corridoio e vengono tutte incanalate
nel terminale.
Louise Glück, Faithful and Virtuous Night, Farrar, Straus and Giroux. 2014
traduzione di Marcello Comitini
La spada nella roccia
Il mio analista alzò brevemente lo sguardo.
Naturalmente non potevo vederlo
ma avevo imparato, nei nostri anni insieme,
a intuire questi movimenti. Come al solito,
si è rifiutato di ammettere
se avessi ragione o meno. La mia ingegnosità contro
la sua evasività: il nostro giochino.
In quei momenti, ho sentito l’analisi
affiorare: sembrava far emergere in me
un’astuta vivacità ero
incline a reprimerla. L’indifferenza
del mio analista per le mie esibizioni
era adesso immensamente rilassante. Un’intimità
era cresciuta tra noi
come una foresta intorno a un castello.
Le persiane erano chiuse. Vacillanti
barre di luce avanzavano sulla moquette.
Attraverso una piccola striscia sul davanzale della finestra,
ho visto il mondo esterno.
Per tutto questo tempo ho avuto la vertiginosa sensazione
di fluttuare sopra la mia vita. Quella vita
scorreva lontana. Ma stava
ancora scorrendo: questa era la domanda.
Fine estate: la luce stava svanendo.
Scintille sfuggite guizzarono sulle piante in vaso.
L’analisi era al suo settimo anno.
Avevo ricominciato a disegnare –
piccoli schizzi modesti, casuali
costruzioni in tre dimensioni
modellati su oggetti funzionali —
Eppure, l’analisi richiese
gran parte del mio tempo. A cosa
questo tempo fu sottratto: questa
era anche la domanda.
Mi sdraio, guardando la finestra,
lunghi intervalli di silenzio si alternano
a riflessioni un po’ svogliate
e domande retoriche –
Il mio analista, ho sentito, mi stava guardando.
Così una madre, nella mia immaginazione, fissa il suo bambino addormentato,
il perdono che precede la comprensione.
O, più probabilmente, così mio fratello deve avermi guardato –
forse il silenzio tra noi prefigurava
questo silenzio, in cui tutto ciò che rimaneva non detto
era in qualche modo condiviso. Sembrava un mistero.
Poi l’ora finì.
Scesi come ero salita;
il portiere aprì la porta.
Il clima mite della giornata persisteva.
Sopra i negozi erano state spiegate le tende a strisce
a proteggere la frutta.
Ristoranti, negozi, chioschi
con gli ultimi giornali e sigarette.
Gli interni diventavano più luminosi
mentre l’esterno diventava più scuro.
Forse i farmaci stavano funzionando?
Ad un tratto si sono accesi i lampioni.
Ho sentito, improvvisamente, la sensazione che telecamere iniziassero a riprendere;
ero consapevole del movimento intorno a me, i miei simili
guidati da un insensato feticcio per l’azione —
Quanto profondamente ho resistito a questo!
Mi sembrava superficiale e falso, o forse
parziale e falso —
Invece la verità … beh, la verità come la vedevo io
si esprimeva come immobilità.
Ho camminato un po’, fissando le vetrine delle gallerie …
i miei amici erano diventati famosi.
Potevo sentire il fiume in sottofondo,
da cui proveniva l’odore dell’oblio
intrecciato con le erbe aromatiche in vaso dei ristoranti—
Avevo deciso di unirmi a una vecchia conoscenza per cena.
Eccolo al nostro solito tavolo;
il vino fu versato; era impegnato con il cameriere,
discutendo dell’agnello.
Come al solito, durante la cena è nata una piccola discussione, apparentemente
riguardante l’estetica. C’era libertà di espressione.
Fuori, il ponte luccicava.
Le auto correvano avanti e indietro, il fiume
brillò dietro, imitando il ponte. Natura
che riflette l’arte: qualcosa di simile.
Il mio amico ha trovato l’immagine potente.
Era uno scrittore. I suoi numerosi romanzi, all’epoca,
sono stati molto lodati. Uno era molto simile a un altro.
Eppure il suo compiacimento mascherava la sofferenza
come forse la mia sofferenza mascherava la compiacenza.
Ci conoscevamo da molti anni.
Ancora una volta lo avevo accusato di pigrizia.
Ancora una volta, ha respinto la parola …
Sollevò il bicchiere e lo capovolse.
Questa è la tua purezza, ha detto,
questo è il tuo perfezionismo
Il bicchiere era vuoto; non ha lasciato segni sulla tovaglia.
Il vino mi era andato alla testa.
Tornai a casa lentamente, meditabonda, un po’ ubriaca.
Il vino mi era andato alla testa, o no
la notte stessa, la dolcezza di fine estate?
Sono i critici, ha detto,
i critici hanno le idee. Noi artisti
(includeva me): noi artisti
siamo solo bambini con i nostri giochi.
Louise Glück
(TRADUZIONE DI MARCELLO COMITINI)
cinque poesie da Averno e L’iris selvatico di Louise Glück, Edizione Il Saggiatore
da Averno(2006)
La stella della sera
Questa sera, per la prima volta in molti anni,
mi è apparsa di nuovo
una visione dello splendore della terra:
nel cielo del crepuscolo
la prima stella sembrava
crescere in luminosità
mentre la terra si oscurava
finché in ultimo non poté essere più scura.
E la luce, che era la luce della morte,
sembrava restituire alla terra
il suo potere di consolare. Non c’erano
altre stelle. Solo quella
di cui sapevo il nome
poiché nella mia altra vita le avevo fatto
torto: Venere,
stella del crepuscolo,
a te dedico
la mia visione, poiché su questa superficie vuota
hai gettato luce sufficiente
a rendere il mio pensiero
nuovamente visibile.
Averno
1.
Muori quando il tuo spirito muore.
Altrimenti, vivi.
Puoi non farcela al meglio, ma tiri avanti —
non hai altra scelta.
Quando lo dico ai miei figli
non prestano attenzione.
I vecchi, pensano —
fanno sempre così:
parlano di cose che non si vedono
per coprire tutti quei neuroni che perdono.
Ammiccano fra loro;
senti il vecchio, parla di spirito
perché non ricorda la parola per sedia.
È terribile essere soli.
Non intendo vivere soli —
essere soli, dove nessuno ti sente.
Ricordo la parola sedia.
Voglio dire — è solo che non mi interessa più.
Mi sveglio pensando
devi prepararti.
Presto lo spirito si arrenderà —
tutte le sedie del mondo non ti aiuteranno.
So cosa dicono quando sono nell’altra stanza.
Dovrei vedere uno specialista, dovrei prendere
uno dei nuovi farmaci per la depressione?
Li sento che discutono, sottovoce, come dividere le spese.
E voglio gridare
vivete tutti in un sogno.
Basta e avanza, pensano, vedermi perdere colpi.
Basta e avanza senza le lezioni che gli faccio questi giorni
come se avessi diritto a nuove informazioni.
Bene, loro hanno lo stesso diritto.
Stanno vivendo in un sogno, e io mi sto preparando
a diventare un fantasma. Voglio gridare
la nebbia si è diradata —
È come una vita nuova:
non dipendi dalla conclusione;
conosci la conclusione.
Pensaci: sessant’anni seduta su sedie. E ora lo spirito mortale
che vorrebbe così apertamente, così temerariamente —
Sollevare il velo.
Vedere a cosa stai dicendo addio.
3.
Da un lato, l’anima erra.
Dall’altro, gli esseri umani che vivono nella paura.
In mezzo, il pozzo della scomparsa.
Alcune ragazze mi chiedono
se sarebbero al sicuro nei dintorni dell’Averno —
hanno freddo, vogliono andare a sud per un po’.
E una dice, come scherzando, ma non troppo a sud —
Io dico, al sicuro come da qualsiasi parte,
il che le rende felici.
Intendo dire che niente è sicuro.
Sali su un treno, scompari.
Scrivi il tuo nome sul finestrino, scompari.
Ci sono luoghi come questo ovunque,
luoghi in cui entri come ragazza,
da cui non ritorni mai.
Come il campo, quello che è bruciato.
Dopo, la ragazza sparì.
Forse non esisteva,
non abbiamo prove in un senso o nell’altro.
Tutto ciò che sappiamo è:
il campo bruciò.
Ma questo lo vedemmo.
Quindi dobbiamo credere nella ragazza,
in quello che ha fatto. Altrimenti
sono solo forze che non capiamo
a governare la terra.
Le ragazze sono felici, pensando alle vacanze.
Non prendete il treno, dico.
Scrivono i loro nomi nella condensa sul finestrino di un treno.
Voglio dire, siete brave ragazze,
che cercate di lasciare i vostri nomi.
Persefone l’errante
Nella seconda versione, Persefone
è morta. Lei muore, sua madre piange —
i problemi della sessualità
qui non ci concernono.
Ossessivamente, nel lutto, Demetra
percorre la terra. Non ci aspettiamo di sapere
cosa Persefone stia facendo.
È morta, i morti sono misteri.
Abbiamo qui
una madre e un enigma: questo
corrisponde precisamente all’esperienza
della madre quando
guarda in faccia alla bambina. Pensa:
ricordo quando non esistevi. La bambina
è perplessa; più tardi, l’opinione della bambina è
che è sempre esistita, proprio come
sua madre è sempre esistita
nella sua forma attuale. Sua madre
è come una figura a una fermata d’autobus,
un pubblico per l’arrivo dell’autobus. Prima di questo,
lei era l’autobus, una temporanea
casa o comodità. Persefone, protetta,
guarda fuori dalla finestra del carro.
Cosa vede? Una mattina
all’inizio della primavera, ad aprile. Ora
tutta la sua vita sta iniziando — sfortunatamente
questa sarà
una vita breve. Conoscerà, a fondo,
solo due adulti: la morte e sua madre.
Ma due è
due volte ciò che ha sua madre:
sua madre ha
una bambina, una figlia.
Come dea, avrebbe potuto avere
mille bambini.
Cominciamo a vedere qui
la profonda violenza della terra
la cui ostilità suggerisce
che non desidera
continuare come fonte di vita.
E perché questa ipotesi
non è mai considerata? Perché
non è nel racconto; essa solamente
crea il racconto.
Nel lutto, dopo che la figlia muore,
la madre vaga per la terra.
Sta studiando il suo caso;
come un politico
lei ricorda tutto e non ammette
niente.
Per esempio, la nascita
di sua figlia fu intollerabile, la sua bellezza
fu intollerabile: questo lo ricorda.
Ricorda di Persefone
l’innocenza, la tenerezza —
Cosa progetta, mentre cerca sua figlia?
Sta manifestando
un avvertimento il cui messaggio implicito è:
cosa stai facendo fuori dal mio corpo?
Ti chiedi:
perché è sicuro il corpo della madre?
La risposta è
questa è la domanda sbagliata, poiché
il corpo della figlia
non esiste, se non
come un ramo del corpo della madre
che deve essere
ricongiunto a ogni costo.
Quando un dio piange significa
distruggere gli altri (come in guerra)
mentre allo stesso tempo chiede
di ribaltare i patti (anche come in guerra);
se Zeus la recupera,
l’inverno finirà.
L’inverno finirà, la primavera ritornerà.
I venticelli irritanti
che amavo tanto, gli idioti fiori gialli —
La primavera ritornerà, un sogno
fondato su una falsità:
che i morti ritornano.
Persefone
era abituata alla morte. Ora sempre e poi sempre
sua madre la trascina di nuovo fuori —
Devi chiederti:
i fiori sono veri? Se
Persefone «ritorna» sarà
per una di due ragioni:
o non era morta o
viene usata
per sostenere una finzione —
Penso di poter ricordare
l’essere morta. Molte volte, d’inverno,
ho avvicinato Zeus. Dimmi, gli chiedevo,
come posso tollerare la terra?
E lui diceva:
tra poco tempo sarai di nuovo qui.
E nell’intervallo
dimenticherai tutto:
quei campi di ghiaccio saranno
i prati dell’Eliso.
da L’iris selvatico (1992)
Mattutino
Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale — la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa — Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne —
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.
Fine dell’estate
Dopo che pensai tutte le cose,
pensai il vuoto.
C’è un limite
al piacere che trovavo nella forma —
In questo non sono come voi,
non mi appago in un altro corpo,
non ho bisogno
di un riparo fuori di me —
Mie povere ispirate
creazioni, siete
fastidi, in fondo,
mera limitazione; siete
alla fine troppo poco simili a me
per piacermi.
E così candide:
volete essere ripagate
della vostra scomparsa,
pagate tutte con qualche parte della terra,
qualche ricordo, come una volta eravate
compensate per il lavoro,
lo scriba pagato
con argento, il pastore con orzo
per quanto non è la terra
a durare, non
queste scaglie di materia —
Se apriste gli occhi
mi vedreste, vedreste
il vuoto del cielo
specchiato in terra, i campi
di nuovo nudi, senza vita, coperti di neve —
poi luce bianca
non più travestita da materia.
traduzione di Massimo Bacigalupo.
APRILE
Nessuna disperazione è come la mia disperazione…
Non c’è posto in questo giardino
di pensare cose simili, producendo
i fastidiosi segni esteriori; l’uomo
che strappa ferocemente un’intera foresta,
la donna che zoppica, rifiutando di cambiar vestito
o lavarsi i capelli.
Pensate che mi importi
se vi parlate?
Ma voglio che sappiate
mi aspettavo di più da due creature
che furono dotate di mente: se non
che aveste davvero cura l’uno dell’altro
almeno che capiste
che il dolore è distribuito
tra voi, tra tutti i vostri simili, perché io
possa riconoscervi, come il blu scuro
marchia la scilla selvatica, il bianco
la viola di bosco.
Buon compleanno a Louise Glück, nata oggi nel 1943
Una poesia di Louise Glück, Premio Nobel
Legge non scritta
Interessante come ci innamoriamo: nel mio caso, in modo assoluto. In modo assoluto e, ahimè, spesso – così era nella mia gioventù. E sempre con uomini piuttosto giovanili – immaturi, imbronciati, o che prendono timidamente a calci foglie morte: alla maniera di Balanchine. Né li vedevo come ripetizioni della stessa cosa. Io, con il mio inflessibile platonismo, il mio fiero vedere solo una cosa alla volta: ho decretato contro l’articolo indefinito. Eppure, gli errori della mia gioventù mi rendevano senza speranza, perché si ripetevano come è di solito vero. Ma in te sentii qualcosa oltre l’archetipo – una vera espansività, un’esuberanza e amore della terra profondamente estranei alla mia natura. A mio merito, benedissi la mia buona fortuna per te. La benedissi in modo assoluto, alla maniera di quegli anni. E tu nella tua saggezza e crudeltà mi hai gradualmente insegnato l’assenza di senso di quel termine.
DaNuovi poeti americani (Einaudi, 2006).
Mezzanotte –
Alla fine la notte mi circondò;
ci galleggiavo sopra, forse dentro
o mi trasportava come un fiume trasporta
una barca, e allo stesso tempo
vorticava sopra di me,
costellata di stelle ma comunque oscura.
Questi erano i momenti per i quali ho vissuto.
Ero, mi sentivo, misteriosamente elevata al di sopra del mondo
e quell’azione che alla fin fine era impossibile
rendeva il pensiero non solo possibile ma illimitato.
Non aveva fine. Non ho bisogno, ho sentito,
di fare qualcosa. Qualsiasi cosa
sarebbe stata fatta per me, o fatta a me,
e se non fosse stata fatta, non era
essenziale.
Ero sul mio balcone.
Nella mano destra tenevo un bicchiere di scotch
in cui si stavano sciogliendo due cubetti di ghiaccio.
Il silenzio era entrato in me.
Era come la notte e i miei ricordi — erano come le stelle
in quanto erano fissi, sebbene ovviamente
se si fossero potuti vedere come fanno gli astronomi
si sarebbe visto che sono fuochi senza fine, come i fuochi dell’inferno.
Ho appoggiato il bicchiere sulla ringhiera di ferro.
Sotto, il fiume scintillava. Come ho detto,
tutto brillava — le stelle, le luci del ponte, gli importanti
edifici illuminati che sembravano fermarsi al fiume
per riprendere di nuovo, il lavoro dell’uomo
interrotto dalla natura. Di tanto in tanto ho visto
le imbarcazioni da diporto serali; poiché la notte era calda,
erano ancora piene.
Questa è stata la grande escursione della mia infanzia.
Il breve viaggio in treno che culmina in un tè di gala in riva al fiume,
poi quello che mia zia chiamava la nostra passeggiata,
poi la barca stessa che navigava avanti e indietro sull’acqua scura –
Le monete in mano a mia zia passarono nella mano del capitano.
Mi è stato consegnato il biglietto, ogni volta un nuovo numero.
Quindi la barca si è immessa nella corrente.
Ho tenuto la mano di mio fratello.
Abbiamo visto i monumenti che si susseguivano
sempre nello stesso ordine
e così ci siamo spostati nel futuro
dove si sperimentano ricorrenze perpetue.
La barca risalì il fiume e poi tornò indietro.
Si è spostata nel tempo e poi
attraverso un’inversione di tempo, anche se la nostra direzione
era sempre avanti, la prua continuava
a tracciare un sentiero nell’acqua.
Era come una cerimonia religiosa
in cui la congregazione stava
aspettando, vedendo,
e questo era l’intero punto, il contemplare.
La città andava alla deriva
metà a destra, metà a sinistra.
Guardate com’è bella la città,
ci diceva mia zia. Perché
era illuminata, immagino. O forse perché
qualcuno l’aveva detto nell’opuscolo stampato.
Successivamente abbiamo preso l’ultimo treno.
Spesso mi addormentavo, anche mio fratello dormiva.
Eravamo bambini di campagna, non abituati a tante emozioni.
Voi siete ragazzi esausti, disse mia zia,
come se tutta la nostra infanzia fosse a questo proposito
una qualità esaurita.
Fuori dal treno, il gufo stava chiamando.
Quanto eravamo stanchi quando siamo arrivati a casa.
Sono andata a letto con i calzini.
La notte era molto buia.
La luna è sorta.
Ho visto la mano di mia zia afferrarsi alla ringhiera.
Con grande eccitazione, applausi e ovazioni,
gli altri salirono sul ponte superiore
a guardare la terra scomparire nell’oceano –
Louise Glück
(TRADUZIONE DI MARCELLO COMITINI)
BIOGRAFIA
Glück Louise-Premio Nobel per la Letteratura 2020. Nata a New York nel 1943, Louise Glück è una poetessa statunitense. La sua poesia evoca schegge memoriali rielaborando temi come l’isolamento e la solitudine, in un tono insieme colloquiale e meditativo. Vincitrice del premio Pulitzer con L’iris selvatico (The Wild Iris, 1993), ha convinto i critici per lo stile controllato ed elegante con cui assorbe lunghe sequenze narrative di tratto confessionale che ricordano la poesia di R. Lowell, S. Plath e A. Sexton. In Meadowlands (1997) rievoca figure mitiche come Ulisse e Penelope all’interno di una scrittura molto moderna, che racconta di un matrimonio che sta per finire. Nel 2020 vince il Nobel per la letteratura per “la sua incofondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale”. Louise Glück è una poetessa statunitense. La sua poesia evoca schegge memoriali rielaborando temi come l’isolamento e la solitudine, in un tono insieme colloquiale e meditativo. Vincitrice del premio Pulitzer con L’iris selvatico (The Wild Iris, 1993), ha convinto i critici per lo stile controllato ed elegante con cui assorbe lunghe sequenze narrative di tratto confessionale che ricordano la poesia di R. Lowell, S. Plath e A. Sexton. In Meadowlands (1997) rievoca figure mitiche come Ulisse e Penelope all’interno di una scrittura molto moderna, che racconta di un matrimonio che sta per finire. Nel 2020 vince il Nobel per la letteratura per “la sua incofondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale”.
Nel 2020 per il Saggiatore vengono pubblicati: Averno e L’Iris Selvatico. A queste segue Ararat (2021).
Un cigno nella bruma. Immagini sulla poesia di Louise Glück
Articolo di ENZA SIRIANNI
Esordisco con l’ammettere che il nome di Louise Glück mi è giunto completamente nuovo alla notizia del conferimento del Nobel. Non sono un’esperta della poesia americana contemporanea, ma ne sono attratta e, umilmente, vado esplorandola. Mai incrociata. Rovistando nelle mie cartelline, ho scoperto in un link un accenno alla poetessa, un guizzo appena, subito sommerso da una sequela di nomi soprattutto maschili, alcuni dei quali segnalati come le voci più rappresentative della odierna poesia statunitense.
A dire il vero, autori di spicco, quando la materia è ispirata da Calliope, Euterpe e Erato, in lingua straniera peraltro, per ragioni editoriali che hanno a che fare con il venale costi/ ricavi di prudentissimo calcolo, è più facile reperirli pubblicati singolarmente o in raccolte antologiche.
Può capitare di trovarli tradotti e diffusi in blog e siti vari. Ma della nostra Louise quali le tracce? Sporadiche. Chiudendo sul link menzionato, sono andata a scavare come un cane da tartufo in cerca di una rarità quale è emersa nel mercato dell’editoria italiana, la Glück. Per quanto mi riguarda, questo dato ha attenuato in me una sorta di senso di colpa per non conoscerla prima del Nobel.
Del resto, non per consolarmi, lei non era nota a tanti, un nome inatteso, che ha colto di sorpresa gli addetti. Tanto rara che non si trova un suo libro in Italia oggi, neanche a pagarlo a peso d’oro mentre, prevedibilmente, si sta provvedendo a ristamparla. Eh, sì, a parte Minimum Fax nel 2003 e Einaudi che nel 2006 l’avevano inserita in una antologia di poeti americani contemporanei (la prima a cura di Mark Strand e Damiano Abeni, la seconda a cura di Elisa Biagini) due piccole impavide case editrici italiane, Giano e Dante & Descartes, avevano osato pubblicarla senza tante storie di convenienza, in riconoscimento alla sua voce poetica. Lungimiranti o sognatori? Più la seconda. Giusto per ricordare e sottolineare quanto fosse ignorata la professoressa della Yale University che ha vinto il Pulitzer, il National Book Award, che è stata poeta laureata, che ha all’attivo parecchie raccolte di poesie. Sul numero esatto non riesco ad essere precisa, oscillando, secondo le mie informative, da quindici a undici. I francesi concordano su dodici, anche loro in difetto di conoscenza più manchevole del nostro, non avendo mai pubblicato un’antologia della poetessa newyorkese. In Francia, infatti, si trovano solo liriche sparse tradotte in riviste specializzate.
La mia ricerca, tuttavia, non è stata infruttuosa seppur indubbiamente non completa. Ho potuto leggere molti componimenti della Glück, soprattutto grazie a Massimo Bacigalupo che ha tradotto The Wild Iris e Averno. Ma ho trovato poesie tradotte da altri in raccolte più recenti. Mi sono accostata con interesse, curiosità ma con la consapevolezza che «ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere», come dice Jorge Luis Borges nel prologo di “Carme presunto e altre poesie”.
Che la Glück abbia dichiarato, non appena le hanno comunicato di essere stata insignita del premio, che con i soldi che riceverà potrà finalmente acquistare una casa nel Vermont che molto ama, me l’ha resa familiare e vicina.
Una donna che a 77 anni coltiva sogni semplici come potere avere un rifugio in mezzo ai boschi nel The Green Mountain State, è sicuramente già per questo una poetessa. Cos’è la Poesia che ci aiuta ad attraversare la bellezza e il dolore della vita, se non avercela nel cuore e nella mente, intimamente a noi connaturata, in quella sorgente inspiegabile di pensieri vaghi, erranti, gentili, gioiosi, malinconici, vibranti di emozioni che ci suggeriscono di levarci in volo, non schiacciati dalle paure, dalle angustie, dalle ambasce che solitamente affliggono la nostra specie? L’immagine che ho in mente è quella di un cigno nella bruma che si libra su uno stagno freddo, rischiarando con la sua bianca luminiscenza la nebulosa aria intorno. Ecco, per me, Louise assomiglia a questo essere alato, lei che in una delle liriche di Averno, attraverso la voce di Proserpina, esprime il desiderio di non avere più braccia ma ali.
E a lei mi piacerebbe chiedere perché la mattina vorrebbe svegliarsi contemplando abeti a perdita d’occhio, tinte di smalto nella chiarità di quiete albe, colori crepuscolari sui declivi dei monti, distese di scille azzurre, il sole frantumato in polvere d’oro tra milioni di rami, orme di una lepre sui piumoni di neve, fasci di luna sulle margherite del giardino? Se mi dicesse che la risposta la conosco già, mi sentirei a lei sorella più di quanto non lo sia per l’appartenenza allo stesso genere e per la grazia che promana dai suoi versi. Femminile. Senza concessioni a melense tentazioni, con lo sguardo asciutto e coraggioso sulle perdite che vivere comporta. Ciò che avremmo voluto e non è stato. Ciò che pensammo di avere raggiunto e si è dissolto. Ciò che invano trattenemmo e si è allontanato. Ciò che doveva accompagnarci e ci ha lasciato soli. Distacchi, separazioni.
L’amore, il più vulnerabile ai conflitti, alla fine.
Ma in te sentii qualcosa oltre l’archetipo –
una vera espansività, un’esuberanza e amore della terra
profondamente estranei alla mia natura. A mio merito,
benedissi la mia buona fortuna per te.
La benedissi in modo assoluto, alla maniera di quegli anni.
E tu nella tua saggezza e crudeltà
mi hai gradualmente insegnato l’assenza di senso di quel termine.
da Legge non scritta
Nella tenda, Achille
piangeva con tutto il suo essere
e gli dèi videro
che era un uomo già morto, vittima
della parte che amava,
la parte mortale.
da Il trionfo di Achille
E la morte? Quella fisica che più addizioniamo giorni di vita, più ci sottrae persone che conosciamo, che amiamo? Achille piange sconsolato il compagno Patroclo, Demetra è disperata per sua figlia Persefone rapita da Ade, Orfeo è impazzito di dolore per la sua Euridice morsa da un serpente.
Miti famosi che la Glück riprende dando ad ognuno l’interpretazione secondo il suo vissuto che, nella sua unicità e irripetibilità, ha l’impronta dell’universale. Del resto, il mito, con i suoi archetipi, giace come parte costitutiva dell’essere umano, dei suoi sentimenti, dei suoi sogni, delle sue paure, delle sue sfide, dei suoi limiti. Siamo fatti di fragilità e di forza. Di dolore e gioia. Di frustrazione e riscatto. Siamo una antinomia che genera dubbi, domande, spinte contrastanti dal buio alla luce e viceversa. Nascondersi, un impulso infantile mai soppresso, è una resa all’incomprensione degli altri, un riparo alla solitudine che si cura con la poesia. La terapia della “solità” in un ventre sotterraneo:
Prendevo
la metropolitana col mio libretto
come per difendermi
dallo stesso mondo
non sei sola
diceva la poesia,
nel buio del tunnel
da Ottobre
Eppure Louise bussa alle porte del Mistero in cui avverte siamo avvolti. Lo interpella, lo sfiora, gli bisbiglia, conscia che mai a lei né ad alcun altro sarà dato di comprenderlo. Non qui. Forse neanche dopo. Gli echi dickinsoniani che la critica ha rilevato nella sua poesia, restano su questo limen. Non lo oltrepassano. L’incontro che la poetessa di Amherst riteneva certo con l’Immortalità, è dubbioso per la Glück. Dio è irraggiungibile da quando fummo esiliati dal Giardino. Un Padre che imparammo a venerare ma non ad amare. Forse per questo non è della «natura umana amare ciò che ci restituisce amore».
Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale… la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa… Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne…
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.
Mattutino
Il giardino che è così ricorrente nei temi della Glück tanto da divenire il suo interlocutore privilegiato nella raccolta “L’Iris selvatico”, è un luogo di domande, di interrogativi sulla sua vita, su quella dei mortali, di affetti, ricordi, potature, sradicamenti, recisioni. Una metafora vegetale della nostra esistenza, eco dell’Eden da cui fummo cacciati, in cui vi è il segreto dell’origine e della fine. Nulla finisce ma tutto si trasforma in una circolarità biologica. Questa idea non elimina la difficoltà ad accettare la morte che non trova attenuazioni escatologiche né dolci segnali dall’aldilà. Duro è il richiamo della madre di Louise che cammina sui corpi dei genitori, cresciuti in erba, in Paesaggio aborigeno.
Stai calpestando tuo padre, disse mia madre,
e in effetti ero in piedi nel centro esatto
di un manto erboso, talmente curato da poter essere
la tomba di mio padre, anche se nessuna lapide lo diceva.
Stai calpestando tuo padre, ripeté,
stavolta più forte, e io cominciai a trovarlo strano
perché era morta anche lei; l’aveva ammesso persino il dottore.
Mi spostai un po’ più in là, dove
finiva mio padre e cominciava mia madre.
Tuttavia, nella medesima raccolta L’iris selvatico, quasi adirata, la Glück nega anche questa possibilità. Se la vita è una incessante rigenerazione, non è sorte che tocchi agli umani. Siamo imperdonabili, senza assoluzione che ella non concede prima di tutto a se stessa. Queste oscillazioni, non contraddizioni, sono di una donna inesausta nelle domande durante il viaggio che è la vita e in cui gli stati d’animo variano dall’entusiasmo alla delusione.
Qualsiasi cosa abbiate sperato,
non troverete voi stessi nel giardino,
fra le piante che crescono.
Le vostre vite non sono circolari come le loro:
le vostre vite sono il volo dell’uccello
che inizia e finisce nell’immobilità.
da Vento calante
E quale luogo migliore se non il giardino, riflesso del primigenio Eden, per chiedere a Dio se esiste in una domanda controsenso? E poi il puntuale ritorno alla realtà, alla sua disciplina, alle sue necessità.
Una volta credevo in te: piantai un fico.
Qui, in Vermont, terra
senza estate. Era una prova: se l’albero sopravviveva,
voleva dire che esistevi.
Secondo questa logica, non esisti. O esisti
esclusivamente in climi più caldi,
la fervente Sicilia, il Messico, la California,
dove si coltiva l’inimmaginabile
albicocca e la fragile pesca. Forse
vedono la tua faccia in Sicilia; qui a stento vediamo
l’orlo della tua veste. Devo disciplinarmi
per dividere con John e Noah il raccolto di pomodori.
da Vespro
Ma Louise, che si dibatte tra la durezza della vita e il bisogno di smussarla, accarezza l’idea di giungere alla fine credendo ancora in qualcosa. Un privilegio non concesso a tutti, nonostante siamo una somma di perdite, nonostante ci abbandoni anche il corpo. Ad esso dedica una lirica struggente, lei che lo ha maltrattato tante volte con la sua anima paurosa e brutale. Il riferimento all’anoressia di cui soffrì da giovane, pare evidente.
Corpo mio, ora che non viaggeremo più molto a lungo insieme
comincio a provare una nuova tenerezza verso di te, molto cruda e inconsueta,
come i ricordi che ho dell’amore quand’ero giovane –
l’amore che era così spesso sciocco nei suoi intenti
ma mai nelle sue scelte, nelle sue intensità.
Troppo chiedere in anticipo, troppo che non poteva essere promesso –
La mia anima è stata così paurosa, così violenta:
perdona la sua brutalità.
Come fosse quell’anima, la mia mano si muove cauta sopra di te,
non volendo recare offesa
ma impaziente, finalmente, di raggiungere l’espressione come sostanza:
non è la terra che mi mancherà,
sei tu che mi mancherai.
Il congedo dal corpo, che nell’età tarda ci denuncia la sua stanchezza, non è un congedo dalla vita, dalla poesia, dai suoi lettori. La Gluck continua con noi i suoi colloqui lucidi, visionari, confidenziali. Tanto sussurrati da planare verso il silenzio da lei amato, in cui mi sembra di udire il fugace fruscio di un cigno bianco nella bruma.
Claudio Galeno (129 d.C-216 d.C.), padre della moderna Farmacopea:“L’olio della Sabina il migliore del mondo”.
Nei territori della Sabina, tra Roma e Rieti, si produce l’olio Sabina Dop, antichissimo olio extravergine di oliva ottenuto dalle varieta’ di olive Carboncella, Leccino, Raja, Frantoio, Olivastrone, Moraiolo, Olivago, Salviana e Rosciola. L‘olio Sabina Dop ha un colore giallo oro dai riflessi verdi, il suo sapore e’ aromatico e l’acidità massima è pari allo 0,60%.
L’inventore di libriAldo Manuzio, Venezia e il suo tempo–
L’autore è Alessandro Marzo Magno
Forse non lo sapete, ma il piccolo oggetto che avete in mano – così maneggevole, chiaramente stampato, dai caratteri eleganti, corredato da un frontespizio e da un indice – deve quasi tutto al genio di Aldo Manuzio, che cinque secoli fa ha rivoluzionato il modo di realizzare i libri e ha reso possibile il piacere di leggere. Benvenuti nel mondo del primo editore della storia.
Il libro – così come lo conosciamo ancora oggi – nasce a Venezia tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. Padre di questa invenzione è Aldo Manuzio. Nato a nel Lazio, transitato per Ferrara e per Carpi, dov’era docente dei principi Pio, approda ormai quarantenne a Venezia. La città in quegli anni è l’indiscussa capitale europea della stampa e così il precettore si trasforma in editore. Pubblica inizialmente grammatiche e testi in greco necessari per apprendere la lingua classica. Poi i suoi orizzonti si allargano: nel 1501 dà vita a una vera e propria rivoluzione, quella del libro tascabile. Se prima si leggeva per necessità (e lo si faceva a voce alta), da quel momento leggere diventa un piacere a cui dedicarsi nel silenzio dell’intimità. E non finisce qui. Manuzio, con il suo amico Pietro Bembo, importa nel volgare italiano i segni di interpunzione che erano utilizzati soltanto nel greco antico: accenti, apostrofi, virgole uncinate e punto e virgola. Quando muore, nel 1515, il mondo del libro è definitivamente cambiato. Alessandro Marzo Magno ricostruisce le tappe di una straordinaria carriera, nell’unico posto al mondo dove sarebbe stata possibile: Venezia.
L’autore è Alessandro Marzo Magno,veneziano per nascita e milanese per lavoro, si è laureato in Storia all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Giornalista, dopo essere stato per quasi dieci anni responsabile degli esteri del settimanale “Diario”, dirige il semestrale “Ligabue Magazine” e scrive nella pagina culturale del “Gazzettino”. Ha pubblicato libri di argomento storico, tra i quali L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo (Garzanti 2012, più volte ristampato e tradotto in inglese, spagnolo, giapponese, coreano e cinese) e Missione grande bellezza. Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler (Garzanti 2017). Per Laterza è autore di L’inventore di libri. Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo (2020).
Edizione: 2020, III rist. 2021 Pagine: 224, ril. Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858141601 ISBN digitale: 9788858143636
Erasmo su Aldo-A chi con i libri lavora, di libri vive, i libri ama.
«È un’impresa erculea, per Ercole!»
Arthur Schopenhauer:”I libri sono compagni, insegnanti, maghi, banchieri dei tesori del mondo,i libri sono l’umanità stampata”.
1.
Aldo è tra noi
Considerate quello che state facendo in questo preciso momento: avete in mano un libro e lo leggete. Con ogni probabilità siete seduti o distesi, e certamente in silenzio, ovvero non state compitando le parole a voce alta, come quando la maestra a scuola vi chiedeva di leggere per il resto della classe. State svolgendo quest’attività (leggere) perché vi dà piacere, oltre che accrescere il vostro patrimonio di conoscenze; anzi, è molto probabile che se non vi appagasse, trascurereste anche l’incremento del sapere.
L’oggetto che sta occupando la vostra attenzione è un parallelepipedo di carta del peso di qualche ettogrammo, maneggevole, dalle pagine stampate in un carattere elegante e chiaro, dove ogni tanto compare qua e là qualche parola in corsivo (per esempio i titoli dei libri, o le parole straniere). Il testo è reso più comprensibile da una serie di segni che chiamiamo di interpunzione: punti e virgola, virgole uncinate, apostrofi, accenti. Tali segni ci guidano nella lettura, ci indicano le pause nonché la loro gerarchia (il punto e virgola «vale» più della virgola), fondono tra loro due parole in modo da semplificarne la lettura, o indicano dove accentare la pronuncia, ancora una volta per facilitarci il compito.
È molto probabile che, una volta notato questo volume nello scaffale o sul bancone di una libreria, lo abbiate preso in mano sollevandone la copertina al fine di poterne guardare il frontespizio, leggerne titolo e sottotitolo e capire chi siano autore ed editore. Poi, se il titolo vi ha solleticato, avete girato qualche pagina per scorrerne l’indice e coglierne meglio il contenuto. Al che avete preso la decisione se riporlo o comprarlo, ma, visto che lo state leggendo, il libro deve aver superato l’esame e vi siete quindi avviati alla cassa.
Benvenuti nel mondo di Aldo, il primo editore della storia. Tutto quello che avete letto nelle righe appena scorse lo dovete a lui. In precedenza chi imprimeva libri era un semplice tipografo: sceglieva le opere da stampare sulla base del loro potenziale di vendita, ma senza un preciso progetto editoriale. L’attenzione alla qualità era minima, il numero dei refusi negli incunaboli – i «libri in culla», cioè stampati entro la fine del 1499 – ci parla ancor oggi di scarsa accuratezza, di composizioni tirate via, di bozze riviste senza troppo impegno. Con Manuzio cambia tutto: Aldo è davvero «l’inventore della professione dell’editore moderno, colui cioè che si avvicina ai libri avendo in mente un preciso e coerente programma culturale», come osserva Mario Infelise, storico dell’editoria e del libro all’università di Venezia, Ca’ Foscari. Manuzio ha fatto del libro «il più efficiente strumento per l’accumulo e la trasmissione delle conoscenze umane degli ultimi cinque secoli».
Lodovico Guicciardini è un nobile fiorentino che vive ad Anversa, discendente del più noto Francesco. Nel 1567 pubblica la Descrittione di tutti i Paesi Bassi, nella quale, nonostante fosse scomparso ormai da un cinquantennio, si ritrova a parlare di Aldo Manuzio, «il quale a giudizio d’ognuno […] ridusse veramente la stampa a perfettione, talché non si diceva, ne cercava altro, che la stampa d’Aldo perché era tanto pura e netta. Innanzi a Aldo […] non si trovava che grosse, goffe e scorrette impressioni senza vista e senza grazia, ma egli non perdonando nulla con ingegno, e con giuditio la polì, facilitò e ridusse (come io dico) a ordine e regola perfetta».
Aldo è un uomo colto, coltissimo: conversa fluentemente in greco antico, traduce a vista dal greco al latino e viceversa, ha studiato l’ebraico. Ha in mente un ben preciso progetto editoriale: stampare i classici greci in greco. Successivamente estenderà il suo programma ai classici in latino e ai testi in volgare. La più efficace enunciazione del programma aldino è quella di un umanesimo senza confini che, anni più tardi, farà dire ad Erasmo: «Anche se la sua biblioteca è chiusa dalle anguste pareti della casa, Aldo ha intenzione di costituire una biblioteca la quale non abbia altro confine che il mondo stesso».
Aldo si era dato un piano che definire ambizioso è riduttivo: «Verrà pubblicato tutto ciò che merita d’esser letto». Non si esaurisce qui, però: Manuzio è anche un attento, attentissimo, imprenditore. Sarebbe esagerato dire che si metta a stampare per i soldi, ma di sicuro con la stampa guadagna denaro: riesce a garantire una discreta agiatezza a sé e ai suoi eredi. È il primo a unire i due aspetti che dovrebbero caratterizzare un editore anche ai giorni nostri: la conoscenza culturale e la capacità imprenditoriale. Prima dell’inizio della sua attività non ci sono notizie di rapporti tra eruditi e stampatori che fossero diversi da quelli commerciali.
Manuzio, in quanto studioso che già godeva di solida fama tra i dotti, ha fatto sì che si superassero pregiudizi e incomprensioni tra gli uomini di lettere e quelli d’affari: questo ha reso possibile la rivoluzione che ha investito il mondo della tipografia e quello della cultura.
La nascita del libro
Ora facciamo un viaggio nel tempo e immaginiamo di essere in una bottega libraria del 1493, ovvero l’anno prima che Manuzio cominci a stampare: vedremmo libri privi di quasi tutte le caratteristiche che ci sono tanto familiari – le abbiamo elencate all’inizio – se non quella di essere costituiti da carta stampata con l’inchiostro. Se invece entrassimo in quella medesima bottega una ventina di anni più tardi, ad esempio nel 1515, ovvero quando Aldo Manuzio muore, ci ritroveremmo ad avere a che fare con un oggetto riconoscibile: un libro maneggevole e stampato in modo da essere leggibile ed elegante.
Al di là di carta e inchiostro, tutto quello che caratterizza un libro come lo conosciamo noi oggi lo dobbiamo ad Aldo Manuzio. Questo signore colto e raffinato ha messo in mano ai suoi contemporanei di mezzo millennio fa un oggetto che usiamo sostanzialmente immutato ancora ai nostri giorni. E la locuzione «mettere in mano», come vedremo nel capitolo sui libri tascabili, va intesa in senso letterale.
Con Manuzio nasce un libro nuovo e diverso in tutto; la sua pagina a stampa appare ai contemporanei talmente perfetta da non far più rimpiangere gli antichi codici manoscritti. I «buoni libri» di Aldo Manuzio decretano la fine dei codici: erano trascorsi oltre mille anni dal IV secolo d.C., da quando cioè i fogli rettangolari di pergamena legati fra loro avevano preso il posto dapprima appartenuto ai rotoli di papiro.
Vedremo più avanti come Aldo introduca il bisogno di leggere e la lettura per passatempo, ma diciamo subito che a tutto questo si accompagna pure l’idea dell’interpretazione del testo, del libero arbitrio, della libertà di opinione. Elementi che oggi ci appaiono scontati: si legge un libro e lo si giudica, si decreta se sia piaciuto o meno, se sia scorrevole, noioso, piacevole, avvincente e via così. Nel XV secolo, invece, le cose stavano assai diversamente. Gli scritti erano pubblicati assieme a tutto l’apparato dei commenti, dagli antichi ai moderni, gli stampatori si sforzavano di dare sempre almeno tre-quattro commenti, intrecciati tra loro a mosaico nei margini di grandi libri in formato in folio (ovvero i volumi nei quali i fogli di carta venivano piegati solo una volta, le cui dimensioni si aggiravano almeno sui 40×26 centimetri).
Si trattava quindi di una sorta di testo accompagnato da ipertesto che di fatto impediva di elaborare un giudizio: tutto quello che ci sarebbe stato da dire era già stato detto in precedenza dagli antichi sapienti; e chi mai avrebbe osato contraddirli. Aldo fa una scelta radicale: spoglia il testo, lo pubblica integrale, nudo, senza commenti che lo circondino e lo soffochino. Ognuno sarà libero di interpretarlo come preferisce. Manuzio mette definitivamente fine alla moda del testo incorniciato dalle spiegazioni.
La novità dev’essere prorompente agli occhi dei contemporanei, un po’ come – spostandoci nell’architettura – succederà una quarantina d’anni più tardi, quando Andrea Palladio al posto di edifici di mattoni rossi, pieni di pinnacoli e arzigogoli, comincerà a costruire fabbricati di pietra bianca, lisci e squadrati. La nudità dei testi imposta da Aldo doveva provocare un effetto simile a quello ispirato dall’essenzialità degli edifici voluta da Palladio. Già fermandosi qua sarebbe evidente la portata della rivoluzione aldina. Eppure c’è dell’altro. E che altro.
Il marketing
Aldo Manuzio ha avuto l’accortezza di intuire il potere della promozione commerciale e, se non si temesse di esagerare nel dipingerlo a colori troppo brillanti, si potrebbe anche dire che è stato un autentico genio della vendita di se stesso e dei propri prodotti. Ha utilizzato i mezzi che aveva a disposizione, in particolare le dediche e le prefazioni. Ai nostri occhi la dedica di un libro può apparire superflua perché alla fin fine il libro di per sé – al di là del contenuto – oggi è un prodotto comune; entriamo in una libreria e vediamo volumi a migliaia, a decine di migliaia qualora la libreria sia grande; in una biblioteca ce ne possono addirittura essere milioni, svariati milioni in alcuni casi: la biblioteca del Congresso, a Washington DC, la maggiore del mondo, possiede 28 milioni di volumi. In tante case almeno una parete è ricoperta di libri e il costo di ogni singolo testo è, nella media, abbastanza contenuto e affrontabile dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Alla fine del Quattrocento, però, non era così: il libro a stampa era stato inventato una quarantina di anni prima, si trattava di una novità preziosa e ricercata, gli esemplari in circolazione erano pochi e costosi, se non costosissimi. Le dediche, quindi, servono ad Aldo per stabilire una relazione con i potenti ed è bravissimo a ottenere il risultato: nessun altro editore riuscirà a tessere una tela di rapporti a livello tanto alto: l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo arriva a definire l’editore «familiare nostro»; Lucrezia Borgia sarà nominata sua esecutrice testamentaria e lo accoglierà a Ferrara durante la guerra di Cambrai; Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo Sforza, riceve un salterio greco con dedica. Il record delle dediche spetta ad Alberto Pio, principe di Carpi: Manuzio gli destina ben dodici edizioni (avremo modo di approfondire nelle pagine che seguono la lunga relazione tra i due).
Alla vigilia dell’erompere della guerra di Cambrai, che contrappone a Venezia una coalizione di potenze europee, quando ormai già si udivano tintinnare le spade, Manuzio intitola edizioni a importanti esponenti di entrambe le parti che si stavano per affrontare. Nel marzo 1509, due mesi prima della fatale – per i veneziani – battaglia di Agnadello, dedica un Plutarco a Jacopo Antiquari, già uomo di fiducia degli Sforza, e un Orazio a Jeffroy Charles, nobile francese originario di Saluzzo nonché presidente del senato milanese (salvo un’eccezione nel 1503, queste sono le uniche dediche aldine che riguardino Milano). Un mese dopo, nell’aprile 1509, a guerra ormai dichiarata, destina Sallustio a Bartolomeo d’Alviano, vicecomandante generale delle truppe veneziane: la sola volta, questa, che indirizza un’opera a un uomo d’arme. È evidente il desiderio di costruirsi benemerenze sui due fronti; utilizzando un linguaggio odierno le si potrebbe definire dediche bipartisan, senza pensare a termini più grevi.
Il ruolo delle prefazioni
Le prefazioni costituiscono il testo più importante che Aldo ci abbia lasciato; quello dove, come qualcuno ha scritto, «alterna toni gravi ad altri ironici, sfodera qualche aneddoto e battuta, lancia strali ed elogi, riflette su di sé e sul mondo, e in tal modo ci cattura». Gli esordi diventano il mezzo per comunicare con i lettori, per ingraziarseli: «Sii clemente quando trovi qualche sbaglio», oppure «Per ora, mancando vasi d’oro e d’argento, accontentiamoci, come suol dirsi, di quelli di coccio». Le prefazioni costituiscono il manifesto ideologico aldino, il luogo dove Manuzio proclama la propria idea di conoscenza come bene comune: «Si impicchino» quelli che tengono i libri nascosti a casa, «d’animo così basso da affliggersi per un bene fornito a tutti». Aldo è un precursore: il concetto che la cultura debba essere a disposizione di chiunque si farà strada soltanto ai tempi della rivoluzione francese.
L’editore usa le prefazioni anche per creare l’effetto attesa: «Pubblicheremo altresì tutti i matematici» (1497), «Aspettatevi in breve un Dante» (1501). Inventa un modello di prologo affettuoso e diretto, dove affiora il valore dell’amicizia umana: «Il grande affetto che ti porto», scrive a Girolamo Aleandro (1504), cardinale e umanista originario di Motta di Livenza, nel Trevigiano. «Io vorrei poter sempre stare con te, vivere con te», dice a Marin Sanudo (1502), patrizio e autore dei Diarii. Si tratta di una cronaca giornaliera di Venezia cominciata nel 1496 e terminata nel 1533, tre anni prima della morte: 58 volumi in 37 anni, la più importante fonte storica della Venezia di fine XV e inizio XVI secolo. Lo incontreremo ancora, Sanudo, perché amico di Aldo e anche in quanto proprietario di una delle più importanti biblioteche cittadine dell’epoca.
La fama delle raccolte librarie veneziane del tempo è tale da richiamare visitatori di grande prestigio: nel 1490 arriva a Venezia Giano Lascaris, a caccia di codici greci per conto di Lorenzo de’ Medici. Lascaris visita le biblioteche di Ermolao Barbaro, erede dell’umanesimo avviato dal Petrarca e maestro della generazione di Erasmo; di Alessandro Benedetti, professore a Padova, che aveva trascorso quindici anni in Grecia, acquistandovi manoscritti di pregio; e pure quella di Gioachino Torriano, priore del convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo (lo stesso dove vive Francesco Colonna, il frate ritenuto autore dell’Hypnerotomachia Poliphili, di cui diremo ampiamente), che aveva acquistato manoscritti provenienti dalla biblioteca di Mattia Corvino, il sovrano ungherese morto nel 1490. Anche i codici di Bessarione vengono dal 1494 provvisoriamente depositati a San Zanipòlo, come i veneziani chiamano i santi Giovanni e Paolo, e Torriano sarebbe stato molto contento di trasformare da temporaneo a definitivo il deposito del fondo nella propria biblioteca. Il cardinale Bessarione è il dotto umanista greco che nel 1468, quattro anni prima della morte, dona alla repubblica di Venezia i manoscritti bizantini che costituiscono il nucleo fondativo dell’attuale Biblioteca nazionale Marciana.
Il catalogo
Oggi ci appare tutto sommato ovvio consultare il catalogo di una casa editrice, ma anche di questo dobbiamo essere grati a Manuzio. Aldo pubblica il primo elenco di edizioni nel 1498 e vi enumera soltanto le opere greche – in quel momento evidentemente costituivano quel che davvero gli interessasse – salvo sporadiche eccezioni, tra le quali il De Aetna che con ogni probabilità aveva stampato per amicizia e gratitudine verso l’autore, Pietro Bembo, o le composizioni latine di un altro amico, Angelo Poliziano, impresse in un massiccio in folio che riunisce gli scritti inediti dell’umanista fiorentino. Sono presenti quindici titoli ripartiti in otto sezioni tematiche; la più affollata è quella delle grammatiche, con cinque opere.
Il secondo catalogo, del giugno 1503, distingue tra libri greci, latini e «portatili in forma di enchiridio», ossia i tascabili (che vedremo più avanti); il terzo e ultimo risale al novembre 1513 e non contiene, come invece i precedenti, l’annuncio di futuri libri. I primi due cataloghi riportano anche i prezzi minimi: non sappiamo se i cartolai – i rivenditori di libri – li rispettassero o se invece vendessero i volumi più cari. Un indizio tuttavia ci arriva da Siviglia, grazie alla biblioteca di Fernando Colombo, figlio di Cristoforo, diventata una delle più importanti della prima metà del XVI secolo in virtù dei 15 mila libri che conteneva.
Colombo junior doveva essere pignolo, infatti per la maggior parte delle opere ha annotato data, luogo e prezzo dell’acquisto, con il costo sempre convertito in moneta spagnola, cosa che ci rende possibili i raffronti. Delle ventisei aldine comperate in luoghi diversi, quattordici registrano il medesimo costo annotato nei cataloghi manuziani, di dieci conosciamo soltanto il prezzo pagato da Colombo, di due non abbiamo informazioni.
Un’ulteriore idea ce la possiamo fare anche utilizzando il Zornale di Francesco de Madiis, ovvero il resoconto quotidiano della vendita in una bottega veneziana di 25 mila libri tra il maggio 1484 e il gennaio 1488, ognuno registrato con titolo e prezzo. Il manoscritto, un documento di eccezionale valore, è conservato nella biblioteca Marciana. L’elenco termina sei anni prima che Manuzio cominci a stampare e si riferisce a volumi molto diversi fra loro, ma gli studiosi di storia del libro hanno calcolato il costo per singolo foglio stampato in modo da ottenere un valore coerente.
Visto che in quei tempi i prezzi avevano andamenti piuttosto stabili, è possibile effettuare un comparazione tra il costo per foglio delle aldine e delle edizioni del Zornale. Quest’ultimo oscilla tra i 5 e i 10 denari, con punte più alte in caso di formati che utilizzano carta più pregiata. Il costo per foglio delle aldine di grande formato è simile; aumenta invece vertiginosamente nel caso dei tascabili: quelli stampati in greco sono ovviamente più cari e vanno dai 20 agli oltre 30 denari a foglio, mentre nel caso del latino e del volgare italiano si va dagli 11 agli oltre 13 denari a foglio. Questo smentisce una volta per tutte il mito – più volte ripetuto in vari studi del passato – che i tascabili di Aldo fossero a buon mercato, anche se, ovviamente, un volumetto di qualche decina di fogli aveva un costo unitario di molto inferiore rispetto a un volumone composto da centinaia di carte. In ogni caso possiamo concludere che Manuzio sapeva fare assai bene i conti e che le sue edizioni mantenevano una buona valutazione, anche a distanza di anni dall’uscita, cosa non sempre riscontrabile con le opere stampate da altri editori.
L’indice
Ora veniamo a un’ulteriore eredità aldina, a un altro elemento che ai nostri giorni appare connaturato al libro stesso, ma che nei tempi in cui stava nascendo l’editoria moderna non lo era affatto: l’indice. Gli incunaboli non l’avevano e neppure avevano le pagine numerate; al massimo, ma non sempre, erano numerate le carte, o fogli, tanto che oggi per orizzontarci siamo costretti a distinguerle in r (recto) e v (verso). Ci si arrangiava con il fai da te: ognuno, qualora ne sentisse il bisogno, apponeva a mano i numeri ai fogli e si autocompilava un indice di ciò che lo interessava. Poliziano, tanto per fare un nome significativo, era uno di quelli che si facevano gli indici da soli.
Manuzio – mai dimenticarlo – era un maestro e per chi insegna è importante poter individuare un punto preciso all’interno della massa del testo. La stampa, poi, introduce nuove e sconosciute problematiche: gli errori di stampa, tanto per dirne una. Lo sbaglio nella trascrizione commesso da un copista veniva perpetuato nei manoscritti successivi, spesso senza possibilità di riscontro. Un refuso, invece, si moltiplica subito per le centinaia di copie della tiratura. Gli stampatori del rinascimento, quando scoprivano errori in fase di stampa, invece di correggere i fogli difettosi – la carta era costosa – si accontentavano di ritoccare gli esemplari successivi, con il risultato che le copie differiscono in numerosi particolari. In qualche caso l’omissione di parole poteva essere sanata con una correzione a mano in ciascuna copia: alcuni volumi dei Salmi, editi attorno al 1498 sono stati corretti così, probabilmente dallo stesso Aldo. Più in generale interviene una nuova esigenza: fornire una lista di errata con le relative correzioni, nonché con l’esatto punto del libro in cui inserirle; e l’indice, ovviamente, aiuta.
Comprensibile, quindi, quale importanza avessero le errata, e Aldo già nel primo volume che stampa, una grammatica greca (Erotemata, 1495), aggiunge alla fine un foglio di errata. Si capisce subito dove voglia andare a parare: inizia ora una serie di tentativi, di esperimenti di indicizzazione che proseguiranno per tutto il ventennio di attività.
L’indicazione di Manuzio contiene una novità rispetto alle errata che l’avevano preceduta: rinvia alla riga precisa dove apporre la correzione. Il sistema di rimandi risulta in ogni caso complicato perché le pagine sono prive di numero. Ed ecco che nel 1499 Aldo, per la prima volta, inserisce una rivoluzionaria numerazione per pagina. Per pagina, non per carte: in questo modo ogni singola facciata del foglio porta il numero che la contraddistingue. L’innovazione riguarda un enorme in folio di 642 pagine, non a caso un repertorio della lingua latina (Cornucopiae, di Niccolò Perotti). Manuzio aggiunge anche una numerazione riga per riga, cosicché nell’indice riporta due numeri: il primo rimanda alla pagina, il secondo alla riga. Un sistema molto più efficace e preciso rispetto a quello che utilizziamo noi oggi, anche se ovviamente più macchinoso (e costoso).
Aldo si rende ben conto dell’enorme portata del mutamento e infatti lo annuncia orgogliosamente nel frontespizio, chiamandolo «indice abbondantissimo». Grazie a tale sistema si riesce a individuare con un semplice sguardo il punto cercato, non occorre contare una per una né le pagine né le righe. L’editore fornisce anche le istruzioni: «Abbiamo fatto allestire l’indice unendo insieme il greco e il latino. Ma non ti sfugga, lettore carissimo, che puoi separare del tutto agevolmente il latino dal greco a tuo piacimento».
La novità, tuttavia, non viene usata in maniera continuativa, per esempio le prime edizioni tascabili non presentano le pagine numerate, tanto che parecchie copie giunte fino a noi riportano i numeri aggiunti a mano dai rispettivi proprietari. Aldo numera più spesso le edizioni greche rispetto a quelle latine o volgari, talvolta usa cifre arabe, talaltra romane; in alcuni casi elabora indici assai macchinosi, come quello degli Adagia di Erasmo che l’autore ritiene necessario riformulare e semplificare nelle edizioni successive, stampate a Basilea. Soltanto dal 1509 la numerazione per pagina viene inserita con regolarità, anche nei tascabili, sebbene alcune edizioni continuino a essere numerate soltanto per carta. Quello che per Aldo resta un continuo sperimentare, per i successori diventa una regola da seguire fedelmente: in tal modo è stato compiuto un ulteriore, decisivo, passo verso il libro moderno. Anche il frontespizio, sperimentato a Venezia dal tipografo tedesco Erhard Ratdolt, diventa una presenza regolare nei libri impressi nell’officina aldina.
A questo punto dovrebbe essere chiara la portata della rivoluzione manuziana e quale sia stata la sua impronta in grado di segnare per sempre il mondo del libro. In qualche modo siamo tutti figli di Aldo, anche se spesso a nostra insaputa. Nei prossimi capitoli entreremo maggiormente nei dettagli di questa rivoluzione, ma prima dobbiamo renderci conto che un cambiamento di tale portata sarebbe potuto avvenire nell’Europa del rinascimento soltanto in un luogo: Venezia.
La capitale del libro
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia e a Venezia comincia a stampare. Non conosciamo le ragioni che lo abbiano spinto né all’una né all’altra scelta, ma sappiamo benissimo che soltanto lì sarebbe potuto diventare il primo editore della storia. La Serenissima signoria è una repubblica e quindi Venezia è l’unica capitale europea priva di una corte, con tutte le sue limitazioni; inoltre è la città che trasforma il sapere in un prodotto commerciale non diverso da un sacco di pepe, come rileva acidamente un umanista che certo non la amava.
Prima della fine del XV secolo nella Dominante – così veniva chiamata la capitale dello stato veneziano – sono attivi dai 150 ai 200 torchi che stampano in quel periodo il 15 per cento dei titoli impressi nell’intera Europa (4500 su 30 mila), con tirature che variano da un centinaio alle duemila copie. La percentuale sarà destinata a salire fino ad arrivare a quasi la metà dei titoli europei. Nel sessantennio che trascorre dal 1465, anno dell’introduzione in Italia della stampa a caratteri mobili, al 1525, a Venezia si stampa la metà dei libri italiani; dal 1525 al 1550 si arriva ai tre quarti, dal 1550 al 1575 a due terzi. La crescita è talmente impetuosa da far dire a Erasmo che è più facile diventare stampatore che fornaio, ma non può mancare pure il solito lamentoso, un tipografo che se la prende per «la perfida rabia de la concorrentia consueta fra questa miserabil arte».
Vittore Branca, filologo e per tanti anni docente di letteratura italiana a Padova, scriveva che «le tipografie rendono Venezia il carrefour della cultura umanistica europea e le fanno aprire la prodigiosa “via del libro”, quasi a sostituire – almeno in parte – la ormai disastrata “via delle spezie” (fra il 1469 e il 1501 vengono impressi circa due milioni di volumi, soprattutto riguardanti le umanità)». Le quattromila edizioni di incunaboli che vedono la luce a Venezia entro la fine del XV secolo sono il doppio di quelle parigine; nel biennio 1495-1497 – ovvero quando Aldo aveva già aperto la propria tipografia – si stampano in Europa 1821 opere: 447 provengono da Venezia, mentre solo 181 da Parigi, che si colloca in questa classifica al secondo posto.
A permettere l’esplosione dell’attività editoriale è paradossalmente proprio la morte di chi ha introdotto nel 1469 la stampa a Venezia, ovvero il tedesco Giovanni da Spira (o meglio, se vogliamo rendere onore ai suoi natali, Johannes von Speyer). Un anno dopo aver stampato il secondo libro, Plinio, e mentre sta preparando il terzo, sant’Agostino, muore. Il lavoro viene terminato dal fratello Vindelino, ma scomparso Giovanni non è più valido il privilegio che gli accordava il monopolio dell’esercizio della tipografia: da quel momento in poi chiunque lo voglia può mettersi a stampare. Così accade.
Nella prima metà del Cinquecento la Dominante è sì l’indiscussa capitale europea della produzione editoriale, ma contemporaneamente anche un primario centro di consumo: possiedono libri il 15 per cento dei nuclei familiari, i due terzi del clero, il 40 per cento dei borghesi, il 23 per cento dei nobili, il 5 per cento dei popolani; vi si ritrovano alcune delle biblioteche più importanti dell’epoca: il cardinale Domenico Grimani possiede 15 mila volumi, Marin Sanudo 6500; Ermolao Barbaro, bandito da Venezia nel 1491 dopo aver accettato il patriarcato di Aquileia e morto nel 1493, aveva radunato la più ricca tra le numerose biblioteche greche. Non basta: nel 1537 Jacopo Sansovino comincia i lavori per realizzare la Pubblica libreria, ovvero la prima biblioteca statale pubblica (nel senso che viene concepita non come raccolta riservata, ma per essere usufruita dal pubblico), destinata a diventare l’attuale Marciana.
Questa esplosione dell’editoria avviene per un insieme di motivi che vanno dall’ampia liquidità finanziaria a coraggiose scelte commerciali, dalla libertà di stampa a quello che oggi chiameremmo «risorse umane». Nella seconda metà del XV secolo si liberano capitali: i patrizi smettono di investire nel commercio internazionale e si rivolgono altrove, in primo luogo all’acquisto di appezzamenti agricoli nella neoacquisita terraferma veneta, ma non disdegnano di finanziare attività produttive, e fra queste si ritrova anche l’editoria.
Stampare libri è un’impresa ad alta intensità di capitale, soprattutto a causa del notevole costo dei metalli necessari a realizzare i punzoni (acciaio) e i caratteri (lega di piombo, stagno e antimonio). I libri sono beni che viaggiano assieme agli altri lungo le direttrici commerciali che la repubblica aveva già da tempo stabilito e quei traffici sono molto intensi poiché a Venezia si stampa in una molteplicità di lingue.
Approfittando del contrasto tra la Serenissima e il pontefice, e dell’assenza per alcuni decenni dell’Inquisizione romana, le tipografie della Dominante imprimono anche libri – in anni successivi al capostipite dei Manuzio – invisi alle gerarchie ecclesiastiche: testi dei riformati tedeschi e boemi, il primo libro pornografico della storia (Pietro Aretino, Sonetti lussuriosi, 1527), il Talmud che, non a caso, sarà protagonista del primo grande rogo di libri in piazza San Marco, nell’ottobre 1553, comunicato in tempo reale a papa Giulio III dal nunzio apostolico, Lodovico Beccadelli: «Questa mattina s’è fatto un buon fuoco su la piazza di San Marco». A Venezia, infine, si ritrova al completo tutta quella che oggi si definirebbe «filiera del libro»: incisori, rilegatori, inchiostratori, torcolieri, studenti dell’università di Padova disponibili a correggere bozze e, soprattutto, si ha grande disponibilità di carta.
Per produrre carta c’è bisogno di tanta acqua dolce, corrente e pulita (altrimenti la carta vien fuori giallastra), e ovviamente non la si poteva fabbricare in città, ma lo si faceva nello stato da tera: lungo i fiumi Brenta e Piave, nonché sul lago di Garda, e quegli stessi fiumi venivano anche utilizzati come arterie di trasporto per trasferire la medesima carta che avevano contribuito a generare.
A determinare l’alta domanda di libri contribuiscono in maniera decisiva il vicino ateneo di Padova, dove i sudditi della Serenissima sono obbligati a studiare qualora vogliano laurearsi, e le due scuole pubbliche veneziane, dove si formano i giovani destinati all’amministrazione dello Stato, siano patrizi oppure appartenenti all’ordine intermedio dei cittadini, che forniva la burocrazia statale. Si tratta della scuola di San Marco, dove si approfondiscono gli studi umanistici e morali, e della scuola di Rialto, di indirizzo filosofico, naturalistico e matematico.
Gli stranieri
Nel Quattrocento il centro della vendita dei manoscritti era stato Firenze. La città toscana era anche il cuore finanziario dell’Italia rinascimentale, quindi, in teoria, ci sarebbe dovuta essere più disponibilità di capitali in riva all’Arno che sulle sponde del Canal Grande. Ma Firenze era sempre rimasta una città di fiorentini, al massimo di toscani. Venezia invece era da tempo diventata una città di stranieri. A parte i patrizi, che per forza di cose erano locali, la Dominante ospitava un gran numero di immigrati. Non a caso Girolamo Priuli, cronista dei primi anni del Cinquecento, scriveva che in piazza San Marco si vedevano i nobili incaricati del governo, mentre «tuto il resto herano forestieri et pochissimi venetiani». Persino in un mestiere tradizionale come quello del gondoliere, i veneziani assommavano appena alla metà dei nomi presenti in un elenco di fine XV secolo: gli altri barcaioli provenivano dalla terraferma (molti dalla sponda bresciana del lago di Garda) o dalla Dalmazia.
Il settore editoriale non fa eccezione: quasi tutti gli stampatori, in questo periodo, sono immigrati, sia dall’Italia – Aldo Manuzio tra loro – sia dall’estero, come il già nominato tedesco Giovanni da Spira o il francese Nicolas Jenson, che gli succede. Tra l’altro, a conferma del prestigio e dell’agiatezza che dà la professione di stampatore, Giovanni da Spira sposa madonna Paola, figlia di Antonello da Messina, che era uno dei pittori più affermati e famosi dell’epoca.
In città sono presenti comunità strutturate, alcune di queste lo sono ancora ai nostri giorni, con propri luoghi di culto e confraternite: greci, armeni, ebrei, tedeschi, dalmati. Questo significa che nella Venezia quattro-cinquecentesca si possono trovare colti madrelingua in grado di comporre e correggere testi in quasi tutti gli idiomi all’epoca più diffusi, e questo spiega perché qui si stampi il primo libro in greco (1486), in armeno (1512), in cirillico bosniaco (1512), il secondo in glagolitico, l’antico alfabeto croato (1491), il terzo libro in ceco (1506). Dai torchi veneziani escono inoltre la prima Bibbia in volgare italiano (1471), la prima Bibbia rabbinica (1517), il primo Corano in arabo (1538), la prima traduzione del Corano in italiano (1547). La città rimane per secoli il centro mondiale della stampa greca, ebraica, serba, caramanlidica (lingua turca scritta con caratteri greci, oggi scomparsa), nonché armena, in quest’ultimo caso addirittura fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica e all’indipendenza della repubblica d’Armenia, nel 1990.
Questa è la Venezia dove approda Aldo Manuzio prima di iniziare la sua avventura di stampatore. Ha scritto Cesare De Michelis, editore veneziano scomparso nel 2018: «Accadde come nei grandi romanzi d’amore: erano fatti l’uno per l’altra e si incontrarono, anche se la storia del loro rapporto è tutt’altro che idillica, anzi appassionante e ricca di colpi di scena, esaltata e disperante, in perenne tensione».
Ora facciamo gli indiscreti, e andiamo a scoprirla, quella storia d’amore.
2.
La formazione di un umanista
Bassiano è uno splendido borgo medievale del Lazio, sui monti Lepini, a un’ottantina di chilometri a sud di Roma. In quella zona transita la via Appia e oggi Bassiano si trova in provincia di Latina. Nel passato faceva però parte del ducato di Sermoneta, retto dai Caetani; Roffredo, l’ultimo discendente di quel ramo della nobile famiglia, è morto nel 1961. Bonifacio VIII, il papa scaraventato all’inferno da Dante Alighieri, era un Caetani.
Il castello dei duchi è a Sermoneta, ma d’estate i Caetani, che di loro sarebbero stati principi, se ne andavano in quel di Bassiano, e il perché è presto detto: il paese si trova a 560 metri di altitudine, tutto circondato da alture; la sera si gode un bel fresco, ma, soprattutto, sta fuori dal raggio di azione delle pericolose zanzare anofeli, portatrici di malaria. I principi non vivevano proprio in un castello, ma in un massiccio palazzone, che faceva comunque una gran figura, e oggi è sede del municipio. Proprio negli anni in cui il suo figlio più illustre, Aldo Manuzio, faceva l’editore a Venezia, Bassiano passa sotto il controllo dei Borgia per un quinquennio, dal 1499 al 1504, ma poi tornano i Caetani, che lo governano ininterrottamente fino a inizio Ottocento.
Sermoneta è pure un bel posto, la sua cattedrale romanica costituisce un autentico gioiello, ma si trova più in basso rispetto a Bassiano, 230 metri sul livello del mare, e si affaccia direttamente sulla pianura pontina. Oggi lo sguardo arriva ad abbracciare il mare, giù fino ad Anzio e Nettuno, e qualche anziano si ricorda ancora la luminosa e tersa giornata del 22 gennaio 1944, quando la superficie marina spumeggiava per le scie dei mezzi da sbarco alleati. Per secoli, però, quella piana era stata tutta palude, e d’estate le anofeli potevano raggiungere anche la coreografica Sermoneta, mentre Bassiano ne rimaneva esente.
Un tempo il portone di Palazzo Caetani costituiva l’unico accesso all’abitato di Bassiano, interamente circondato da mura trecentesche sorvegliate da dieci torrioni. Mura che sono state forate in tempi più recenti per fare spazio a tre porte cittadine. Le strade, selciate in porfido, hanno un andamento a spirale, gli edifici, oggi purtroppo in gran parte abbandonati, conservano quasi tutti l’originario aspetto medievale; alcuni stretti vicoli – il più angusto di tutti si chiama Baciadonne, un nome un programma – tagliano longitudinalmente l’abitato congiungendone i vari livelli. Da Bassiano non si scorge la pianura, mentre un fianco dell’abitato è dominato dal monte Semprevisa che, con i suoi 1536 metri, è il più alto dei Lepini.
Qui, attorno al 1450, nasce Aldo Manuzio. Una lapide indica oggi la sua casa. Peccato che sia un «tarocco»: l’edificio risale al Sei-Settecento e quindi di sicuro il futuro editore non può essere nato lì. La casa dei Manuzio quasi certamente esiste ancora, poiché il borgo è sopravvissuto intatto, ma non abbiamo idea di quale possa essere.
Sappiamo pochissimo della famiglia di Aldo e niente della sua infanzia. Un atto rogato dal notaio Antonio Tuzi il 30 dicembre 1449 ci dice che tal Paolo di Manduzio di Bassiano vende un appezzamento di terra all’ebreo Abramo di Mosè. Nel più antico manoscritto aldino che ci sia pervenuto, un documento redatto tra il 1480 e il 1486, conservato nella biblioteca Querini Stampalia di Venezia, compare la firma Aldus Manducius (nella forma al genitivo Alti Manducii). Nessun dubbio, quindi, che proprio quello fosse il cognome originario dell’umanista, che in seguito si firmerà Mannuccius, quindi Manucius (dal 1493) e infine Manutius (dal 1497). Il padre di Aldo si chiamava Antonio e aveva alcune sorelle, ma altro non ci è dato conoscere.
A Roma
Si può presumere che la famiglia fosse relativamente benestante, se aveva terreni da vendere, ma non possiamo sapere se potesse anche permettersi di mantenere agli studi un figlio a Roma, o se invece siano stati i Caetani a prendersi cura del giovane Manuzio. Il nipote Aldo junior, un secolo più tardi, ricorderà i rapporti di deferenza che legavano il nonno alla famiglia principesca e d’altra parte non era poi inusuale che i signori di un determinato luogo facessero studiare a proprie spese i ragazzini più svegli.
Sicuro, invece, che Aldo studiasse a Roma all’inizio degli anni Settanta del Quattrocento, poiché il suo insegnante Gaspare da Verona, docente di retorica alla Sapienza, si trasferisce a Viterbo nel 1474. Un altro suo maestro – è Aldo a rivelarlo in una delle prefazioni – è l’umanista Domizio Calderini, nativo di Torri del Benaco, segretario di papa Sisto IV. Curioso che entrambi i maestri romani di Aldo fossero originari del Veronese.
Calderini fa parte della cerchia del già citato cardinale Bessarione e lo accompagna in un viaggio in Francia, proprio mentre il prelato sta lavorando a un’edizione che sarà pubblicata postuma da Arnold Pannartz e Conrad Sweinheim. Due nomi celebri, questi, poiché appartengono ai chierici tedeschi – Pannartz era un praghese di lingua tedesca, Sweinheim proveniva dall’Assia – che nel 1465 avevano importato la stampa a caratteri mobili in Italia, impiantando una tipografia nel monastero benedettino di Santa Scolastica, a Subiaco, vicino a Roma. Anche Gaspare da Verona conosce l’attività dei due tipografi, visto che li nomina già nel 1467, ovvero quando erano arrivati a Subiaco da due anni soltanto.
L’introduzione della stampa in Italia faceva parlare di sé ed è probabile che a Roma la nuova attività costituisse oggetto d’attenzione e di meraviglia, ma non si sa se già in questi anni Manuzio fosse entrato in contatto con il mondo della tipografia, se avesse avuto modo di osservare le neonate edizioni a stampa, o se il suo sia stato invece un innamoramento tardivo. Aldo per molti anni rimane prima di tutto un maestro e solo in un secondo tempo diventa uno stampatore, quando, ormai quarantenne, concepisce l’attività di tipografo come mezzo per darsi i migliori strumenti di insegnamento del greco: grammatiche e testi di lettura. Non possiamo davvero capire se già una ventina di anni prima avesse intuito le potenzialità della stampa.
Non è certo nemmeno se, dopo aver appreso il latino, a Roma cominci da subito a studiare anche il greco antico, lingua che in seguito apprenderà benissimo, tanto da poterla parlare e tradurre a vista, come abbiamo già ricordato. Certamente nella città papale Manuzio stringe amicizia con l’umanista pistoiese Scipione Forteguerri, detto il Carteromaco, che diventerà un suo stretto collaboratore e al quale dedicherà un’edizione nel 1501. Lo ritroveremo, anche perché sarà uno dei fondatori dell’Accademia aldina.
Il periodo romano di Manuzio rimane molto oscuro, così come quello della sua infanzia e adolescenza. L’unica cosa certa è che dopo pochi anni se ne va. Non conosciamo esattamente né quando né perché, qualcuno ipotizza che possa aver abbandonato Roma a causa della peste del 1478, ma non c’è alcun indizio in grado di trasformare l’illazione in affermazione.
A Ferrara
In realtà Aldo si trova a Ferrara già dal 1475, ma non è possibile stabilire se si fosse trasferito o se si trattasse di una pausa temporanea dal soggiorno romano. Nella città di Ercole I d’Este, umanista e munifico mecenate del rinascimento, Manuzio apprende, o approfondisce, il greco antico con Battista Guarino, figlio di quel Guarino Veronese (ecco che torna ancora una volta Verona) che aveva imparato il greco a Costantinopoli prima della conquista ottomana del 1453 ed era stato precettore alla corte estense. L’incontro con Battista Guarino è senz’altro importante, visto che Aldo nel 1495 dedicherà l’edizione di Teocrito al suo maestro di una ventina d’anni prima. Se Manuzio fosse arrivato a Ferrara conoscendo o meno il greco rimane oggetto di disputa tra gli studiosi, mentre è sicuro che quando se ne va lo parla e lo legge fluentemente.
C’è dell’altro, in ogni caso: a Ferrara incontra un compagno di studi che gli cambierà la vita: Giovanni Pico della Mirandola. Il nobiluomo umanista, evidentemente aiutato dalla sua proverbiale memoria, padroneggia sei lingue, tra antiche e moderne, e ora si sta dedicando a perfezionare il greco. Sua sorella Caterina è moglie – e dal 1477 vedova – del signore di Carpi; nel 1484 sposerà Rodolfo Gonzaga, signore di Luzzara e figlio del marchese di Mantova (i Gonzaga diventeranno duchi soltanto nel 1530).
Ora una piccola digressione: in quest’area tra Emilia e Lombardia e nel periodo a cavallo tra XV e XVI secolo si ritrovano alcune corti medie o piccole che intrattengono relazioni strette l’una con l’altra. I Gonzaga di Mantova, i Pio di Carpi, i Pico di Mirandola, gli Este di Ferrara si imparentano fra loro e sfruttano quelle che oggi si chiamerebbero economie di scala, facendo arrivare artisti, musicisti, precettori che si spostano da una città all’altra. Aggiungiamo che Carpi e Mirandola sono signorie troppo piccole per potersi considerare del tutto sicure dalle mire dei vicini e quindi cercano di appoggiarsi agli stati più potenti e influenti.
Negli anni di cui ci stiamo occupando la potenza che stende sull’area l’ombra della propria egemonia, quella che suscita timori e apprensioni, e di conseguenza la potenza da battere, è senza dubbio la repubblica di Venezia. Non a caso, quando sarà sconfitta, il principe Alberto Pio si rivolgerà sia all’impero, sia alla Francia, sia al papato, finendo per rimetterci il trono in un gioco triangolare più grande di lui. Aldo Manuzio – lo vedremo – si muove all’interno di quest’ambito, concedendosi tutt’al più un paio di digressioni verso Milano. Di certo sviluppa una sorta di rapporto d’affetto con Ferrara (trasporto che invece mai proverà per Venezia), visto che nel suo primo testamento consiglia la giovane moglie, sposata appena un anno prima, di trovarsi un nuovo marito nella città degli Este, qualora non dovesse tornare dal viaggio. Tutto questo ci racconta tra l’altro quanto al tempo fossero considerati pericolosi i viaggi: così tanto da indurre a far testamento prima di partire.
Aggiungiamo un ulteriore elemento per comprendere meglio gli intrecci di questa zona dell’Italia rinascimentale: Alberto Pio sposa prima una Gonzaga e poi una Orsini; dalla seconda moglie ha due figlie, una delle quali, di nome Caterina come la nonna, si coniuga con un Caetani. Questo indizio ci permette di ipotizzare che sussistesse un qualche nesso tra i duchi di Sermoneta e i signori di Carpi e che, quindi, il legame di Aldo Manuzio con la piccola corte emiliana possa essere passato anche attraverso i Caetani. Non lo sappiamo, ma le relazioni tra le famiglie esistevano e quindi l’eventualità è quantomeno verosimile.
A Carpi
Caterina Pico è una donna di notevole cultura: nel corredo per le nozze con Lionello I Pio di Savoia sono presenti, oltre ai consueti gioielli, argenti e biancheria, anche codici manoscritti e testi di autori classici, come Virgilio e le epistole di Cicerone (queste ultime sono pure il primo testo stampato a Venezia, nel 1469, da Giovanni da Spira: tutto si tiene in questo scorcio del rinascimento).
Quando il principe di Carpi muore, lascia alla vedova una notevole somma affinché realizzi una biblioteca. È proprio Caterina, con ogni probabilità su consiglio del fratello Giovanni, a chiamare Aldo Manuzio perché faccia da precettore ai due figli, Alberto e Lionello, di cinque e tre anni. Un atto notarile conservato negli archivi carpigiani ci dice che l’8 marzo 1480 Aldo ottiene l’incarico di insegnamento a corte, nonché la cittadinanza con esenzione fiscale. Pochi mesi dopo, il 5 agosto, il «magistro Aldo Manutio de Bassiano» risulta proprietario di «unum caxamentum» che affaccia sull’attuale corso Cabassi (identificato nell’unico edificio gotico ancora esistente nella via, ma non si sa se in effetti sia proprio quello). In quanto precettore dei principini Aldo abita a palazzo, quindi è possibile che questa casa e un altro paio che gli sono intestate costituiscano un emolumento, sotto forma di riscossione degli affitti. Vengono assegnati a Manuzio anche alcuni campi coltivabili che andranno in eredità al figlio Paolo e saranno amministrati da Lionello Pio.
Tra Aldo e Alberto si instaura una relazione ben più solida di quella tra maestro e allievo che, lo vedremo, perdurerà fino alla scomparsa dell’editore, nel 1515. Nel primo dei cinque volumi di Aristotele che l’editore bassianese dedica al principe di Carpi (1495) fornisce al «dotto giovinetto» una sorta di vademecum: «A te infatti non manca nulla: non il talento, che possiedi in abbondanza; non l’eloquenza, di cui sei ben dotato; non i libri, né di cultura latina, né greca, né ebraica, di cui vai in cerca con una solerzia senza pari; non gli insegnanti più preparati, che tu hai assoldato senza badare a spese. Continua dunque a dedicarti, come stai facendo, alle nobili discipline: io certo, per quel che posso, non ti farò mai mancare la mia presenza».
Tali righe ci restituiscono un Manuzio attento, paterno, benevolo. È solo da dettagli come questi che possiamo cercare di ricostruire e immaginare il carattere di quest’uomo straordinario. Infatti, la rielaborazione della sua biografia, lacunosa per alcune parti della sua vita e della sua attività, è addirittura oscura per quanto riguarda gli aspetti personali. Vedremo che Erasmo ci descrive paturnie e spilorcerie del suocero, Andrea Torresani (o Torresano), ma di lui, a parte che era maniaco delle grammatiche, non ci dice nulla.
I tanti studiosi che si sono dedicati al primo editore della storia hanno provato ad azzardare qualche ipotesi, sulla base degli elementi conosciuti. Per esempio si sa dei molti amici, ai diversi livelli della scala sociale, mentre non si conoscono nemici, se non rivali editoriali, quindi si può pensare che fosse cordiale, una persona con la quale passare un po’ di tempo in piacevole compagnia. Era capace di lavorare per molte ore di seguito, applicandosi con attenzione a quel che stava facendo, probabilmente era pignolo, attento, e abile. Amava il lavoro di squadra e cercava di sollecitare in tutti i modi la collaborazione tra gli studiosi; quel che chiedeva in cambio erano manoscritti da poter stampare.
Non c’è dubbio che avesse il bernoccolo degli affari e che utilizzasse tribunali e amicizie per far valere i propri diritti, ma mai in modo violento e prevaricatore, in un’epoca che violenta e prevaricatrice lo era parecchio. Non manifesta mai l’aggressività tipica dei suoi contemporanei, anzi appare schivo e talvolta imbarazzato per la celebrità. Ci sono tuttavia da registrare alcuni litigi per questioni di denaro con collaboratori che a causa di tali liti lo abbandoneranno. Viene quindi da domandarsi se Aldo condividesse almeno in parte l’estrema taccagneria del suocero.
Andare oltre queste deduzioni, però, appare difficile. Com’era il suo rapporto con la moglie, così tanto più giovane di lui? E con i figli? Nell’ultimo testamento lascerà alle due figlie la facoltà di scegliere se maritarsi o monacarsi, ed era una concessione molto avanzata in quei tempi, ma, al di là di questo, altro non sappiamo.
Durante gli anni di Carpi Aldo Manuzio con ogni probabilità ancora non pensa alla stampa e si dedica al mestiere di precettore, che si presume gli riesca piuttosto bene: Alberto e Lionello Pio non saranno gli unici allievi con cui conserverà rapporti di affetto. Dev’essere comunque un’attività molto impegnativa, infatti si lamenta che, oppresso da incombenze di ogni genere, gli restano soltanto quattro ore al giorno per scrivere un trattato grammaticale a beneficio dei suoi allievi. Non specifica però quali siano gli altri suoi compiti, oltre all’insegnamento vero e proprio.
Uno dei pochi punti certi del soggiorno di Aldo a Carpi è che trascorre il suo tempo quasi sempre assieme ai principini e li accompagna prima a Ferrara (1481) e poi a Mirandola dallo zio Pico (1482), dopo che Venezia dichiara guerra agli Este. Conosciamo questo soggiorno, durato qualche mese, grazie a una lettera del Poliziano: Angelo Ambrogini – questo il suo nome – era il più importante grecista dell’epoca e diventerà molto amico di Manuzio; i due si scambiano una fitta corrispondenza, ma si incontreranno di persona soltanto una volta, a Venezia. È a Mirandola che Aldo rimane colpito dal greco raffinatissimo del fiorentino Poliziano, in una sua lettera che legge in compagnia dell’umanista cretese Manuel Adramitteno.
Giovanni Pico in quegli anni sta cercando di trasformare Mirandola in un centro culturale di prima grandezza e potrebbe essere che Aldo si imbatta proprio qui nell’idea di un’accademia che possa diventare luogo di scambio e discussione tra dotti conoscitori della cultura greca.
Si può presumere che Aldo abbia approfondito la propria abilità a esprimersi in greco antico nei ritrovi che i grecisti tenevano nella villa di Pico. Il tono delle sue lettere del periodo è tuttavia quello di un giovane che si sforza di ben figurare nel mondo intellettuale che lo circonda. È sopravvissuta un’unica lettera di Pico ad Aldo, in cui il signore di Mirandola esorta l’umanista a proseguire nell’indagine filosofica. Evidentemente Manuzio era anche un suo compagno di studi, oltre che un protetto.
Incerto, invece, è un possibile viaggio a Venezia di Aldo assieme ai giovani Pio (nel 1487), che potrebbe essere stato il primo contatto del futuro editore con la Serenissima. Tre anni prima Caterina si era risposata con Rodolfo Gonzaga e si ritiene che il ruolo di Aldo a corte fosse diventato con il tempo più influente rispetto a quello di semplice maestro e precettore dei figli di primo letto. Caterina avrà altri sei figli da Rodolfo. Questi rimarrà ucciso nel luglio 1495 nella battaglia di Fornovo, mentre la donna morirà nel dicembre 1501, avvelenata da una damigella che sembra si fosse innamorata di lei senza esserne corrisposta. Amore e morte in una corte del rinascimento.
Il soggiorno di Manuzio a Carpi termina tra l’autunno e l’inverno del 1489: un rogito notarile di ottobre dove Aldo di Sermoneta è indicato come precettore del principe Alberto costituisce l’ultimo atto ufficiale che ne registri la presenza.
Il rapporto con i Pio, come detto, continuerà: Aldo entra a far parte della famiglia, dal 1503 adotta il cognome Pio e dal 1506 lo userà per firmarsi. Delle dodici dediche ad Alberto abbiamo già detto, e si presume che da Carpi gli siano anche regolarmente arrivati finanziamenti. Atti ufficiali e lettere registrano le relazioni tra l’editore e Alberto III fino al 1509, ovvero fino a quando il principe si schiera con i nemici di Venezia, mentre i legami con Lionello II proseguono fino alla morte di Aldo.
Il tenore della corrispondenza dei fratelli Pio con Manuzio diverge già dal 1498: Alberto gli scrive in tono affettuoso e intimo riguardo a libri, a comuni frequentazioni culturali, a questioni che Aldo intrattiene a Carpi. Lionello, che talvolta si firma filius, si occupa invece del lato pratico dei rapporti, e risponde alle richieste di Aldo di gestire gli interessi nelle terre emiliane, come, per esempio, nel luglio 1508, quando informa l’editore di «aver avuto cura del raccolto delle sue terre e di averglielo fatto accreditare». D’altra parte Lionello ha sposato una nobile veneziana, Maria Martinengo, e quindi le connessioni tra il castello di Novi, dove la coppia risiede, e la Dominante rimangono intense. Un atto notarile del marzo 1508 registra il mandato di Lionello Pio a Manuzio per ottenere una condotta militare dalla Serenissima (condotta che però non verrà concessa).
Aldo è legalmente un membro a tutti gli effetti della famiglia Pio e ha intestate a sé numerose terre che, almeno in parte, risulteranno proprietà degli eredi ancora nel 1556. Lionello nel settembre 1498 scrive a Manuzio affermando che manterrà fede alla promessa del fratello Alberto di donargli altre terre e un castello dove installare una stamperia e l’accademia. Non è quindi casuale che Aldo scriva che userà il «bel castello» per «insediarvi un’accademia nella quale, posta fine alla barbarie, si coltivino con impegno le belle lettere e le belle arti».
La donazione del castello, tuttavia, non diventerà mai effettiva, mentre Aldo nei momenti di difficoltà, nel 1506 e nel 1510, lo reclama per potersi trasferire con famiglia e stamperia. Sono entrambi anni nei quali Manuzio è assente da Venezia; i motivi li vedremo meglio più avanti.
Il castello è stato identificato con quello di Novi dove, come detto, risiedono Lionello e la moglie e dove effettivamente viene installata una tipografia che stampa una sola edizione. Secondo una fonte settecentesca e non verificabile, Alberto III avrebbe invitato Manuzio ad allestire una tipografia, ma questi ormai si era trasferito a Venezia e avrebbe quindi declinato la richiesta del principe. Quel che è certo, invece, è che il carpigiano Benedetto Dolcibelli (o Dolcibello) del Manzo – il soprannome viene dal fatto che proveniva da una famiglia di macellai – impianta una stamperia a Carpi prima in città (1506) e poi nel castello di Novi (1508), dove stampa la suddetta unica edizione, e quindi si trasferisce a Ferrara.
Dolcibelli aveva lavorato – assieme a Giovanni Bissolo, pure lui di Carpi, e a Gabriele Braccio, di Brisighella – a Venezia nell’officina di Aldo, dove aveva imparato il mestiere. Si era però ritrovato coinvolto in una brutta storia di contraffazione dei caratteri greci aldini, che vedremo meglio nel capitolo sui falsi, e se n’era andato da Venezia assieme ai due complici continuando a stampare, dapprima a Milano e poi altrove. I documenti sopravvissuti riguardo a questa vicenda sono molto pochi e quindi la conosciamo solo a tratti. Di conseguenza non possiamo neanche sapere se nel 1506, quando Aldo va a Milano e a Mantova, ci siano stati o meno contatti tra lui e il suo ex lavorante, che in quel momento faceva il tipografo nella città dei Pio. Questo fatto comunque dimostra che Aldo si avvale della collaborazione di alcuni carpigiani al momento di aprire la sua tipografia a Venezia.
La presenza di Aldo a Carpi è eternata da un affresco nella cappella di Palazzo Pio. Molto ben conservato, opera del pittore Bernardino Loschi, sulla parete di destra raffigura una specie di gruppo di famiglia dei Pio: in primo piano il trentenne Alberto III, dalle fluenti chiome bionde, con un copricapo nero; alle spalle il padre Lionello I, che quando l’affresco viene dipinto (inizio Cinquecento) è ormai defunto da una ventina d’anni. In secondo piano il fratello più giovane, Lionello II. Davanti al principe Alberto stanno due figure vestite con un lungo abito nero e berretto dello stesso colore. Una delle due, quella più arretrata, è identificata con Aldo Manuzio, poiché si tratta di un uomo di una cinquantina d’anni, che era proprio l’età di Aldo quando l’opera è stata eseguita.
Il personaggio che è ritratto davanti, più giovane, potrebbe essere o il filosofo mantovano Pietro Pomponazzi o l’umanista cretese Marco Musuro; entrambi si trovavano a Carpi assieme a Manuzio ed erano più giovani di lui, il primo di una decina d’anni, il secondo di una ventina. Musuro, colto filologo, lo ritroveremo perché diventerà uno dei più stretti collaboratori di Aldo. L’affresco si è conservato perché dopo l’esautorazione dei Pio e il passaggio di Carpi agli Este è stato semplicemente coperto con una tenda e non distrutto, come spesso accadeva quando si voleva rimuovere la memoria dei signori spodestati.
Adesso lasciamo l’emiliana Carpi e seguiamo finalmente Aldo nella città dove cambierà la storia del libro: Venezia.
3.
Come si diventa editore
Aldo Manuzio si trasferisce a Venezia tra il 1489 e il 1490. Con ogni probabilità la sua intenzione era di continuare a insegnare, e nulla di quel che sappiamo (poco) del suo primissimo periodo nella Dominante lascia presagire che stesse già pensando di mettersi a stampare. Di conseguenza non abbiamo idea se e quanto abbia contato sulla sua scelta di spostarsi il fatto che la città all’epoca fosse l’indiscussa capitale dell’editoria. Forse quel che davvero lo attirava di Venezia era la presenza di tanti dotti umanisti, in particolar modo greci: «Venezia, città che possiamo definire la nuova Atene del nostro tempo per la presenza di moltissimi uomini dotati di eccezionale cultura», scriverà Aldo anni più tardi.
Comunque non amerà mai a fondo la città che lo ospitava, non si sentirà mai veneziano, non sarà mai animato da particolare trasporto per il luogo dove era forse arrivato perché non poteva farne a meno, e dove si è fermato perché soltanto lì poteva mettere in pratica il suo progetto editoriale. I suoi primi tempi veneziani sono contrassegnati dalla continuità dei legami con Carpi, sia per quel che fa, sia per i collaboratori che si sceglie (abbiamo già detto, e vedremo ancora, che nell’appena aperta tipografia lavorano alcuni carpigiani).
Poco dopo l’arrivo nella Serenissima signoria Aldo pubblica la sua prima opera, il Panegirico delle muse (Musarum Panegyris), un lavoro in latino che costituisce un po’ il manifesto del suo metodo di insegnamento. Per farlo si rivolge allo stampatore Battista Torti, un calabrese di Nicastro, che nel 1489 imprime il testo – più un opuscolo che un libro – formato da due componimenti in rima dedicati ad Alberto Pio nonché da una parte centrale costituita da una lettera a sua madre Caterina. Ce ne sono giunte soltanto sette copie, in Italia se ne trovano due: a Bologna e a Napoli.
Aldo osserva che latino e greco vanno insegnati assieme e non separatamente, prima il latino e poi il greco, come si usava al tempo, e insiste nel sottolineare il valore educativo della lettura dei classici in originale. Fino a quel momento era stato possibile conoscere l’antichità ellenica soltanto attraverso le traduzioni latine. Certamente si era in tal modo potuto entrare in contatto con un mondo che sarebbe stato altrimenti destinato a rimanere sconosciuto, ma nel contempo le traduzioni lo avevano alterato, distorcendolo attraverso le lenti del latino. Aldo quindi ritiene che sia necessario tornare alla fonte e leggere le opere greche direttamente in greco (pure questa una concezione sorprendentemente moderna, come si vede).
Manuzio porta con sé a Venezia il manoscritto del Panegirico: con ogni probabilità gli serviva per promuoversi e farsi conoscere come insegnante. Se era stato precettore dei principini di Carpi poteva ben diventarlo dei figli di qualche patrizio della città di San Marco. E infatti viene assunto da Pierfrancesco Barbarigo con il compito di far da maestro a Santo, suo figlio naturale. Difficilmente sarebbe potuta andargli meglio: il doge in carica, Agostino Barbarigo, è zio di Pierfrancesco, il precedente, Marco, era suo padre, e per di più il patrizio entrerà in società con Manuzio quando deciderà di aprire la stamperia.
Non dobbiamo commettere l’errore di ritenere che Aldo, maestro prima ed editore poi, pensasse a un’istruzione allargata al popolo, che immaginasse i suoi libri in mano a schiere di giovani animati dalla voglia d’imparare. Proprio no: si rivolge ai figli dei ricchi e dei molto ricchi – cioè a una fascia di popolazione che al massimo arriva al 5 per cento – e la sua idea è quella di istruire la futura classe dirigente attraverso lo studio di una lingua morta: il greco antico. Una lingua che non è possibile imparare da soli per la semplice ragione che nessuno la parla, quindi la si può apprendere soltanto a scuola. Il tutto ha poco a che fare con il valore intrinseco della letteratura classica, quanto piuttosto con un metodo: i ragazzini che crescono studiando sui medesimi libri, da adulti si capiranno meglio. Ai nostri giorni si direbbe networking, assomiglia un po’ alla «rete dei vecchi compagni di scuola» che ancora oggi unisce in Gran Bretagna la classe dirigente che ha frequentato Eton e poche altre public schools.
ALBA(CN)-Domenica 24 settembre 2023, nei luoghi più significativi per la relazione tra la narrativa fenogliana e la Resistenza albese, eravamo in tantissime e tantissimi a dare voce alle parole di Beppe.
La scelta di diventare partigiano o partigiana, le conseguenze della scelta e la volontà forte e cristallina di seguirla fino alla fine.
Grazie a chi ha partecipato, ai lettori e alle lettrici che hanno letto con passione e grazie sopra tutto a Giorgio Fontana, ai Contratto Sociale Gnu-Folk e a Alberto Visconti per averci accompagnato in questa decima maratona di letture!
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