Risvolto«C’è una grande differenza fra me e Anna Frank. Io sono sopravvissuta» – questo è il bilancio di Masha Rolnikaite. Il suo diario, che prende avvio nel 1941, è stato scritto su fogli volanti, mandato a memoria, annotato su sacchi di cemento, copiato su minuscole striscioline poi nascoste in una bottiglia – e infine trasferito, nella primavera del 1945, su carta. All’inizio, Masha è una bambina di tredici anni che assiste allo smantellamento della Vilna ebraica – la «Gerusalemme dell’Europa orientale» – e annota ogni cosa, sinché la madre, ritenendo troppo pericoloso anche solo registrare ciò che accade, glielo vieta. Del resto, a Masha e agli altri come lei sarà vietato tutto – tranne l’esecuzione di lavori sempre più brutali e avvilenti. Acquaiola in un’azienda agricola, spaccapietre nel Lager, bestia da soma in una tenuta della Pomerania, Masha non sembra tuttavia poter smettere di osservare, e raccontare, l’odio senza fine dei carnefici, la metamorfosi di civilissimi vicini di casa in spietati collaborazionisti, le connivenze e le ambiguità del Consiglio ebraico, insomma ogni anello di quella catena di orrori che, per rassicurarci, pretendiamo di conoscere bene, ma che libri come questo ci costringono invece a ripercorrere, impietriti, come per la prima volta.
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
Il “Lamento di Khajeh” (secolo XIX) è uno dei più celebri poemi popolari della Letteratura Kurda
Siyaband, bandito gentiluomo, dopo molte avventure rapisce la bellissima Khajeh, figlia del principe, che altrimenti non potrebbe sposare. I due giovani vivono felicemi per tre giorni sul monte Sipan, finchè Siyaband, andando a caccia, viene spinto da un cervo giù da un precipizio. Non teme la morte, ma piange la sorte della giovane sposa. E Khajeh si getta nel baratro, per morire abbracciata a Siyaband. è una delle leggende più popolari del folklore Kurdo.
“Lamento di Khajeh”
Siyaband, Siyaband! Non parlare. Chi avrebbe predetto una fine così triste? E non dovrei piangere, non dovrei versare lacrime calde, di sangue? Dormi, amor mio, dormi. I tuoi lamenti tristi e profondi sono lamenti di morte. Come resistere, come non piangere se i tuoi sospiri per me arrivano dritti al mio cuore? Cadono lacrime sul mio dolore. Dormi, amor mio, dormi.
Perchè piangi, Siyaband, perchè piangi ancora? Mi hai lasciato, sei corso lungo l’abisso. Sapevi che senza di te non ho protezione, sostegno. Come potrebbe la mia ferita guarire? Dormi, amor mio, dormi.
Oh Sipan, oh rocce di Sipan! Non fermatemi! Apritemi la via, portatemi da Siyaband! Oh Sipan, apri un sentiero, un passaggio, fa’ che io passi, che vada sarò di Siyaband la tomba, non solo la sposa!
Una poesia dolcemente erotica:
“Sono la rosa selvatica” (secolo XIX; qualche verso)
Sono la rosa selvatica non ancora dischiusa coperta di rugiada, tutta rorida. Se tu non mi tocchi io non fiorirò se tu non mi tocchi non esalerò il mio profumo. Sono la rosa selvatica, la rosa di montagna lontana da te… L’amore sboccia con le carezze tu, con amore, rendi morbida la terra intorno a me!
Una straziante ballata d’amore, su una donna crudele e il suo innamorato disposto al sacrificio:
“Rose di sangue” (secolo XIX)
“Guarda, c’è festa e si danza laggiù, ascolta il dahol, il flauto e lo zorna; (*) abiti variopinti, brusio di parole non manca che il frusciar della tua seta. Dammi la mano, ti prego, affrettiamoci! Corriamo alla danza, lieti del nostro amore.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare.”
“Per la tua bellezza, per la tua bellezza, per gli sguardi furtivi vicino alla sorgente: l’autunno ha già spogliato alberi e giardini. Dove trovo le rose? Ormai han le labbra chiuse.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare. Se il tuo amore fosse vero, se mi avessi dato il cuore, coglieresti le rose nel giardino del pascià.”
“Il giardino del pascià è di là del fiume, tutto circondato da sgherri assassini. Se ci vado corro mille e mille rischi, se non vado la mia diletta si offenderà.”
“Senza sosta ho cercato nel giardino del pascià, ecco le rose gialle che ho colto per te; di rose rosse, ahimè, non ne ho trovate. Verrai ora alla festa, a danzare con me?”
“Mai, se non ho rose rosse per ornarmi le chiome!”
“Non vuoi questa ferita, rossa come le rose?”
“Le armi del nemico, ahimè, ti hanno insanguinato! Vieni, appoggia il tuo capo qui sul mio seno, lascia ch’io pianga il tuo cuore amato, perso per una rosa!”
(*) Il Dahol è una specie di tamburo, lo Zorna una sorta di clarinetto.
Poesia Kurda
“La canna e il vento” di Sherko Bekas (qualche verso)
“Da quel giorno le ferite degli amanti parlano con le dita del vento e cantano, ovunque nel mondo, da quel giorno.”
Sherko Bekas fu colpito da un mandato di cattura per la sua attività poetica, si unisce ai partigiani combattenti Pesh Merga e diventa la voce della resistenza Kurda, alternando poesia e lotta armata. Nel 1987 si rifugia in Svezia, pubblicando poesie, romanzi, opere teatrali e ricevendo il premio del Pen Club svedese. Tornato nel Kurdistan liberato, diventa ministro per la Cultura della Regione autonoma del Kurdistan iracheno dalla sua fondazione (1992)
“La nostra poesia è scritta con le lacrime” di Mehmet Emin Bozarslan (qualche verso)
La fantasia tesse nuovi racconti, ricama con fili di lacrime, con colori di sangue, del sangue dei ragazzi e delle ragazze che scorre eroico sui nostri monti, su queste montagne kurde.
“Sirio” di Goran, poeta nato nel 1904 e morto, dopo persecuzioni e carcere, nel 1981. Nelle sue poesie utilizzò le forme antiche della metrica Kurda, rifiutando la metrica della poesia medio-orientale.
Il tramonto! E la memoria disperde il respiro del vento invita la mia anima scura e greve a una cerimonia di dolore.
Il mondo pacificato dal silenzio è un oceano senza confini in esso il mio pianto si alza come calda melodia.
L’oscurità ha chiuso il sipario ha velato il volto della terra immagini di desiderio indistinguibili attraverso lacrime brucianti.
Il mio cuore è spinto nel vuoto oscuro della disperazione oh se tu mi salvassi, stella – splendente Sirio!
Sirio che sorridi con le labbra rosse della prima luce tu puoi arrestare la malinconia che scorre dal mio cuore Un tuo fluido sguardo tocca il mio spirito oscuro fa che la notte che viene splenda di pietà sulla mia testa china.
Ascolta Stella dei Re; ascolta, bianca splendente Sirio! Sorgi, asciuga con i tuoi capelli le lacrime degli occhi della notte!
Ora qualche notizia storica-letteraria, tratta dalle note di Ibrahim Ahmad e Laura Schrader, in “Canti d’amore e di libertà del popolo Kurdo” (Tascabili Economici Newton)
“La poesia (…) è diventata un’arma molto efficace e forte nella lotta dei popoli per la libertà, l’autodeterminazione, la democrazia, la pace. Alcuni poeti hanno combattuto sul campo di battaglia e hanno dato la vita, come martiri. L’oppressione, la tirannia degli occupanti del Kurdistan, torturatori dei Kurdi, hanno dunque provocato una rivoluzione anche nella poesia.” (Ibrahim Ahmad)
“Per la sua posizione strategica e per le sue risorse (…) il Kurdistan è stato sottoposto a diverse dominazioni. Ma, se nelle città e presso le corti principesche i letterati – molti, non tutti – adottarono per le loro opere, nei secoli scorsi, l’arabo, il persiano, il turco, nei villaggi si sono tramandate una lingua e una poesia multiforme (…) la lingua Kurda è la lingua dell’Avesta. Alcune parole Kurde di oggi sono le stesse usate da Zardasht (Zarathustra) nelle Ghata, gli inni sacri scritti di cui rimangono pochi frammenti.”
“La poesia popolare Kurda si canta, e anche le liriche contemporanee vengono dette con voce, cadenze e tono che sono musicali (…) Il divieto islamico di far musica al di fuori del contesto religioso non ebbe alcun ascolto da parte Kurda. Fanno parte del folklore poemi epici, cavallereschi, d’amore in molte versioni, che cantano i bardi: fiabe, leggende, racconti, ballate e canti dedicati ai villaggi, alle stagioni, alla natura, all’amore.”
“Originariamente, una delle forme di poesia popolare tra le più note, il Laùk, tipico di molte aree del Kurdistan settentrionale, era composto e cantato esclusivamente dalle donne, ma non perchè fossero musiciste di mestiere. Le donne, soprattutto in occasione di fatti d’arme, cantavano le gesta del marito, del figlio, del fratello o ne celebravano il ricordo di fronte alla famiglia, al villaggio, all’assemblea della tribù. In alcuni aspetti della cultura e della lingua Kurda affiorano tracce di matriarcato, resti di una civiltà remota eppure tenace, tanto da aver resistito all’offensiva antifemminile del Corano: la donna Kurda ha mantenuto un ruolo importante, anche a capo di clan e principati in pace e in guerra, nei movimenti indipendentisti e nella resistenza. In Kurdistan, viaggiatori ed etnologi dei secoli scorsi notavano innanzitutto che le donne anzichè nascondersi sotto il velo informe in uso negli altri paesi islamici, indossavano abiti dai colori splendenti che mettono in risalto la femminilità, e che le danze popolari di donne e uomini insieme, parte integrante della vita sociale, erano motivo di scandalo per i popoli vicini.” (Laura Schrader)
Il poeta più importante della Letteratura Kurda è Ahmadi Khani (1651-1707), il “Dante Kurdo”, autore del poema epico “Mam e Zin”.
In epoca moderna i Kurdi sono stati massacrati. Leggo dalle note di Laura Schrader che:
“Fino a due anni fa in Turchia era vietato l’uso della lingua Kurda anche in privato. I familiari dei Kurdi, incarcerati e torturati anche se bambini o bambine con accuse di “separatismo”, dovevano limitarsi a guardare in silenzio, piangendo, i loro parenti nelle ore di visita, non conoscendo altra lingua che il Kurdo per comunicare con loro.”
Così Hejar ha espresso in versi la disperazione del suo popolo nella sua poesia “Il nostro destino”:
“Ai nostri oppressori, tutta la ricchezza del petrolio. A noi, neppure quel poco che serve per alimentare la lampada nelle nostre notti oscure. Gli stranieri del nostro paese si sono ingozzati, saziati del nostro patire. E noi, poveri, infelici, miserabili trasciniamo brevi esistenze di terrore. Vietata a noi la lingua materna. Vietato a noi respirare. Massacrati i nostri giovani, a migliaia e migliaia. Desiderare la libertà, chiedere la libertà è diventato un crimine per noi, i Kurdi.”
Il poeta Khabat, parlando dei bombardamenti iracheni con armi chimiche nel 1988 sulla città Kurda di Halabja, poi distrutta con la dinamite:
“Era pomeriggio. Nubi grevi di morte scendono sulla città 18 minuti terremoto paura, silenzio. Corpi rossi di sangue ritagliano aiuole di fiori.”
(da “La canzone della città uccisa”)
“L’Est” è l’espressione usata in Turchia per indicare il Kurdistan, parola che fino a due anni fa era vietato pronunciare.
Il poeta Cahit Külebi così ricorda, nei suoi versi:
“Nero sangue inonda le notti trascina morte, trascina disperazione. […] Un sorso di agonia dalla mano di chi amate è tutto quello che aveste da bere, e che berrete. Questo è l’Est. Negli occhi, sguardo di agnelli al macello.”
e il poeta Latif :
“Il cibo diventa sangue nel corpo”
e Ferhad Shakely :
“Lentamente vagano le ore nel buio di strade, vicoli, mercati trascinando dolore, tristezza ore impiccate agli alberi e ai muri gente trafitta dalle lance della sventura. Il tempo, qui, è una macchina e la manovra la polizia.”
(“Kamishli”, città del Kurdistan, in Siria)
“A sera, quando la luce lascia le fradice tristi finestre della tua stanza ti siedi, specchiandoti nel vetro scuro, annebbiato contando una a una le gocce di pioggia che battono sulle fradice tristi finestre della tua stanza. Guardi lontano. Il cielo è come un manto scuro indistinto; su di esso, neppure un fiore (…) Acuisci lo sguardo e ti accorgi che la terra si è fatta velo rosso sangue. (…) Tu sai che in questa notte tutti i tuoi sogni saranno impiccati alle forche di questa città. (…) Scorgo un barlume di luce e lo chiamo Kurdistan. O Kurdistan! Culla di lacrime, di gloria e d’amore! Terra sanguinante di sangue, suolo ferito dalle ferite. Paese addolorato dal dolore. Siedo alla finestra della notte e osservo gli infiniti percorsi dell’oscurità. (…) Il mio cuore vorrebbe come una nuvola gonfia sciogliersi in pioggia sulle vette rosate confondendosi nel crepuscolo.”
(“Kurdistan, la terra sanguinante”)
Chi volesse sentire una band Metal Kurda: Ferec (caricati su YouTube)
Roma-Artisti a Villa Borghese-Ciclo di incontri su Arte e Natura-
Roma Villa Borghese -La Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali propone un ciclo di incontri ARTISTI A VILLA BORGHESE, ospitati in due luoghi evocativi all’interno del parco pubblico più noto della città: il Casino dell’Orologio – Salone del Pergolato e il Museo Carlo Bilotti – Aranciera a Villa Borghese. Il programma di incontri si focalizzerà sulla cultura artistica contemporanea, con particolare riferimento al patrimonio artistico e naturalistico delle Ville storiche urbane, punto cardine dell’opera di tutela e valorizzazione della Sovrintendenza Capitolina.
Roma-Artisti a Villa BorgheseRoma- Villa Borghese
Fra i temi dominanti delle società e delle culture occidentali del XXI secolo vi è senza ombra di dubbio quello dell’Ambiente, sempre più associato ai rischi del pianeta in era di climate change. Un tema civile, sociale e politico che nel microcosmo dell’arte ha una lunga tradizione riassumibile nel binomio di Arte e Natura.
Gli artisti invitati, partendo dal tema Arte e Natura, tramite i loro linguaggi, estetiche, stili e personalità, proporranno una nuova chiave di lettura, promozione e diffusione del patrimonio artistico, storico e naturalistico delle Ville storiche, attraverso uno sguardo “altro”. Quello appunto dell’arte.
Un’ottica culturale “insolita”, diversa, “altra” appunto, con l’artista che è invitato a interagire, a dialogare e a confrontarsi con studiosi, scienziati e critici d’arte, su diversi piani comunicativi come interviste, video-installazioni, slide-show, art action e readings.
Roma- Villa Borghese
Il programma di sette incontri, a cura di Claudio Crescentini, è il seguente:
CAROLINA LOMBARDI, giovedì 27 giugno, Museo Carlo Bilotti all’Aranciera di Villa Borghese. Artista e poetessa, ha al suo attivo una lunga esperienza in fatto di sperimentazioni artistiche e mixed media, data anche dalla sua formazione legata alla conservazione e allo studio delle materie. Fra arte, natura e scienza, si dedica da diversi anni anche a iniziative di sensibilizzazione ambientale.
LINA PASSALACQUA, venerdì 5 luglio, Casino dell’Orologio di Villa Borghese, Salone del Pergolato. Pittrice conosciuta come “L’ultima futurista”, rappresenta una delle figure femminili legate al futurismo degli epigoni, per i suoi continuativi rapporti con il “Futurismo Oggi”, fondato da Enzo Benedetto nel 1967, e con il pittore Antonio Marasco e il critico Mario Verdone.
VINCENZO SCOLAMIERO, giovedì 11 luglio, Casino dell’Orologio di Villa Borghese, Salone del Pergolato. Pittore e docente presso il Dipartimento di Arti Visive dell’Accademia di Belle Arti di Roma, si occupa dagli anni Ottanta di elaborazioni visive in simbiosi con gli elementi naturali, sperimentando anche le interconnessioni con il suono e la musica.
LUCA PADRONI, venerdì 20 settembre, Museo Carlo Bilotti all’Aranciera di Villa Borghese. Artista che vive e lavora a Roma ma di formazione internazionale, fin dall’inizio della sua attività pittorica sceglie di lavorare su larga scala, sviluppando un fascino speciale per la natura e il mondo animale inserito in un contesto incantato seppur determinato dal disagio sociale della natura violata.
LUCILLA CATANIA, venerdì 27 settembre, Casino dell’Orologio di Villa Borghese, Salone del Pergolato. Lucilla Catania si forma a Roma, dove si diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti con Emilio Greco. La sua opera è animata dal desiderio di restituire una centralità alla scultura con in più una connotazione sociale, recuperando il rapporto tra arte, natura e territorio.
GIUSEPPE SALVATORI, venerdì 11 ottobre, Casino dell’Orologio di Villa Borghese, Salone del Pergolato. Uno degli esponenti di spicco del ritorno alla pittura figurativa alla fine degli anni Settanta, la sua ricerca espressiva nasce da una rivisitazione dell’arte italiana del primo quarantennio del Novecento, riagganciandosi in special modo alla Metafisica, rielaborata per mezzo di un linguaggio fortemente contemporaneo.
ALBERTO DI FABIO, venerdì 25 ottobre, Casino dell’Orologio di Villa Borghese, Salone del Pergolato. La sua pittura tra ispirazione dal cosmo e dagli elementi che compongono il mondo della natura. Su tale scia nel 2014, tiene una conferenza e una mostra personale di respiro internazionale presso il CERN di Ginevra.
Gli incontri si terranno in orario pomeridiano (tra le 17:30 e le 19:00), con ingresso libero fino a esaurimento posti.
Il nome della villa deriva dalla prima residenza del Cardinal Scipione Borghese, il “Casino Nobile”, fatto edificare all’inizio del Seicento su progetto di Flaminio Ponzio e di Giovanni Vasanzio e trasformato nel Novecento in museo, una delle più prestigiose raccolte di opere d’arte dal XVI al XVIII secolo, con capolavori di artisti quali Raffaello, Tiziano, Caravaggio, Bernini e Canova.
Villa Borghese ospita numerosi edifici storici coevi, quali il Casino del Graziano, il Casino Giustiniani, l’Uccelliera e la Meridiana con i meravigliosi giardini segreti, ripristinati secondo l’originario assetto seicentesco; accoglie numerosi edifici neoclassici e ottocenteschi quali il Casino dell’Orologio, la Fortezzuola, l’ampio Giardino del Lago, ridisegnato e realizzato nel 1786 da Antonio Asprucci, caratterizzato da un romantico isolotto artificiale su cui domina il Tempietto di Esculapio, raggiungibile anche con brevi escursioni in barca. La Villa è dotata di strutture per il tempo libero, il gioco, e la diffusione culturale: il Museo Canonica, casa-studio dall’artista Pietro Canonica, il Casino di Raffaello con una ludoteca per bimbi, la Casina delle Rose con la Casa del Cinema, l’eclettico giardino zoologico recentemente convertito in Bioparco, l’Aranciera trasformata nel nuovo Museo Carlo Bilotti con opere di arte contemporanea. In prossimità di Piazza di Siena, è stato allestito un ampio padiglione teatrale a pianta circolare, il Globe Theater, su modello dei teatri elisabettiani, associato alla programmazione shakespeariana.
Il Parco di Villa Borghese occupa una vasta area nel cuore della città, compresa tra il tratto delle Mura Aureliane che unisce Porta Pinciana a Piazzale Flaminio, ed i nuovi quartieri Salario e Pinciano sorti nei primi anni del Novecento.
È tra le ville romane una delle più ricche di testimonianze artistiche e paesaggistiche. Al suo interno racchiude edifici, sculture, monumenti e fontane, opera di illustri artisti dell’arte barocca, neoclassica ed eclettica, contornati da alberi secolari, laghetti, giardini all’italiana e grandi spazi liberi. Comprende una gran quantità di specie sempreverdi, tra cui lecci e platani (alcuni risalenti al primitivo impianto), pini domestici con esemplari bicentenari, abeti, cedri. Tra gli arbusti sono comuni l’alloro e il bosso.
Per la sua incredibile concentrazione di musei e istituti culturali, la villa è definita “Parco dei Musei”.
Descritta nelle guide della città di tutte le epoche, ritratta da artisti famosi, ispiratrice di celebri musiche e di intense pagine di letteratura, Villa Borghese lascia trasparire ancora oggi, negli scorci inattesi del suo parco, lo splendore di un tempo.
La villa nel Seicento
La realizzazione della Villa Pinciana fu avviata nel 1606 dal cardinale Scipione Caffarelli Borghese (1576-1633), nipote prediletto di Paolo V (1605-21), con l’acquisto di numerose vigne limitrofe a quella che era, già dal 1580, una proprietà della famiglia, nell’attuale area di piazza di Siena. Gli acquisti si susseguirono a ritmo incalzante fino al 1609, occupando una vasta area lungo la via Pinciana e, parallelamente, iniziarono i lavori di costruzione del Casino Nobile e di armonizzazione e unificazione dei vari appezzamenti mediante la creazione di viali, la recinzione della proprietà e lo spianamento delle irregolarità del terreno. La direzione di questa impresa fu affidata all’architetto Flaminio Ponzio (1560-1613) e, alla sua morte, quando gli successe Giovanni Vasanzio, l’opera era a buon punto. L’incarico a Vasanzio coincise con un’ulteriore estensione della villa che incluse le aree oggi corrispondenti alla Valle dei Platani e al Bioparco, permettendo la creazione di un vasto “barco” per la caccia. Con la morte dello zio pontefice avvenuta nel 1621 il ruolo del cardinal Scipione si ridimensionò, continuando tuttavia a occuparsi della sua villa, accrescendo le sue collezioni, anche se in modo più discreto, e assicurando una continua e accurata manutenzione del parco, dei preziosi giardini e degli arredi. Alla morte di Scipione nel 1633 la villa era ormai completata da diversi anni e aveva assunto l’aspetto che avrebbe conservato in gran parte fino alla fine del secolo successivo. Il Casino Nobile, sede delle opere di maggior pregio della collezione, era caratterizzato da prospetti talmente ricchi di decorazioni scultoree da subire critiche per l’eccessiva ridondanza. Accanto ad esso vi erano gli edifici minori, le numerose fontane, e un parco raffinatissimo diviso in “pars urbana” e “pars rustica”, caratterizzato dall’accostamento di giardini raffinati e organizzati secondo schemi formali e geometrici alle vaste estensioni della campagna destinate alla caccia dall’assetto rustico e naturale. La vasta area, che raggiunse gli ottanta ettari, era infatti divisa in tre parti distinte, delimitate da recinzioni in muratura e accessibili mediante portali o cancelli, denominate, nelle descrizioni dell’epoca, “recinti”. Il primo recinto corrispondeva alla porzione di parco di fronte al Casino Nobile, il secondo corrispondeva all’attuale Parco dei Daini; il terzo, chiamato Barco, comprendeva tutta la rimanente area da Piazza di Siena fino alla vasta estensione oggi occupata dal Bioparco.
La villa tra Settecento e Ottocento
La villa fu mantenuta e curata senza subire sostanziali modifiche fino al 1766, quando il principe Marcantonio IV (1730-1800) intraprese consistenti lavori di trasformazione che interessarono i principali edifici, in particolare il Casino nobile ed il Casino dei Giuochi d’acqua (attuale Aranciera), ed in modo sostanziale il parco. L’intervento di maggiore rilievo fu la realizzazione del Giardino del Lago, nella zona denominata “piano dei licini”(lecci) e di piazza di Siena nell’area occupata dalla grande ragnaia seicentesca. Marcantonio si avvalse dell’opera degli architetti Antonio e Mario Asprucci e di numerosi artisti, giardinieri, paessagisti.
Preziosi arredi ornarono i giardini: fontane e piccole fabbriche, quali la Mostra dell’Aqua Felix, la fontana dei Cavalli Marini, il Tempio di Diana, il Tempio di Antonino e Faustina e il Tempio di Esculapio dotarono il parco di nuovi e suggestivi scorci prospettici.
La villa nell’Ottocento
Alla morte di Marcantonio IV gli successe il figlio Camillo (1775-1832), controverso personaggio noto per il suo sfortunato matrimonio con Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone. Camillo seppe dare alla magnificenza della Villa un notevole contributo. Avviò infatti l’ampliamento della proprietà, impegno continuato alla sua morte dal fratello Francesco (1776-1839), che si concretizzò con nuove importanti acquisizioni, Villa Giustiniani verso Porta del Popolo e le Ville già Pamphili e Manfroni verso Porta Pinciana. A partire dagli anni venti Camillo affidò i lavori di armonizzazione delle nuove proprietà all’architetto Luigi Canina che diede alla Villa un nuovo assetto formale, con numerose piccole fabbriche di ispirazione eclettica e neoclassica. Nel corso dell’Ottocento la Villa fu teatro di spettacolari manifestazioni, quali l’ascensione aerostatica a piazza di Siena, e di feste popolari, con canti e balli, immortalate da numerosi quadri ed incisioni. L’accoglienza dei principi Borghese era ben nota al popolo romano, la villa veniva infatti aperta al passeggio festivo, nel rispetto di una tradizione che si è mantenuta fino ai nostri giorni. Dalla seconda metà del secolo, dopo gli ingenti lavori di ricostruzione promossi dal principe Marcantonio V, furono previsti ingressi a pagamento per gli svaghi offerti al pubblico: un piccolo serraglio al Giardino del Lago, il velodromo a Piazza di Siena, gite in barca sul lago, tiro al piccione al Parco dei Daini, un ristorante al Casino dell’Orologio e latte e panna con cialde alla Vaccheria Bernardini, l’odierna Casina delle Rose.
La villa nel Novecento
Dopo l’Unità d’Italia si aprì il contenzioso tra la famiglia Borghese e lo Stato italiano sul possesso della Villa e al termine di una lunga controversia legale, lo Stato italiano acquistò nel 1901 l’intero complesso monumentale. Nel 1903 il Parco fu ceduto al Comune di Roma e aperto al pubblico. Nell’atto di cessione lo Stato mantenne la proprietà del Casino nobile e della ricca collezione artistica in esso contenuta, per trasformarlo in pubblico museo.
Nel 1908 venne realizzato il cavalcavia di collegamento con il Pincio e nel 1911 nella zona del terzo recinto venne inaugurato il nuovo Giardino. Nel 1911 fu aperto il nuovo ingresso verso Valle Giulia, che collegava la villa alla nuova viabilità realizzata per i nascenti quartieri Parioli e Flaminio, e fu realizzata la grande scalinata di accesso a piazzale Firdousi. Altri ingressi furono aperti al fronte dell’attuale via Rossini, e sull’attuale via Raimondi. Fin dal 1904, nei viali della villa vennero collocati monumenti celebrativi dedicati ad illustri letterati o eroi stranieri, dono delle proprie nazioni alla città di Roma, come ad esempio quelli dedicati a Goethe, Victor Hugo, Byron, Umberto I e Firdousi che inaugurarono una tradizione ancor oggi viva. All’interno del Parco dei Daini nel 1925 fu costruito il Serbatoio dell’Acqua Marcia, a servizio dei nuovi quartieri residenziali sorti a ridosso della Villa.
Nel periodo settembre 2013-aprile 2014 sono stati realizzati lavori di manutenzione straordinaria per il risanamento del bacino del laghetto del Giardino del Lago e interventi di manutenzione del tempio di Esculapio.
Nel luglio del 2015 è stato inaugurato, nei locali della parte inferiore del Museo Pietro Canonica, il “Deposito delle sculture di Villa Borghese”, un nuovo spazio espositivo che ospita circa ottanta opere provenienti in gran parte dalla collezione Borghese e poste in origine nei piazzali e nei viali della villa a decoro delle architetture, delle fontane e degli arredi.
Villa Borghese tra storia, tradizioni e aneddoti
Sull’app di Spreaker sono disponibili una serie di brevi podcast associati ai pannelli informativi presenti in ogni angolo della villa e accessibili attraverso un QR code. Brevi racconti sull’angolo di Villa Borghese nel quale ci si trova in quel momento, ma fruibili anche da un altro luogo, per ricordare e conoscere meglio angoli della villa già visitati o preparare un futuro viaggio tra i viali e la storia di Villa Borghese.
Erich Fried nato a Vienna nel 1921, nel 1938 lasciò l’Austria e si trasferì a London. Tra i suoi volumi di poesia: Germania (Deutschland, 1944), Contestazioni (Anfechtungen, 1967), Cento poesie senza patria (100 Gedichte ohne Vaterland, 1978). Tra i romanzi e racconti: Figli e pazzi (Kinder und Narren, 1957), Un soldato e una ragazza (Ein Soldat und ein Mädchen, 1960), Quasi tutto il possibile (Fast alles Mögliche, 1975). Nei suoi testi la sperimentazione formale si unisce all’impegno politico.
50
Scarna povertà, fradicia povertà,
coi calzoni laceri al cavallo e al ginocchio.
Si scalda le mani su cocenti infamie,
chiama il destino Lui e Loro
e si delizia con cose dai nomi duri:
stracci e piedi, cibo e mani –
non t’ingozzare, che non ce n’è più!
Fradicia povertà, oscena povertà,
ronza con spietata fedeltà
come legno marcio con accenno di orifizio,
umido giornale ficcato nei vuoti dell’artifizio,
e ci disgusta fino alla feroce lealtà.
Non è mai colpa di quelli che ami:
la povertà discende dai cieli.
Lascia che balli su sedie, che sfondi la porta,
sorge da tutto quello che è venuto prima,
e ogni outsider è il nemico –
il bastone di Cristo rovesciò tutto questo
cavalieri e filosofi rimisero tutto a posto.
Oscena povertà, scarna povertà,
croste tra le gambe e piaghe tra i capelli
una finestra fatta d’aria è pulita,
non l’argento sporco di una manica.
Bada se ciò faccia bene alla scuola
e debba andare e desideri andare:
qualcuno, un giorno, dovrà pagare.
Raditi con il sapone, corri alla carne,
stupisci la nazione, governa l’esercito,
aspetti ancora il giorno in cui sarai rispedito
dove libri o giocattoli sono rifiuti sul pavimento
e nessuno ha il permesso di venire a giocare
perché la tua casa si chiama baracca
e l’acqua calda sfrigola nel piatto sporco di latta.
Traduzione di Roberto Cogo e Graziella Isgrò
Poesia n. 181 Marzo 2004
Les Murray. Poesie del vuoto falciato
A cura di Paolo Ruffilli
15
Ed è chiaro che, alla fine, lei è caduta giù
dalla luna, non come una
snella Cinzia a Delfi, dopotutto
non è diciassettenne, ma con la grazia
sensuale e l’implacabilità personale
di una dea dei nostri tempi; così lui dice a
se stesso di notte vedendo il bagliore
del sonno di lei nella metà (due-terzi a rigore)
del loro letto, il claire de lune della spalla
e della fronte dietro le nuvole scure
dei capelli. Lui beve il suo vino
e ingoia più pillole. Gli uccelli
cantano la loro prima mattinata, piccoli cinguettii e
frinire di insetti, e fuori la prima luce
vela la finestra. Il giorno sarà orribile,
nervoso, cupo e pieno di tensione. L’ultima
sigaretta, il sorso finale di chardonnay,
e si stringe contro il caldo bagliore di lei,
pensando a quando dodicenne
nuotava nel caldo laghetto oltre
gli olmi e gli alberi di noce al limite
del prato. Si rigirava come una carpa assonnata
tra le ninfee, sotto le libellule
e le nuvole roventi dei vecchi giorni d’estate.
Traduzione di Fiorenza Mormile
Poesia n. 323 Febbraio 2017
Hayden Carruth. Il primato dell’etica
a cura di Fiorenza Mormile
Erich Fried
Neve in ufficio
Jürgen Theobaldy
Una certa nostalgia di palme. Qui
è freddo, ma non soltanto. I tuoi baci
al mattino sono pochi, poi sto seduto
otto ore qui in ufficio. Anche tu sei
una reclusa e non possiamo
telefonarci. Alzare il ricevitore
e origliare? Telefono, perché il tuo
polso batte solo per altri? Qualcuno chiede:
“Come stai?”, e senza attendere risposta
è già fuori dalla stanza.
Che cosa può muovere l’amore? Io calcolo
i prezzi e vengo calcolato. Tutti i pezzi di ricambio,
le parti di caldaia, i bruciatori a olio, tutti passano
per la mia testa come numeri, nient’altro.
E anch’io passo attraverso qualcuno
come un numero. Ma alla sera vengo da te
con tutto quello che sono. Scienziati
scrivono che anche l’amore è
una relazione produttiva. E dove sono
le palme? Le palme si mostrano sulla spiaggia
di una cartolina illustrata; e noi, supini,
le contempliamo. Al mattino ritorniamo
in ufficio, ognuno al suo posto.
Con un numero, come il telefono. Traduzione di Gio Batta Bucciol
Poesia n. 285 Settembre 2013 Jürgen Theobaldy La neve e le palme
a cura di Gio Battta Bucciol
Fondazione Poesia Onlus 2013
Erich Fried
Thomas Bernhard 18
Le parole – bambine piccole, molestano, fanno male,
se le accarezzi ridono, poi subito si ostinano,
han fretta di dir tutto, s’imbrogliano, sanno amare,
diventan grido, tacciono, nascostamente svelano.
Le parole – bambine piccole, a volte si ribellano,
sanno dire le lacrime, il riso sanno scrivere.
Agnelle si sacrificano, belve nella passione,
ansiose di dipingere l’intero mondo azzurro.
Le parole – bambine piccole. Flessuosi corpicini
che agguerriti si levano, mettono le ali, volano.
Sognano, si spaventano, si alleano, si separano,
animelle cui è stato dato di avere sempre sete.
Le parole – bambine piccole. Bianco per loro il tempo,
pagine su cui scrivere, vele che il vento gonfia
per fare viaggi nella gioia, far viaggi nel dolore.
L’amore sa trasformare in sacro la tempesta.
Traduzione di Nicola Crocetti
Poesia n. 298 Novembre 2014 Pandelìs Bukalas. Dal Mito alla Storia
a cura di Massimo Cazzulo e Nicola Crocetti
Poesia notturna
(…)
In un vestito di fiamme che rotolano nel cielo è così
che mi sentii la notte che mi disse
che aveva un’amante e con timido orgoglio
tirò fuori una foto.
Non posso vederne la faccia ho detto con rabbia,
buttandola a terra. Mi ha guardata.
Eravamo alla finestra (di un ristorante) in alto sulla
strada,
sposati da poco più di un anno.
Un lavoro veloce dissi io. Sarai maligna disse lui.
Ruppi il vetro e saltai.
Adesso certo sai
che non è questa la verità, ciò che si ruppe non era vetro,
ciò che cadde a terra non era corpo.
Tuttavia quando ricordo quella conversazione questo è
ciò che vedo – me stessa come il pilota di un caccia
che si salva sul canale. Me stessa come preda.
Oh no non siamo nemici disse lui. Ti amo! Vi amo
entrambe.
Non sembra il Signor Rochester che digrigna i denti e dice
in meno di due minuti con il suo strisciante verde sibilo
la gelosia può divorarci fino al cuore, una formula che
gli si presenta
mentre sedeva nel muschio e nell’ambra
del suo balcone parigino
e guardava la sua bella da operetta al braccio di un
cavaliere sconosciuto?
Rimanere umani è rompere un limite.
Partenza
Le nubi persero ogni ritegno
accorse in volo il vento piú disperato
e tentò di sospingere
in alto le ciocche d’acqua
su di loro scivolai in basso
la tua mano per sempre
tra collo e guancia
Traduzione di Riccarda Novello
Christoph Wilhelm Aigner Prova di stelle
a cura di Riccarda Novello
Crocetti Editore 2001
Poesia d’amore per la libertà e poesia di libertà per l’amore
Mattino infine: là nella neve le tue
lievi impronte d’arrivo e di ritorno.
Null’altro ci ha lasciato la notte di visibile,
non la candela, il vino bevuto a metà,
né il tocco della gioia; soltanto questo segno
della tua vita che alla mia cammina.
Finché la pioggia le cancelli, e resti
la verità cui ci svegliò il mattino;
felicità o dolore non sappiamo.
Traduzione di Silvio Raffo
Poesia n. 294 Giugno 2014 Philip Larkin. Lettere dall’esilio
a cura di Silvio Raffo
Come ti si dovrebbe baciare
Quando ti bacio non è solo la tua bocca non è solo il tuo ombelico non è solo il tuo grembo che bacio. Io bacio anche le tue domande e i tuoi desideri bacio il tuo riflettere i tuoi dubbi e il tuo coraggio il tuo amore per me e la tua libertà da me il tuo piede che è giunto qui e che di nuovo se ne va io bacio te così come sei e come sarai domani e oltre e quando il mio tempo sarà trascorso.
Erich Fried
Quel che è
È assurdo dice la ragione È quel che è dice l’amore
È infelicità dice il calcolo Non è altro che dolore dice la paura È vano dice il giudizio È quel che è dice l’amore.
Chi ha nostalgia di te quando io ho nostalgia di te?
Chi ti accarezza quando la mia mano ti cerca?
Sono io o sono i resti della mia gioventù?
Sono io o sono gli inizi della mia vecchiaia?
È il mio coraggio di vivere o la mia paura di morire?
E perché la mia nostalgia dovrebbe dirti qualcosa?
E che cosa ti dà la mia esperienza che mi ha solo reso triste?
E che cosa ti dànno le mie poesie in cui dico soltanto
come è diventato difficile essere o dare?
Eppure brilla nel giardino il sole nel vento prima della pioggia
e profuma l’erba che muore e il ligustro
e io ti guardo e la mia mano tastando ti cerca.
Che cosa sei per me? Che cosa sono per me le tue dita e che cosa le tue labbra? Che cos’è per me il suono della tua voce? Che cos’è per me il tuo odore prima del nostro abbraccio e il tuo profumo nel nostro abbraccio e dopo?
Che cosa sei per me? Che cosa sono per te? Che cosa sono?
Erich Fried
Breve biografia di Erich Fried nato a Vienna nel 1921, nel 1938 lasciò l’Austria e si trasferì a London.Tra i suoi volumi di poesia: Germania (Deutschland, 1944), Contestazioni (Anfechtungen, 1967), Cento poesie senza patria (100 Gedichte ohne Vaterland, 1978). Tra i romanzi e racconti: Figli e pazzi (Kinder und Narren, 1957), Un soldato e una ragazza (Ein Soldat und ein Mädchen, 1960), Quasi tutto il possibile (Fast alles Mögliche, 1975). Nei suoi testi la sperimentazione formale si unisce all’impegno politico.
Descrizione-Di Louisa May Alcott si sa quel poco che le alette dei suoi romanzi ci concedono: che è l’autrice di Piccole donne e dei suoi seguiti, e che ha conosciuto in vita un successo destinato a durare come autrice di libri per ragazzi, anzi, per ragazze. Ma come è arrivata a scrivere la storia di una famiglia che assomiglia tanto alla sua? E da quale vena narrativa sgorgano le altre sue opere, decine e decine di racconti gotici “di sangue e tuono”, romanzi audaci e romanzi commerciali, qualcuno firmato, altri pubblicati anonimi o sotto pseudonimo?
Louisa May Alcott
Ripercorrere la sua vita è viaggiare in un mondo complicato, ricco di opportunità per le giovani donne ma sempre pronto a richiamarle all’ordine, per scoprire una ragazza fuori moda che sognava di essere se stessa ed è diventata “una sorta di tata letteraria che produce pappetta morale per i piccoli”. Una ragazza forte per forza, cresciuta in una casa povera di oggetti e ricca di ideali, diventata una donna lavoratrice per pagare conti e debiti altrui. In questo la storia di Alcott assomiglia a quella di tante altre scrittrici celebri, sempre in bilico tra necessità e libertà, e qualche volta si intreccia con la loro.
Louisa’s family experienced financial hardship, and while Louisa took on various jobs to help support the family from an early age, she also sought to earn money by writing. In the 1860s she began to achieve critical success for her writing with the publication of Hospital Sketches, a book based on her service as a nurse in the American Civil War. Early in her career, she sometimes used pen names such as A. M. Barnard, under which she wrote lurid short stories and sensation novels for adults. Little Women was one of her first successful novels and has been adapted for film and television. It is loosely based on Louisa’s childhood experiences with her three sisters, Abigail May Alcott Nieriker, Elizabeth Sewall Alcott, and Anna Alcott Pratt.
Louisa was an abolitionist and a feminist and remained unmarried throughout her life. She also spent her life active in reform movements such as temperance and women’s suffrage. During the last eight years of her life she raised the daughter of her deceased sister. She died from a stroke in Boston on March 6, 1888, just two days after her father’s death and was buried in Sleepy Hollow Cemetery. Louisa May Alcott has been the subject of numerous biographies, novels, and a documentary, and has influenced other writers and public figures such as Ursula K. Le Guin and Theodore Roosevelt.
Early life
Birth and early childhood
Louisa May Alcott at age 20
Louisa May Alcott was born on November 29, 1832, in Germantown,[1] now part of Philadelphia, Pennsylvania. Her parents were transcendentalist and educator Amos Bronson Alcott and social worker Abigail May.[2] Louisa was the second of four daughters, with Anna as the eldest and Elizabeth and May as the youngest.[3] Louisa was named after her mother’s sister, Louisa May Greele, who had died four years earlier.[4] After Louisa’s birth, Bronson kept a record of her development, noting her strong will,[5] which she may have inherited from her mother’s May side of the family.[6] He described her as “fit for the scuffle of things”.[7]
The family moved to Boston in 1834,[8] where Louisa’s father established the experimental Temple School[9] and met with other transcendentalists such as Ralph Waldo Emerson and Henry David Thoreau.[10] Bronson participated in child-care but often failed to provide income, creating conflict in the family.[11] At home and in school he taught morals and improvement, while Abigail emphasized imagination and supported Alcott’s writing at home.[12] Writing helped her handle her emotions.[13] Louisa was often tended by her father’s friend Elizabeth Peabody,[14] and later she frequently visited Temple School during the day.[15]
Louisa kept a journal from an early age. Bronson and Abigail often read it and left short messages for her on her pillow.[16] She was a tomboy who preferred boys’ games[17] and preferred to be friends with boys or other tomboys.[18] She wanted to play sports with the boys at school but was not allowed to.[19]
Alcott was primarily educated by her father, who established a strict schedule and believed in “the sweetness of self-denial.”[20] When Louisa was still too young to attend school, Bronson taught her the alphabet by forming the letter shapes with his body and having her repeat their names.[21] For a time she was educated by Sophia Foord,[22] whom she would later eulogize.[23] She was also instructed in biology and Native American history by Thoreau, who was a naturalist,[24] while Emerson mentored her in literature.[25] Louisa had a particular fondness for Thoreau and Emerson; as a young girl, they were both “sources of romantic fantasies for her.”[26] Her favorite authors included Harriet Beecher Stowe, Sir Walter Scott, Fredericka Bremer, Thomas Carlyle, Nathaniel Hawthorne, Goethe, and John Milton, Friedrich Schiller, and Germaine de Staele.[27]
In 1840, after several setbacks with Temple School and a brief stay in Scituate,[28] the Alcotts moved to Hosmer Cottage in Concord.[29] Emerson, who had convinced Bronson to move his family to Concord, paid rent for the family,[30] who were often in need of financial help.[31] While living there, Alcott and her sisters befriended the Hosmer, Goodwin, Emerson, Hawthorne, and Channing children, who lived nearby.[32] The Hosmer and Alcott children put on plays and often included other children.[33] Louisa and Anna also attended school at the Concord Academy, though for a time Louisa attended a school for younger children held at the Emerson house.[34] At eight years-old, Louisa wrote her first poem, “To the First Robin”. When she showed the poem to her mother, Abigail was pleased.[35]
In October 1842 Bronson returned from a visit to schools in England[36] and brought Charles Lane and Henry Wright with him[37] to live at Hosmer Cottage, while Bronson and Lane made plans to establish a “New Eden”.[38] The children’s education was undertaken by Lane, who implemented a strict schedule. Louisa disliked Lane and found the new living arrangements difficult.[39]
In 1843 Bronson and Lane established Fruitlands, a utopian community,[40] in Harvard, Massachusetts, where the family were to live.[41] Louisa later described these early years in a newspaper sketch titled “Transcendental Wild Oats”, reprinted in Silver Pitchers (1876), which relates the family’s experiment in “plain living and high thinking” at Fruitlands.[42] There, Louisa enjoyed running outdoors and found happiness in writing poetry about her family, elves, and spirits. She later reflected with distaste on the amount of work she had to do outside of her lessons.[43] She also enjoyed playing with Lane’s son William and often put on fairy-tale plays or performances of Charles Dickens‘s stories.[44] She read works by Dickens, Plutarch, Lord Byron, Maria Edgeworth, and Oliver Goldsmith.[45]
During the demise of Fruitlands, the Alcotts discussed whether or not the family should separate. Louisa recorded this in her journal and expressed her unhappiness should they separate.[46] After the collapse of Fruitlands in early 1844, the family rented in nearby Still River,[47] where Louisa attended public school and wrote and directed plays that her sisters and friends performed.[48]
In April 1845 the family returned to Concord, where they bought a home they called Hillside with money Abigail inherited from her father.[49] Here, Louisa and her sister Anna attended a school run by John Hosmer after a period of home education.[50] The family again lived near the Emersons, and Louisa was granted open access to the Emerson library, where she read Carlyle, Dante, Shakespeare, and Goethe.[51] In the summer of 1848 sixteen-year-old Louisa opened a school of twenty students in a barn near Hillside. Her students consisted of the Emerson, Channing, and Alcott children.[52]
The two oldest Alcott girls continued acting in plays written by Louisa. While Anna preferred portraying calm characters, Louisa preferred the roles of villains, knights, and sorcerers. These plays later inspired Comic Tragedies (1893).[53] The family struggled without income beyond the girls’ sewing and teaching. Eventually, some friends arranged a job for Abigail[54] and three years after moving into Hillside, the family moved to Boston. Hillside was sold to Nathaniel Hawthorne in 1852.[55] Louisa described the three years she spent at Concord as a child as the “happiest of her life.”[56]
Boston
When the Alcott family moved to South End, Boston in 1848,[57] Louisa had work as a teacher, seamstress, governess, domestic helper, and laundress, to earn money for the family.[58] Together, Louisa and her sister taught a school in Boston,[59] though Louisa disliked teaching.[60] Her sisters also supported the family by working as seamstresses, while their mother took on social work among the Irish immigrants. Elizabeth and May were able to attend public school, though Elizabeth later left school to undertake the housekeeping.[61] Due to financial pressures, writing became a creative and emotional outlet for Louisa.[62] In 1849 she created a family newspaper, the Olive Leaf, named after the local Olive Branch. The family newspaper included stories, poems, articles, and housekeeping advice.[63] It was later renamed to The Portfolio.[64] She also wrote her first novel, The Inheritance, which was published posthumously and based on Jane Eyre.[65] Louisa, who was driven to escape poverty, wrote, “I wish I was rich, I was good, and we were all a happy family this day.”[66]
Early adulthood
Life in Dedham
Abigail ran an intelligence office to help the destitute find employment.[67] When James Richardson came to Abigail in the winter of 1851 seeking a companion for his frail sister and elderly father who would also be willing to do light housekeeping,[68] Louisa volunteered to serve in the house filled with books, music, artwork, and good company on Highland Avenue.[69] Louisa may have imagined the experience as something akin to being a heroine in a Gothic novel, as Richardson described their home in a letter as stately but decrepit.[69]
Louisa May Alcott
Richardson’s sister, Elizabeth, was 40 years old and suffered from neuralgia.[70] She was shy and did not seem to have much use for Louisa.[69] Instead, Richardson spent hours reading her poetry and sharing his philosophical ideas with her.[71] She reminded Richardson that she was hired to be Elizabeth’s companion and expressed that she was tired of listening to his “philosophical, metaphysical, and sentimental rubbish.”[69] Richardson’s response was to assign her more laborious duties, including chopping wood, scrubbing the floors, shoveling snow, drawing water from the well, and blacking his boots.[72]
Louisa quit after seven weeks, when neither of the two girls her mother sent to replace her decided to take the job.[69] As she walked from Richardson’s home to Dedham station, she opened the envelope he handed her with her pay.[69] One account states that she was so unsatisfied with the four dollars she found inside that she mailed the money back to him in contempt.[69] Another account states that Bronson may have returned the money himself and rebuked Richardson.[73] Louisa later wrote a slightly fictionalized account of her time in Dedham titled “How I Went Into Service”, which she submitted to Boston publisher James T. Fields.[74] Fields rejected the piece, telling Louisa that she had no future as a writer.[74]
Autrice Beatrice Masini è nata a Milano, dove lavora nell’editoria.Giornalista al Giornale e poi alla Voce, editor, traduttrice, scrive per bambini e per adulti. I suoi libri per ragazzi (albi, racconti, romanzi) sono tradotti in una ventina di lingue. Bambini nel bosco (Fanucci, 2010) è stato il primo libro per ragazzi ad essere selezionato per il Premio Strega. Con Tentativi di botanica degli affetti (Bompiani, 2013) ha vinto il premio Selezione Campiello, il premio Viadana, il premio Alessandro Manzoni.
Louisa May AlcottLouisa May AlcottLouisa May Alcott
Pola vuole Dante Alighieri. Ma Dante pose lì il confine dell’Italia-
Pola, città oggi non Italiana, vuole Dante Alighieri. Ma Dante pose lì il confine dell’Italia – Si parla sempre di difendere i confini degli altri, mentre qualcuno vorrebbe cancellare i nostri, o quelli che rimangono ancora.
Non si parla mai di ciò che avviene o è avvenuto ieri dei Nostri confini, spesso ceduti per qualche spicciolo o… Svenduti ceduti, regalati in maniera tacita e silenziosa, spesso all’oscuro degli stessi Italiani, per evitare …
Così come, scusate il raffronto, sembra avvenire oggi con le Aziende Italiane, oggi scomparse o in mano a stati esteri.
E’ in questa ottica che rileviamo ciò che scrive la Pregiatissima “Accademia di Alta Cultura” a firma del Suo Presidente Giuseppe Bellantonio, che riproponiamo a seguire, per evidenziare una “strana” richiesta del Vicesindaco di Pola.
La richiesta del busto di Dante Alighieri, portato da Pola a Venezia, dove oggi è esposto all’Arsenale, da chi fu costretto a fuggire dalla città Italiana.
Pola, citta brutalmente strappata, insieme ad altre città e territori, all’Italia ed agli Italiani, tra Foibe, persecuzioni criminali ad opera dei comunisti Titini, attentato nella spiaggia di Vergarolla dove si è compiuto un ed r massacro con il più alto numero di morti mai avvenuto nella storia della Repubblica Italiana, e dove tantissimi i bambini furono polverizzati per te t cui si è persa ogni traccia.
Noi lo abbiamo ricordato recentemente, anche se le istituzioni, troppo spesso, dimenticano, con la complicità di tanti Media che tacciono o… negano.
Dante Alighieri
Non vogliamo entrare nel merito della questione, ma solo ricordare, in questa tg fase, che riportare a Pola il busto originale di Dante Alighieri, sarebbe un vergognoso affronto verso tutti quegli italiani cacciati brutalmente da quella città e che con grande rischio hanno voluto togliere il Busto di chi nel tempo indicava il limite dei confini Italiani già nel Suor tempo, quando scrisse la Divina Commedia.
Affronto contro chi ha difeso l’Italia ed i suoi confini, sentendosi appartenente all’Italia, quindi Italiano, Nazario Sauro, che ben spiega la Sua appartenenza all’Italia nella lettera al Figlio scritta in punto di morte, o Cesare Battisti….
Affronto di tutti gli Italiani che sono stati vilmente, brutalmente infoibati.
Affronto di tutte le donne che sono state brutalizzate, violentate, ed uccise o buttate nelle foibe…
Affronto di tutta quella popolazione costretta ad esulare e disperdersi nel mondo, dopo una vera e propria “Pulizia Etnica” perpetrata nel silenzio delle blateranti Organizzazioni Internazionali e di una ignobile complicità dei Governi Nazionali ancora ad oggi.
Affronto a quegli Italiani cacciati dagli stessi Italiani a Bologna 18 febbraio 1947. “L’orologio segnava le 12 e l’altoparlante annunciava l’entrata in stazione di un treno pieno di profughi istriani, giuliani e dalmati… Molti di loro sono donne e vecchi, ma ci sono anche tanti bambini…. “
Tratto da :“Il treno della VERGOGNA” di cui pochi sanno…
E, potremmo continuare.
Ci chiediamo quindi perché dovremmo concedere ciò che è Italiano?
Facciano pure un calco del busto, ma che non sia l’originale.
Il popolo Italiano ha già dato tanto, derubato o svenduto che sia.
Ieri la Corsica, poi Nizza ecc. ceduti, attraverso trattati, per pochi spiccioli a causa di debiti…. poi, dopo la seconda guerra mondiale, L’Istria, la Dalmazia, e Fiume.
Oggi la Francia pretenderebbe il Monte Bianco, e la Svizzera Campione d’Italia?
Ricordiamo, tornando alla storia dell’area di Pola:
L’accordo di Osimo (in francese Traité d’Osimo; in inglese Treaty of Osimo; in serbo-croato Osimski ugovor) è un accordo, siglato a Osimo il 10 novembre 1975 tra i ministri degli affari esteri di Jugoslavia e Italia.
Il trattato di Osimo fu il primo accordo internazionale i cui negoziati per l’Italia non vennero curati dal Ministero degli affari esteri. Le trattative furono condotte deliberatamente in maniera riservata.
Fu ratificato dall’Italia il 14 marzo 1977 (legge n. 73/77) ed entrò in vigore l’11 ottobre 1977
Una vicenda di sangue Italiano, con migliaia di morti, feriti e deportati, ad oggi non si conoscono le cifre ufficiali, contrattati estorti, imposti, e… dove ancora, pur ratificati, non trovano riscontro ed applicazione per gli Italiani, dovrebbe finire a “Tarallucci e Vino” con l’ennesima remissione dell’Italia, e degli Italiani?
Ettore Lembo
“Perché usare l’Italianissimo simbolo di Dante Alighieri per “strane” rivendicazioni?”
“Una notizia apparsa sui mezzi di informazione alla vigilia di Ferragosto, riportava – cito testualmente dallo ‘strillo’ – “L’accorato appello di Bruno Cergnul, vicesindaco di Pola, di riavere il busto di Dante apposto sulla facciata dell’Arsenale…” di Venezia
Lo dico con franchezza, la notizia – ufficiale e riconducibile a una ‘accorata’ esternazione di un vicesindaco la cui origine è certamente italiana, e che in loco rappresenta proprio le sensibilità e le possibili istanze della minoranza Italiana di Pola – ha suscitato in me una certa curiosità ma anche sorpresa e meraviglia.
Ammetto che – per rinfrescare la memoria – sono riandato indietro all’immediatezza di un dopoguerra più che sfortunato per le popolazioni Italiane di Nord-Est, e in particolar modo quelle di Istriani, Fiumani e Dalmati, ricche di amor patrio e di un forte radicamento alle tradizioni, ai ricordi, alle fatiche, spese per generazioni nel segno di una schietta italianità. Eh sì! Perché è impossibile non ricordare che proprio quelle terre – e come non ricordare anche le questioni e le tensioni legate alle nostre amate e italianissime città di Trento e Trieste – costituirono momento di vero e proprio cruento baratto tra gli Alleati vincitori della II° Guerra Mondiale e il tetro regime che in Jugoslavia era sottoposto a Josip Tito e ai suoi esecutori, qual era Milovan Dilas. Come non ricordare la vera e propria persecuzione etnica che subirono pesantemente e drammaticamente gli Italiani che risiedevano in quelle terre, e i cui uomini avevano versato il loro sangue per l’Italia: come non ricordare il cruento, canagliesco, sterminio – il numero degli Italiani allora uccisi pecca tuttora per difetto – degli Italiani di tutte le età infoibati per mano di bande e militari Jugoslavi, uccisi sì per feroce odio etnico ma anche per derubare quella povera gente di terre, case e beni personali, costringendola all’esilio. Bande cui si unirono, con pari efferatezza, anche miserabili, infami, Italiani: altrettanto violenti, ladri e sanguinari, che forti della forza delle armi e vantando spesso la loro dichiarata appartenenza a bande pseudo-partigiane, saccheggiavano, stupravano ferocemente, uccidevano senza pietà, anche consumando vendette per antiche invidie o rancori prescindendo così da altre motivazioni di tipo etnico e/o politico.
Nel rispolverare vecchi testi, ho ritrovato il Trattato Dini-Granic – “Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica di Croazia concernente i diritti delle Minoranze; Zagabria, 5 novembre 1996” – che all’Art. 3 recita “Tenendo conto dei documenti internazionali rilevanti accennati nel preambolo, la Repubblica di Croazia, nell’ambito del suo territorio, si impegna ad accordare alla minoranza italiana l’uniformità di trattamento nel proprio ordinamento giuridico al più alto livello acquisito; questa unitarietà può essere acquisita attraverso l’estensione graduale del trattamento accordato alla minoranza italiana nella ex zona ‘b’ sul territorio della repubblica di Croazia tradizionalmente abitato dalla minoranza italiana e dai suoi membri”.
Leggendone, mi è sorta una domanda: l’esternazione con toni ‘accorati’ di Bruno Cergnul, vicesindaco di Pola, intesa a ottenere in restituzione’ del busto di Dante, allora portato in Italia dai profughi e oggi collocato in una nicchia sulla facciata dell’Arsenale a Venezia, al pari di ogni azione della vita quotidiana, ha delle motivazioni: ma di quale tipo? Credo poco a una boutade personale: quindi, l’antico quesito cui prodest si pone, proprio per voler risalire alle pulsioni che possano aver mosso il vicesindaco Cergnul a formulare la particolare richiesta, fors’anche potenziale causa del possibile rinfocolarsi di polemiche e idonea a riaccendendo dolori mai sopiti.
Lo ha fatto per motivazioni squisitamente di tipo ‘culturale’? Come “stava qui” e “qui“ deve tornare? Voglia cortesemente chiarirlo.
Lo ha fatto per motivazioni ideologiche, fors’anche di segno politico, personali e/o collettive? Anche in questo caso, voglia cortesemente chiarirlo.
Lo ha fatto per una motivazione di tipo sociale, o per captare la possibile benevolenza di una qualche ‘parte’? Sia cortese nel chiarirlo.
In ogni caso, di norma, per aderire a una qualsiasi richiesta, è buona norma verificarne lo spessore e le reali motivazioni che possano rendere il richiedente credibile e meritevole di attenzione, piuttosto che i contenuti della richiesta stessa; nel particolare, una tematica fatta di pesi e contrappesi: impossibili da ignorare.
Proprio riandando all’Art.3 sopra menzionato è notorio – e il vicesindaco, proprio perché rappresentante in loco della minoranza italiana, non può non sapere – che proprio alcune parti essenziali dello stesso siano tuttora disattese, e non certo da parte Italiana.
Ad esempio sono cadute nel vuoto le richieste di parte Italiana di dar luogo a una doppia toponomastica tanto negli atti istituzionali che nelle cartine; l’utilizzo anche della lingua Italiana nelle indicazioni descrittive dei luoghi di interesse turistico e naturalistico; l’applicazione della legge croata che stabilisce ‘Il diritto all’educazione e istruzione nella Lingua e nella scrittura delle minoranze nazionali nella Repubblica di Croazia’, come pure per quanto riguarda l’applicazione concreta delle ‘modello C’, ovverosia ‘l’insegnamento viene svolto in Lingua croata, ma un monte ore che può variare da due a cinque ore settimanali viene dedicato all’insegnamento della Lingua e della cultura della minoranza nazionale nello specifico Lingua e letteratura, geografia, storia, arte musicale, arte figurativa’, che – è di tutta evidenza – includa l’utilizzo e il rispetto della lingua italiana (cfr. Fiume 6-1-2017, comunicaz. della Unione Italiana dal titolo ‘Il diritto all’educazione e istruzione nella Lingua e nella scrittura delle minoranze nazionali nella Repubblica Croazia’; cfr. intervento 7-12-2016 del Presidente della ‘Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati’, dr. Antonio Ballarin, nel corso delle cerimonie per la ‘Celebrazione dei 25 anni dell’Unione Italiana ed i 20 anni del Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica di Croazia concernente i diritti minoritari’).
Quindi, parlando un linguaggio piano e rispettoso verso il vicesindaco, chiederei se sia per lui ‘normale’ o meno formulare richieste pretendendone attenzione e soddisfazione, mentre da controparte Croata molte e più serie inadempienze di Atti ufficiali, formali e istituzionali, restano irrisolte: nonostante il trascorrere del tempo.
E ancora: se i profughi Italiani nell’abbandonare le loro case e le loro cose, ritennero di portare con sé ‘quel’ busto di Dante fu perché esso era testimonianza di cultura, patria e di libertà, Italiane: in esso fu anche riposto simbolicamente lo stesso affetto che si rivolge a un familiare, a un parente, trasmettendolo di mano in mano mettendolo così in salvo da mani diversamente degne. Proprio la raffigurazione di Dante Alighieri, tra i massimi rappresentanti della Cultura e della Storia Italiane, che non si poteva lasciare nelle mani di chi tale Storia, tale Cultura, tale respiro antico, non rispettava e anzi offendeva e combatteva aspramente. E ritengo che queste considerazioni – proprio alla luce delle motivazioni relative alla perdurante e tenace in applicazione di parte delle intese istituzionali tra Italia e Croazia – abbiano mantenuto la propria attualità.
La stessa impossibilità si riverbera sul rilascio di una eventuale copia proprio di ‘quel’ busto di Dante. Dall’originale dovrebbe ricavarsi un calco da poter lavorare: ma il calco, a contatto con l’originale, ne trarrebbe un quid di immateriale ma esistente: un pezzo dello spirito di quella scultura, se vogliamo. Uno spirito meno peregrino di ciò che possa sembrare. La scultura in questione, così come ogni opera d’Arte, ha in sé la scintilla creativa dell’Artista che la concepì, e tale scintilla permea la scultura stessa. L’Artista in questione fu lo scultore – ma anche pittore, deputato, Direttore e Professore presso il Regio Istituto di Belle Arti di Roma – Ettore Ferrari: lo stesso dalle cui mani capaci ebbe vita anche la Statua di Giordano Bruno, collocata tuttora a Campo de’ Fiori, a Roma. Ferrari – i cui valori erano e sono ben noti, essendo stati improntati nel segno degli Ideali di Tolleranza, Libertà e Fraternità – realizzò per la Città di Pola, un busto dedicato a Dante Alighieri, dando così testimonianza e corpo ancorché simbolico ad alcuni celebri versi danteschi “Sì come a Pola presso del Quarnaro / Che Italia chiude e i suoi termini bagna.”. (cfr. Inferno, Canto IX, versi 113, 114).
Certamente, anche l’Artista non avrebbe accettato né gradito – né lo farebbe ora – che la sua opera, con tutto ciò che in essa fosse ed è tuttora riposto e rappresentato, non fosse più nelle mani di coloro cui essa era stata solennemente destinata e quindi consegnata: autentici Italiani, dignitosi e di forte personalità, e non certo gente da ‘poco’. Opera Italiana, di uno scultore Italiano, fatta per la comunità di Italiani residenti allora a Pola, rappresentante anche un Autore e una Cultura unicamente Italiani.
Egregio vicesindaco, se permette un sommesso e rispettoso suggerimento; se proprio dovesse accontentarsi di un calco, ma non di ‘quel’ calco, non è meglio comprare un oggetto similare da qualche parte in uno dei negozi lì presenti? Potrà così dire ‘è mio’, è ‘nostro’, anche con enfasi: lo avrà acquistato con i suoi mezzi, e sarebbe veramente e totalmente ‘suo’. E se lo volesse potrà ancor più adoperarsi, con l’usuale vigore che le gocce di sangue Italiano che scorrono nelle sue vene certamente le danno, a far sì che proprio la minoranza italiana presente a Pola, possa lì godere appieno dei propri diritti.
E ciò con buona pace di Dante Alighieri, di Ettore Ferrari e delle sensibilità, affatto irrilevanti, di quanti allora subirono offese e violenze inenarrabili, e che dovettero abbandonare terre, case e oggetti di famiglia, ma che non vollero abbandonare il loro simbolo di cultura e italianità, in territorio e in mani non italiane, fors’anche insanguinate.”
Accademia di Alta Cultura Il Presidente Giuseppe Bellantonio
Festival dannunziano a Pescara, le diverse sfaccettature del Vate
Festival dannunziano a Pescara, le diverse sfaccettature del Vate nei cinque appuntamenti di Ianieri edizioni – Cinque sono gli appuntamenti previsti dalla casa editrice Ianieri all’interno del “Festival Dannunziano” che si protrarrà fino a domenica 8 settembre a Pescara: il festival è un evento culturale annuale che si svolge nel capoluogo adriatico ed è dedicato alla celebrazione dell’eredità letteraria e artistica di Gabriele d’Annunzio.
Festival dannunziano a Pescara
La kermesse comprende una vasta gamma di attività tra cui concerti, spettacoli teatrali, convegni letterari, e mostre d’arte, mirati a esplorare e onorare le diverse sfaccettature del lavoro e della vita di d’Annunzio.
In più di 20 anni di attività, la Ianieri Edizioni, ha dedicato molto spazio alla figura del Vate: ad oggi ci sono due collane dannunziane in casa Ianieri ed oltre 50 volumi a tema tra i Saggi e Carteggi dannunziani.
Questi gli appuntamenti all’interno del Festival: oggi lunedì 2 settembre presso sala d’Annunzio dell’Aurum alle ore 17.00 ci sarà la presentazione del libro “Il Vate e l’architettura – Gabriele d’Annunzio tra estetismo ed eclettismo”, insieme all’autore Raffaele Giannantonio, Professore di Storia dell’Architettura dell’Università d’Annunzio Chieti – Pescara interverrà Claudio Varagnoli, Professore di Restaura presso la medesima università e lo scrittore e saggista Paolo Lagazzi. Qui vi si raccontano sostanzialmente sei tappe di un appassionante viaggio a tema nell’opera dannunziana e, con essa, nella storia dell’architettura, a cominciare dalla «magnanimità severa» del dorico greco e del Partenone che «candido e augusto, armonioso come una musica», «alto biancheggia sulle ionie pile», e romana, che occupa, come quella veneziana, molte pagine del narratore, del poeta e del drammaturgo, con frequenti riferimenti alla prediletta architettura medievale, non esclusa quella abruzzese, fino alla nuove espressioni architettoniche del primo Novecento.
Martedì 3 settembre alle ore 18.00 presso sala d’Annunzio dell’Aurum ci sarà la presentazione di “Cordialissimi nemici” di Angelo Piero Cappello che dialogherà con Andrea Lombardinilo: il volume nasce dall’invito a condurre una pubblica lezione-spettacolo su uno o due capolavori letterari che hanno caratterizzato il dibattito nel corso del Novecento e che, in qualche modo, abbiano ancora la possibilità di far indagare i grandi temi universali. “Coerentemente con un lungo percorso di ricerca personale, quindi, – spiega l’autore – mi sono sentito di proporre una lezione su di un testo classico della letteratura contemporanea sul quale già molti anni prima avevo avuto occasione di scrivere: Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello. Tuttavia, avendo scoperto, e non senza sorpresa, che le ultime pagine di quel grande romanzo scritto dall’astioso Professor Pirandello, che tanto odiava il suo rivale in arte Gabriele d’Annunzio, nascevano invece da una attenta lettura di uno scritto poco conosciuto di quest’ultimo, non ho potuto fare a meno di spostare l’asse della mia “lezione” dalla ri-lettura del romanzo al quadro esistenziale che ha reso opposti ed opponibili i due grandi scrittori”. Pirandello, pur dicendo di odiare quello «spregevole uomo» che sosteneva fosse d’Annunzio, si ritrovò alla fine a stimarne a tal punto l’arte da lasciarsene ispirare in una delle più famose pagine del suo romanzo più bello.
Mercoledì 4 settembre alle ore 19.00 a Pescara sul Trabocco del Salvamento ci sarà la presentazione del libro “Un telegramma è una cosa viva. Telegrammi inediti della Duse a d’Annunzio (1896-1923)” di Franca Minnucci: dopo i saluti dell’Assessore alla Cultura Maria Rita Carota, l’autrice dialogherà con Franco Di Tizio; le musiche (al violino) sono di Francesco Mongia. I telegrammi sono 825: per commentare tali telegrammi, Franca Minnucci si è avvalsa dei giornali dell’epoca e dei numerosi carteggi che fanno riferimento al suo rapporto col Poeta. Partendo, quindi, dalle notizie provenienti dalle precedenti pubblicazioni, contestualizzando per quanto possibile i messaggi telegrafici, ha dato alle stampe questo lavoro che si occupa dei rapporti tra la Duse e d’Annunzio durante gli anni della loro relazione, nel periodo del distacco e infine, della riconciliazione dopo diciotto anni. Questo libro non solo aggiunge un altro importante tassello alla conoscenza del rapporto tra i due artisti, ma è uno strumento indispensabile ai biografi sia di d’Annunzio e sia della Duse, poiché, tenuto conto che entrambi erano restii a datare le lettere, i telegrammi sono indispensabili per ricostruire le varie tappe della loro vita.
Sabato 7 settembre alle ore 18.00 presso la Sala d’Annunzio dell’Aurum ci sarà la presentazione del libro “Il debutto della Figlia di Iorio negli Archivi del Vittoriale” di Raffaella Canovi, introduce Emanuela Borgatta. Il 2 marzo 1904 debuttava la “Figlia di Iorio”. Il volume ne celebra i 120 anni attraverso l’analisi degli articoli conservati presso il Vittoriale degli Italiani: si trattano la genesi, le vicende, la prima e le successive repliche e trasposizioni, senza tralasciare la vicenda legata alla fine del rapporto artistico-sentimentale fra Gabriele d’Annunzio ed Eleonora Duse.
Domenica 8 settembre alle ore 18.00 presso la Sala d’Annunzio dell’Aurum invece ci sarà la presentazione di “D’Annunzio e lo sport” di Elisa Di Rofi in dialogo con Emilio Limone. Gabriele d’Annunzio non è stato solo un grande poeta e romanziere, né soltanto l’eroe di guerra e il Vate della più grande Italia ma con la sua figura è stato anche un uomo d’azione quando dal poeta si aspettavano solo bei versi. Non si è risparmiato in nulla. Non nella fatica del vivere inimitabile, non nell’esercizio del suo corpo, non nella creazione di versi e prose, non nella guerra, non nell’amore. E di questa fatica costante, di questa tenacia, del suo sorriso irresistibile, della sua immacolata pazzia di druido, lo studio di Elisa Di Rofi dà ampia testimonianza.
Questo saggio consegna un ritratto vivissimo, guizzante di un d’Annunzio sempre pronto ad auscultare i minimi sobbalzi della società, ad intercettarli: ogni sport non gli è estraneo, egli tutto sperimenta in prima persona, così come dalla sua penna nascono le prime testimonianze del giornalismo sportivo in Italia.
Dall’introduzione di Nadia Fusini.Un anno con Virginia Woolf: «L’idea è questa: svegliarsi ogni mattina, in compagnia di Virginia Woolf. Per un anno intero, farsi accompagnare nella giornata che si apre dalla sua voce. Giorno dopo giorno, provate a sfogliare questo libro come fosse un breviario, un libro dei giorni, se non delle ore. Una liturgia dei giorni scanditi come nei libri delle ore del passato, che guidavano la mente a concentrarsi su immagini e pensieri che l’arricchivano, e la preparavano all’incontro con la vita quotidiana… Tutti noi, lettori e lettrici di Virginia Woolf, se leggiamo i suoi romanzi, i suoi racconti, i saggi, le lettere, il diario, è perché godiamo del ristoro che ci viene dall’essere in compagnia con la sua mente. Perché Virginia Woolf ha vissuto, come tutti noi, una vita ricca di gioie, e anche di dolore… Scopriremo così, frequentandola per l’appunto quotidianamente, una compagna di vita libera, e coraggiosa. E se spesso le capitava, come le capitò, di finire in vicoli ciechi, erano strade che cercava – molte delle quali ha lasciato aperte per noi. E sono certa, non ho dubbio alcuno, che ci verrà del bene a convivere per un anno, fianco a fianco con una creatura che non ha mai ceduto, in cambio di sicurezza, o di identità, il suo grande amore per un’esistenza libera».
Londra- Per la prima volta nella storia, una donna dirigerà la National Portrait Gallery: è Victoria Siddall
Londra-Per la prima volta nella sua storia, la National Portrait Gallery sarà diretta da una donna: Victoria Siddall, classe 1977, già direttrice di Frieze, è infatti la nuova direttrice del museo di Londra.
Per la prima volta nella sua storia, la National Portrait Gallery di Londra sarà diretta da una donna: la nuova direttrice del museo inglese è infatti Victoria Siddall, nominata ieri dal Board of Trustees dell’istituto. La nuova direttrice assumerà l’incarico nell’autunno del 2024. Siddall ha una lunga esperienza alla guida di istituti nel mondo dell’arte, sia nel pubblico sia nel privato: tra le sue ultime esperienze si può annoverare il suol ruolo di co-fondatrice, tra il 2020 e il 2021, di Gallery Climate Coalition e Murmur, due associazioni che promuovono la responsabilità nei confronti dell’ambiente nel settore dell’arte e della musica. Inoltre, ha lavorato negli ultimi due anni in un altro importante museo londinese, la Tate. È stata inoltre direttrice globale di Frieze, con lei è stata fondata la fiera Frieze Masters e ha quindi guidato le fiere di Freize a Londra, New York e Los Angeles e ha lanciato quella di Seul. È stata anche trustee della National Portrait Gallery, tra il luglio del 2023 e l’agosto del 2024.
Victoria Siddall
Siddall, classe 1977, si è laureata all’Università di Bristol, in Letteratura Inglese e Filosofia. Dopo aver cominciato la sua carriera da Christie’s nel 2000, ha raggiunto Frieze nel 2004 dove dapprima ha lavorato come responsabile dello sviluppo, dopodiché nel 2012 ha lanciato Frieze Masters e ha ricoperto il ruolo di direttrice della prima edizione della fiera. Nel 2015 è diventata direttrice globale delle fiere di Frieze a Londra e New York. Nel 2019 ha seguito lo sviluppo di Frieze Los Angeles ai Paramount Studios e nel gennaio 2021 è diventata Board Director di Frieze: in questa posizione si è occupata del lancio di Frieze Seul. Parallelamente, è stata nel consiglio di Studio Voltaire, una delle più importanti gallerie senza scopo di lucro di Londra, che ogni anno organizza un programma pubblico di mostre e spettacoli. Ha ricoperto anche il ruolo di presidente del Board of Trustees di Studio Voltaire. Nel 2021 ha lanciato il progetto Artists for ClientEarth che ha raccolto 6,5 milioni di dollari grazie alle donazioni di lavori, poi venduti, di artisti come Cecily Brown, Rashid Johnson, Antony Gormley e Beatriz Milhazes. Come direttrice e fondatrice di Murmur, ha seguito lo sviluppo e il fundraising per la nuova associazione, raccogliendo oltre un milione di sterline da organizzazioni d’arte e di musica. Siddall è la tredicesima direttrice della storia dell’istituto e succede a Nicholas Cullinan, che ha lasciato la National Portrait Gallery per andare a dirigere, lo scorso giugno, il British Museum, dopo aver diretto per tredici anni il museo dei ritratti. Nel frattempo il museo è stato diretto ad interim da Michael Elliott.
“Sono lieto di dare il benvenuto a Victoria Siddall come nuova direttrice della National Portrait Gallery”, ha detto David Ross, presidente del Board of Trustees del museo. “La sua forza come leader culturale è considerevole, così come la sua conoscenza del mondo dell’arte, la sua comprensione del pubblico e il suo profilo internazionale. So che lei ha la visione e la determinazione per continuare a rafforzare i nostri recenti successi e per guidare la prossima fase dello sviluppo della Galleria, e non vedo l’ora di lavorare con lei”.
“Sono davvero onorata di avere l’opportunità di guidare la National Portrait Gallery”, dice Victoria Siddall, “un museo che conserva la più grande collezione al mondo di ritratti ed è unica nel suo essere sulle persone e per le persone. L’arte racchiusa tra le sue pareti racconta storie di conquiste dell’umanità e di ciò che ci unisce come società, ispirando e formando la nostra visione del mondo e il nostro posto al suo interno. Questo è forse il più emozionante periodo della storia della National Portrait Gallery, a seguito della recente riapertura e del progetto Inspiring People che il team ha consegnato in maniera così precisa sotto la guida di Nicholas Cullinan. È stato costruito il palcoscenico perfetto e sono davvero emozionata di lavorare con i miei nuovi colleghi, con i trustees del museo e con i suoi sostenitori, e ovviamente con gli artisti, perché guardiamo verso il futuro e ci avventuriamo in un nuovo capitolo”.
“Victoria Siddall porterà ricchezza d’esperienza in questo ruolo e io sono lieta che la National Portrait Gallery stia facendo la storia nominando la sua prima donna alla direzione”, dichiara Lisa Nandy, segretaria di Stato britannica per la Cultura, i Media e lo Sport. “La sua leadership guiderà la Galleria di bene in meglio, sviluppandola a seguito della riapertura dello scorso anno, e sono emozionata all’idea di vedere che cosa lei e il team della National Portrait Gallery ci riserveranno nei prossimi anni”.
Giovanni Franzoni, al secolo Mario Franzoni, più noto come Dom Franzoni (Varna, 8 novembre 1928 – Canneto di Fara in Sabina, 13 luglio 2017), è stato un teologo e scrittore italiano.
Biografia di Giovanni Franzoni-Nato a Varna, in Bulgaria, dove i genitori si erano stabiliti per motivi di lavoro, tornò in Italia e trascorse la propria adolescenza a Firenze. Franzoni venne poi ammesso all’Almo collegio Capranica di Roma e iniziò la formazione al sacerdozio, nell’ordine benedettino, compiendo gli studi teologici presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. Fu ordinato sacerdote nel 1955 ed iniziò ad insegnare storia e filosofia nel collegio dell’abbazia benedettina di Farfa. Nel marzo 1964 fu eletto abate dell’abbazia di San Paolo fuori le mura a Roma e, in tale veste, partecipò alle ultime due sessioni del Concilio Vaticano II, risultando il più giovane tra i padri conciliari.
In quegli anni avviò l’esperienza della comunità cristiana di base di San Paolo, in cui si coniugava l’ascolto del Vangelo con la lettura delle situazioni politiche ed ecclesiali e la presa di posizione in senso progressista e marxista. Alcune di queste scelte, come l’opposizione al concordato tra Stato e Chiesa, la condanna verso la guerra in Vietnam e la solidarietà con le lotte operaie dell’autunno caldo, gli procurarono la contrarietà della Santa Sede che lo invitò a dimettersi dalla carica di abate, il 12 luglio 1973, pochi giorni dopo aver pubblicato la lettera pastorale La terra è di Dio. La goccia che fece traboccare il vaso fu l’aperta critica, espressa da alcuni membri della comunità cristiana di base, verso le operazioni finanziarie compiute dallo IOR che, nella primavera del 1973, avevano ricevuto la ferma deplorazione del sistema bancario internazionale.
Giovanni Battista Franzoni
« La verità è che da parte della gerarchia non si nega il diritto ad una scelta, si nega il diritto ad una scelta opposta a quella che la gerarchia stessa ha compiuto. »
(dal corsivo di Fortebraccio, Dalla parte di lor signori, l’Unità, 25 giugno 1972)
Nel 1974 prese apertamente posizione per la libertà di voto dei cattolici al referendum sul divorzio, definendolo «un bisturi necessario» e sottolineando che il matrimonio non poteva essere un sacramento per i non cattolici. Seguirono forti critiche dalle gerarchie ecclesiastiche, non meno che dagli esponenti politici della Democrazia Cristiana e la mediazione di Mario Agnes, presidente dell’Azione cattolica, oltre al sostegno espresso da David Maria Turoldo, Ernesto Balducci e Carlo Carretto, non bastarono ad evitare la sospensione “a divinis” di dom Franzoni. Il 2 agosto 1976, dopo il suo dichiarato appoggio al PCI durante la campagna elettorale, fu dimesso dallo stato clericale .
Giovanni Battista Franzoni
Continua, da allora, la sua attività di animatore della comunità di San Paolo e del coordinamento nazionale delle comunità cristiane di base, cui affianca una feconda attività di riflessione in campo ecumenico e solidale, anche collaborando con la rivista “Confronti”, da lui fondata nel 1973 con il nome di “Com-Nuovi tempi”. È uno dei protagonisti del dialogo dei cristiani con il mondo marxista e con i movimenti di liberazione in America Latina ed è impegnato nel movimento per la pace, fino alla fondazione dell’associazione “Amicizia Italia-Iraq – L’Iraq agli iracheni” (2003).
Nel 1991 si è sposato con Yukiko Ueno, una giornalista giapponese atea, conosciuta in Nicaragua alla fine degli anni ottanta. Il matrimonio è stato celebrato, con rito civile, presso l’ambasciata italiana a Tokyo.
È socio onorario dell’associazione Libera Uscita per la depenalizzazione dell’eutanasia, dopo aver assunto una posizione piuttosto critica sul caso di Eluana Englaro: l’ex prelato ha infatti dichiarato che quella della ragazza poteva definirsi “non più vita, ma tortura”[7]. Alle elezioni politiche del 2006 ha votato per il Partito dei Comunisti Italiani e alle europee del 2009 concede la sua preferenza alla Lista Anticapitalista.
Giovanni Battista Franzoni
Opere
La terra è di Dio. Lettera pastorale, Roma, COM, 1973; Roma, Com nuovi tempi, 2003.
Il mio regno non è di questo mondo. Una risposta alla notificazione della CEI sul Referendum, Roma, COM, 1974.
Omelie a San Paolo fuori le Mura, Milano, A. Mondadori, 1974.
Le comunità di base. Per la riappropriazione della parola di Dio, dei gesti sacramentali, dei ministeri, dell’autonomia politica dei credenti, Genova, Lanterna, 1975.
Tra la gente, Roma, CNT, 1976.
Il posto della fede, Roma, Coines, 1977.
Il diavolo, mio fratello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1986.
Le tentazioni di Cristo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1990.
La solitudine del samaritano. Una parabola per l’oggi, Roma, Theoria, 1993. ISBN 88-241-0321-9.
Farete riposare la terra. Lettera aperta per un Giubileo possibile, Roma, EdUP, 1996. ISBN 88-86268-26-2.
Merda. Note di teologia delle cose ultime, Roma, EdUP, 1997. ISBN 88-86268-32-7.
Giobbe, l’ultima tentazione, Roma, Com nuovi tempi, 1997.
Lo strappo nel cielo di carta. Riso, fecondità, cibo: note di teologia delle cose ultime, Roma, EdUP, 1999. ISBN 88-86268-63-7.
Il valore dei valori. Il processo dell’educazione e la formazione della persona, con Francesco Florenzano e Salvatore Natoli, Roma, EdUP, 1999. ISBN 88-86268-71-8.
Le ombre di Wojtyla, con Mario Alighiero Manacorda, Roma, Editori Riuniti, 1999. ISBN 88-359-4801-0.
Anche il cielo è di Dio. Il credito dei poveri, Roma, EdUP, 2000. ISBN 88-86268-92-0.
La donna e il cerchio, Roma, Com nuovi tempi, 2001.
Ofelia e le altre, Roma, Datanews, 2001. ISBN 88-7981-162-2.
La morte condivisa. Nuovi contesti per l’eutanasia, Roma, EdUP, 2002. ISBN 88-8421-049-6.
La solitudine del samaritano, ovvero L’elogio della compassione, Roma, ICONE, 2002. ISBN 88-87494-26-6.
Eutanasia. Pragmatismo, cultura, legge, Roma, EdUP, 2004. ISBN 88-8421-097-6.
Del rigore e della misericordia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005. ISBN 88-498-1198-5.
Autobiografia di un cattolico marginale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014, ISBN 978-88-498-39604-7.
Opere
Giovanni Battista Franzoni
I, Le cose divine. Omelie (1970-73), Il posto della fede (1977), Roma, EdUP, 2006. ISBN 88-8421-130-1.
II, I beni comuni. La terra è di Dio (1973), Farete riposare la terra (1996), Anche il cielo è di Dio (2000), Roma, EdUP, 2006. ISBN 88-8421-162-X.
IV, La donna e il cerchio spezzato. La donna e il cerchio (2001), Ofelia e le altre (2002), Roma, EdUP, 2010. ISBN 978-88-8421-220-7.
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.