Fu uno dei più notevoli esponenti letterari italiani del periodo a cavallo fra Settecento e Ottocento, nel quale si manifestarono e cominciarono ad apparire in Italia le correnti neoclassiche e romantiche, durante l’età napoleonica e la prima Restaurazione.
Costretto fin da giovane ad allontanarsi dalla sua patria (l’isola greca di Zacinto/Zákynthos, oggi nota in italiano come Zante), allora territorio della Repubblica di Venezia, si sentì esule per tutta la vita, strappato da un mondo di ideali classici in cui era nato e cresciuto, tramite la sua formazione letteraria e il legame con la terra dei suoi antenati (nonostante un fortissimo legame con l’Italia, che considerava la propria madrepatria). La sua vita fu caratterizzata da viaggi e fughe, a causa di motivi politici (militò nelle forze armate degli Stati napoleonici, ma in maniera molto critica, e fu un oppositore degli austriaci, a causa del suo carattere fiero, dei suoi sentimenti italiani e delle sue convinzioni repubblicane), ed egli, privo di fede religiosa e incapace di trovare felicità nell’amore di una donna, avvertì sempre dentro di sé un infuriare di passioni.[3]
Come molti intellettuali della sua epoca, si sentì però attratto dalle splendide immagini dell’Ellade, simbolo di armonia e di virtù, in cui il suo razionalismo e il suo titanismo di stampo romantico si stemperavano in immagini serene di compostezza neoclassica, secondo l’insegnamento del Winckelmann.[4]
Tornato per breve tempo a vivere stabilmente in Italia e nel Lombardo-Veneto (allora ancora parte del Regno d’Italia napoleonico) nel 1813, partì presto in un nuovo volontario esilio e morì povero qualche anno dopo a Londra, nel sobborgo di Turnham Green. Dopo l’Unità d’Italia, nel 1871, le sue ceneri furono riportate per decreto del governo italiano in patria e inumate nella basilica di Santa Croce a Firenze, il Tempio dell’Itale Glorie da lui cantato nei Sepolcri (1806).
Ugo OJETTI -Lettera a John Dos Passos, Sulla Povera America.
Articolo scritto per la Rivista PEGASO N°8 del 1932 diretta da Ugo OJETTI
Biografia di John Dos Passos -nacque a Chicago, nell’Illinois, il 14 gennaio 1896, frutto di una relazione adulterina tra John Randolph Dos Passos (1844-1917), un benestante avvocato statunitense, figlio di immigrati portoghesi originari di Madera, già sposato al tempo del concepimento del futuro scrittore, e Lucy Addison Sprigg Madison, casalinga statunitense originaria di Petersburg, in Virginia. Dopo la morte della moglie, il padre di John si sposò con la madre di Dos Passos, ma ne riconobbe la paternità soltanto quando costui ebbe compiuto l’età di 16 anni.
Giovanissimo, Dos Passos è un radicale, il che, negli Stati Uniti dell’epoca, significa soprattutto essere un anarchico. Non a caso, infatti, Dos Passos figura tra i più accaniti difensori di Sacco e Vanzetti, i due emigrati italiani implicati in un clamoroso processo per le loro idee politiche di tipo libertario. Egli compie gli studi a Harvard, dove si laurea nel 1916, e dopo il college inizia a studiare architettura, ma è ancora molto giovane quando decide di dedicarsi interamente al giornalismo e alla narrativa. Sopraggiunta intanto la prima guerra mondiale, Dos Passos è dapprima sul fronte italiano, dove presta servizio nelle ambulanze della Croce Rossa francese, e in seguito nel corpo sanitario statunitense.
Biografia di John Dos Passos -nacque a Chicago, nell’Illinois, il 14 gennaio 1896, frutto di una relazione adulterina tra John Randolph Dos Passos (1844-1917), un benestante avvocato statunitense, figlio di immigrati portoghesi originari di Madera, già sposato al tempo del concepimento del futuro scrittore, e Lucy Addison Sprigg Madison, casalinga statunitense originaria di Petersburg, in Virginia. Dopo la morte della moglie, il padre di John si sposò con la madre di Dos Passos, ma ne riconobbe la paternità soltanto quando costui ebbe compiuto l’età di 16 anni.
Giovanissimo, Dos Passos è un radicale, il che, negli Stati Uniti dell’epoca, significa soprattutto essere un anarchico. Non a caso, infatti, Dos Passos figura tra i più accaniti difensori di Sacco e Vanzetti, i due emigrati italiani implicati in un clamoroso processo per le loro idee politiche di tipo libertario. Egli compie gli studi a Harvard, dove si laurea nel 1916, e dopo il college inizia a studiare architettura, ma è ancora molto giovane quando decide di dedicarsi interamente al giornalismo e alla narrativa. Sopraggiunta intanto la prima guerra mondiale, Dos Passos è dapprima sul fronte italiano, dove presta servizio nelle ambulanze della Croce Rossa francese, e in seguito nel corpo sanitario statunitense.
La fama
Dos Passos esordisce nel 1917 con One Man’s Initiation – 1917, pubblicato nel 1920, lo stesso anno di Di qua dal Paradiso () di .
Tre soldati
Con il suo secondo romanzo, Three Soldiers (I tre soldati) del 1921, lo scrittore si ritaglia un posto di rilievo tra i giovani autori del proprio tempo. John Andrews, un musicista che, stanco della propria libertà, decide, allo scoppio della Grande Guerra, di recarsi al fronte, convinto che il cameratismo e il campo di battaglia possano fargli ritrovare il senso della propria esistenza. Ma presto la vita militare trascorsa prima in America e poi in Francia, e la realtà della guerra lo sconvolgono tanto da spingerlo a disertare; mentre sta componendo una musica, ispirata dall’opera di Gustave Flaubert Le Tentation de Saint Antoine, la polizia lo arresta mentre i fogli della musica interrotta si disperdono nel vento, simbolico gesto della sua protesta estetica.
Manhattan Transfer
Nel 1925 lo scrittore pubblica Nuova York (Manhattan Transfer), in cui affronta il principio del collettivismo in modo più drammatico. Il romanzo si avvale di un frequente utilizzo del flusso di coscienza e di una tecnica narrativa particolare che l’autore perfezionerà poi nella trilogia USA. In esso si segue l’intrecciarsi, nell’arco di venti anni, delle vite di decine di personaggi appartenenti a vari strati sociali, che l’autore descrive mentre crescono, invecchiano, salgono o scendono sulla ruota della fortuna.
Tranne Jimmy Herf, il personaggio centrale del romanzo che riesce a fuggire dal divorante ingranaggio, tutti gli altri scompaiono risucchiati dalla città. Scritto con una prosa estremamente accurata, il libro non manca di perfette descrizioni di carattere impressionista, come “Il mozzo guardava le nuvole, steso sul dorso. Fluttuavano verso est, simili a grandi edifici ammassati, che rompevano a tratti la luce del sole, candida e brillante come carta argentata”.[1]
La trilogia USA
Con la trilogia USA, composta da The 42nd parallel (Il 42º parallelo), 1919 e The Big money (Un mucchio di quattrini), pubblicati rispettivamente nel 1930, 1932 e 1936, Dos Passos ritorna sul tema del collettivismo abbracciando questa volta tutta l’America. Dos Passos usa tecniche di scrittura sperimentali, inserendo ritagli di giornali, autobiografia, biografia e finzione realista per dipingere un panorama della cultura americana durante i primi decenni del XX secolo. Anche se ciascun romanzo è autonomo, la trilogia è progettata per essere letta come un’unica entità.
Le riflessioni sociali e politiche di Dos Passos espresse in questi romanzi sono profondamente pessimistiche, riguardo alla direzione politica e economica in cui si muovevano gli Stati Uniti; pochi dei suoi personaggi riescono a restare fedeli ai propri ideali durante la prima guerra mondiale. In 1919, l’autore parla del massacro di Centralia, Washington, avvenuto nel giorno commemorativo dell’armistizio della prima guerra mondiale. Questo scontro sanguinoso, determinato dalla paura del “pericolo rosso”, aveva contrapposto i Wobblies, lavoratori dell’IWW (Industrial Workers of the World), ai reduci dell’American Legion. A questo evento s’ispira Chaim Potok quando, in L’arpa di Davita, racconta di un giornalista statunitense morto in Spagna nel massacro di Guernica e che in gioventù era stato colpito profondamente dal massacro di Centralia.
La trilogia Columbia
Insieme a Ernest Hemingway nel 1937 prende parte alla guerra civile spagnola, nelle file dei repubblicani. I due amici scrivono insieme il film-documentario Terra di Spagna (The Spanish Earth), diretto dal regista Joris Ivens. L’assassinio a Madrid ad opera dei sovietici dell’amico José Robles, che gli aveva tradotto i romanzi in Spagna, sospettato di essere una spia dei franchisti solo perché il fratello combatteva con i nazionalisti, lo allontanano dal comunismo e rompe anche con Hemingway. Nel 1939 pubblica Le avventure di un giovane americano, che narra di un disincantato giovane radicale americano che combatte a fianco della Seconda repubblica spagnola durante la Guerra Civile dove verrà ucciso. È il primo racconto della trilogia detta del distretto di Columbia, cui seguono Numero uno (1943) e Il grande paese (1949).
Alla fine degli anni trenta, Dos Passos scrive una serie di articoli critici verso il comunismo come teoria politica, dopo aver già ritratto nel 1936 in The Big Money un comunista idealista che gradualmente logorato e poi distrutto dal pensiero unico del partito. In quegli anni il comunismo sta guadagnando consensi in Europa, in quanto oppositore del fascismo, e gli scritti di Dos Passos subiscono una brusca flessione delle vendite. Le sue opinioni politiche, che avevano sempre sostenuto i suoi lavori, si spostano intanto verso la destra più conservatrice. Tra il 1942 e il 1945, durante la seconda guerra mondiale, è corrispondente di guerra.
Il dopoguerra
Nel 1947 è eletto alla American Academy of Arts and Letters. Quell’anno sua moglie, Katharine Smith, con cui era sposato da 18 anni, muore in un incidente stradale, in cui Dos Passos perde un occhio. Dos Passos si risposa nel 1949 con Elizabeth Hamlyn Holdridge (1909-1998), da cui ha Lucy Hamlin Dos Passos, nata nel 1950. Sempre più a destra, arriva ad ammirare McCarthy nei primi anni cinquanta e negli anni ’60 sostiene alle presidenziali i repubblicani Goldwater e Nixon.
Un riconoscimento europeo per la sua carriera letteraria gli arriva solo nel 1967, quando l’Accademia dei Lincei lo invita a Roma per ritirare il prestigioso Premio Internazionale Feltrinelli per i suoi meriti.[2] Continua a scrivere fino alla morte, sopraggiunta a Baltimora nel 1970. Dos Passos scrisse quarantadue romanzi, poesie, saggi e opere teatrali. Fu anche pittore.
Note
^ John Dos Passos, Nuova York, Dall’Oglio editore, Milano, 1946 pag 21
^Premi Feltrinelli 1950-2011, su lincei.it. URL consultato il 17 novembre 2019.
Bibliografia
Against American Literature (1916, saggio)
One Man’s Initiation: 1917 (1920, romanzo), tr. Giorgio Monicelli, Iniziazione, Elmo, Milano 1949; tr. Alessandro Pugliese, Iniziazione di un uomo, Marietti, Bologna 2020
Letters and Diaries 1916-1920 (in Travel Books and Other Writings, 1916-1941)
Three Soldiers (1921, romanzo), tr. Lamberto Rem Picci, Il mondo fuori casa, Jandi Sapi, Roma 1944; tr. Luigi Ballerini, I tre soldati, Casini, Roma 1967
Rosinante to the Road Again (1922, articoli di viaggio)
The Baker of Almorox oppure Young Spain (1917)
Antonio Machado: Poet of Castile (1920)
Farmer Strikers in Spain oppure Cordova No Longer of the Caliphs (1920)
An Inverted Midas (1920)
America and the Pursuit of Happiness (1920), parte di The Donkey Boy
A Catalan Poet (1921)
A Gesture of Castile oppure A Gesture and a Quest (1921)
Benavente’s Madrid (1921)
Talk by the Road (1921)
Toledo (1922)
Andalusian Ethics (1922, parte di The Donkey Boy
A Pushcart at the Curb (1922, poesie)
Streets of Night (1923)
Manhattan Transfer (1925, romanzo), tr. Alessandra Scalero Nuova York, Corbaccio, Milano 1932; Dall’Oglio, Milano 1946; Mondadori, Milano 1953; come Manhattan Transfer, Baldini e Castoldi, Milano 2002; collana Romanzi e Racconti, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003-2006-2012-2014.
Is the “Realistic” Theatre Obsolete? (1925) saggio
Facing the Chair. Story of the Americanization of Two Foreignborn Workmen (1927, saggio), tr. Filippo Benfante e Piero Colacicchi, Davanti alla sedia elettrica. Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2005
Orient Express (1927, articoli di viaggio, trad. it. di Maurizio Bartocci, coll. meledonzelli, Donzelli editore, 2011 ISBN 978-88-6036-574-3)
Out of Turkish Coffee Cups (1921)
Constant (1921)
In a New Republic (1921)
Red Caucasus (1921)
One Hundred Views of Ararat (1922)
Of Phaetons oppure Opinions of the Sayyid
Table D’Hôte (1926), con la poesia Crimson Tent
Homer of the Transsiberian (1926, su Blaise Cendrars)
The Pit and the Pendulum oppure The Wrong Set of Words (1926)
Relief Map of Mexico (1927)
Zapata’s Ghost Walks (1927)
Rainy Days in Leningrad (1929)
The New Theater in Russia (1930), parte di Some Sleepy Nights Round Moscow
Harlan: Working Under the Gun oppure Harlan County Sunset (1931)
Red Day on Capitol Hill (1931), parte di Views of Washington
Washington and Chicago (1932), parte di Views of Washington
Out of the Red with Roosevelt (1932), parte di On the National Hookup
Detroit, City of Leisure (1932)
Doves in the Bullring (1934)
Brooklyn to Helingsfor (1934)
The Radio Voice (1934), parte di On the National Hookup
Notes on the Back of a Passport (1934), parte di Rainy Days in Leningrad
Between Two Roads (1934)
The Unemployment Report (1934), parte di More Views of Washington
Another Redskin Bites the Dust oppure Emiliano Zapata (1934)
Spain Gets Her New Deal oppure Topdog Politics e Underdog Politics (1934)
Washington: The Big Tent1934), parte di More Views of Washington
Another Plea for Recognition oppure The Malaria Man (1934)
Mr. Green Meets His Constituents (1934), parte di More Views of Washington
Grosz Comes to America (1936, saggio)
Farewell to Europe! (1937, saggio)
Journeys Between Wars (1938, articoli di viaggio in precedenza pubblicati in volume anche con titolo diverso, o qui riuniti, oltre a:)
The Villages are the Heart of Spain (1937)
Introduction to Civil War oppure A Spring Month in Paris (1937), tr. Paola Ojetti, Introduzione alla guerra civile, Mondadori, Milano 1947 (contiene altri articoli)
Spanish Diary (1937)
Road to Madrid (1937) oppure Coast Road South e Valencia—Madrid
Room and Bath at the Hotel Florida oppure Madrid Under Siege (1938)
U.S.A. (1938, trilogia dei romanzi:)
The 42nd Parallel (1930), tr. Cesare Pavese, Il quarantaduesimo parallelo, Mondadori, Milano 1934; Rizzoli, Milano 2008
Nineteen Nineteen oppure 1919 (1932), tr. Glauco Cambon, Millenovecentodiciannove, Mondadori, Milano 1951
The Big Money (1936), tr. Cesare Pavese, Un mucchio di quattrini, Mondadori, Milano 1938
The Death of José Robles (1939, saggio)
To a Liberal in Office (1941, saggio)
The Ground We Stand On. Some Examples from the History of a Political Creed (1941, saggio), tr. Giorgio Monicelli, Le vie della libertà, Mondadori, Milano 1948
State of the Nation (1944)
Tour of Duty (1946, romanzo), tr. Glauco Cambon, Servizio speciale, Mondadori, Milano 1950; tr. Giancarlo Buzzi, Servizio speciale, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008
The Prospect before Us (1950)
District of Columbia (1952, trilogia dei romanzi:)
Adventures of a Young Man (1939), tr. Enzo Giachino, Le avventure di un giovane americano, Rizzoli, Milano 1984
Number One (1943), tr. Fluffy Mella Mazzucato, Numero uno, Mondadori, Milano 1952
The Grand Design (1949), tr. Luigi Brioschi, Il grande paese, Rizzoli, Milano 1968; De Agostini, Novara 1986
Chosen Country (1951, romanzo), tr. Glauco Cambon, Riscoperta dell’America, Mondadori, Milano 1954; Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006
Most Likely to Succeed (1954, romanzo), tr. Lydia Lax, Un uomo che promette bene, Vincitorio, Milano 1972
The Head and Heart of Thomas Jefferson (1954, saggio), tr. Rodolfo del Minio, Thomas Jefferson, Mondadori, Milano 1963
The Men Who Made the Nation (1957, saggio)
The Great Days (1958, romanzo), tr. Bruno Oddera, Giorni memorabili, Feltrinelli, Milano 1963
Prospects of a Golden Age (1959)
Midcentury (1961, romanzo), tr. Bruno Oddera, A metà secolo, Feltrinelli, Milano 1965
Mr. Wilson’s War (1962)
Brazil on the Move (1963)
The Best Times: An Informal Memoir (1966, autobiografia), tr. Lina Angioletti, La bella vita, Palazzi, Milano 1969; come Tempi migliori, SugarCo, Milano 1991; Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004
The Shackles of Power. Three Jeffersonian Decades (1966, saggio)
World in a Glass. A View of Our Century From the Novels of John Dos Passos (1966)
The Portugal Story (1969)
Century’s Ebb: The Thirteenth Chronicle (1970)
Easter Island: Island of Enigmas (1970)
The Fourteenth Chronicle: Letters and Diaries of John Dos Passos, a cura di Townsend Ludington (1973)
John Dos Passos: the Major Nonfictional Prose, a cura di Donald Pizer (1988)
Travel Books and Other Writings, 1916-1941, a cura di Townsend Ludington (2003)
Lettres à Germaine Lucas Championnière –
Biografia di Ugo Ojetti –
Figlio della spoletina Veronica Carosi e del noto architetto Raffaello Ojetti, personalità di vastissima cultura, consegue la laurea in giurisprudenza e, insieme, esordisce come poeta (Paesaggi, 1892). È attratto dalla carriera diplomatica, ma si realizza professionalmente nel giornalismo politico. Nel 1894 stringe rapporti con il quotidiano nazionalista La Tribuna, per il quale scrive i suoi primi servizi da inviato estero, dall’Egitto.
Nel 1895 diventa immediatamente famoso con il suo primo libro, Alla scoperta dei letterati, serie di ritratti di scrittori celebri dell’epoca[1] redatti in forma di interviste, genere all’epoca ancora in stato embrionale. Scritto con uno stile che si pone fra la critica ed il reportage, il testo viene considerato, e come tale fa discutere, un momento di analisi profonda del movimento letterario dell’epoca. L’anno seguente Ojetti tiene a Venezia la conferenza “L’avvenire della letteratura in Italia”, che suscita un vasto numero di commenti in tutto il Paese.
I suoi articoli diventano molto richiesti: scrive per Il Marzocco (1896-1899), Il Giornale di Roma, Fanfulla della domenica e La Stampa. La critica d’arte occupa la maggior parte della sua produzione. Nel 1898 inizia la collaborazione con il Corriere della Sera, che si protrae fino alla morte.[2]
Tra il 1901 e il 1902 è inviato a Parigi per il Giornale d’Italia; dal 1904 al 1909 collabora a L’Illustrazione Italiana: tiene una rubrica intitolata “Accanto alla vita”, che poi rinomina “I capricci del conte Ottavio” (“conte Ottavio” è lo pseudonimo con cui firma i suoi pezzi sul settimanale). Nel 1905 si sposa con Fernanda Gobba e prende domicilio a Firenze; dal matrimonio tre anni dopo nasce la figlia Paola. Dal 1914 abiterà stabilmente nella vicina Fiesole. Invece trova nella villa paterna di Santa Marinella (Roma), soprannominata “Il Dado”, il luogo ideale in cui riposarsi, trascorrere le sue vacanze e scrivere le sue opere.
Partecipa come volontario alla prima guerra mondiale. All’inizio della guerra riceve l’incarico specifico di proteggere dai bombardamenti aerei le opere d’arte di Venezia. Nel marzo 1918 fu nominato “Regio Commissario per la propaganda sul nemico”. Fu incaricato di scrivere il testo del volantino, stampato in 350 000 copie in italiano e in tedesco, che fu lanciato il 9 agosto, dai cieli di Vienna dalla squadriglia comandata da Gabriele D’Annunzio.[3]
Nel 1920 fonda la sua rivista d’arte, Dedalo (Milano, 1920-1933), dove si occupa di storia dell’arte antica e moderna. Dall’impostazione della rivista dimostra una sensibilità e un modo di accostarsi all’arte e di divulgarla diversi dai canoni del tempo. La rivista diventa subito occasione d’incontro tra critici, intellettuali, artisti come Bernard Berenson, Matteo Marangoni, Piero Jahier, Antonio Maraini, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Pietro Toesca, Lionello Venturi e Roberto Longhi. L’idea di base della rivista è che l’opera d’arte abbia valore di testimonianza visibile della storia e delle civiltà più di ogni altra fonte. Nel 1921 avvia una rubrica sul Corriere utilizzando lo pseudonimo “Tantalo”. Tiene la rubrica ininterrottamente fino al 1939.
Sul finire del decennio inaugura una nuova rivista, Pegaso (Firenze, 1929-1933). Infine, lancia la rivista letteraria Pan, fondata sulle ceneri della precedente esperienza fiorentina. Tra il 1925 e il 1926 collabora anche a La Fiera Letteraria. Tra il 1926 ed il 1927 è direttore del Corriere della Sera.
È tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925 ed è nominato Accademico d’Italia nel 1930. Fa parte fino al 1933 del consiglio d’amministrazione dell’Enciclopedia Italiana. Ojetti organizza numerose mostre d’arte e dà vita ad importanti iniziative editoriali, come Le più belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi per l’editrice Treves e I Classici italiani per la Rizzoli. Sul significato dell’architettura nelle arti ebbe a dire:
«l’architettura è nata per essere fondamento, guida, giustificazione e controllo, ideale e pratico, d’ogni altra arte figurativa»
La finestra di Ojetti a villa Il Salviatino con una targa che lo ricorda
Collaborò anche con il cinema: nel 1939 firmò l’adattamento per la prima edizione sonora de I promessi sposi, che costituì la base della sceneggiatura per il film del 1941 di Mario Camerini.
Aderì alla Repubblica Sociale Italiana[4]; dopo la liberazione di Roma, nel 1944, fu radiato dall’Ordine dei giornalisti. Passò gli ultimi anni nella sua villa Il Salviatino, a Fiesole, dove morì nel 1946.
Antonio Gramsci scrisse che « la codardia intellettuale dell’uomo supera ogni misura normale ». Indro Montanelli lo ricordò sul: « È un dimenticato, Ojetti, come in questo Paese lo sono quasi tutti coloro che valgono. Se io dirigessi una scuola di giornalismo, renderei obbligatori per i miei allievi i testi di tre Maestri: Barzini, per il grande reportage; Mussolini (non trasalire!), quello dell’Avanti! e del primo Popolo d’Italia, per l’editoriale politico; e Ojetti, per il ritratto e l’articolo di arte e di cultura ».
Opere
Letteratura
Paesaggi (1892)
Alla scoperta dei letterati: colloquii con Carducci, Panzacchi, Fogazzaro, Lioy, Verga (Milano, 1895); ristampa xerografica, a cura di Pietro Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1967.
Scrittori che si confessano (1926),
Ad Atene per Ugo Foscolo. Discorso pronunciato ad Atene per il centenario della morte, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928.
Profondo conoscitore ed appassionato studioso d’arte, Ugo Ojetti ha pubblicato sull’argomento diversi importanti libri:
L’esposizione di Milano (1906),
Ritratti d’artisti italiani (in due volumi, 1911 e 1923),
Il martirio dei monumenti, 1918
I nani tra le colonne, Milano, Fratelli Treves Editori, 1920
Raffaello e altre leggi (1921),
La pittura italiana del Seicento e del Settecento (1924),
Il ritratto italiano dal 1500 al 1800 (1927),
Tintoretto, Canova, Fattori (1928),
Atlante di storia dell’arte italiana, con Luigi Dami (due volumi, 1925 e 1934),
Paolo Veronese, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928,
La pittura italiana dell’Ottocento (1929),
Bello e brutto, Milano, Treves, 1930
Ottocento, Novecento e via dicendo (Mondadori, 1936),
Più vivi dei vivi (Mondadori, 1938).
In Italia, l’arte ha da essere italiana?, Milano, Mondadori, 1942.
Romanzi
L’onesta viltà (Roma, 1897),
Il vecchio, Milano, 1898
Il gioco dell’amore, Milano, 1899
Le vie del peccato (Baldini e Castoldi, Milano, 1902),
Il cavallo di Troia, 1904
Mimì e la gloria (Treves, 1908),
Mio figlio ferroviere (Treves, 1922).
Racconti
Senza Dio, 1894
Mimì e la gloria, 1908
Donne, uomini e burattini, Milano, Treves, 1912
L’amore e suo figlio, Milano, Treves, 1913
Teatro
Un Garofano (1902)
U. Ojetti-Renato Simoni, Il matrimonio di Casanova: commedia in quattro atti (1910)
Reportages
L’America vittoriosa (Treves, 1899),
L’Albania (Treves, 1902); nuova edizione, con cartina originale “La Grande Albania”, in Ugo Ojetti, Olimpia Gargano (a cura di), L’Albania, Milano, Ledizioni, 2017.
L’America e l’avvenire (1905).
Raccolte di articoli
Articoli scritti fra il 1904 e il 1908 per L’Illustrazione Italiana: I capricci del conte Ottavio (due voll., usciti rispettivamente nel 1908 e nel 1910)
Articoli per il Corriere della Sera: Cose viste (7 voll.: I. 1921-1927; II. 1928-1943). L’opera è stata anche tradotta in lingua inglese.
Memorie e taccuini
Confidenze di pazzi e savi sui tempi che corrono, Milano, Treves, 1921.
Vita vissuta, a cura di Arturo Stanghellini, Milano, Mondadori, 1942.
I Taccuini 1914-1943, a cura di Fernanda e Paola Ojetti, Firenze, Sansoni, 1954. [edizione censurata, con molti passi espunti]
Ricordi di un ragazzo romano. Note di un viaggio fra la vita e la morte, Milano, 1958.
I taccuini (1914-1943), a cura di Luigi Mascheroni, prefazione di Bruno Pischedda, Torino, Aragno, 2019, ISBN 978-88-841-9989-8.
Aforismi
Ojetti è celebre anche per i suoi aforismi, massime e pensieri, molti dei quali sono raccolti nei 352 paragrafi di Sessanta, volumetto scritto dall’autore nel 1931 per i suoi sessant’anni e pubblicato nel 1937 da Mondadori.
Lettere
Venti lettere, Milano, Treves, 1931.
Lettere alla moglie (1915-1919), a cura di Fernanda Ojetti, Firenze, Sansoni, 1964.
Intitolazioni
Presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi si è tenuta una mostra dedicata alle fotografia scattate per la rivista e che costituiscono il Fondo Ojetti.[7]
Leone Ginzburg -Contributo alla celebrazione di Dostoevskij Fëdor Michajlovič-
Articolo scritto per la Rivista PEGASO n°4 del 1931 diretta da Ugo Ojetti
Biografia di Dostoevskij Fëdor Michajlovič-nasce a Mosca nel 1821 come Fëdor Michajlovic Dostoevskij ed è considerato il maggior romanziere russo grazie alla sua prolifica produzione letteraria. La sua formazione avviene in un ambiente piuttosto religioso e autoritario, tanto che alla morte della madre viene costretto dal padre, medico aristocrativo decaduto, a frequentare la scuola del genio militare di San Pietroburgo che frequenta malvolentieri dal momento in cui il suo vero amore è già la letteratura.
Subito dopo il diploma, rinuncia alla carriera militare per scrivere invece il suo primo romanzo, Povera gente, che ha un grande successo. Successivamente scrive Il sosia e Le notti bianche, deludendo parzialmente i suoi primi estimatori. Tra questi un critico, Belinskij, che lo aveva acclamato come scrittore esordiente.
Nel 1849 Dostoevskij aderisce a un circolo di intellettuali socialisti e per questo viene condannato a morte, anche se poco dopo arriva la grazia da parte dello Zar Nicola I e la condanna a quattro mesi di esilio in Siberia e quattro di arruolamento forzato.
Nel 1857 Dostoevskij sposa una giovane vedova: subito dopo il matrimonio torna alla letteratura con Il villaggio di Stepancikovo e Il sogno dello zio.
Nel 1861 inizia a scrivere in qualità di giornalista per la rivista Il tempo. Qui compaiono due nuove opere: Memorie da una casa di morti (racconto dell’esperienza siberiana) e Umiliati e offesi.
Dopo un viaggio in Inghilterra, Francia e Germania esprime giudizi netti e negativi sulla civiltà occidentale, poi fonda il periodico Epoca e pubblica due opere che lo consacreranno definitivamente nell’Olimpo degli scrittori: Memorie del sottosuolo e Delitto e castigo. Entrambe gli procureranno buona fama ma scarso successo economico.
Rimasto vedovo, nel 1867 sposa in seconde nozze la propria stenografa, Anna Snitkina. Pubblica poi Il giocatore, romanzo autobiografico in cui confessa la sua rovinosa passione per la roulette.
La sua situazione economica non è delle migliori: per sfuggire ai creditori si trasferisce all’estero con la moglie e scrive un altro romanzo che gli procurerà una fama imperitura: L’idiota. Una volta tornato in Russia nel 1873 pubblica I demoni.
Segue un periodo molto prolifico che lo porterà a scrivere I fratelli Karamazov e che si protrae fino al 1880. Nel 1881 muore improvvisamente a Pietroburgo.
Biografia di Dostoevskij Fëdor Michajlovič-
Dostoevskij nasce a Mosca nel 1821 come Fëdor Michajlovic Dostoevskij ed è considerato il maggior romanziere russo grazie alla sua prolifica produzione letteraria. La sua formazione avviene in un ambiente piuttosto religioso e autoritario, tanto che alla morte della madre viene costretto dal padre, medico aristocrativo decaduto, a frequentare la scuola del genio militare di San Pietroburgo che frequenta malvolentieri dal momento in cui il suo vero amore è già la letteratura.
Subito dopo il diploma, rinuncia alla carriera militare per scrivere invece il suo primo romanzo, Povera gente, che ha un grande successo. Successivamente scrive Il sosia e Le notti bianche, deludendo parzialmente i suoi primi estimatori. Tra questi un critico, Belinskij, che lo aveva acclamato come scrittore esordiente.
Nel 1849 Dostoevskij aderisce a un circolo di intellettuali socialisti e per questo viene condannato a morte, anche se poco dopo arriva la grazia da parte dello Zar Nicola I e la condanna a quattro mesi di esilio in Siberia e quattro di arruolamento forzato.
Nel 1857 Dostoevskij sposa una giovane vedova: subito dopo il matrimonio torna alla letteratura con Il villaggio di Stepancikovo e Il sogno dello zio.
Nel 1861 inizia a scrivere in qualità di giornalista per la rivista Il tempo. Qui compaiono due nuove opere: Memorie da una casa di morti (racconto dell’esperienza siberiana) e Umiliati e offesi.
Dopo un viaggio in Inghilterra, Francia e Germania esprime giudizi netti e negativi sulla civiltà occidentale, poi fonda il periodico Epoca e pubblica due opere che lo consacreranno definitivamente nell’Olimpo degli scrittori: Memorie del sottosuolo e Delitto e castigo. Entrambe gli procureranno buona fama ma scarso successo economico.
Rimasto vedovo, nel 1867 sposa in seconde nozze la propria stenografa, Anna Snitkina. Pubblica poi Il giocatore, romanzo autobiografico in cui confessa la sua rovinosa passione per la roulette.
La sua situazione economica non è delle migliori: per sfuggire ai creditori si trasferisce all’estero con la moglie e scrive un altro romanzo che gli procurerà una fama imperitura: L’idiota. Una volta tornato in Russia nel 1873 pubblica I demoni.
Segue un periodo molto prolifico che lo porterà a scrivere I fratelli Karamazov e che si protrae fino al 1880. Nel 1881 muore improvvisamente a Pietroburgo.
le principali opere di Dostoevskij:
Povera gente (1846);
Il sosia (1846);
Le notti bianche (1848);
Il villaggio di Stepancikovo (1859);
Il sogno dello zio (1859);
Memorie da una casa di morti (1861-62);
Umiliati e offesi (1861);
Memorie del sottosuolo (1865);
Delitto e castigo (1866);
Il giocatore (1867);
L’idiota (1868-69);
I demoni (1873);
L’adolescente (1875);
Diario di uno scrittore (1876-81);
I fratelli Karamazov (1879-80)
Biografia di Leone Ginzburg
Leone Ginzburg- Nacque a Odessa dagli ebrei Fëdor Nikolaevič Ginzburg e Vera Griliches. Era l’ultimo di tre fratelli: lo precedevano Marussa (1896) e Nicola (1899). Era in realtà figlio naturale dell’italiano Renzo Segré, con cui la madre aveva avuto una fugace relazione mentre si trovava in villeggiatura a Viareggio; Fëdor lo aveva però riconosciuto come suo e Leone stesso lo considerò sempre come il proprio padre. Figura importantissima nell’infanzia di Leone fu l’italiana Maria Segré (sorella del suo padre naturale) che sin dal 1902 viveva presso la famiglia in qualità di istruttrice. Insegnò ai tre fratelli il francese e l’italiano e fu lei a creare i rapporti tra i Ginzburg e l’Italia. Leone fu per la prima volta in Italia nel 1910, quando trascorse le vacanze a Viareggio con la madre e i fratelli. Questa consuetudine si ripeté anche negli anni successivi sino allo scoppio della Grande Guerra, nel 1914: in quell’occasione la madre e i fratelli maggiori tornarono a Odessa mentre il figlio minore, per evitargli un pericoloso viaggio in mare, rimase nella Penisola con la Segré che divenne per lui quasi una seconda madre. Il giovane Ginzburg visse in Italia per tutta la durata del conflitto, dividendosi tra Roma e Viareggio. Frattanto, passati attraverso la Rivoluzione di ottobre, i parenti rimasti in Russia si trovavano in difficoltà: nonostante avessero sostenuto la rivolta, i Ginzburg dovevano soffrire nuove pesanti limitazioni. Il primo a lasciare Odessa, nel 1919, fu Nicola il quale, temendo il richiamo alle armi, si trasferì a Torino dove si iscrisse al Politecnico. L’anno successivo tutta la famiglia si era stabilita a Torino e fu raggiunta da Leone che si iscrisse alla seconda classe del “Liceo Classico Vincenzo Gioberti”. Nel 1921 i Ginzburg si spostarono ancora una volta: furono a Berlino dove il padre aveva avviato una nuova società commerciale assieme a un amico. Leone dovette quindi riprendere la lingua russa e fu iscritto alla scuola russa della città dove proseguì gli studi ginnasiali. Nell’autunno 1923, mentre il padre restava in Germania per lavoro, la famiglia si riportò a Torino e qui Leone preparò, nel 1924, l’esame ginnasiale. Tra il 1924 e il 1927 concluse gli studi classici frequentando il liceo Massimo d’Azeglio. Fu studioso e docente di letteratura russa, partecipò allo storico gruppo di intellettuali di area socialista e radical-liberale (tra gli altri, Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Cesare Pavese, Carlo Levi, Elio Vittorini, Massimo Mila, Luigi Salvatorelli) che collaborarono alla nascita a Torino della casa editrice Einaudi. In campo politico fu un federalista convinto, attivo antifascista, dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana nel 1931 aderì al movimento “Giustizia e Libertà”. Fu per questo arrestato il 13 marzo 1934 in seguito alle ammissioni dell’antifascista giellino Sion Segre, arrestato con Mario Levi l’11 marzo, e su segnalazione del chimico francese René Odin, informatore dell’OVRA. Condannato a quattro anni di carcere, con cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, beneficiò di due anni di condono condizionale. Rilasciato nel 1936, proseguì la sua attività letteraria e di antifascista. Nel 1938 sposò Natalia Levi (meglio nota come Natalia Ginzburg), dalla quale ebbe due figli e una figlia: Carlo Ginzburg, poi divenuto noto storico, Andrea, economista, e Alessandra, psicanalista. Nel giugno del 1940 fu mandato al confino a Pizzoli, in Abruzzo, fino alla caduta del fascismo. Liberato nel 1943 alla caduta del fascismo, si spostò a Roma dove fu uno degli animatori della Resistenza nella capitale. Nuovamente catturato e incarcerato a Regina Coeli, fu torturato dai tedeschi perché rifiutò di collaborare. Morì in carcere, in conseguenza delle torture subite, la mattina del 5 febbraio 1944. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Leone_Ginzburg
Mentre ci prepariamo a Fara in Sabina a salutare l’estate, ci apprestiamo ad accogliere la magia e il fascino dell’autunno. A Fara in Sabina questa stagione è infatti perfetta per godersi il relax e soprattutto la bellezza del turismo lento. Viaggiare lentamente significa rinunciare alla frenesia e fare esperienze locali più autentiche, entrando in contatto con i luoghi e le persone che si incontrano durante il percorso. Niente di meglio allora di andare alla scoperta di un borgo incantevole, come quello medievale di Fara in Sabina, immerso in pittoreschi paesaggi. Questo borgo sorge su Colle Buzio, tra la verde e rigogliosa natura della Sabina e la valle del Tevere, in provincia di Rieti.
Preparatevi dunque per una fuga autunnale indimenticabile, dove il turismo lento sarà la chiave per cogliere appieno la bellezza di questo suggestivo borgo medievale.
Il fascino del foliage: uno dei protagonisti indiscussi dell’autunno nel borgo di Fara in Sabina è il foliage. Le foglie degli alberi si tingono di giallo, arancione e rosso, creando uno spettacolo naturale mozzafiato. Passeggiare ad esempio nella pineta o lungo i sentieri del Parco della Rimembranza è un’esperienza rigenerante per corpo e mente.
Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina, sito in piazza Duomo a Fara in Sabina: questo affascinante museo, ospitato all’interno del rinascimentale Palazzo Brancaleoni, espone i reperti che hanno consentito di ricostruire componenti importanti della vita e della cultura del popolo sabino. Da non perdere: la sala della Scrittura, interamente dedicata al cippo inscritto ritrovato nel greto del vicino fiume Farfa, la sala dedicata alla Tomba XXXVI di Colle del Forno e l’ultima esposizione che sarà allestita fino alla fine del mese di settembre. Si tratta di antichi resti di eccezionale importanza, che gettano nuova luce sulla storia di Fara in Sabina e i suoi dintorni: durante un intervento di bonifica dagli ordigni bellici, nei pressi della stazione di Passo Corese, è stata infatti incredibilmente rinvenuta una necropoli romana, ovvero ben 42 sepolture datate dal I al III secolo d.C. L’esposizione dunque include gli scheletri di una comunità vissuta qui oltre 1800 anni fa.
Esplorare il borgo medievale: il borgo medievale di Fara in Sabina, con le sue stradine acciottolate, le case in pietra e gli antichi palazzi nobiliari (Palazzo Orsini, Palazzo Manfredi, Palazzo Martini), sprigiona un fascino particolare in autunno.
Sapori d’autunno: la Sabina, in generale, è una terra ricca di storia, cultura e tradizioni. Ma è anche un paradiso per gli amanti degli agriturismi e dei prodotti genuini. Questa zona, immersa nel verde, offre infatti una vasta scelta di strutture dove potersi rilassare e soprattutto dove poter gustare i sapori di stagione della cucina locale. Tra gli agriturismi più caratteristici ci sono Agriturismo Santo Pietro, La Raja e Agriturismo Borghetto d’Arci.
Immersione tra gli ulivi: la Sabina è una terra fortemente votata alla produzione dell’olio extravergine di oliva. Tutto il territorio comunale è infatti circondato da una natura rigogliosa. È possibile fare una passeggiata tra distese verdi di uliveti e vigneti che si alternano a boschi e radure. Inoltre, a Canneto Sabino (una piccola frazione del Comune di Fara) è possibile incontrare “L’Ulivone”, un ulivo millenario (considerato uno dei più antichi d’Italia) che rappresenta un vero e proprio monumento naturale. Viene anche chiamato “di Numa Pompilio”, perché la tradizione vuole che sia stato proprio il secondo Re di Roma, tra il 715 e il 673 a.C., a piantare questo esemplare.
Tradizioni e folklore: l’autunno in questo territorio è ricco di feste di paese e tradizioni. Tra le diverse manifestazioni in programma, si può ad esempio partecipare al Festival dei prodotti biologici oppure al Festival della Famiglia. Per informazioni e prenotazioni contattare l’Ufficio Turistico Comunale in piazza Duomo, 2: 0765/277321 (gio. ven. sab. dome e festivi), 380/2838920 (WhatsApp), visitafarainsabina@gmail.com
Pausa romantica sulla terrazza Belvedere: questa maestosa terrazza, situata a pochi passi da piazza Duomo, è quasi un’opera d’arte. È infatti il luogo ideale per una pausa romantica e rilassante o per un aperitivo al tramonto. Da qui si può ammirare l’inconfondibile profilo del Monte Soratte e la valle del Tevere fino a Roma. Si racconta inoltre che da Fara in Sabina si possano contare fino a 92 campanili: Fara è infatti l’unico borgo della Sabina ad avere un panorama a 360°.
Scoprire il crocifisso di pelle umana: Fara in Sabina non è solo un gioiello architettonico, è anche un luogo avvolto nel mistero. Uno dei misteri più affascinanti del borgo riguarda il Duomo (Chiesa di Sant’Antonino Martire) che sobrio, ma affascinante, rappresenta un luogo intriso di eleganza, storia e leggende: sorge nel cuore del centro storico, in piazza Duomo, e si erge sui resti di una chiesa preesistente (oggi sotterranea) della prima metà del ‘300. Nasce tecnicamente come “Collegiata” tra il 1501 e il 1506, ossia come sede di residenza di un “collegio” di canonici. Al suo interno, tra pregevoli opere, si trova anche un crocifisso di inizio ‘600 polimaterico in cuoio, paglia e altre fibre vegetali: la tradizione però narra che la sua pregiata e dettagliata fattura sia data da un rivestimento in pelle umana.
L’autunno è un invito a rallentare, a godersi i piccoli piaceri della vita e a riscoprire la bellezza della natura. Concedersi una gita fuori porta a Fara in Sabina in questa stagione vuol dire quindi farsi conquistare dalla magia di questo borgo e dei suoi tesori tanto culturali quanto naturali.
WOLFGANG AMADEUS MOZART- Il 5 dicembre 1791 moriva a 35 anni
–Articolo di Daniela Musini-
Già nell’Autunno del 1791, durante una passeggiata al Prater, il meraviglioso parco di Vienna, Mozart aveva confidato alla moglie Konstanze il timore di essere stato avvelenato con una qualche sostanza a lento rilascio.
Male stava male davvero: da qualche giorno era debolissimo, camminava a fatica e le gambe la sera si gonfiavano a dismisura.
Non che Wolfgang, anzi, Johannes Chrysostomus Wolfgang Theophilus, avesse mai goduto di buona salute! Tutt’altro. Alto poco più di 1 metro e mezzo, il viso butterato dal vaiolo, una deformazione all’orecchio sinistro e una malformazione congenita ad un rene, era anche affetto da un lieve rachitismo e una forte miopia.
Non solo: pare soffrisse anche della “sindrome di Tourette” che gli faceva fare movimenti inconsulti e dire parolacce e frasi irripetibili al limite della blasfemia (di cui peraltro sono piene le sue lettere) e che alimentava il suo essere irridente, impudente e dispettoso come un folletto.
Ma era un Genio. Assoluto. Unico.
Iniziò a scrivere a 6 anni e nella sua breve vita creò 626 composizioni che hanno spaziato in tutti i generi musicali, moltissime delle quali sono assurte a capolavori immortali e, al di là del nitore formale e del perfetto equilibrio architettonico, celano le vertigini dell’incipiente Romanticismo e le abissali profondità dell’animo umano.
Da piccolo lui e la sua talentuosa sorellina Nannerl avevano stupito le Corti di mezza Europa suonando con strabiliante bravura il clavicembalo; a sei anni, di fronte ad una divertita Maria Teresa, Imperatrice d’Austria, disse tutto serio alla piccola figlia di quest’ultima, Maria Antonietta (che di anni ne aveva 5) «da grande ti sposerò.»
Se la cosa si fosse avverata l’esistenza di quella bimba sarebbe stata assai diversa: sarebbe diventata la moglie di un Genio incompreso, povero e strambo e non quella di Luigi XVI di Francia, non avrebbe consigliato al popolo affamato di mangiare brioches (secondo una credenza popolare mai suffragata da prove certe) e la sua testa non sarebbe rotolata sotto la lama della ghigliottina.
Le cose sarebbero andate diversamente, come sappiamo, anche per il giovane Wolfgang che, innamorato perso della volubile cantante lirica Aloysia Weber, fu da lei illuso e respinto; deluso e affranto, ripiegò sulla di lei sorella Kostanze dalla quale ebbe 4 figli, due dei quali morirono in tenerissima età e con lei condivise un’esistenza che, come spesso accade agli enfants prodiges, da sfavillante divenne opaca e struggente.
Il bimbetto stupefacente era diventato un compositore troppo ardito e innovatore per essere davvero compreso e osannato in vita come avrebbe meritato e la frustrazione, le amarezze e le delusioni costellarono la sua breve esistenza.
Lavorava come un pazzo, Wolfgang, componendo in modo compulsivo, strapazzando il suo fisico gracile che cercava di corroborare con l’immancabile Schwartzpulver, un tonico allora in voga a base di lombrichi e cuore di rana e, soprattutto, con il “liquore di van Swieten” che conteneva un’alta percentuale del tossico mercurio.
Fu questo quindi ad avvelenarlo, e non il pur malevolo e invidioso musicista Antonio Salieri (tesi quest’ultima fantasiosa e affascinante ripresa anche dal regista Milos Forman nel suo capolavoro “Amadeus”).
Povero Wolfgang, con la sua mania dei ricostituenti e le nottate trascorse in bianco ad assecondare il suo disperato furor creativo!
Nell’ultimo anno di Vita la situazione precipitò: non fu solo il suo fisico ad essere minato, ma anche la sua mente, presto abitata dai demoni della depressione.
Una notte, durante un temporale, uno sconosciuto bussò alla sua porta e gli commissionò un Requiem per la morte di un grande personaggio.
Lo sconosciuto altro non era che il servitore del Conte Walseg-Stuppach, un musicista dilettante che in realtà voleva solo appropriarsi della sua musica e farla passare per propria nella cerimonia di commemorazione dell’amata moglie.
Ma nella mente devastata di Wolfgang quel visitatore misterioso divenne un messaggero di morte. Della propria morte. E il magnificente Requiem che si apprestò a comporre, la Musica per la sua dipartita dal mondo.
Non riuscì a completare questo ennesimo capolavoro, Mozart (ci penserà il suo allievo Franz Xaver Sussmayr a farlo) perché nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 1791, dopo aver composto la struggente “Lacrimosa”, spirò tra le braccia della moglie.
Indebitato com’era, al suo povero funerale, avvenuto sotto una tormenta di neve, a seguire il feretro solo la moglie e i due figlioletti.
Fu inumato nel cimitero viennese di San Marco in una tomba senza nome, come allora era d’uso per decreto dell’Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena che aveva ordinato che i corpi fossero sepolti senza bara e non imbalsamati.
Quando Kostanze tornò l’indomani per portargli un fiore, complice l’ulteriore copiosa nevicata della notte e la mancanza di qualsiasi segno di riconoscimento, vagò per ore nel cimitero spettrale e non riuscì a rintracciarla.
Il più grande ed incompreso Genio della Musica fu condannato a giacere in un’anonima e sconosciuta tomba.
Ma c’è un mistero che aleggia attorno a lui e che riguarda un teschio, conservato al Mozarteum di Salisburgo e che molti sostengono appartenga al musicista.
Gli indizi a favore sono molti: corrispondono le dimensioni, il difetto dell’orecchio sinistro, la frattura alla testa, che Mozart si era procurato in effetti cadendo (e che negli ultimi mesi gli aveva procurato cefalee lancinanti), e, particolare inquietante, quel laccio di ferro che il sacrestano di San Marco, Joseph Rothmayer, gli aveva messo al collo per conferire a quel povero corpo nudo un seppur sinistro segno di riconoscimento.
Che quel povero teschio appartenga davvero a Wolfgang Mozart non lo sappiamo, ma una cosa è incontrovertibile: egli vivrà per sempre, attraverso la sua eccelsa Musica, nei secoli dei secoli.
-Grazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVES
-Articolo di Pietro NARDI scritto per la Rivista PEGASO diretta da Ugo Ojetti N°12 del 1931
Breve Biografia di Grazia Deledda è stata una delle più importanti e influenti scrittrici italiane del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, e nel dicembre 1927 vinse il premio Nobel per la letteratura, la prima donna italiana a farlo. Deledda fu esponente, anche se a modo suo, del verismo e del decadentismo, e scrisse sempre molte storie di contadini e paesani della sua terra, la Sardegna.
Grazia Deledda nacque a Nuoro, in Sardegna, nel settembre del 1871. Apparteneva a una famiglia benestante ed era la quinta di sette fratelli e sorelle. Ebbe un’istruzione intermittente – un po’ a scuola e un po’ con un insegnante privato – e iniziò a scrivere molto giovane, per conto suo. Le sue prime pubblicazioni arrivarono quando non aveva ancora 20 anni e il suo primo libro di qualche successo fu Anime oneste, del 1895. Pochi anni dopo, nel 1899, Deledda conobbe il mantovano Palmiro Madesani, che sposò pochi mesi più tardi trasferendosi con lui a Roma.
A Roma Deledda continuò a scrivere e pubblicare romanzi. Elias Portolu, uscito nel 1903, ottenne subito un buon successo e Deledda poté dedicarsi con grande intensità alla scrittura. In pochi anni pubblicò moltissimi libri e opere teatrali, tra cui: Dopo il divorzio, Cenere, L’edera e Canne al vento. Il suo successo fu tale che il marito si licenziò dal lavoro come funzionario al ministero delle Finanze per diventarne l’agente di sua moglie. In tutto Deledda pubblicò 56 opere in circa 40 anni di carriera e fu apprezzata e tradotta anche all’estero.
Nel 1927, Deledda fu insignita del premio Nobel per la Letteratura “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Il Nobel di Deledda fu tecnicamente quello del 1926, che la commissione del premio aveva deciso di trattenere per un anno non avendo trovato un candidato adatto a riceverlo. Deledda fu la prima donna italiana a vincere un Nobel e la seconda italiana a vincerlo per la Letteratura, dopo Giosué Carducci nel 1906. Deledda morì per un tumore al seno, il 15 agosto 1936. Cosima, quasi Grazia un racconto autobiografico rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo con il titolo Cosima.Inizio modulo
Breve Biografia di Grazia Deleddaè stata una delle più importanti e influenti scrittrici italiane del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, e nel dicembre 1927 vinse il premio Nobel per la letteratura, la prima donna italiana a farlo. Deledda fu esponente, anche se a modo suo, del verismo e del decadentismo, e scrisse sempre molte storie di contadini e paesani della sua terra, la Sardegna.
Grazia Deledda nacque a Nuoro, in Sardegna, nel settembre del 1871. Apparteneva a una famiglia benestante ed era la quinta di sette fratelli e sorelle. Ebbe un’istruzione intermittente – un po’ a scuola e un po’ con un insegnante privato – e iniziò a scrivere molto giovane, per conto suo. Le sue prime pubblicazioni arrivarono quando non aveva ancora 20 anni e il suo primo libro di qualche successo fu Anime oneste, del 1895. Pochi anni dopo, nel 1899, Deledda conobbe il mantovano Palmiro Madesani, che sposò pochi mesi più tardi trasferendosi con lui a Roma.
A Roma Deledda continuò a scrivere e pubblicare romanzi. Elias Portolu, uscito nel 1903, ottenne subito un buon successo e Deledda poté dedicarsi con grande intensità alla scrittura. In pochi anni pubblicò moltissimi libri e opere teatrali, tra cui: Dopo il divorzio, Cenere, L’edera e Canne al vento. Il suo successo fu tale che il marito si licenziò dal lavoro come funzionario al ministero delle Finanze per diventarne l’agente di sua moglie. In tutto Deledda pubblicò 56 opere in circa 40 anni di carriera e fu apprezzata e tradotta anche all’estero.
Nel 1927, Deledda fu insignita del premio Nobel per la Letteratura “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Il Nobel di Deledda fu tecnicamente quello del 1926, che la commissione del premio aveva deciso di trattenere per un anno non avendo trovato un candidato adatto a riceverlo. Deledda fu la prima donna italiana a vincere un Nobel e la seconda italiana a vincerlo per la Letteratura, dopo Giosué Carducci nel 1906. Deledda morì per un tumore al seno, il 15 agosto 1936. Cosima, quasi Grazia un racconto autobiografico rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo con il titolo Cosima.
Roma- La casa della poetessa Patrizia Cavalli diventa una mostra-Articolo di Francesca Bottari
Roma-Un bellissimo titolo, Il sospetto del paradiso, quello assegnato alla prima mostra dedicata a Patrizia Cavalli (Todi, Perugia, 1974 – Roma 2022), uno dei maggiori poeti del Novecento, unico nel panorama italiano e internazionale per originalità di linguaggio, potenza evocativa di immagini, suoni e colori, intensità lirica e profondità di pensiero. In un salone del primo piano al Macro di Roma, l’esposizione si snoda sulle pareti e su più registri, nelle teche centrali e tra i duecento scatti fotografici di Lorenzo Castore, mentre scorre il video di Gianni Barcelloni.
La mostra sulla casa di Patrizia Cavalli
Le fotografie e le tante pagine stampate e manoscritte ci accompagnano nella casa romana della Cavalli in Via del Biscione presso Campo de’ Fiori, da lei abitata per mezzo secolo, e la sua voce profonda e fanciullesca dà senso e realtà alla nostra immersione. Non si tratta di una mostra fotografica nell’accezione tradizionale, ma è piuttosto un ingresso autorizzato, sebbene a passi cauti – giapponesi direbbe lei –, nel suo mondo privato. Un mondo fatato e insieme oscuro, pieno di cose, amici, facce, animali, pensieri, appunti, cataloghi in bozza o editati, bella e commovente quotidianità: eppure di quotidiano non vi è, né vi era nulla, nella sua esistenza e nelle sue abitudini, come la mostra illustra perfettamente.
Gli scatti accorpati in serrata sequenza restituiscono una successione filmica e reale degli ambienti, ma allo stesso tempo onirica nell’apparizione alternata di cose e persone, parole e appunti. La mostra somiglia enormemente a lei stessa e alle sue liriche: semplice, ruvida, incantevole, misteriosa e insieme splendida, mai retorica e sempre fulminante. La sua casa nel tardo Novecento è stata un luogo di scambio fondamentale per la cultura italiana di allora, favorito e sostenuto dall’incontro della Cavalli con Elsa Morante, che per prima ne riconobbe il valore e la introdusse nel mondo dell’intellettualità più fine e colta.
Chi era Patrizia Cavalli
Una doppia sezione di dattiloscritti, manoscritti e pagine stampate svela il processo poetico che dalla suggestione giunge alla parola, tra bozze, correzioni, precisazioni, negazioni, fino all’apparire delle celebri composizioni. Un terzo settore è dedicato ai progetti editoriali di carattere artistico, compiuti o di collaborazione, cui la Cavalli ha lavorato nel tempo. Nel centro della sala una grande teca contiene un centinaio di appunti, che passano amabilmente dalle più comuni annotazioni giornaliere, ai proponimenti rivolti a sé stessa, fino a ricordi e pensieri già traboccanti di immagini e di poesia.
Le fotografie di Patrizia Cavalli in mostra
Il suo bel viso diafano e biondo si affaccia ovunque a sorvegliare il nostro incauto incedere attraverso le sue stanze, tra le poltrone, le tazze, i gatti, i quadri, i libri e gli scaffali pieni di oggetti, ognuno dei quali sembra narrare una storia, perché solo ad essi appartiene la vita, essi misurano le distanze e i riconoscimenti, restituiscono la forma invariata dell’incanto (…). E intanto la sua bella voce rude ma morbida risuona dalla sua stessa casa mentre legge le sue liriche e chiacchiera della vita, della morte, della noia, della felicità e della faccia di Elsa Morante. Mentre si ostina, insomma, a far parlare il nulla. E forse è davvero un paradiso.
Articolo di Francesca Bottari
Francesca Bottari
Storica dell’arte, insegna a Roma. Ha curato moduli di Catalogazione e di Didattica museale all’Accademia di Belle Arti di Roma e nelle università di Roma2 e Siena. Ha lavorato presso il Centro Servizi educativi del Mibact. Dal 2002 al 2005 è stata Direttore artistico della Sema s.r.l.- servizi e media per l’arte. Tiene un master in Turismo e beni culturali presso la UET di Roma. Al suo attivo ha diversi saggi, testi scientifici e monografie a carattere storico-artistico e di educazione al patrimonio culturale (Borromini 1999 e Bernini 2000, per Artemide; 2002 testo di didattica di
beni culturali per scuola e università, per Zanichelli; 2007 testo universitario di legislazione artistica, per Zanichelli). Ha redatto e curato una lunga serie di guide e audioguide sui siti Unesco (per il Poligrafico dello
Stato, tra il 2008 e il 2011). Nel 2013 è uscita per Castelvecchi la sua biografia su Rodolfo Siviero.
Fonte-ARTRIBUNE srl – Via Ottavio Gasparri, 13/17 – 00152, Roma
Risvolto«C’è una grande differenza fra me e Anna Frank. Io sono sopravvissuta» – questo è il bilancio di Masha Rolnikaite. Il suo diario, che prende avvio nel 1941, è stato scritto su fogli volanti, mandato a memoria, annotato su sacchi di cemento, copiato su minuscole striscioline poi nascoste in una bottiglia – e infine trasferito, nella primavera del 1945, su carta. All’inizio, Masha è una bambina di tredici anni che assiste allo smantellamento della Vilna ebraica – la «Gerusalemme dell’Europa orientale» – e annota ogni cosa, sinché la madre, ritenendo troppo pericoloso anche solo registrare ciò che accade, glielo vieta. Del resto, a Masha e agli altri come lei sarà vietato tutto – tranne l’esecuzione di lavori sempre più brutali e avvilenti. Acquaiola in un’azienda agricola, spaccapietre nel Lager, bestia da soma in una tenuta della Pomerania, Masha non sembra tuttavia poter smettere di osservare, e raccontare, l’odio senza fine dei carnefici, la metamorfosi di civilissimi vicini di casa in spietati collaborazionisti, le connivenze e le ambiguità del Consiglio ebraico, insomma ogni anello di quella catena di orrori che, per rassicurarci, pretendiamo di conoscere bene, ma che libri come questo ci costringono invece a ripercorrere, impietriti, come per la prima volta.
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
NAWAL AL SAADAWI LA PRIMA VERA FEMMINISTA DEL MONDO ARABO
-Vanilla Magazine Club-
NAWAL AL SAADAWI è stat definita la Simone de Beauvoir del mondo arabo Nawal lottò per tutta la vita per i diritti delle donne, si definiva socialista femminista e non comunista perché Marx non le piaceva, ma non la politica quanto tutte le religioni interpretate dagli uomini hanno sempre relegato la donna a una posizione subordinata arrivando fino alla barbarie.
Nawal al Saadawi era nata il 27 ottobre 1931 a Kafr Tahla, un villaggio a nord del Cairo. La famiglia era benestante nonostante i 9 figli, il padre era un funzionario governativo piuttosto progressista, grande oppositore di Re Farouk e dell’occupazione inglese, la madre Zaynab una donna forte che avrebbe voluto studiare musica ma non le fu concesso e venne ritirata dalla scuola per farla sposare. Entrambi i genitori erano affettuosi e fautori della libertà individuale eppure a soli 6 anni Nawal subì la mutilazione genitale.
Nawal scrisse che stesa nel bagno di casa con 4 donne che le tenevano braccia e gambe aperte, “mi avevano tagliato qualcosa fra le cosce”, un trauma che restò sempre il primo pensiero della sua battaglia.
La barbara tradizione della mutilazione è pre islamica e in alcuni paesi musulmani, come l’Iran per esempio, non è mai stata praticata mentre è invece diffusissima in Africa anche fra i cristiani copti e il 98% delle donne somale e più del 90% delle donne egiziane l’hanno subita spesso nella forma peggiore, la mutilazione “faraonica” (che noi chiamiamo infibulazione) che prevede il taglio del clitoride, delle piccole e grandi labbra e la cucitura della vulva che viene riaperta dallo sposo dopo il matrimonio. Molte mummie egiziane la presentano, dimostrazione della diffusione da tempi antichissimi prima dell’arrivo dell’Islam. Nonostante sia ora vietata in alcune nazioni, la tradizione ancora resiste
Nawal era religiosa ma ribelle e scriveva ad Allah ponendogli domande, ad esempio perché la nascita di un maschietto venisse festeggiata da tutto il villaggio mentre quella di una femmina passasse nel silenzio più assoluto o perché le neonate venissero spesso sotterrate nei tempi passati come raccontavano gli anziani, o perché venissero mutilate.
“il mio dubbio riguardava ebraismo, cristianesimo e islam, fin da quando ero alle scuole elementari con le mie amiche leggevamo i tre libri sacri, l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Sebbene fossimo giovanissime, quei libri non ci convincevano, sentivamo che lì le donne venivano disprezzate”.
A soli 10 anni Nawal si oppose al matrimonio combinato volendo continuare gli studi e nel villaggio era guardata con astio per il suo rifiuto della tradizione, solo la madre la sosteneva e, non potendolo esprimere apertamente, le parole di incoraggiamento gliele diceva in un orecchio.
Nawal voleva fermamente diventare medico e scrittrice e alla fine il padre cedette e Shatra, ovvero intelligente, come veniva chiamata in famiglia, fu iscritta alla scuola media al Cairo, poi alle superiori in collegio a Helwan e infine all’Università di Giza dove si laureò in medicina nel 1955 con il massimo dei voti e specializzandosi poi in psichiatria.
Già alle superiori Nawal aveva cominciato a organizzare spettacoli con il suo Teatro delle Libertà, a scrivere e a partecipare, unica donna in mezzo agli uomini, a manifestazioni politiche.
Dopo la laurea iniziò ad esercitare nel villaggio natale affrontando i risvolti psicologici delle violenze fisiche sulle donne e delle mutilazioni, parlando di aborto e di sessualità femminile ma presto venne richiamata al Cairo e assunta all’Università.
Nei suoi libri racconta che spesso le venivano portate ragazze subito dopo la prima notte di matrimonio se non avevano perso sangue e lei mentiva confermandone la verginità per salvarne la stessa vita.
Nel 1955 sposò il suo primo marito, il medico Ahmed Helmi dal quale ebbe una figlia e in seguito un altro medico, Rashad Bey, ma entrambi i matrimoni finirono col divorzio perché i mariti volevano imporle di smettere di scrivere e esercitare sostenendo che le sue idee danneggiavano la loro carriera.
Nel 1958 Nawal venne assunta al Ministero della Sanità Pubblica diventando nel 1966 direttore del reparto di Educazione Sanitaria ma le sue idee e i suoi scritti creavano imbarazzo, nel 1969 pubblicò il libro “Donne e sesso” dove denunciava la mutilazione femminile, il rapporto fra onore e verginità, la discriminazione della donna. Il libro venne censurato e le costò il posto di lavoro al Ministero nel 1972.
Nawal non mollò, continuò a scrivere, nel 1964 aveva sposato il suo terzo marito Sherif Hetata, un medico conosciuto al ministero che era stato imprigionato per le sue idee politiche e che appoggiava la lotta per la libertà femminile. Da lui ebbe un figlio.
Il suo giornale medico “Salute” da lei fondato nel 1968 venne chiuso e a causa dei suoi scritti Nawal perse anche il posto di segretario dell’Associazione Medica, dal 1973 al 1976 fu ricercatrice alla facoltà di Medicina dall’Università Ayn Shams del Cairo affrontando il problema delle nevrosi femminili.
Nel 1975 pubblicò “Firdaus, storia di una donna egiziana” una prostituta condannata a morte per aver ucciso un violento che la schiavizzava, e nel 1977 “La faccia nascosta di Eva” dove raccontava, fra l’altro, i dettagli della sua mutilazione.
Dal 1979 al 1980 fu consulente dell’ONU per il programma delle donne in Africa e Medio Oriente
A causa delle sue prese di posizione contro Sadat nel 1981 Nawal venne arrestata e rimase in carcere due mesi fino all’uccisione del presidente in ottobre. Privata di carta e penna, in cella scrisse su un rotolo di carta igienica con la matita Kajal “Memorie dalla prigione femminile” e poco dopo la liberazione, nel 1982, fondò l’Associazione di Solidarietà delle Donne Arabe che fu dichiarata fuori legge e chiusa dal governo nel 1991. Nawal rientrò in carcere per pochi mesi e nel 1992 fu inserita nella Lista nera dei fondamentalisti islamici con la condanna a morte che la costrinsero a scappare e rifugiarsi prima in Olanda e poi negli Stati Uniti dove il marito tradusse in inglese i suoi libri dandole fama mondiale mentre lei ottenne una cattedra alla Duke University di Durham (Carolina del nord) e fu invitata a conferenze nelle più prestigiose università americane.
La coppia rientrò in Egitto nel 1996 ma le cose non erano cambiate. Nawal venne più volte accusata di apostasia e eresia, nel 2002 andò a processo e vinse la causa contro un avvocato islamico che voleva imporle in divorzio in quanto aveva abbandonato l’Islam, nel 2007 venne di nuovo denunciata per apostasia insieme a sua figlia Mona dall’Università Al Azhar per il suo libro “Dio si dimette dall’incontro al vertice”e vinse anche questa volta ma il suo libro venne accolto malissimo in Egitto e si tentò di levarle la nazionalità.
Nawal fu co-fondatrice dell’Associazione Araba per i Diritti Umani e ricevette innumerevoli i premi in occidente per la sua opera ma era delusa dall’atteggiamento indifferente delle giovani donne che non consideravano quanto fossero costati alle sua generazione le conquiste delle quali ora le giovani possono godere. Inoltre, polemicamente, sosteneva che se il velo islamico era segno di oppressione, lo sfruttamento del corpo femminile in occidente lo era altrettanto e criticava il trucco eccessivo, l’abbigliamento troppo ridotto delle donne, la chirurgia estetica, tutto a beneficio degli uomini quindi le due facce della stessa moneta ovvero donne come oggetti sessuali, facendo infuriare le femministe occidentali che li considerano invece libertà.
Dal 2008 l’Egitto la mutilazione genitale femminile è diventata reato punibile col carcere o una pena pecuniaria, anche se la piccola postilla “salvo necessità medica” permette ancora di trovare una scappatoia. Per quanto nelle città sia decisamente scesa nelle campagne continua ad essere presente e nel 2014 il 92% delle donne fra i 15 e i 49 anni l’aveva subita. Sempre nello stesso anno l’età minima per il matrimonio è stata portata a 18 anni e le donne single possono riconoscere i figli col proprio cognome.
La strada della parità è ancora lunga ma per Nawal è stato un grande successo anche se molti suoi libri sono tuttora spesso banditi in Egitto e nei paesi islamici.
Nel 2010 divorziò dal marito e gli ultimi anni li visse in un piccolo appartamento al Cairo con problemi economici avendo difficoltà ad incassare i diritti dei suoi circa 50 libri tradotti in quasi tutto il mondo.
A 80 anni nel 2011 era in piazza Tahrir a manifestare con le femministe e nel 2020 la rivista Time la inserì nelle 100 donne più importanti del ‘900.
Nawal morì il 21 marzo 2021 in ospedale al Cairo dopo una breve malattia.
“Il pericolo ha fatto parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna e ho scritto. Niente è più pericoloso della verità in un mondo che mente.”
Il “Lamento di Khajeh” (secolo XIX) è uno dei più celebri poemi popolari della Letteratura Kurda
Siyaband, bandito gentiluomo, dopo molte avventure rapisce la bellissima Khajeh, figlia del principe, che altrimenti non potrebbe sposare. I due giovani vivono felicemi per tre giorni sul monte Sipan, finchè Siyaband, andando a caccia, viene spinto da un cervo giù da un precipizio. Non teme la morte, ma piange la sorte della giovane sposa. E Khajeh si getta nel baratro, per morire abbracciata a Siyaband. è una delle leggende più popolari del folklore Kurdo.
“Lamento di Khajeh”
Siyaband, Siyaband! Non parlare. Chi avrebbe predetto una fine così triste? E non dovrei piangere, non dovrei versare lacrime calde, di sangue? Dormi, amor mio, dormi. I tuoi lamenti tristi e profondi sono lamenti di morte. Come resistere, come non piangere se i tuoi sospiri per me arrivano dritti al mio cuore? Cadono lacrime sul mio dolore. Dormi, amor mio, dormi.
Perchè piangi, Siyaband, perchè piangi ancora? Mi hai lasciato, sei corso lungo l’abisso. Sapevi che senza di te non ho protezione, sostegno. Come potrebbe la mia ferita guarire? Dormi, amor mio, dormi.
Oh Sipan, oh rocce di Sipan! Non fermatemi! Apritemi la via, portatemi da Siyaband! Oh Sipan, apri un sentiero, un passaggio, fa’ che io passi, che vada sarò di Siyaband la tomba, non solo la sposa!
Una poesia dolcemente erotica:
“Sono la rosa selvatica” (secolo XIX; qualche verso)
Sono la rosa selvatica non ancora dischiusa coperta di rugiada, tutta rorida. Se tu non mi tocchi io non fiorirò se tu non mi tocchi non esalerò il mio profumo. Sono la rosa selvatica, la rosa di montagna lontana da te… L’amore sboccia con le carezze tu, con amore, rendi morbida la terra intorno a me!
Una straziante ballata d’amore, su una donna crudele e il suo innamorato disposto al sacrificio:
“Rose di sangue” (secolo XIX)
“Guarda, c’è festa e si danza laggiù, ascolta il dahol, il flauto e lo zorna; (*) abiti variopinti, brusio di parole non manca che il frusciar della tua seta. Dammi la mano, ti prego, affrettiamoci! Corriamo alla danza, lieti del nostro amore.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare.”
“Per la tua bellezza, per la tua bellezza, per gli sguardi furtivi vicino alla sorgente: l’autunno ha già spogliato alberi e giardini. Dove trovo le rose? Ormai han le labbra chiuse.”
“Senza rose nei capelli, una rossa, una dorata alla festa non vengo, non vengo a danzare. Se il tuo amore fosse vero, se mi avessi dato il cuore, coglieresti le rose nel giardino del pascià.”
“Il giardino del pascià è di là del fiume, tutto circondato da sgherri assassini. Se ci vado corro mille e mille rischi, se non vado la mia diletta si offenderà.”
“Senza sosta ho cercato nel giardino del pascià, ecco le rose gialle che ho colto per te; di rose rosse, ahimè, non ne ho trovate. Verrai ora alla festa, a danzare con me?”
“Mai, se non ho rose rosse per ornarmi le chiome!”
“Non vuoi questa ferita, rossa come le rose?”
“Le armi del nemico, ahimè, ti hanno insanguinato! Vieni, appoggia il tuo capo qui sul mio seno, lascia ch’io pianga il tuo cuore amato, perso per una rosa!”
(*) Il Dahol è una specie di tamburo, lo Zorna una sorta di clarinetto.
“La canna e il vento” di Sherko Bekas (qualche verso)
“Da quel giorno le ferite degli amanti parlano con le dita del vento e cantano, ovunque nel mondo, da quel giorno.”
Sherko Bekas fu colpito da un mandato di cattura per la sua attività poetica, si unisce ai partigiani combattenti Pesh Merga e diventa la voce della resistenza Kurda, alternando poesia e lotta armata. Nel 1987 si rifugia in Svezia, pubblicando poesie, romanzi, opere teatrali e ricevendo il premio del Pen Club svedese. Tornato nel Kurdistan liberato, diventa ministro per la Cultura della Regione autonoma del Kurdistan iracheno dalla sua fondazione (1992)
“La nostra poesia è scritta con le lacrime” di Mehmet Emin Bozarslan (qualche verso)
La fantasia tesse nuovi racconti, ricama con fili di lacrime, con colori di sangue, del sangue dei ragazzi e delle ragazze che scorre eroico sui nostri monti, su queste montagne kurde.
“Sirio” di Goran, poeta nato nel 1904 e morto, dopo persecuzioni e carcere, nel 1981. Nelle sue poesie utilizzò le forme antiche della metrica Kurda, rifiutando la metrica della poesia medio-orientale.
Il tramonto! E la memoria disperde il respiro del vento invita la mia anima scura e greve a una cerimonia di dolore.
Il mondo pacificato dal silenzio è un oceano senza confini in esso il mio pianto si alza come calda melodia.
L’oscurità ha chiuso il sipario ha velato il volto della terra immagini di desiderio indistinguibili attraverso lacrime brucianti.
Il mio cuore è spinto nel vuoto oscuro della disperazione oh se tu mi salvassi, stella – splendente Sirio!
Sirio che sorridi con le labbra rosse della prima luce tu puoi arrestare la malinconia che scorre dal mio cuore Un tuo fluido sguardo tocca il mio spirito oscuro fa che la notte che viene splenda di pietà sulla mia testa china.
Ascolta Stella dei Re; ascolta, bianca splendente Sirio! Sorgi, asciuga con i tuoi capelli le lacrime degli occhi della notte!
Ora qualche notizia storica-letteraria, tratta dalle note di Ibrahim Ahmad e Laura Schrader, in “Canti d’amore e di libertà del popolo Kurdo” (Tascabili Economici Newton)
“La poesia (…) è diventata un’arma molto efficace e forte nella lotta dei popoli per la libertà, l’autodeterminazione, la democrazia, la pace. Alcuni poeti hanno combattuto sul campo di battaglia e hanno dato la vita, come martiri. L’oppressione, la tirannia degli occupanti del Kurdistan, torturatori dei Kurdi, hanno dunque provocato una rivoluzione anche nella poesia.” (Ibrahim Ahmad)
“Per la sua posizione strategica e per le sue risorse (…) il Kurdistan è stato sottoposto a diverse dominazioni. Ma, se nelle città e presso le corti principesche i letterati – molti, non tutti – adottarono per le loro opere, nei secoli scorsi, l’arabo, il persiano, il turco, nei villaggi si sono tramandate una lingua e una poesia multiforme (…) la lingua Kurda è la lingua dell’Avesta. Alcune parole Kurde di oggi sono le stesse usate da Zardasht (Zarathustra) nelle Ghata, gli inni sacri scritti di cui rimangono pochi frammenti.”
“La poesia popolare Kurda si canta, e anche le liriche contemporanee vengono dette con voce, cadenze e tono che sono musicali (…) Il divieto islamico di far musica al di fuori del contesto religioso non ebbe alcun ascolto da parte Kurda. Fanno parte del folklore poemi epici, cavallereschi, d’amore in molte versioni, che cantano i bardi: fiabe, leggende, racconti, ballate e canti dedicati ai villaggi, alle stagioni, alla natura, all’amore.”
“Originariamente, una delle forme di poesia popolare tra le più note, il Laùk, tipico di molte aree del Kurdistan settentrionale, era composto e cantato esclusivamente dalle donne, ma non perchè fossero musiciste di mestiere. Le donne, soprattutto in occasione di fatti d’arme, cantavano le gesta del marito, del figlio, del fratello o ne celebravano il ricordo di fronte alla famiglia, al villaggio, all’assemblea della tribù. In alcuni aspetti della cultura e della lingua Kurda affiorano tracce di matriarcato, resti di una civiltà remota eppure tenace, tanto da aver resistito all’offensiva antifemminile del Corano: la donna Kurda ha mantenuto un ruolo importante, anche a capo di clan e principati in pace e in guerra, nei movimenti indipendentisti e nella resistenza. In Kurdistan, viaggiatori ed etnologi dei secoli scorsi notavano innanzitutto che le donne anzichè nascondersi sotto il velo informe in uso negli altri paesi islamici, indossavano abiti dai colori splendenti che mettono in risalto la femminilità, e che le danze popolari di donne e uomini insieme, parte integrante della vita sociale, erano motivo di scandalo per i popoli vicini.” (Laura Schrader)
Il poeta più importante della Letteratura Kurda è Ahmadi Khani (1651-1707), il “Dante Kurdo”, autore del poema epico “Mam e Zin”.
In epoca moderna i Kurdi sono stati massacrati. Leggo dalle note di Laura Schrader che:
“Fino a due anni fa in Turchia era vietato l’uso della lingua Kurda anche in privato. I familiari dei Kurdi, incarcerati e torturati anche se bambini o bambine con accuse di “separatismo”, dovevano limitarsi a guardare in silenzio, piangendo, i loro parenti nelle ore di visita, non conoscendo altra lingua che il Kurdo per comunicare con loro.”
Così Hejar ha espresso in versi la disperazione del suo popolo nella sua poesia “Il nostro destino”:
“Ai nostri oppressori, tutta la ricchezza del petrolio. A noi, neppure quel poco che serve per alimentare la lampada nelle nostre notti oscure. Gli stranieri del nostro paese si sono ingozzati, saziati del nostro patire. E noi, poveri, infelici, miserabili trasciniamo brevi esistenze di terrore. Vietata a noi la lingua materna. Vietato a noi respirare. Massacrati i nostri giovani, a migliaia e migliaia. Desiderare la libertà, chiedere la libertà è diventato un crimine per noi, i Kurdi.”
Il poeta Khabat, parlando dei bombardamenti iracheni con armi chimiche nel 1988 sulla città Kurda di Halabja, poi distrutta con la dinamite:
“Era pomeriggio. Nubi grevi di morte scendono sulla città 18 minuti terremoto paura, silenzio. Corpi rossi di sangue ritagliano aiuole di fiori.”
(da “La canzone della città uccisa”)
“L’Est” è l’espressione usata in Turchia per indicare il Kurdistan, parola che fino a due anni fa era vietato pronunciare.
Il poeta Cahit Külebi così ricorda, nei suoi versi:
“Nero sangue inonda le notti trascina morte, trascina disperazione. […] Un sorso di agonia dalla mano di chi amate è tutto quello che aveste da bere, e che berrete. Questo è l’Est. Negli occhi, sguardo di agnelli al macello.”
e il poeta Latif :
“Il cibo diventa sangue nel corpo”
e Ferhad Shakely :
“Lentamente vagano le ore nel buio di strade, vicoli, mercati trascinando dolore, tristezza ore impiccate agli alberi e ai muri gente trafitta dalle lance della sventura. Il tempo, qui, è una macchina e la manovra la polizia.”
(“Kamishli”, città del Kurdistan, in Siria)
“A sera, quando la luce lascia le fradice tristi finestre della tua stanza ti siedi, specchiandoti nel vetro scuro, annebbiato contando una a una le gocce di pioggia che battono sulle fradice tristi finestre della tua stanza. Guardi lontano. Il cielo è come un manto scuro indistinto; su di esso, neppure un fiore (…) Acuisci lo sguardo e ti accorgi che la terra si è fatta velo rosso sangue. (…) Tu sai che in questa notte tutti i tuoi sogni saranno impiccati alle forche di questa città. (…) Scorgo un barlume di luce e lo chiamo Kurdistan. O Kurdistan! Culla di lacrime, di gloria e d’amore! Terra sanguinante di sangue, suolo ferito dalle ferite. Paese addolorato dal dolore. Siedo alla finestra della notte e osservo gli infiniti percorsi dell’oscurità. (…) Il mio cuore vorrebbe come una nuvola gonfia sciogliersi in pioggia sulle vette rosate confondendosi nel crepuscolo.”
(“Kurdistan, la terra sanguinante”)
Chi volesse sentire una band Metal Kurda: Ferec (caricati su YouTube)
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.