Franco Fortini-La guerra a Milano. Estate 1943- Pacini Editore-
A cura di Alessandro la Monica-Prefazione di Stefano Carrai.
Descrizione del libro di Franco Fortini-Ne “La guerra a Milano” l’allora sottufficiale Fortini, esule in Svizzera, narrò gli eventi bellici di cui era stato spettatore nell’estate del 1943. Con non poche modifiche, il testo de “La guerra a Milano” fu pubblicato vent’anni dopo, assieme a Sere in Valdossola, in un volume che testimoniava la partecipazione dello scrittore alla Resistenza. Grazie alla scoperta del dattiloscritto originale presso la Biblioteca Centrale di Zurigo, quest’edizione critica offre per la prima volta il testo nella sua veste originaria e pubblica in appendice i frammenti manoscritti conservati presso l’Archivio Franco Fortini di Siena. Prefazione di Stefano Carrai.
Pacini Editore
La Pacini Editore spa opera nell’editoria di qualità, sia in campo umanistico che scientifico. L’azienda ha sede ad Ospedaletto (Pisa), dopo essere stata osptitata, per lungo tempo, nella centralissima Piazza dei Cavalieri, accanto alla famosa torre del Conte Ugolino. Due aziende consociate, la Edifir- Edizioni Firenze ed EDIAIPO scientifica, le Industrie Grafiche, un reparto di cartotecnica fra i più moderni in Italia: ecco un primo, veloce ritratto di una casa editrice che dal 1997 ha la certificazione europea ISO 9001. Presidente è Pierfrancesco Pacini, che continua una fortunata tradizione familiare risalente al 1875. Nel dna della Pacini Editore c’è l’editoria d’arte, libri d’immagine, la saggistica universitaria. Da vent’anni siamo azienda leader nel settore editoriale medico-scientifico con oltre venti testate periodiche e numerose collane monografiche.
Ilan Pappé-La prigione più grande del mondo-Storia dei territori occupati
Traduttore Michele Zurlo-Editore Fazi
Descrizione del libro di Ilan Pappé-Dopo la sua acclamata indagine sulla pulizia etnica della Palestina avvenuta negli anni Quaranta, il famoso storico israeliano Ilan Pappé rivolge l’attenzione all’annessione e all’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, esponendoci la prima critica globale relativa ai Territori Occupati palestinesi. Frutto di anni di ricerche, il nuovo lavoro di Pappé rappresenta probabilmente l’analisi più completa mai scritta sulla genesi dei Territori Occupati e sulla vita quotidiana all’interno di quella che l’autore definisce, appunto, «la prigione più grande del mondo». Pappé analizza la questione da molteplici punti di vista: attraverso l’analisi di materiali d’archivio recentemente declassificati, ricostruisce sotto una luce nuova le motivazioni e le strategie dei generali e dei politici israeliani – e lo stesso processo decisionale – che hanno gettato le basi dell’occupazione della Palestina; rivolgendo poi lo sguardo alle infrastrutture legali e burocratiche e ai meccanismi di sicurezza messi in atto dagli occupanti, rivela il modo in cui Israele è riuscito a imporre il suo controllo a oltre un milione di palestinesi; infine, attraverso i documenti delle ONG che lavorano sul campo e i resoconti di testimoni oculari, Pappé denuncia gli effetti brutalizzanti dell’occupazione, dall’abuso sistematico dei diritti umani e civili ai blocchi stradali, dagli arresti di massa alle perquisizioni domiciliari, dal trasferimento forzato degli abitanti autoctoni per far spazio ai coloni al famigerato muro che sta rapidamente trasformando anche la stessa Cisgiordania in una prigione a cielo aperto. Il libro di Pappé è al contempo un ritratto incisivo e commovente della quotidianità nei Territori Occupati e un accorato appello al mondo perché non chiuda gli occhi di fronte ai crimini contro l’umanità a cui è soggetta da più di settant’anni la popolazione indigena della Palestina.
«Pappé sostiene audacemente e in modo persuasivo di considerare i territori occupati come la “più grande prigione del mondo… Le conclusioni di Pappé non saranno accolte positivamente da tutti, ma questa storia dettagliata è rigorosamente supportata da fonti primarie». «Publishers Weekly»
«Ilan Pappé è lo storico più coraggioso, più rigoroso e più incisivo di Israele».
Adriana Zarri-Poesie di una grandiosa pensatrice spirituale
Adriana Zarri
Adriana Zarri” Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene.Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue.Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano la patria senza senso civico”.
Adriana Zarri
Poesie
Dacci Signore il tuo mantello –
Arriveremo con i piedi sporchi
e ce li laverai,
come facesti con gli apostoli.
Guarda, Signore, al nostro autunno
e raccogli le colpe
come una triste vendemmia.
Lasciaci nudi e soli,
senza consolazioni ambigue,
senza inganni pietosi,
senza grappoli verdi.
Donaci gli occhi di Maria peccatrice
e, scaldaci con il tuo mantello.
I giorni sono brevi
e le nottate lunghe.
Il fuoco si spegne nel camino.
Le castagne
si sono fatte nere,
il letto, è gelido e deserto.
Dacci, Signore, il tuo mantello!
– Adriana Zarri –Tratto da “Il pozzo di Giacobbe. Raccolta di preghiere da tutte le fedi”
Piedi nuovi
Un Gesù biondo
custodirà vuote basiliche
impolverate
di ragnatele.
E l’erba
crescerà sopra le soglie
finché non torneranno
piedi disincantati,
piedi stanchi,
piedi sporchi,
piedi lavati
da te
nella tua ultima cena.
Finché non torneranno
piedi nuovi
sopra ai prati dell’Eden
dell’ultimissimo giorno.
Adriana Zarri
Preghiera d’inverno
Ora è la morte,
Ma non è la morte:
è soltanto l’attesa.
Facci attendere, Dio, senza stancarci,
senza timore di morire per sempre.
Anche i colori sono trapassati
dal verde, al giallo, al viola,
al grigio.
Presto sarà la neve
come un immenso fiore bianco,
grande quanto la terra.
Il mondo è sbocciato di gelo
e il bianco è la somma dei colori
Dopo il fiorire e il declinare della vita,
l’inverno, o Dio, è la tua eternità.
E sulla neve
candide danze di angeli
e carole di santi luminosi,
che non lasciano impronta.
Aprici gli occhi, o Dio,
facci vedere ciò che non si vede,
facci danzare coi beati
e guardare i tuoi occhi:
più vasti
di una pianura innevata
più bianchi
di un gelido novembre
più caldi
di un fuoco acceso
in una notte d’inverno.
[da Il pozzo di Giacobbe. Geografia della preghiera da tutte le religioni, Camunia, Brescia 1985, pagina 260]
Adriana Zarri
Questo è l’epitaffio che Adriana Zarri ha scritto per se stessa
Non mi vestite di nero: è triste e funebre. Non mi vestite di bianco: è superbo e retorico. Vestitemi a fiori gialli e rossi, con ali di uccelli. E tu, Signore, guarda le mie mani. Forse c’è una corona. Forse ci hanno messo una croce. Hanno sbagliato. In mano ho foglie verdi e sulla croce, la tua resurrezione. E, sulla tomba, non mi mettete marmo freddo con sopra le solite bugie che consolano i vivi. Lasciate solo la terra che scriva, a primavera, un’epigrafe d’erba. E dirà che ho vissuto, che attendo. E scriverà il mio nome e il tuo, uniti come due bocche di papaveri.
Adriana Zarri
– Amo pregarti seguendo i ritmi stagionali Adriana Zarri –
In inverno
La preghiera è immersa nella vita e non se ne può scostare
di casa, di fuoco e di memorie.
anche la neve sembra calda guardata dal di dentro.
In Primavera
è timida, fatta di tenerezza e di stupore, come un amor adolescente che riscopre la vita.
La terra si riveste di verde
L’aurora si riveste di luce
abbiamo voglia di rifiorire
di continuare il ritmo della vita:
quel ritmo sempre nuovo
che a volte ci sembra sempre vecchio
In estate
è densa e forte e ha il calore
della passione matura e consumata.
è impregnata di terra e di sole
ha il biondo delle messi e l’odore
del suolo crepitante e delle more mature.
In autunno
prepara il riposo della terra
dove il tramonto s’incrocia con l’aurora
dove il sole si affoga dolcemente nella nebbia,
tempo della fede, del credere
tempo dei tuoi doni..
frasi sciolte di Adriana Zarri tratte dal libro Quasi una preghiera.
Musica “As Music in the Trees”
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori turchini e rossi
e con ali di uccelli.
…
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che ho atteso,
che attendo.
Pregare sei tu che preghi,
tu che respiri,
tu che mi ami;
e io mi lascio amare da te.
Adriana Zarri
Questo verso della poesia “Pregare è un prato d’erba” tratto dalla raccolta “TU – quasi preghiere” rispecchia il rapporto personale ed intimo che legava la teologa Adriana Zarri a Dio. E non solo a Dio, ma a tutto ciò che la circondava e che avesse a che fare con la vita, a cominciare dalle rose del suo giardino e dalla gatta che si accoccolava sul suo grembo per finire alle questioni più scottanti della Chiesa e della politica italiana del secondo Novecento.
Il settore d’attività che diede ad Adriana Zarri maggiore notorietà fu il giornalismo. Da radicale antifascista con una particolare sensibilità per i problemi sociali, difendeva in modo convinto e convincente la libertà di pensiero. Visse in varie città d’Italia, soprattutto a Roma. Si trovò molto giovane a dirigere l’Azione cattolica italiana e scrisse articoli, recensioni e saggi per riviste e giornali come L’osservatore Romano, Rocca, Studium, Politica oggi, Sette giorni, Il Regno, Concilium, Servitium, Anna, Adista, Avvenimenti e MicroMega. Tenne una rubrica settimanale sul quotidiano comunista Il Manifesto dal titolo Parabole, che veniva pubblicata ogni domenica. Partecipò a trasmissioni radiofoniche e televisive per trasmettere ad un pubblico più vasto il frutto dei suoi studi e delle sue riflessioni. Rimangono in tal senso memorabili i suoi regolari interventi a Samarcanda di Michele Santoro. (2)
Dal settembre del 1975 fino alla sua morte, Adriana Zarri visse da eremita in Piemonte. Prima si ritirò in una casa ad Albiano d’Ivrea, poi si trasferì a Fiorano Canavese e infine, a partire dalla metà degli anni ’90, si stabilì a Strambino, in provincia di Torino. Il motivo che la spinse a fare una scelta così radicale non fu certo la delusione o il desiderio misantropo di isolarsi dal resto dell’umanità, quanto piuttosto il suo profondo bisogno di coltivare nella solitudine, nella preghiera e nel silenzio il suo rapporto di vicinanza con Dio e da lì continuare a svolgere la sua attività letteraria, critica e saggistica, perché “la solitudine non è una fuga: è un incontro”. (3)
Seguiva una rigida routine quotidiana: sveglia alle 6, poi colazione e recita delle laudi, disbrigo delle faccende domestiche e cura del giardino. Durante il giorno si occupava della corrispondenza e delle incombenze quotidiane e scriveva articoli per giornali e riviste. Nella sua cappella privata celebrava tutti i giorni la liturgia e a volte riceveva visite da parte di amiche, amici e ospiti. Preparava da mangiare nella sua piccola cucina, utilizzando perlopiù prodotti del suo orto. Nel pomeriggio e dopo cena si riposava, a partire dalle 22 iniziava il suo lavoro vero e proprio – pensare e scrivere – che proseguiva fino alle 3 del mattino.
Da teologa cattolica e attivista comunista riuscì a colmare il varco tra posizioni apparenti inconciliabili e a sviluppare una sua personale, peculiare teologia che convince per l’intrinseca coerenza. Prese le distanza da movimenti religiosi fondamentalisti come Comunione e Liberazione e l’Opus Dei. Forse la si potrebbe definire come rappresentante italiana di una sorta di “teologia della liberazione”. La sua scelta di vivere da eremita si inseriva nel solco della tradizione ascetica. Traeva ispirazione dai padri e dalle madri del deserto e per tutta la vita rinunciò in modo consapevole a titoli e glorie, potere e denaro. Ciò non le impedì tuttavia di dedicarsi allo studio di questioni teologiche e di immischiarsi nei dibattiti di teologia, anche nella sua funzione di membro del consiglio direttivo dell’ “Associazione teologica italiana.” Negli anni ’60 aveva partecipato al Concilio Vaticano II e il suo approccio alle cose religiose spesso non coincideva con quello delle alte sfere vaticane, cosa che da un lato la rese popolare, mentre dall’altro le causò non pochi problemi e inimicizie.
“Vive al di fuori degli “interessi mondani” – che piacciono invece molto ai clericali e al clero stesso – pur restando interessata alle sorti del mondo: non si era mai visto un eremita che apparisse in televisione o che scrivesse sul “manifesto.”, dice di lei la giornalista e politologa Giancarla Codrignani nella Enciclopedia delle donne (4)
La libertà è un concetto chiave che attraversa come un filo rosso tutta l’opera e la vita di Adriana Zarri. Ciò per cui a suo parere vale veramente la pena battersi è la libertà di pensiero svincolata da qualsiasi istituzione o ideologia. Zarri infatti si rifiutò di aderire al partito comunista e non prese mai i voti, anche se da giovane aveva spesso vagheggiato di farlo.
Continua Codrignani: “È diventata, anno dopo anno, esperienza dopo esperienza, una delle più importanti testimoni di quella fedeltà al Vangelo che si coniuga – proprio in virtù di una verità che rende liberi – con la più schietta laicità.” (5)
Zarri nel corso degli anni si espresse più volte sul tema della parità dei sessi e sul cosiddetto “pensiero della differenza” delle femministe italiane. Riteneva che la differenza tra i sessi non dovesse scomparire o appiattirsi, bensì portare ad uno svolgimento dei compiti comuni caratterizzato da una coloritura maschile o femminile. In altre parole: “Fare le stesse cose in modo diverso.” (6) In un suo saggio sulla preghiera, ad esempio, sottopose a dura critica il modo di pregare arido, liturgico, ufficiale e senza cuore che spesso appartiene agli uomini, sostenendo che “lasciare la preghiera ai soli uomini significa distruggere la preghiera” (7); ma non fu tenera nemmeno con le donne, di cui osteggiava l’eccesso di sentimentalismo, secondo lei espressione di sottomissione, vittimismo e superstizione. (8)
Si schierò a favore della regolamentazione legale dell’aborto e nel 1981 sostenne la campagna referendaria a favore della legge 194, che riconosce alle donne il diritto di interrompere la gravidanza a determinate condizioni. A questo tema dedicò anche un libro (Dedicato a).
La sua vita da eremita è al centro del libro “Erba della mia erba. Bilancio di una vita”, pubblicato nel 1981 per i tipi di Cittadella edizioni. In cinque capitoli Adriana Zarri descrive, condensandoli, i pensieri e le esperienze di un intero anno solare – da un autunno all’autunno seguente – passati nella sua casa “Il Molinasso” a Fiorano Canavese. Fin dai titoli dei vari capitoli – »le foglie secche dell’ autunno«, »le stufe e i fuochi dell’ inverno«, »la dolce luna della primavera«, »le messi e il sole dell’ estate«, »i prati verdi dell’ autunno« – si intuisce l’intimo legame di Zarri con le stagioni e il loro carattere che si rinnova e varia di giorno in giorno. La sintonia dell’autrice con la natura traspare evidente da ogni singola riga di quest’opera, in cui ci parla della sua vita insieme alle galline, il cane e il gatto, delle condizioni atmosferiche, del sole, del freddo, della semina, della crescita e del raccolto, dell’eremitaggio, del silenzio, della preghiera, del fuoco, della morte, del lavoro, delle stelle, della luna, della notte.
»E ci sarà il silenzio e il grido, la rilassata immobilità e l’ armonica danza; il momento in cui il corpo non si sente e l’ altro in cui rivela tutta la sua armoniosa consistenza ed accompagna l’ invocazione e la lode; ci sarà la richiesta e l’ offerta, la gratuità e la passione, il momento del pianto e della gioia: atteggiamenti che veranno scelti o creati da noi, volta per volta, in sintonia con il momento che viviamo.« (9)
Nel 2002 lessi il volume »Il respiro delle donne«, in cui Luce Irigaray presenta varie forme di credo al femminile attraverso le voci di teologhe, scrittrici, pensatrici e terapeute. Un articolo di Adriana Zarri intitolato “La teologia della vita” risvegliò il mio interesse nei suoi confronti. Alla fine di novembre dello stesso anno la andai a trovare nel suo “eremo” e vi passai una settimana indimenticabile. Un tardo pomeriggio, mentre ero seduta in cortile con la sua gatta in braccio, Adriana Zarri apparve alla finestra e mi fece cenno di salire al primo piano del suo granaio ristrutturato. In mezzo alla grande stanza c’era un baule che divideva lo spazio in due ambienti abitativi. Sul baule era allineata un’incredibile quantità di civette dei materiali più vari, tutte di ottima fattura. Due di esse erano decorate con dei piccoli specchi che riflettevano la luce del sole al tramonto, creando così un magicamente uno splendido effetto caleidoscopico sulle pareti, cui Adriana mi fece assistere con occhi raggianti.
Negli ultimi anni della sua vita Adriana Zarri si indebolì molto e alla fine non riuscì più ad alzarsi dal letto. Ciò nonostante non smise di pensare e di pubblicare i suoi sagaci commenti e le sue profonde riflessioni, che si trattasse di teologia o di spiritualità, della posizione della chiesa o dei suoi legami con la politica e la società. I toni critici che Zarri spesso usa nei suoi scritti non derivano dalla voglia di provocare, bensì dall’esigenza di esprimere liberamente la sua opinione più intima, maturata nel silenzio e nella solitudine attraverso lo studio dei testi teologici, l’esperienza della vita intorno a lei, la fede e il rapporto con Dio.
Rimase paziente ad aspettare la morte, anche se non riusciva a considerarla un’amica o una salvatrice. Era troppo legata alla vita in tutte le sue molteplici forme e in tutta la sua pienezza.
“Ma non intendo programmare la mia morte: sarebbe l‘ ultimo attaccamento alla vita. La morte non si programma: si aspetta, quietamente, come si aspetta la vita. E sarà come viene: magari nella corsia di un ospedale, o per la strada, o chissà. E sarà sempre impastata con la vita: vita, essa stessa nel suo punto più alto e dirompente.” (10)
Già molti anni prima di morire aveva pubblicato una delle sue belle poesie in cui affronta il tema della propria morte:
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri. (11)
(1) Zarri, Adriana (1985): »Tu« quasi preghiere. Piero Gribaudi editore, Torino, p.17.
(2) http://it.wikipedia.org/wiki/Adriana_Zarri, pagina visitata il 10.12.2010.
(3) http://www.rsi.ch/home/channelslifestyle/personaggi/2010/11/19/adrian-zarri.html, pagina visitata il 10.12.2010.
(4) http://www.enciclopediadelledonne.it, pagina visitata il 10.12.2010.
(5) ibidem.
(6) Irigary, Luce (1997): Der Atem von Frauen. Luce Irigary präsentiert weibliche Credos. Christel Göttert Verlag, Rüsselsheim, p. 119.
(7) Zarri, Adriana (1991): Nostro signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera. Citadella editrice, Assisi, p. 40.
(8) ibidem, p. 49.
(9) Zarri, Adriana (1999): Erba della mia erba. Resoconto di vita. Citadella editrice, Assisi, p.50
(10) ibidem, p. 245.
(11) http://www.enciclopediadelledonne.it, pagina visitata il 10.12.2010.
Premi e onorificenze
1995 Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana,
”Premio speciale Testimone del Tempo” (Premio Acqui Storia),
”Premio Matilde di Canossa” della Provincia di Reggio,
”Premio Minerva 1989” nella sezione “Ricerca scientifica e culturale”,
“Premio Igino Giordani 2002” del comune di Tivoli,
“Premio letterario Domenico Rea” nella sezione “Narrativa” 2008
”Premio letterario Alessandro Tassoni” nella sezione “Narrativa” 2008
Author: Ingrid Windisch
Bibliografia & fonti
Pubblicazioni
Zarri, Adriana (1955): Giorni feriali. Milano. Istituto di propaganda libraria.
Zarri, Adriana (1960): L’ ora di notte. Romanzo. Torino. SEI.
Zarri, Adriana (1962): La Chiesa nostra figlia. Vicenza. La Locusta.
Zarri, Adriana (1964): Impazienza di Adamo. Ontologia della sessualitá. Torino. Borla.
Zarri, Adriana (1967): Teologia del probabile. Riflessioni sul postconcilio. Torino. Borla.
Zarri, Adriana (1970): Il grano degli altri. Meditazioni sull’Isolotto. Torino. Gribaudi.
Zarri, Adriana (1971): Tu. Quasi preghiere. Torino. Gribaudi.
Zarri, Adriana (1975): E piu facile che un cammello … Torino. Gribaudi.
Zarri, Adriana (1978): Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera. Assisi. Cittadella.
Zarri, Adriana (1981): Erba della mia erba. Resoconto di vita. Assisi. Cittadella.
Zarri, Adriana (1989): Dodici lune. Romanzo. Milano. Camunia.
Zarri, Adriana (1990): Apologario. Le favole di Samarcanda. 1. Aufl. Milano. Camunia. (Fantasia & memoria) ISBN 8877671084.
Zarri, Adriana (1991): Il figlio perduto. La parola che viene dal silenzio. Celleno. La Piccola Editrice. ISBN 9788872583012.
Zarri, Adriana (1994): Quaestio 98. Nudi senza vergogna. Romanzo. Milano. Camunia.
Zarri, Adriana (1998): Dedicato a. Milano. Frontiera.
Zarri, Adriana (2007): Il Dio che viene. Il Natale e i nostri Natali. Celleno. La Piccola Editrice.
Zarri, Adriana (2007): In quale dio crediamo? Le povere immagini di Dio. Celleno. La Piccola Editrice. ISBN 9788872583203.
Zarri, Adriana (2007): L’ amante dell’uomo. La preghiera e le preghiere. Celleno. La piccola. ISBN 9788872583197.
Zarri, Adriana (2008): Vita e morte senza miracoli di Celestino 6. Romanzo. Reggio Emilia. Diabasis. ISBN 8881035707.
Gibellina è la “Capitale italiana dell’Arte contemporanea” per l’anno 2026
Roma – Gibellina è la “Capitale italiana dell’Arte contemporanea”-A proclamarla, oggi 31 ottobre, è stato il Ministro della Cultura, Alessandro Giuli, nel corso della cerimonia che si è svolta oggi a Roma, nella Sala Spadolini del Ministero, alla quale sono intervenuti il Direttore Generale Creatività Contemporanea, Angelo Piero Cappello, e la Presidente della Giuria, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo.
La cerimonia si è svolta alla presenza dei rappresentanti delle cinque città finaliste: Carrara, Gallarate, Gibellina, Pescara e Todi.
La città vincitrice, grazie anche al contributo statale di un milione di euro, potrà mettere in mostra, per il periodo di un anno, progetti culturali che prevedono attività come mostre, festival e rassegne, oltre alla realizzazione e la riqualificazione di spazi e aree dedicate alla fruizione dell’arte contemporanea.
Queste le motivazioni della scelta della giuria, maturata al termine della procedura di selezione condotta in piena autonomia dai componenti: “La prima ‘Capitale italiana dell’Arte contemporanea’ con la sua candidatura offre al nostro Paese un progetto organico e solido, consegnando all’Italia di oggi un esemplare modello di intervento culturale, fondato su valori e azioni che riconoscono all’arte una funzione sociale e alla cultura lo statuto di bene comune. Per la sua capacità progettuale nel riattivare il suo straordinario patrimonio di opere, coniugando nel presente memoria e futuro, conservazione e valorizzazione, attenzione al locale e ambizione internazionale; per la sua capacità di coinvolgimento delle nuove generazioni e della cittadinanza tutta, interpellando il territorio più ampio sulla base di una comune consapevolezza civica, stringendo alleanze con istituzioni pubbliche e private, nazionali e transnazionali; per il fatto di essere Città pioniera di ciò che oggi definiamo rigenerazione urbana, e per la capacità di essere insieme una città-opera e una città da abitare: per il suo progetto, con il quale la città diventerà un grande laboratorio dove le pratiche e le energie dell’arte contemporanea saranno chiamate a condividere pensieri e soluzioni sui temi dello spazio pubblico, della comunità, del paesaggio, della sostenibilità e del capiente concetto di eredità. Per tutti questi motivi sopra esposti, riteniamo di poter individuare, quale città ‘Capitale italiana dell’arte contemporanea’ 2026 la città di Gibellina”.
“L’istituzione del titolo di ‘Capitale italiana dell’Arte contemporanea’ – ha dichiarato il Ministro Giuli – vuole rendere un nuovo, doveroso tributo alla creatività e al genio italiani, ed è la conferma dell’impegno fattivo del Governo per restituire all’Italia, alle sue città, ai suoi territori e ai suoi abitanti, la consapevolezza di essere l’Italia”.
SINTESI DEL PROGETTO VINCITORE
“Portami il Futuro”: Un progetto ambizioso che si sviluppa attraverso iniziative legate all’arte e alla creatività contemporanea, dalla progettazione culturale alla rigenerazione urbana, al restauro e soprattutto alla costruzione di una visione sul futuro che sappia tener conto della bellezza come valore condiviso e rigenerante.
LA PROCEDURA DI SELEZIONE DEL 2024
23 le città italiane che hanno presentato il dossier di candidatura alla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Ad ottobre sono stati resi noti i nomi delle cinque città finaliste, che la Giuria, presieduta da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e composta da Sofia Gnoli, Walter Guadagnini, Renata Cristina Mazzantini e Vincenzo Santoro, ha scelto dopo aver esaminato le candidature pervenute. Le singole delegazioni hanno successivamente presentato alla Giuria i progetti elaborati per ciascuna nel corso di audizioni pubbliche, che si sono svolte il 25 ottobre a Roma, nella Sala Spadolini del Ministero della Cultura.
IL TITOLO DI CAPITALE ITALIANA DELL’ARTE CONTEMPORANEA
La Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura ha lanciato il 15 aprile 2024 il bando per la designazione della prima “Capitale italiana dell’Arte contemporanea” per l’anno 2026. Il nuovo riconoscimento è istituito per incoraggiare e sostenere la capacità progettuale e attuativa delle città italiane nel campo della promozione e valorizzazione dell’arte contemporanea.
-Angelo Maria RICCI- Poeta e letterato della SABINA-
Poesie sacre , Sonetti ed Epigrammi-
Angelo Maria Ricci-
Da Poesie sacre di Angelo Maria Ricci, Sonetti ed Epigrammi.
Biografia di Angelo Maria Ricci – Nacque a Mopolino di Capitignano (L’Aquila) il 24 settembre 1776 da Serafino e da Giuseppa Pica, entrambi di nobili famiglie, Morì a Rieti il 1° aprile 1850. Un ramo del casato Ricci era presente anche a Rieti dall’inizio del XVII secolo. Il padre ricopriva l’incarico di regio tesoriere dei Borbone.
Per gli studi superiori, Angelo Maria si trasferì a Roma nel Collegio Nazareno degli scolopi. Suoi maestri furono padre Carlo Giuseppe Gismondi, per le materie scientifiche, e padre Francesco Antonio Fasce, per quelle letterarie. Prima ancora di concludere gli studi entrò a far parte dell’Arcadia con il nome di Filidemo Liciense. Già nel 1792 vedevano la luce a Napoli alcune sue poesie, raccolte nel volumetto Omaggio poetico, dedicato a Domenico di Gennaro, duca di Cantalupo. Quattro anni più tardi, sempre a Napoli, fu la volta del De gemmis, poemetto latino per il matrimonio di Francesco III di Borbone con Maria Clementina d’Austria. I fatti del 1798-99 si fecero sentire anche al Nazareno: Angelo Maria, come tutti i giovani nobili non romani, prese la via del ritorno in famiglia. Il cardinale Stefano Borgia lo riportò a Roma, dove fu insignito del cavalierato gerosolimitano; si accostò agli studi biblici riprendendo la volontà di conciliare la scienza con la religione e diede alla luce la Cosmogonia mosaica, fisicamente sviluppata e poeticamente esposta in sei meditazioni filosofico-poetiche (Roma 1802), in contrasto con le teorie materialistiche e sensistiche. A Napoli entrò in contatto con i nobili-poeti Tommaso Gargallo, marchese di Castel Lentini, e Carlantonio de Rosa, marchese di Villarosa. Manifestò un certo entusiasmo per la svolta napoleonica e re Giuseppe Bonaparte lo fece capodivisione della Real Segreteria. Da Gioacchino Murat ebbe la cattedra universitaria di eloquenza. Ricci manifestò in modo evidente la sua riconoscenza: nel 1809 pubblicò un canto in ottava rima intitolato La pace; in un’altra ode, La verità, pubblicata l’anno dopo, definì Murat «di Goffredo assai maggior nel senno», anteponendolo all’eroe della Gerusalemme liberata. La musa murattiana raggiunse il culmine con I fasti di Gioacchino Murat (1813); non a caso, ottenne l’incarico di istitutore dei principini Achille e Luciano e di lettore personale della regina.
Angelo Maria Ricci Poesie sacre , Sonetti ed Epigrammi.
Le precarie condizioni di salute e una grave malattia del padre indussero Ricci a lasciare la città partenopea. Con la moglie Isabella Alfani, nobile nolana, e con quattro figli, nel dicembre del 1817 tornò a Mopolino. Il soggiorno non fu duraturo. Nel 1819 si trasferì definitivamente a Rieti nell’elegante palazzo neoclassico, realizzato alla fine del Settecento dal padre su progetto dell’Re Ferdinando IV, . Nello stesso 1819 vide la luce a Livorno, presso l’editore Glauco Masi, L’Italiade, poema epico in dodici canti, iniziato a Napoli dopo la caduta di Murat e il ritorno dei Borbone.
Le gesta di Carlo Magno contro Desiderio, ultimo re dei Longobardi, facevano da sfondo alla complessa trama dell’opera. Il tema era lo stesso dell’Adelchi manzoniano, ma con un’ottica ribaltata; per Ricci la caduta del Regno dei Longobardi rappresentava un soggetto di alta epopea e segnava l’alleanza tra trono e altare, il ritorno del dominio austriaco e la fondazione del Regno lombardo-veneto. I conservatori e l’ala austriacante dell’intellettualità del tempo si entusiasmarono. Di diverso avviso la Biblioteca italiana: Giuseppe Acerbi censurò il poema, definendolo «vergognoso per un italiano» (Rati, 2007, p. 15).
Angelo Maria Ricci Poesie sacre , Sonetti ed Epigrammi.
L’ambiente reatino, particolarmente sensibile alle istanze papaline, ispirò a Ricci la composizione del San Benedetto, poema in ottava rima, scritto forse anche su sollecitazione dello stesso papa Pio VII, che vide la luce nel 1824 a Pisa. L’anno seguente, sempre a Pisa, pubblicò la Georgica de’ fiori, dedicata a Maria Beatrice d’Este, arciduchessa d’Austria e duchessa di Massa e Carrara, che proprio in quegli anni si andava occupando nel suo territorio di floricoltura. Nell’estate del 1826 tornò per qualche mese a Napoli nella speranza di veder migliorare le non buone condizioni di salute della moglie. Fu ospite nella villa dei conti di Camaldoli. Nel 1827 venne stampato a Rieti L’orologio di Flora: ventiquattro odi anacreontiche nate dalla constatazione che dal maggio all’agosto alcuni fiori si aprivano e chiudevano in ore precise. Tre anni dopo pubblicò un’altra opera di versi nuziali – il poema Conchiglie (Roma 1830), in cui le nozze divine di Oceano e Teti erano augurio per le nozze umane di Maria Cristina, figlia di Maria Isabella regina delle Due Sicilie, con Ferdinando VII, sovrano di Spagna.
Angelo Maria Ricci Poesie sacre , Sonetti ed Epigrammi.
Il 27 settembre 1828 era morta la moglie Isabella. Bertel Thorvaldsen curò il monumento funebre collocato nella chiesa reatina di S. Giovenale dove riposavano le ceneri della donna. Il dolore di Ricci fu consegnato a una raccolta di Elegie, con due edizioni: l’una pisana del 1828 e l’altra romana di due anni dopo. Del 1832 fu la traduzione dell’Elegia biblica di Ruth, per le nozze di Ferdinando II di Borbone con Maria Cristina di Savoia. Nel 1837 Ricci pubblicò a Roma Gli sposi fedeli.
La linea classicista sembrava incrinarsi, l’elemento storico veniva infatti evidenziato anche dal sottotitolo di Storia italo-gotica-romantica, e i personaggi Teodorico, Amalasunta, Atalarico, Goti, Ariani, Cattolici si muovevano sullo scenario del VI secolo italiano. Dopo molteplici traversie, Nigilda e Childerico sarebbero riusciti a coronare il loro sogno. Il modello manzoniano era nell’aria e forse più: una peste, il ritiro di Nigilda in convento per evitare di essere sedotta da Crispo, erano indubbiamente elementi di contatto con I promessi sposi. Di certo, l’edizione ricciana ebbe successo: ben quattro edizioni si susseguirono in pochissimo tempo.
Nel 1840 Ricci fece ristampare a Roma tutte le sue poesie di argomento religioso sotto il titolo di Poesie sacre. Acciacchi personali e familiari resero difficoltosi gli ultimi anni della sua vita.
Angelo Maria Ricci Poesie sacre , Sonetti ed Epigrammi.
L’Arcadia convocò in suo onore un’adunanza il 10 dicembre 1852; per quella ricorrenza Giuseppe Gioachino Belli scrisse e recitò un sonetto commemorativo.
Fonti e Bibl.: La corrispondenza intercorsa fra Angelo Maria Ricci e l’amico Bertel Thorvald-sen dal 1820 al 1838 è conservata a Copenaghen, The Thorvaldsens Museum Archives. A. Sacchetti Sassetti, La vita e le opere di A.M. R., Rieti 1898; G. Rati, A.M.R. e la polemica romantica, in Otto/Novecento, III (1979), 3-4, pp. 61-80 (riedito in Id., Saggi danteschi e altri studi, Roma 1988, pp. 159-181); G. Formichetti, Un classicista austriacante e papalino, in Ottocento nel Lazio, a cura di R. Lefevre, Roma 1982, pp. 239-251; Atti. Celebrazione del II centenario della nascita di A.M. R. (1776-1850), Rieti 1983; G. Formichetti, I testi e la scrittura. Studi di letteratura italiana, Roma 1990, pp. 275-282; M.F. Apolloni, Un poeta mecenate di se stesso: A.M. R. e gli affreschi di Pietro Paoletti in Palazzo Ricci a Rieti, in Ricerche di storia dell’arte, 1992, vol. 46, pp. 35-48; R. Messina, Iconografia di A.M. R. Architettura, scultura, pittura, grafica, Rieti 1996; Tre cantate napoletane. Musica di Gioachino Rossini, a cura di I. Narici – M. Beghelli – S. Castelvecchi, Pesaro 1999, pp. XXI-XXXI; G. Rati, La polemica intorno all’Italiade e altri saggi su A.M. R., Roma 2007; Arte e cultura nel Palazzo Ricci di Capitignano, a cura di G. Paris – F.S. Ranieri – A. De Angelis, Rieti 2011.
Rita Pasquetti-Storia di un’amicizia: Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo tra Arcadia e RomanticismoRita Pasquetti-Storia di un’amicizia: Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo tra Arcadia e Romanticismo
Carcere. La scrittura come strumento di scavo interiore
Articolo di Alberto Figliolia
Milano Opera
-Nella casa di reclusione di Milano Opera la poetessa Silvana Cerutifondò il Laboratorio di lettura e scrittura creativa –
R come Rabbia, Rimpianto, Rimorso. Potrebbe essere…la sindrome della triplice R. Ma anche R come Riabilitazione, Rinnovellamento, Rinascita. Che cosa prova una persona in carcere? Prigioniera della colpa, la libertà perduta, le relazioni familiari troncate, le conseguenze del reato, con ogni probabilità a devastarti, poiché la coscienza è ineliminabile in ogni individuo – foss’anche per un residuo lumicino; e il tempo che muta in variabile impazzita: infinito e piatto e, nel contempo, un circolo chiuso come un loop senza senso, senza scopo. La detenzione per aver commesso un reato e la successiva sentenza privano l’individuo della libertà – e questa è la pena –: non della dignità né della possibilità del suo pieno recupero come cittadino, come soggetto sociale.
Perché non usare la scrittura come strumento di scavo interiore, di riacquisizione di consapevolezza, di inclusione sociale, di ripristino di un cammino esistenziale non più storto? Questa è l’idea veicolata dal Laboratorio di lettura e scrittura creativa attivo nel Carcere di Opera e fondato 28 anni or sono dalla poetessa Silvana Ceruti. Il Laboratorio, nell’ambito delle sue attività, produce ogni anno con i versi delle persone detenute un Calendario poetico-fotografico a tema: per il 2022 Aria. Acqua. Terra. Fuoco (prefazione di Elena Wullschleger Daldini e immagini di Margherita Lazzati).
Il Calendario rappresenta una riappropriazione virtuosa anche dei propri ricordi (altre “erre” virtuose) ma, oltre che specchio personale, è un osservatorio sul mondo esterno dal quale si è apparentemente esclusi, almeno dal punto di vista fisico (vi sono muri di cemento, ma anche muraglie di pregiudizi). Il pensiero e i sentimenti non possono tuttavia essere fermati da cemento e sbarre, e un tramonto ha sempre tutta la sua sconvolgente bellezza capace di impregnare pure l’anima di chi è in carcere.
Sono stato parte dell’universo/ Sono stato un atomo/ Sono stato terra/ Sono stato acqua/ Sono stato fuoco/ Sono stato luce/ Sono stato un germe/ Sono stato un albero/ Sono stato un animale/ Sono stato un uomo sapiente/ Sono stato un saggio/ Sono stato un uomo/ Sono stato un libero pensatore/ Sono stato membro di una cultura/ Sono stato un fuorilegge/ Sono stato vivo e libero/ Sono stato prigioniero di me stesso/ […] Sono stato un morto/ Sono ritornato alla terra/ Sono stato polvere/ Torno ad essere atomo/ Origine mai definita/ Sono invisibile/ Senza corpo/ Senza cuore/ Ma sempre parte dell’universo/ Scoprendo che è sempre stato in me. Questa poesia, opera di Filippo, apre il Calendario. Filippo è morto, ma ha lasciato con tali versi un testamento spirituale oltremodo commovente, un viatico di speranza per tutti. Nessun uomo è un’isola, è stato scritto. Quanto è vera quest’asserzione!
Ti prego, rondine benedetta, vola, sfreccia nei miei pensieri, non migrare più!/ Chiedimi tutto: sarò cieli esotici, equatoriali; sarò cibo che tu m’insegnerai; sarò trasparente per non incuriosirti, per non intimorirti./ Mi nasconderò in una lacrima di gioia, finta goccia di pioggia nella pioggia; lacrima di stupita emozione nel diadema di perle di rugiada, finta perla di rugiada sulla foglia vanitosa./ Costruisci il tuo nido nell’ombra delle mie malinconie e rallegrale del coro giocoso della tua prole preziosa. È la magnifica prosa lirica di Franco: uno sguardo libero, un sentimento panico, di rara suggestione, incantata meraviglia innanzi alla forza del Creato, della Natura, più grande di noi umani, che talora sembriamo voler uscire dal suo eterno ciclo.
Di tempo che è trascorso, di ricordi/ è pieno il vento/ con i passi dell’amore si avvicina/ e spira il vento/ […] Da qualche parte nasce, da qualche parte muore/ lo osservo e lo catturo in gabbie di pensiero/ lo saturo d’amore e te lo mando come falco messaggero. La chiusa è di Domenico, con il vento che soffia spingendo le caravelle delle nubi nel vasto cielo sotto cui soffriamo e gioiamo o fra le fronde degli alberi traendone impreviste note musicali, ciò che non dovrebbe far dimenticarci il dono della vita che ci è stato dato in sorte.
Fonte –Riforma. it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Carcere. La scrittura, strumento per lo scavo interiore
di Marta D’Auria-
Fonte –Riforma. it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
MILANO-28 marzo 2022 Intervista ad Alberto Figliolia, coordinatore del Laboratorio di lettura e scrittura creativa attivo da quasi un trentennio pressi la casa di reclusione di Milano Opera
28 anni fa nella casa di reclusione di Milano-Opera – la più grande delle 208 carceri italiane – la poetessa Silvana Ceruti fondò il Laboratorio di lettura e scrittura creativa ancora oggi attivo. Da 16 anni vi partecipa attivamente Alberto Figliolia, autore, giornalista pubblicista, già collaboratore di svariate testate e quotidiani nazionali.
«L’esperienza è iniziata per caso. Ero stato incaricato da un giornale con il quale collaboravo, di seguire in una libreria di Milano un’iniziativa del Laboratorio di lettura e scrittura creativa che già esisteva ad Opera da una dozzina di anni. Rimasi molto colpito dai contenuti e dall’atmosfera di quell’incontro. Dopo la pubblicazione del mio articolo, fui contattato dalla signora Silvana Ceruti, alla quale dissi che, come autore, avrei volentieri potuto dare un contributo al laboratorio. Così vi andai una prima volta. In quanto giornalista ero già entrato in un carcere, ma fui conquistato dalla capacità di ascolto dei volontari, dalla maniera di proporre la scrittura e la poesia ai detenuti. Vi tornai una seconda, e poi una terza volta. Da allora è cominciata la mia collaborazione che dura da sedici anni. Tanti incontri, tante cose nella vita accadono per caso e poi si rivelano molto fecondi per il proprio panorama esistenziale».
– Cosa avviene durante il Laboratorio di scrittura e lettura creativa?
«Ci incontriamo ogni sabato e durante i nostri incontri ascoltiamo quello che i detenuti hanno scritto durante la settimana, o anche scritti e poesie che noi autori proponiamo; facciamo esercizi di scrittura utilizzando varie metodologie; poi, dopo aver raccogliamo il materiale particolarmente riuscito dal punto di vista formale, produciamo delle antologie con un editore di riferimento che ha sposato il progetto. Sono stati pubblicati due libri di poesie in forma di preghiera, e ogni anno realizziamo un Calendario poetico-fotografico a tema: per il 2022 Aria. Acqua. Terra. Fuoco (prefazione di Elena Wullschleger Daldini e immagini di Margherita Lazzati). Il Calendario rappresenta una riappropriazione virtuosa anche dei propri ricordi, ma, oltre che specchio personale, è un osservatorio sul mondo esterno dal quale si è apparentemente esclusi, almeno dal punto di vista fisico (vi sono muri di cemento, ma anche muraglie di pregiudizi). Il pensiero e i sentimenti non possono tuttavia essere fermati da cemento e sbarre, e un tramonto ha sempre tutta la sua sconvolgente bellezza capace di impregnare pure l’anima di chi è in carcere. È una grande soddisfazione per i detenuti vedersi pubblicati – lo sarebbe per chiunque! –, traspare in loro la sensazione di aver combinato qualcosa di buono e di bello: in una vita magari storta, finita dentro, allontanati dalla società, scoprono di riuscire a scrivere qualcosa che può arrivare al cuore anche di chi è fuori. La scrittura ha la doppia funzione etica ed estetica. Nel laboratorio cerchiamo di insegnare in maniera orizzontale, democratica, di incentivare anche la lettura. Attraverso la scrittura e la lettura i detenuti vivono scampoli di felicità, c’è un recupero di consapevolezza che è veramente importante».
– Quali frutti quest’esperienza ha portato nella sua vita?
«La partecipazione al laboratorio è stata per me fondamentale: mi ha dato una visione più ampia dei fatti e dell’essere umano. Trovarsi in una realtà così dura, pesante per chi la deve vivere o subire, ti costringe a riconsiderare le cose della vita sotto un’ottica diversa, e a capire che ci può essere un’altra via, che per un cristiano può essere il perdono, e che laicamente è il tentativo di restituire alla società queste vite che hanno spezzato vite, relazioni, ma sono state anche spezzate, avendo il reato conseguenze sugli altri ma anche su se stessi. La scrittura allora può essere un grande strumento per lo scavo interiore, per recuperare parti di sé, per rielaborare i sentimenti negativi, distruttivi, o autodistruttivi, per riacquisire consapevolezza, per ripristinare un cammino esistenziale non più storto. Tutto è anche patrimonio degli insegnanti volontari perché quello che avviene durante il Laboratorio è un flusso non univoco ma reciproco che ti consente di avere uno sguardo forse un po’ più acuto sulla realtà, dove non è sempre netta la distinzione tra ciò che è bene e ciò che male, ma dove ci sono le persone con la loro dignità, con il loro vissuto, con i loro errori, persone che possono imparare dai propri errori, non si passa infatti indenni attraverso questo corridoio di dolore che è il carcere. Come essere umano sei costretto a confrontarti con questo universo di sofferenza e impari a sviluppare una vista diversa sulle cose del mondo, impari a discernere, o comunque ad alimentare dubbi, che possono essere fecondi. È importante continuare a porsi domande, soprattutto quando l’opinione pubblica ha risposte facili, preconfezionate, dettate dalle mode o dagli impulsi di pancia. Nelle attività che organizziamo nell’ambito del laboratorio, cerchiamo anche di sondare i pregiudizi che albergano in tanti sulla condizione carceraria e sulle persone che sono recluse. È un’esperienza forte, impegnativa, di responsabilità, che ti succhia anche tante energie dal punto di vista emotivo, ma che è anche estremamente arricchente dal punto di vista umano».
Fonte –Riforma. it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Gaspara Stampa, una delle più grandi poetesse Rinascimentali-
Gaspara Stampa-incisione del 1738
‘Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto…” Gaspara Stampa, una delle più grandi poetesse Rinascimentali, dal petrarchismo femminile alla fama ”scandalosa”. Nata nel 1523 a Padova, da Bartolomeo e Cecilia Stampa – suo padre, originario di Milano, era una mercante di gioielli, e morì nel 1531. La vedova Cecilia si trasferì quindi a Venezia – sua città di provenienza – insieme a Gaspara e i suoi fratelli Cassandra e Baldassarre. Qui Gaspara, ragazza vispa e dall’intelligenza acuta, fu allieva insieme ai fratelli del letterato toscano Fortunio Spira, intimo del celebre poeta Pietro Aretino – grazie a lui, tutti i fratelli vengono formati a leggere e scrivere in latino. Gaspara inoltre apprende il liuto dal compositore e musicista fiammingo Perissone Cambio.
All’altissimo e raffinato livello d’istruzione però si avvicenda anche una vita drammatica – l’adorato fratello Baldassarre infatti muore a soli diciannove anni, nel 1544 – il lutto sconvolse l’intera famiglia e Gaspara in particolare, la quale durante un periodo di riflessione quasi si fece suora – tuttavia, passato il lungo periodo di crisi, tornò alla “dolce vita” di Venezia.
Nonostante questa tragedia, la casa degli Stampa divenne un raffinato circolo letterario, frequentato da molti noti scrittori, pittori e musicisti veneziani – tra cui ricordiamo Francesco Sansovino, figlio del grande architetto e scultore fiorentino Jacopo Sansovino e Girolamo Parabosco, celebre compositore e organista a San Marco.
Gaspara, affezionatamente chiamata ”Gasparina”, diventa un’icona nella vivace vita culturale veneziana – la sua bellezza, la sua cultura e la sua intelligenza le valgono moltissimi ammiratori e corteggiatori. La sua vena poetica trovò finalmente sfogo quando incontrò nel 1548 il Conte Collalto di Collaltino, giovanotto garbato, di bell’aspetto e fine letterato. La storia d’amore con il Conte, durata per tre anni, dà a Gaspara l’impulso per lavorare alle sue Rime, in cui la poetessa attraversa tutte gli stadi della passione – evitando artefici retorici – e questo modo di scrivere ”esplicito” la mise al mezzo dello scandalo. D’altronde basta leggere la LXXX delle sue Rime d’Amore, dal sapore piuttosto erotico – Prendi, Amor, de’ tuoi lacci il più possente, / che non abbia né schermo, né difesa, / onde Evadne e Penelope fu presa, / e lega il mio signor novellamente.
Questo genere di poesia come non fu apprezzato dalla ”società bene” così non fu accolto con troppo entusiasmo del Conte, che più volte e a periodi alterni si allontanò da Gaspara, fin quando la relazione non si ruppe completamente nel 1551. Nonostante Gaspara fosse una meritevolissima partecipe dell’Accademia dei Dubbiosi – con lo pseudonimo di Anaxilla – soffrì un lungo periodo di depressione, dal quale uscì proprio con la poesia. Tra il 1552 e il 1553 iniziò una relazione con un altro uomo – sempre senza mai sposarsi – che fu più presente e più attento ai suoi sentimenti rispetto al ”bel Conte”, e ciò le porto un po’ di sospirata serenità.
Purtroppo, l’idillio non durò a lungo, soffrendo di problemi di salute dal 1553, dopo un periodo di cure a Firenze spirò a soli trentun anni a Venezia, a causa di febbri e mal de mare – inteso non come il disagio avvertito durante la navigazione, ma come malattia giunta da oltremare, portata dalle navi.
Gaspara Stampa-
poesie di Gaspara Stampa-
-Da Rime di Gaspara Stampa, Biblioteca Universale Rizzoli, 1978-
Io assimiglio il mio signor al cielo meco sovente. Il suo bel viso è ‘l sole; gli occhi, le stelle, e ‘l suon de le parole è l’armonia, che fa ‘l signor di Delo. Le tempeste, le piogge, i tuoni e ‘l gelo son i suoi sdegni, quando irar si suole; le bonacce e ‘l sereno è quando vuole squarciar de l’ire sue benigno il velo. La primavera e ‘l germogliar de’ fiori è quando ei fa fiorir la mia speranza, promettendo tenermi in questo stato. L’orrido verno è poi, quando cangiato minaccia di mutar pensieri e stanza, spogliata me de’ miei più ricchi onori.
*
Se d’arder e d’amar io non mi stanco, anzi crescermi ognor questo e quel sento, e di questo e di quello io non mi pento, come Amor sa, che mi sta sempre al fianco, onde avien che la speme ognor vien manco, da me sparendo come nebbia al vento, la speme che ‘l mio cor può far contento, senza cui non si vive, e non vissi anco? Nel mezzo del mio cor spesso mi dice un’incognita téma: – O miserella, non fia ‘l tuo stato gran tempo felice; ché fra non molto poria sparir quella luce degli occhi tuoi vera beatrice, ed ogni gioia tua sparir con ella.
*
Voi, che ‘n marmi, in colori, in bronzo, in cera imitate e vincete la natura, formando questa e quell’altra figura, che poi somigli a la sua forma vera, venite tutti in graziosa schiera a formar la più bella creatura, che facesse giamai la prima cura, poi che con le sue man fe’ la primiera. Ritraggete il mio conte, e siavi a mente qual è dentro ritrarlo, e qual è fore; sì che a tanta opra non manchi niente. Fategli solamente doppio il core, come vedrete ch’egli ha veramente il suo e ‘l mio, che gli ha donato Amore.
*
Or che torna la dolce primavera a tutto il mondo, a me sola si parte; e va da noi lontana in quella parte, ov’è del sol più fredda assai la sfera. E que’ vermigli e bianchi fior, che ‘n schiera Amor nel viso di sua man comparte del mio signor, del gran figlio di Marte, daranno agli occhi miei l’ultima sera, e fioriranno a gente, ove non fia chi spiri e viva sol del lor odore, come fa la penosa vita mia. O troppo iniquo, e troppo ingiusto Amore, a comportar che degli amanti stia sì lontano l’un l’altro il corpo e ‘l core!
*
Io benedico, Amor, tutti gli affanni, tutte l’ingiurie e tutte le fatiche, tutte le noie novelle ed antiche, che m’hai fatto provar tante e tanti anni; benedico le frodi e i tanti inganni, con che convien che i tuoi seguaci intriche; poi che tornando le due stelle amiche m’hanno in un tratto ristorati i danni. Tutto il passato mal porre in oblio m’ha fatto la lor viva e nova luce, ove sol trova pace il mio disio. Questa per dritta strada mi conduce su a contemplar le belle cose e Dio, ferma guida, alta scorta e fida luce.
*
Se poteste, signor, con l’occhio interno penetrar i segreti del mio core, come vedete queste ombre di fuore apertamente con questo occhio esterno, vi vedreste le pene de l’inferno, un abisso infinito di dolore, quanta mai gelosia, quanto timore Amor ha dato o può dar in eterno. E vedreste voi stesso seder donno in mezzo a l’alma, cui tanti tormenti non han potuto mai cavarvi, o ponno; e tutti altri disir vedreste spenti, od oppressi da grave ed alto sonno e sol quei d’aver voi desti ed ardenti.
*
Se soffrir il dolore è l’esser forte, e l’esser forte è virtù bella e rara, ne la tua corte, Amor, certo s’impara questa virtù più ch’in ogn’altra corte, perché non è chi teco non sopporte de’ dolori e di téme le migliara per una luce in apparenza chiara, che poi scure ombre e tenebre n’apporte. La continenzia vi s’impara ancora, perché da quello, onde s’ha più disio, per riverenza altrui s’astien talora. Queste virtuti ed altre ho imparate io sotto questo signor, che sì s’onora, e sotto il dolce ed empio signor mio.
*
Volgi, Padre del cielo, a miglior calle i passi miei, onde ho già cominciato dietro al folle disio, ch’avea voltato a te, mio primo e vero ben, le spalle; e con la grazia tua, che mai non falle, a porgermi il tuo lume or sei pregato: trâmi, onde uscir per me sol m’è vietato, da questa di miserie oscura valle. E donami destrezza e virtù tale, che, posti i miei disir tutti ad un segno, saglia ove, amando il nome tuo, si sale, a fruire i tesori del tuo regno; sì ch’inutil per me non resti e frale la preziosa tua morte e ‘l tuo legno.
*
Purga, Signor, omai l’interno affetto de la mia coscienzia, sì ch’io miri solo in te, te solo ami, te sospiri, mio glorioso, eterno e vero obietto. Sgombra con la tua grazia dal mio petto tutt’altre voglie e tutt’altri disiri; e le cure d’amor tante e i sospiri, che m’accompagnan dietro al van diletto. La bellezza ch’io amo è de le rare che mai facesti; ma poi ch’è terrena, a quella del tuo regno non è pare. Tu per dritto sentier là su mi mena, ove per tempo non si può cangiare l’eterna vita in torbida, e serena.
*
Mesta e pentita de’ miei gravi errori e del mio vaneggiar tanto e sì lieve, e d’aver speso questo tempo breve de la vita fugace in vani amori, a te, Signor, ch’intenerisci i cori, e rendi calda la gelata neve, e fai soave ogn’aspro peso e greve a chiunque accendi di tuoi santi ardori, ricorro, e prego che mi porghi mano a trarmi fuor del pelago, onde uscire, s’io tentassi da me, sarebbe vano. Tu volesti per noi, Signor, morire, tu ricomprasti tutto il seme umano; dolce Signor, non mi lasciar perire!
*
(Da Rime di Gaspara Stampa, Biblioteca Universale Rizzoli, 1978)
Gaspara Stampa-
Biografia-Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
Gaspara Stampa (Padova, 1523 – Venezia, 23 aprile1554) -Nacque a Padova verso il 1523 da un ramo cadetto della famiglia Stampa: alla morte del padre Bartolomeo (1531), commerciante di gioielli, la vedova Cecilia, con Gaspara e i fratelli Baldassare e Cassandra, si trasferì a Venezia. Cassandra era cantante e Baldassare poeta: quest’ultimo morì per malattia nel 1544 a diciannove anni[1], e ciò turbò molto Gaspara, tanto da farle meditare una vita monacale, stimolata su questa strada da suor Paola Antonia Negri[2]; di lui restano i sonetti stampati con quelli della ben più nota sorella.[3]
In laguna venne accolta dalla raffinata ed istruita società veneziana; al suo interno condusse una vita elegante e spregiudicata, segnalandosi per la sua bellezza e per le sue qualità. Fu difatti cantante e suonatrice di liuto[2], oltre che poetessa, ed entrò nell’Accademia dei Dubbiosi con il nome di Anasilla (così veniva chiamato in latino il fiume Piave – Anaxus – che attraversava il feudo dei Collalto, cui apparteneva quel Collaltino che lei amò). L’abitazione degli Stampa divenne uno dei salotti letterari più famosi di Venezia, frequentato dai migliori pittori, letterati e musicisti del Veneto, e molti accorrevano a seguire le esecuzioni canore di Gaspara delle liriche di Petrarca[1].
Sufficientemente colta nella letteratura, nell’arte e nella musica, Gaspara fu portata dalla forte carica della sua personalità a vivere in modo libero diverse esperienze amorose, che segnano profondamente la sua vita e la sua produzione poetica. I romantici videro in lei una novella Saffo, anche per la sua breve esistenza, vissuta in maniera intensamente passionale. La vicenda della poetessa va però ridimensionata e collocata nel quadro della vita mondana del tempo, dove le relazioni sociali, comprese quelle amorose, rispondono spesso a un cerimoniale e ad una serie di convenzioni precise. Fra queste è da segnalare l’amore per il conte Collaltino di Collalto, uomo di guerra e di lettere, che durò circa tre anni (1548-1551): tuttavia a causa di lunghi periodi di lontananza Collaltino non ricambiò il sentimento intenso che Gaspara provò per lui, e la relazione si concluse con l’abbandono della poetessa, che attraversò anche una profonda crisi spirituale e religiosa[4].
Morì a Venezia il 23 aprile 1554[5], dopo quindici giorni di febbri intestinali (mal cholico): alcune fonti riportano che si suicidò con il veleno per motivi amorosi, altre che le pene d’amore peggiorarono la sua salute fino a condurla alla morte per malattia.
Le Rime
A Collaltino è dedicata la maggior parte delle 311 rime della Stampa (pubblicate dalla sorella Cassandra nel 1554 e dedicate a Giovanni Della Casa), che, concepite secondo il modello petrarchesco, costituiscono una delle più interessanti raccolte liriche del Cinquecento fra cui Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto. Daniele Ponchiroli ha definito così queste rime: «Umanamente complesso, ricco di “moderna” psicologia, il canzoniere della Stampa, che la nostra romantica sensibilità ha visto soprattutto come un “ardente diario” amoroso, risente dell’inquieta originalità di una vicenda umana “confessata” con femminile espansione. Nessun altro canzoniere cinquecentesco ci offre un così vivo interesse documentario e psicologico».
L’originalità coincide con i limiti stessi di una versificazione che tende a risolversi nelle forme immediate e quasi discorsive di una confessione autobiografica, rifiutando una più complessa elaborazione tecnico-formale del discorso poetico. Luigi Baldacci ha detto: «Il valore della sua poesia, la sua possibilità di suscitare un’eco, consistono nell’aver saputo quasi sempre rifiutare l’esperienza retorica dei contemporanei e nell’essersi umiliata il più delle volte, secondo un’elezione istintiva, a un uso della poesia che certo quel secolo non conobbe mai così immediato, o se conobbe si preoccupò di schermare perché lo stesso elemento biografico si portasse a un più alto grado di mito petrarchesco e di rievocazione di quella paradigmatica vicenda. […] E per questo a proposito di Gasparina si è parlato, anche ai nostri tempi, di diario: definizione che trova conferma in un intervento di troppo immediata biografia in quello che dovrebbe essere il dominio più sacro della poesia. Questo, si sa, fu il suo limite, ma anche la ragione della sua positiva eccentricità di fronte alla cultura poetica del suo tempo, della quale le era ignoto il calcolo e la tecnica del dettare».
Dalla professione di musicista la Stampa ebbe come dice Ettore Bonora “l’impulso a svolgere in un tessuto melodico tenue e vario la sua lirica amorosa, alleggerendo la poetica petrarchesca, pure a lei presente, in forme che toccano sovente la grazia e la facile orecchiabilità di componenti popolari”, e in particolare nel gruppo dei madrigali “il virtuosismo melodico arriva a riscattare la facilità quasi convenzionale delle immagini, trasforma la parola in sospiro, come avverrà a tanta poesia melodrammatica che appunto dai madrigali prese l’avvio per i suoi movimenti più patetici”.
Opere
Rime di madonna Gaspara Stampa, Venezia, Plinio Pietrasanta 1554 che ha pubblicato la sorella.
Arsi, piansi, cantai, spettacolo di Margherita Stevanato con un testo originale di Luciano Menetto e musiche di Claudio Ambrosini in occasione dei cinquecento anni dalla nascita (1523-2023)
Note
Copia archiviata (PDF), su simonescuola.it. URL consultato il 28 marzo 2013 (archiviato dall’url originale il 7 aprile 2014).
^Rime […] di Gaspara Stampa con alcune altre […] di Baldassare Stampa, Venezia, Francesco Piacentini, 1738, pp. 191-208.
^ Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Testi e storia della letteratura, Torino, Paravia, 2010, vol. B: L’Umanesimo, il Rinascimento e l’età della Controriforma, pag. 168-171
^ Giulio Reichenbach, Gaspara Stampa, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1935. URL consultato il 24 agosto 2023.
Bibliografia
Luigi di San Giusto, Gaspara Stampa, Bologna-Modena, A.F.Formiggini, 1909.
Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Testi e storia della letteratura, Torino, Paravia, 2010, vol. B: L’Umanesimo, il Rinascimento e l’età della Controriforma, pag. 168-171.
Ettore Bonora ,Gaspara Stampa, Storia Lett. Italiana, Milano, Garzanti, 1966, pp.271-76
Mario Pazzaglia, Scrittori e critici della letteratura italiana, Bologna, Zanichelli, 1979, vol. 2., pag. 290-291.
Stefano Bianchi, La scrittura poetica femminile nel Cinquecento veneto: Gaspara Stampa e Veronica Franco, Manziana, Vecchiarelli, 2013. ISBN 978-88-8247-337-2
Roberta Lamon, Le Donne nella Storia di Padova, Padova, 2013, pagine 34-36
Camillo Brezzi-L’ultimo viaggio nei lager. Dalle leggi razziste alla Shoah.
Editore il Mulino
Camillo Brezzi-L’ultimo viaggio nei lager.
L’ultimo viaggio nei lager di Camillo Brezzi, il Mulino-Tre citazioni brevi vi danno subito l’idea telegrafica del saggio di cui vi parleremo “
Il viaggio verso Auschwitz – pochi ne parlano perché pochi sono tornati- è uno dei capitoli più terribili della shoah.Il mio è durato sei giorni” (Liliana Segre).
“Nessuno però ci aveva detto che la nostra idea di peggio era uno scherzo in confronto all’inferno che ci attendeva (Sami Modiano).
“Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo (Primo Levi ).
Camillo Brezzi ha insegnato storia contemporanea all’Università Siena-Arezzo,ha al suo attivo numerosi saggi ed è direttore scientifico della Fondazione Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. In meno di 200 pagine l’autore ha sintetizzato, pensando soprattutto agli studenti, la più grande tragedia umanitaria, rappresentata dalla shoah, della seconda guerra mondiale. Non c’è nulla di nuovo, rispetto all’ampia letteratura sulla tragedia ebraica esistente. L’autore si è assunto però il difficile compito di realizzare una sintesi dei documenti,di una parte importante delle testimonianze e,in generale, della lo storia della shoah. Si ripercorrono anche i percorsi di alcuni deportati, a partire dalle fasi iniziali della “soluzione finale”. E poi ,l’arresto, il viaggio, l’arrivo ad Auschwitz-Birkenau. Cominciava così la discesa all’inferno, che abbiamo visto (nei tanti film e documentari) e letto in numerosi libri. Per ricordarcelo vengono riportate le testimonianze di Primo Levi, Liliana Segre, le sorelle Tatiana e Andrea Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina. Un libro fondamentale per capire- senza la necessità di consultare migliaia di volumi – un orrore troppo spesso dimenticato o sottovalutato.
La deportazione degli ebrei nei campi di sterminio rappresenta l’atto più drammatico della Seconda guerra mondiale. Un atto che fu messo in pratica dai nazisti con il solerte aiuto degli italiani, che si trattasse di militari della Repubblica Sociale o di comuni delatori. Il volume ripercorre le storie di alcuni deportati, concentrandosi sulle fasi iniziali della «soluzione finale»: l’arresto, poi il viaggio e l’arrivo sulla Judenrampe, la banchina di Auschwitz-Birkenau dove avveniva la prima selezione. È questa la prima tappa di una discesa all’inferno in cui i prigionieri cominciano a perdere lo status di esseri umani. Nei vagoni (usati solitamente per il trasporto di animali) viaggiano stretti, pressati uno all’altro, utilizzando un bidone per i bisogni corporali; i giorni e le notti si susseguono e si rischia di perdere la nozione del tempo; la fame e la sete si fanno sempre più crudeli, così come le urla dei comandi, pronunciati in una lingua incomprensibile ai più. Intrecciando le testimonianze di Liliana Segre, Primo Levi, le sorelle Tatiana e Andra Bucci, Shlomo Venezia, Pietro Terracina e Sami Modiano con quelle di altri sopravvissuti, il libro spalanca la porta su un orrore che non saremo mai in grado di comprendere fino in fondo, di cui è però necessario tramandare la memoria e mantenere salda la coscienza collettiva. Le impressioni, le sensazioni, le percezioni, che i salvati hanno restituito nelle loro memorie sono una preziosa fonte per ricostruire quell’indicibile tragedia, una ricchezza per gli studiosi, una grande pagina di letteratura civile.
Shakespeare and Company a Parigi: la libreria più affascinante del mondo
Nel cuore di Parigi, a pochi passi dalla cattedrale di Notre Dame, esiste la libreria storica più famosa del mondo: la Shakespeare and Company.
Parigi-Shakespeare and Company-Hemingway-e-Sylvia-
A Parigi esiste un posto speciale, teatro di incontro di grandi scrittori come Hemingway, Joyce e Fitzgerald: la libreria storica Shakesperare and Company, al civico 37 di Rue de la Bucherie. Entrare in questo magico luogo equivale a fare un salto indietro nel tempo, tra luci soffuse e libri che riempiono gli scaffali.La libreria Shakespeare and Company, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, è stata luogo d’incontro di famosissimi scrittori, come Hemingway e Ezra Pound. La sua storia ebbe infatti inizio nel 1919, quando Sylvia Beachdecise di aprire un luogo dedicato alla cultura al numero 8 di rue Dupuytren.
Parigi-Shakespeare and Company-James Joyce-with Sylvia Beach-at-Shakespeare-&-Co-Paris-1920
Nel 1941, la libreria fu costretta a chiudere i battenti a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale ma riaprì un decennio dopo, per volontà di George Whitmanche, tra l’altro, mise a disposizione dei posti letto da offrire a chi aveva necessità, secondo il motto: be not ihospitable to strangers lest they be angels in disguise (non essere ospitale verso gli estranei potrebbero essere angeli sotto mentite spoglie). Egli chiamava i suoi inquilini “trumbleweed”, ossia “rotolacampi” e li ospitava a patto che essi promettessero di leggere un libro ogni giorno e di svolgere qualche piccolo lavoretto, come per esempio spolverare i volumi.
Parigi-Shakespeare and Company-
George considerava la sua libreria alla stregua di un’opera letteraria: «Ho creato questa libreria nel modo in cui un uomo scriverebbe un romanzo, costruendo ogni stanza come se fosse un capitolo», raccontò. «Voglio che le persone aprano la porta nello stesso modo in cui aprono un libro; un libro che porta nel mondo magico della loro immaginazione».Oggi come ieri, la libreria Shakesperare and Company è il punto di riferimento di intellettuali e viaggiatori che non possono fare a meno di fare tappa tra i suoi scaffali pieni di libri. C’è ancora posto per i tumbleweed, purché essi accettino di scrivere una piccola autobiografia di una pagina su carta celeste e servendosi di una macchina da scrivere.
Parigi-Shakespeare and Company
La libreria Shakespeare and Companya Parigi si trova al N.37 di Rue de la Bûcherie ed è aperta tutti i giorni dalle 10 del mattino alle 23.00. La libreria si trova proprio nelle vicinanze del Quartiere Latino a Parigi e proprio a pochi passi a piedi dalla fermata Saint-Michel della Linea 4 della metro oppure anche dalla RER: Linea B e C con fermata a Saint-Michel – Notre-Dame da qui sono circa 300 metri a piedi per raggiungere la libreria.
Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier al Belvedere della Villa Reale di Monza-
Articolo di Paola Martino-Artuu Magazine
Monza-Le foto mai viste di Vivian Maier al Belvedere della Villa Reale- Vedere le mostre alla Villa Reale di Monza regala sempre grandi emozioni: il Belvedere poi offre una vista che vale tutta la visita, da una parte lungo il cannocchiale dei Giardini Reali, idealmente verso Vienna, e dall’altra parte lungo il grande Viale Cesare Battisti verso Milano. Ad impreziosire questo gioiello la mostra dedicata a Vivian Maier considerata, e a ragione, una delle pioniere e massime esponenti della street photography.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Unseen. Le foto mai viste di Vivian Maier è il titolo della mostra che la Villa Reale di Monza dedica, sino al 26 gennaio 2025 a questa straordinaria fotografa. Realizzata da Vertigo Syndrome in collaborazione con diChroma photography, è la più importante esposizione mai fatta in Italia su questa straordinaria, riservatissima artista. 220 opere, divise in nove sezioni.
Con la scatto silenzioso della sua Rolleiflex Vivian Maier ha immortalato per quasi cinque decenni il mondo che la circondava. Dai banchieri di Midtown ai senzatetto addormentati sulle panchine dei parchi, alle coppie che si abbracciavano o, molto spesso, riprendendo sé stessa.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Vivian Maier è oggi riconosciuta come una delle più importanti fotografe del XX secolo, nonostante il suo lavoro sia rimasto sconosciuto fino a poco prima della sua morte. Nata nel 1926, a New York, ha documentato con incredibile meticolosità la vita quotidiana nelle città americane, in particolare a Chicago e New York, per quasi quattro decenni, dagli anni Cinquanta agli anni Novanta. I suoi oltre 150.000 negativi coprono una vasta gamma di soggetti, spaziando dai ritratti di strada agli scatti di architettura, dai paesaggi urbani agli interni domestici, catturando con un occhio unico e sensibile le sfumature della vita ordinaria.
La storia misteriosa di Vivian Maier è un elemento cruciale che contribuisce al fascino senza tempo della sua figura. Non è solo la straordinaria qualità delle sue fotografie a catturare l’immaginazione del pubblico, ma anche la sua vita segreta e il contrasto tra la sua esistenza quotidiana e il suo talento nascosto.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Vivian ha lavorato per decenni come bambinaia, conducendo una vita apparentemente comune e anonima. Era descritta come una donna severa, riservata e solitaria. Tuttavia, nel silenzio e nella privacy, sviluppava un ineguagliabile talento fotografico, documentando con cura ogni aspetto del mondo che la circondava.
Ciò che rende ancora più intrigante la sua storia è che, durante la sua vita, nessuno era a conoscenza della vastità e della qualità della sua opera. Conservava gelosamente i suoi scatti in scatole e bauli, apparentemente senza mai cercare riconoscimento o pubblicazione. Questo “segreto” ha reso la sua scoperta nel 2007 ancora più sorprendente. Quando lo scrittore John Maloof acquistò casualmente i suoi negativi in un’asta, il mondo fu introdotto a un’artista completa che, fino a quel momento, non aveva lasciato traccia della sua immensa produzione fotografica.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
La vicenda di Vivian Maier tocca corde emotive profonde, perché rappresenta il classico archetipo dell’artista incompreso e invisibile, che realizza opere d’arte straordinarie nel silenzio, senza clamore o riconoscimenti. È una storia di talento, ma anche di mistero e solitudine, che ha colpito l’immaginario collettivo e ha contribuito a trasformarla in un’icona. Questa combinazione di segretezza personale e la forza visiva delle sue fotografie ha dato vita a una leggenda affascinante, dove l’arte e la vita si intrecciano in modo unico, facendo di Maier una delle figure più enigmatiche e celebrate del mondo della fotografia contemporanea.
Uno degli aspetti più straordinari dell’arte di Maier è la sua capacità di combinare il realismo umanista europeo con lo stile dinamico della street photography americana. Cresciuta in parte in Francia, ha portato con sé l’influenza del vecchio continente, fondendo questa sensibilità con l’energia e la modernità delle città americane. Le sue opere sono paragonate a quelle di maestri come Robert Frank, Diane Arbus, Robert Doisneau e Henri Cartier-Bresson, che come lei hanno saputo cogliere l’essenza dell’umanità attraverso la fotografia di strada.
In questa esposizione, curata da Anne Morin, si passa da una sala all’altra come in una sorta di racconto della percezione del mondo dell’artista.
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Si va dagli autoritratti che esplorano la sua identità attraverso soluzioni visive innovative, come il riflesso in uno specchio, una vetrina o la silhouette proiettata della sua ombra, mostrando la sua abilità di raccontarsi attraverso lo spazio che la circonda. L’attenzione per le persone comuni, in particolare alle donne che Vivian incontrava per strada. Lo sguardo sull’America del dopoguerra dove racconta il contrasto tra l’utopia del Sogno americano e la realtà vissuta dalle persone ai margini della società, mostrando la disuguaglianza sociale, il malessere e le contraddizioni nascoste dietro l’apparente prosperità. E poi i suoi bambini, quelli che Vivian Maier ha fotografato durante la sua carriera di bambinaia. Le fotografie a colori dei quartieri operai di Chicago, la raccolta di filmati in Super 8, dove Maier continua la sua esplorazione della vita cittadina, questa volta in movimento.
Fonte articolo -Artuu Magazine
Vivian Maier
Insomma, ognuna delle nove sezioni mostra uno spaccato del lavoro dell’artista e ci permette di scoprire una straordinaria fotografa che con le sue immagini profonde e mai banali racconta la “vita americana” della seconda metà del Ventesimo Secolo.
Paola Martino
Paola Martino-Giornalista – Artuu Magazine
Paola Martino Giornalista, appassionata di lingua araba e di arte, vive a Milano. Per focusmediterranee.com e ultimabozza.it scrive per la sezione Culture, soffermandosi su artisti, mostre, eventi e progetti culturali che non hanno confini. Per lei, infatti, la cultura è un mezzo per migliorare il dialogo e la conoscenza reciproca, anche tra le due sponde: Sud Europa e Nord Africa. Si è diplomata in lingua e cultura araba all’Ismeo di Milano e ha lavorato come giornalista radiofonica.
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