Meira Delmar –Olga Isabel Chams Eljach (Barranquilla, 21 agosto 1922 – Barranquilla, 18 marzo 2009), poetessa colombiana di origini libanesi, sin dal 1937 usò lo pseudonimo Meira Delmar. Professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura, diresse per molti anni la Biblioteca Pubblica dell’Atlantico. Le sue poesie sono caratterizzate da una sensualità di fondo.
VERDE MARE
1
Dal tanto amarti, mare,
il mio cuore è divenuto
marinaio.
E mi inizia a cantare
sui pennoni d’oro
della luna, nel vento.
Qui la voce, il canto,
il cuore lontano
dove risuonano i tuoi passi
lungo le rive del porto.
Dal tanto amarti, mare,
la tua assenza mi fa soffrire
fin quasi a farmi piangere.
2
Mare!
Ed è come se, all’improvviso,
fosse tutto chiaro.
Angeli nudi. angeli
di brezza e luce. Il canto
dell’acqua che danza
sarabanda di cristallo
Isole, onde, conchiglie.
Bianco grido di sale…
E il cuore, battito
dopo battito, dice Mare!
ELEGIA DI LEYLA KHALED
MEIRA DELMAR
Ti devastarono l’infanzia, Leyla Khaled.
Come una spiga
o lo stelo di un fiore,
ti infransero
gli anni dello stupore e della tenerezza
e distrussero la porta della tua casa
perché entrasse il vento dell’esilio.
E prendesti a vagare
la patria sulle spalle
la patria divenuta ricordo
di un luogo cancellato dalle mappe
e faceva male ogni ora di più
e diventava più triste del silenzio
e gridava più forte nel castigo.
E un giorno, Leyla Khaled, notte pura,
notte ferita di stelle, ti sei trovata
i campi, i paesi, i sentieri
tatuati sulla pelle del ricordo
muovendosi nel tuo sangue rosso e vivo
riempiendoti gli occhi della loro sete
le mani e le spalle di fucili,
di fiera ribellione le insonnie.
E iniziarono a chiamarti con nomi
amari di ignominia,
ti lanciarono urla come spine
dai quattro punti cardinali,
e marcarono il tuo passo con il ferro
dell’obbrobrio.
Tu, sorda e cieca, in mezzo
agli avidi artigli nemici,
ardevi nel tuo fuoco, camminavi
di frontiera in frontiera,
difendendo il tuo petto dall’odio
con l’incerta certezza del ritorno
alla terra luttuosa di cui fosti
da mille mani straniere derubata.
Ti videro i deserti, le città,
la fretta dei treni, febbricitante,
assorta nel tuo destino guerrigliero,
negandoti l’amore e i singhiozzi,
perdendoti alla fine tra le ombre.
Non si sa, non so, quale è stata la tua direzione,
se giaci sotto la polvere, se procedi
per le valli del mare, profonda e sola,
o ti muovi ancora con il passo
felino dell’animale inseguito.
Nessuno sa. Non so. Ma ti alzi
di scatto nella nebbia dell’insonnia,
iraconda e terribile Leyla Khaled,
pecora in lupa trasformata, rosa
dal dolce tatto in morte trasformata.
IMMIGRANTI
Una terra con cedri, con olivi,
una dolce regione di fresche vigne,
lasciarono vicino al mare, abbandonarono
per il fuoco d’America.
Conservavano tra le labbra
il sapore della resina,
e il fumo profumato del narguileh
negli occhi,
mentre la nave si perdeva tra le onde
lasciandosi dietro le pietre di Beritos,
la valle gioiosa ai piedi delle colline,
e i banchetti del vino attorno alla tavola
preparata nell’estate
sotto il cielo pieno di gemme.
Il mare cambiò nome
una volta, un’altra e un’altra ancora
fino ad arrivare alla scottante riva
dove veloci raffiche
di uccelli dipingevano
di colori e musica improvvisa
l’istante,
e il fragore dei fiumi imitava il ruggito
del giaguaro e del puma
nascosti nella selva.
Su rive e su montagne costruirono case
come in passato la tenda nelle verdi oasi
l’antico avo, e le vecchie parole
iniziarono a scambiare
con le parole nuove
per chiamare le cose,
e seppero condividere il cuore con grandezza
come prima l’otre d’acqua nella sete del deserto.
A volte quando suona il liuto della memoria
e la prima stella
brilla nella sera
ricordano il giorno
in cui il bled scomparve lentamente
dietro l’orizzonte.
MEIRA DELMAR
CEDRI
I miei occhi di bambina videro
– già molti anni addietro – elevarsi
fino alle nuvole un volo
di verde progressivo
che l’aria intorno
riempiva di balsamo
con tranquilla insistenza.
Il silenzio si percepiva come una
musica interrotta all’improvviso,
e nel mio petto cresceva
lo stupore.
La voce del padre, allora,
si piegò al mio orecchio
per dirmi, sottovoce:
“Sono i cedri del Libano
figlia mia.
Da mille anni, forse
da due volte mille, essi crescono
ai piedi di Dio.
Conserva la loro immagine
nella mente e nel sangue.
Non dimenticare mai
che hai osservato da vicino
la Bellezza”.
E da quel momento
così lontano,
qualcosa in me si rinnova
e trema
quando incontro nelle pagine
di un libro
la loro memorabile immagine.
IL MIRACOLO
Ti penso.
La sera,
non è più una sera;
è il ricordo
di quell’altra, azzurra,
in cui amore
si fece in noi
come un giorno
si fece luce nelle tenebre.
E proprio allora fu più brillante
la stella, il profumo
del gelsomino più vicino,
meno
pungenti le spine.
Adesso
quando la invoco credo
di essere stata testimone
di un miracolo.
Traduzione dallo spagnolo di Giulia Spagnesi
FONTE-Rivista- FILI DI AQUILONE-
MEIRA DELMAR
Meira Delmar –Olga Isabel Chams Eljach (Barranquilla, 21 agosto 1922 – Barranquilla, 18 marzo 2009), poetessa colombiana di origini libanesi, sin dal 1937 usò lo pseudonimo Meira Delmar. Professoressa di Storia dell’Arte e Letteratura, diresse per molti anni la Biblioteca Pubblica dell’Atlantico. Le sue poesie sono caratterizzate da una sensualità di fondo.
Biografia di Meira Delmar Figlia degli immigrati libanesi Julián E. Chams e Isabel Eljach , iniziò a scrivere poesie all’età di 11 anni. Tra i suoi primi scritti c’è To the Acacias in Bloom. Durante l’adolescenza nutrì una grande adorazione e ammirazione per le grandi poetesse del sud: Gabriela Mistral, Alfonsina Storni, Delmira Agustini e Juana de Ibarbourou
Ha completato gli studi liceali presso la Barranquilla School for Young Ladies e gli studi superiori presso la Scuola di Belle Arti del Centro Studi Dante Alighieri di Roma (Italia). Ha studiato musica al Conservatorio Pedro Biava dell’Università dell’Atlantico e storia dell’arte e letteratura al Centro Dante Alighieri di Roma. Successivamente è stata docente di queste materie presso l’Università dell’Atlantico.
Nel 1937 le sue prime poesie – You Believe Me to Be Made of Stone, Chain, Promise e The Gift of Rain – furono pubblicate nella sezione Poetesses of America della rivista cubana Vanidades. Quando inviò le sue poesie, decise di adottare lo pseudonimo Meira Delmar, principalmente per evitare che i suoi genitori e amici riconoscessero l’autrice dell’opera. Meira è una modificazione del nome Omaira, di origine araba; e Delmar nasce dal suo amore e dalla sua attrazione per il mare. Mesi dopo, il suo lavoro acquistò popolarità e i quotidiani e i media nazionali iniziarono a pubblicarlo.
Su richiesta e insistenza dei suoi amici, Ignacio Reyes Posada, Carlos Osío Noguera, Héctor Rojas Herazo e Alirio Bernal, pubblicò il suo primo libro, Alba de olvido, nel 1942. Il libro fu pubblicato da Editorial Mejoras, in una prima edizione di cinquanta copie[6]. Più di mezzo secolo dopo, la rivista Semana, nel numero 882 del 1999, la incluse in una selezione delle cento migliori opere colombiane del XX secolo; essendo l’unica donna ad apparire nella sezione poesia.
Mesi dopo, decise di inviare una lettera con le sue poesie e il suo primo libro a Juana de Ibarbourou, che all’epoca viveva a Montevideo, per chiederle un parere a riguardo. In seguito la poetessa avrebbe affermato che la bellissima lettera ricevuta in risposta fu il motivo che la spinse a continuare a scrivere.
Nel 1944 pubblicò la sua seconda raccolta di poesie, Site of Love. Due anni dopo, nel 1946, pubblicò il suo terzo libro, La verità del sogno.
Nel 1950 tenne il suo primo concerto pubblico presso la Biblioteca Nazionale della Colombia, nella capitale, su invito di Carlos López Narváez. In questa occasione la regia è di Eduardo Carranza. Un anno dopo pubblicò il suo terzo libro, sempre di poesie, Secret Island, in cui afferma di aver trovato la propria voce.[b]
Nel 1957 pubblicò nella città di Bogotà il libretto di poesie n. 26 nella raccolta Poeti di ieri e di oggi di Simón Latino. Qualche tempo dopo quest’opera sarebbe stata pubblicata a Buenos Aires.
Dal 1958 e per 36 anni fu direttrice della Biblioteca Pubblica Dipartimentale dell’Atlántico; che in suo onore venne chiamata Biblioteca pubblica dipartimentale Meira Delmar. Raggiunse tale incarico su invito di Néstor Madrid Malo, quando era governatore del Dipartimento dell’Atlantico, e lo ricoprì poi in seguito con i successivi ventisette governatori. Attualmente, in suo onore sono stati istituiti il Meira Delmar Women’s Documentation Center presso l’Università dell’Atlantico e la Meira Delmar Reading Room presso la Biblioteca Piloto del Caribe.
Il 18 marzo 2009, nella sua città natale, quando fu candidata al Premio Regina Sofia della corona spagnola, con alte probabilità di ottenere un riconoscimento che viene conferito solo agli autori in vita, iniziò il suo viaggio silenzioso e il suo passaggio attraverso la Terra non lascia nulla dietro di sé, il suo volto in pace, il suo cuore in guerra.
Elizabeth Bishop-Viaggiò a lungo in Europa, Africa, Sud America. La sua opera poetica, caratterizzata da un supremo controllo sia formale sia emotivo, rispecchia nei titoli stessi – Nord e sud (North and south, 1946), Questioni di viaggio (Questions of travel, 1966), Geografia III (Geography III, 1976) – una visione dello spazio come matrice di storia.Considerata tra i più importanti poeti americani del ventesimo secolo, vinse numerosi e importanti premi, tra cui il Premio Pulitzer per la poesia nel 1956 e il National Book Award nel 1970. Oltre che alla poesia, si dedicò alla prosa e alla pittura.
Poesie di Elizabeth Bishop
Un’arte sola
L’arte di perdere s’impara facilmente: tante cose si sforzano d’andar perdute, che la perdita non è un grave incidente.
Perdi una cosa al giorno. Apri all’inconveniente delle chiavi smarrite, delle ore sprecate. L’arte di perdere s’impara facilmente.
Prova a perdere di più, e più velocemente: luoghi, e nomi, e destinazioni stabilite per un viaggio. Non ne verrà un grave incidente.
Ho perso l’orologio di mia madre e – gente! – l’ultima, o quasi, di tre case molto amate. L’arte di perdere s’impara facilmente.
Ho perso due care città, e un continente; due fiumi, reami vasti e certe mie tenute. Mi mancano, però non è un grave incidente.
— Anche se perdo te (la voce tua ridente, un gesto che amo), è chiaro, non farò smentite: l’arte di perdere s’impara facilmente, ma pare un grave (Scrivilo!) grave incidente.
Dobbiamo ammirare la perfetta mira di quest’aria d’inverno, cacciatrice provetta la cui arma spianata non ha bisogno di mirino, se non fosse che, lontano o vicino, la sua preda è sicura, il colpo netto. L’infimo tra di noi è così che tira.
Per ridurre il margine d’errore sono ferme le barche e di gesso gli uccelli; la galleria dell’aria coincide con quella angusta che il suo sguardo incide. Il centro del bersaglio, la pupilla, collima con la mira e con l’ardore.
Ha il tempo in tasca, col suo ticchettio segna il passo su un attimo. Non cura momento e circostanze, lei, ha invocato l’atmosfera per questo risultato. ( E l’orologio chiude l’avventura tra ruote, foglie e nubi a scampanio).
Miracolo a colazione (Adelphi, 2005), trad. it. Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica
Il miscredente
Dorme sulla cima dell’albero maestro. Bunyan
Dorme sulla cima dell’albero maestro con gli occhi serrati. Sotto di lui si sciolgono le vele come le lenzuola del suo letto, esponendo all’aria notturna la testa del dormiente.
Trasportato lassù nel sonno, nel sonno s’è raccolto in una palla d’oro in cima all’albero, o si è arrampicato dentro un uccello d’oro, o alla cieca s’è seduto a cavalcioni.
“Ho pilastri di marmo a fondamenta” ha detto una nube. “Non mi sposto mai. Vedi i pilastri là nel mare?”. Sicuro nell’introspezione adesso scruta i liquidi pilastri del proprio riflesso.
Un gabbiano, le ali sotto le sue, ha osservato che l’aria “sembrava marmo”. Lui ha risposto “Quassù torreggio per il cielo perché le ali di marmo in cima alla mia torretta volano”.
Ma dorme sulla cima del suo albero maestro con gli occhi sigillati. Il gabbiano ha frugato nel suo sogno che era: “Non devo finire tra i flutti. Il mare luccicante mi vuole tra i suoi flutti. È duro come il diamante; vuol distruggerci tutti”.
Miracolo a colazione (Adelphi, 2006), trad. it. D. Abeni, R. Duranti, O. Fatica
Insonnia
La Luna nello specchio del comò guarda milioni di miglia lontano (e forse con orgoglio, a se stessa, ma non sorride, non sorride mai) via lontano lontano oltre il sonno, o forse è una che dorme di giorno. Se l’Universo volesse abbandonarla, lei gli direbbe di andare all’inferno, e troverebbe una distesa d’acqua o uno specchio, sul quale indugiare. Tu dunque metti gli affanni in un sacco di ragnatele e gettalo nel pozzo nel mondo alla rovescia dove la sinistra è sempre la destra, dove le ombre in realtà sono corpi, dove restiamo tutta la notte svegli, dove il cielo ha tanto poco spessore quanto è profondo il mare e tu mi ami d’amore.
Elizabeth Bishop
Che cosa significa imparare a perdere: Elizabeth Bishop, la poesia e le cose che cadono-Pubblicato su 19 novembre 2018 da femministerie
di Sara De Simone
La vita di Elizabeth Bishop, una delle più grandi poete americane del Novecento, fu costellata di perdite.
Non che ne esista una che non lo è: siamo tutti, ogni giorno, esposti al disastro della scomparsa – nostra, degli altri, perfino degli oggetti.
Quello che cambia, semmai, sono le sequenze e le intensità: ci sono vicende umane in cui la perdita fa da tema costante e principale, batte il ritmo, tiene la trama. Queste esistenze si organizzano intorno ai loro vuoti, ed alle assenze, come certe architetture si sviluppano – e sostengono – a partire da uno spazio cavo. Elizabeth Bishop nasce nel 1911, in Massachusetts, e nello stesso anno perde suo padre William a causa di una malattia. Non ci vorrà molto perché “perda” anche sua madre, ricoverata in manicomio e da lì mai più uscita fino alla morte, nel 1934. Elizabeth, così, è costretta a fare il giro dei parenti: prima affidata ai nonni, poi a una zia, i suoi primi anni di vita sono un circuito continuo di distacchi e riadattamenti, affetti perduti e legami nuovi, case lasciate indietro e luoghi estranei a cui doversi abituare.
È di certo anche per questo che, una volta ventenne, dopo essersi laureata in Letteratura, comincia a girovagare per il mondo. Visita l’America in lungo e in largo, e poi l’Africa, e l’Europa, e mentre viaggia, e si sposta, osserva il mondo: è questo andare nel distante e nello sconosciuto a darle vita, è quest’orbita intorno all’altrove a farla incontrare con se stessa.
Muovendosi e decentrandosi continuamente Elizabeth conosce, ama, sperpera il tempo e le energie che ha bisogno di “perdere”, scrive lettere (molte) e poesie (poche). Non si sente produttiva, è pigra, indisciplinata, dice di essere una poeta “per sbaglio”. E in effetti è solo grazie al supporto costante e materno di un’altra poeta straordinaria, Marianne Moore, che a 35 anni riesce a pubblicare la sua prima raccolta, North & South (1946).
Il viaggio più lungo è quello degli anni ‘50 in Brasile: qui trova un paese che la confonde e la fa felice e un grande amore, quello con la spavalda, carismatica, architetta Lota de Macedo Soares. Sia il Brasile che Lota sembrano fare da necessario contrappunto ad Elizabeth: i climi caldi, i frutti pieni di sapore, la vegetazione tropicale fanno riaffiorare in lei, come per contrasto, i paesaggi freddi e perduti dell’infanzia e in tal modo le permettono di scriverne. Così come l’incontro con l’intrepida, teatrale, Lota – tanto diversa da lei, che invece è timida, taciturna, schiva – le fa venire voglia di fermarsi, di restare, e le permette di concentrarsi più a lungo sul lavoro della scrittura. Come dono d’amore Lota progetta e fa costruire, all’interno della sua proprietà, a Petrópolis, uno studio “tutto per lei”: una specie di rifugio in mattoni bianchi, un luogo pensato e offerto come luogo della scrittura, separato dal resto eppure al resto unito. Non c’è regalo più grande perché – Lota lo ha capito – è proprio così che Elizabeth ha bisogno di sentirsi: a casa ma fuori casa, sola ma insieme, libera ma dentro il legame, distante quel tanto che basta per essere a portata di mano.
È permanendo in questo ‘altrove’ che Elizabeth Bishop vince il premio Pulitzer per la poesia (1955), che continua a pubblicare per anni testi per il giornale The New Yorker, che mette insieme lentamente ma con costanza il suo terzo libro di poesie “Questions of Travel” (1962), che a Lota è dedicato.
Ma il tempo della perdita, e con esso quello del viaggio, tornano sempre: dopo sedici anni di intensa relazione Elizabeth perderà anche Lota, suicida nel 1967, e perderà il Brasile, lasciato progressivamente per tornare a vivere in America.
È di tutto questo, e di molto altro, che rende conto la sua poesia più celebre, One Art, pubblicata nella raccolta Geography III (1976). L’Arte in questione non è quella della letteratura, ma per l’appunto quella “di perdere”. Di quest’arte, si capisce, Elizabeth è diventata un’esperta per esperienza.
Elizabeth Bishop
The art of losing isn’t hard to master, scrive, l’arte di perdere non è difficile da imparare. Al mondo ci sono così tante cose già gravide dell’intento di essere perdute, che perderle non sarà poi un disastro. Che si tratti delle chiavi di casa, o di un’ora sprecata, di un vecchio orologio di mamma, o addirittura di città, di fiumi e continenti, Elizabeth lo ripete: non sarà mai una catastrofe.
Solo quando nella lista delle cose perdute e perdibili entra un “tu”, la sublime, dolorosa, ironia poetica si ferma per additare la crepa : Even losing you (the jocking voice, a gesture/ I love) – “perfino perdendo te (la voce giocosa, un gesto / che amo)” – l’arte di perdere continuerà a non essere difficile da padroneggiare. Though it may look like (Write it!) like disaster – “per quanto possa sembrare (Scrivilo!) un disastro”.
Per dire della perdita dell’altra che ama, Elizabeth, esperta titolata della mancanza, usa il segno grafico delle parentesi tonde quasi a voler indicare sulla pagina dove sta la maglia che non tiene, dov’è il buco, a passarci le dita intorno per segnarlo, a scriverlo perché (lo deve scrivere!). Così, dentro i versi, l’oggetto amato non cessa di essere perduto ma viene in parte recuperato nella sua “scrivibilità”. Dal vertice della sua vita “in perdita” Elizabeth Bishop ci dà le parole per dire quello che non sapremmo meglio nominare. Perché, come si mette in parola il vuoto? Una bocca come lo articola? Come si mette il dito su qualcosa che c’è e poi svanisce? Soprattutto se il punto non è solo e non è tanto rievocarne la presenza, ma dirne la scomparsa. Dire tutte le sillabe della caduta, della sua dissolvenza.
Elizabeth Bishop, maestra dell’arte di perdere, lo sa fare. Ma è possibile “imparare a perdere”? Esiste una competenza, una sapienza che col tempo matura, mancanza dopo mancanza? Certo che no. L’ironia con cui Elizabeth ne scrive, lo chiarisce bene. Non si tratta di un manuale di istruzioni per l’uso, né di un cammino filosofico: non c’è nessuna saggezza a cui aspirare, nessun equilibrio da raggiungere. Quella che Elizabeth Bishop ci mostra è piuttosto una postura possibile, un modo di guardare e di attraversare il dolore: se è vero che le cose e le persone che amiamo contengono – ognuna già in sé, come tratteggiata – la parabola della loro scomparsa dalla nostra vita, non per questo le ameremo di meno o vivremo nell’angoscia costante, e paralizzante, della loro perdita.
Che si tratti di smarrire un oggetto caro, o di abbandonare una casa amata, un paese che non rivedremo mai più, un’illusione che ci aveva nutriti, o un amore che non potremo recuperare – sarà sempre un disastro.
Ma un disastro che si può attraversare, se “attraversare” significa che bisogna percorrerlo da un capo all’altro, e lasciarsi percorrere, dare spazio e territorio al dolore.
Non c’è dottrina, Bishop lo sa bene, che ci insegni come si lasciano andare le cose quando è l’ora. E accettare di perdere significa sempre, insieme, accettare di sentirsi perduti.
Ma se la verità è la perdita come non accoglierla nel cuore, nella mente, nella lingua? Se è vero che tutto quello che viviamo dipende dalla narrazione che ne facciamo, potremo forse omettere di raccontarla? A catastrofe avvenuta potremo evitare di dire il crollo? Questo per Elizabeth non è possibile, perché tutto quello che le resta – e che le interessa – è dire la verità, anche quando è la verità della fine.
Anzi è proprio perché si lascia attraversare dalla fine e dal vuoto, che al vuoto fa spazio, che può scrivere la poesia: la parola vera nasce e respira e si muove in quella cavità, senza la cavità ad accoglierla e a covarla la parola vera non nasce. Per questo Elizabeth non commette mai l’errore di pensarsi ininterrotta, piuttosto mette in vista la crepa e celebra la sottrazione.
Con lei e con le sue poesie potremo forse balbettare anche noi le nostre perdite. Provare a dirle. Concederci di provare fino in fondo un’emozione sconcertante, quell’emozione di cui parlava Rilke: lo smarrimento di guardare una cosa felice mentre cade.
E questo non per una fascinazione verso il dramma, né perché imparare a rinunciare sia segno di nobiltà (lo è, a volte, ma non è questo il punto). Soltanto perché le cose sono quelle che sono, e le cose cadono. Vederle cadere sarà sempre un disastro. Ma anche un’emozione profonda, e quindi una trasformazione.
Che cosa significa, allora, imparare a perdere?
Forse significa soltanto godere delle cose che amiamo quando sono vive e presenti, tenere a mente che potremo perderle e per ciò stesso amarle di più, che non vuol dire tenerle più strette ma al contrario: non sentirle mai nostre. Significa provare ad accompagnare una cosa amata mentre cade – senza trattenerla, senza distogliere lo sguardo, senza dire che non cade, se cade. E poi trovare un tempo e un modo per dire la catastrofe. Guardare con vera emozione a ciò che è stato, e a ciò che c’è, per inventare ancora tutta la vita che abbiamo da vivere. E nell’invenzione e nella trasformazione tenere caro, dentro di noi, ciò da cui ci stiamo separando perché:
Il tempo in cui si sta sulla terra
prende e perde innumerevoli forme.
Anche la forma della fine
è una relazione.
E questi sono i versi di un’altra grandissima poeta, italiana e vivente: Sara Ventroni.
* Da leggere: – Elizabeth Bishop, The Complete Poems: 1927–1979, New York, Farrar, Straus, and Giroux, 1983 – Elizabeth Bishop, Miracolo a colazione, Milano, Adelphi, 2005 – Elizabeth Bishop, Robert Lowell, Scrivere lettere è sempre pericoloso, Milano, Adelphi, 2014 – Nadia Fusini, “Elizabeth, la reticenza” in Nomi. Unidici scritture al femminile, Roma, Donzelli, 2012 – Sara Ventroni, La Sommersione, Nino Aragno, Torino, 2016.
Elizabeth Bishop
Breve biografia di Elizabeth Bishop- (Worcester, Massachusetts, 1911 – Boston 1979) poetessa statunitense.Viaggiò a lungo in Europa, Africa, Sud America. La sua opera poetica, caratterizzata da un supremo controllo sia formale sia emotivo, rispecchia nei titoli stessi – Nord e sud (North and south, 1946), Questioni di viaggio (Questions of travel, 1966), Geografia III (Geography III, 1976) – una visione dello spazio come matrice di storia.Considerata tra i più importanti poeti americani del ventesimo secolo, vinse numerosi e importanti premi, tra cui il Premio Pulitzer per la poesia nel 1956 e il National Book Award nel 1970. Oltre che alla poesia, si dedicò alla prosa e alla pittura.
Elizabeth Bishop fuori lo studio costruito per lei da Lota
Descrizione-Di Louisa May Alcott si sa quel poco che le alette dei suoi romanzi ci concedono: che è l’autrice di Piccole donne e dei suoi seguiti, e che ha conosciuto in vita un successo destinato a durare come autrice di libri per ragazzi, anzi, per ragazze. Ma come è arrivata a scrivere la storia di una famiglia che assomiglia tanto alla sua? E da quale vena narrativa sgorgano le altre sue opere, decine e decine di racconti gotici “di sangue e tuono”, romanzi audaci e romanzi commerciali, qualcuno firmato, altri pubblicati anonimi o sotto pseudonimo?
Louisa May Alcott
Ripercorrere la sua vita è viaggiare in un mondo complicato, ricco di opportunità per le giovani donne ma sempre pronto a richiamarle all’ordine, per scoprire una ragazza fuori moda che sognava di essere se stessa ed è diventata “una sorta di tata letteraria che produce pappetta morale per i piccoli”. Una ragazza forte per forza, cresciuta in una casa povera di oggetti e ricca di ideali, diventata una donna lavoratrice per pagare conti e debiti altrui. In questo la storia di Alcott assomiglia a quella di tante altre scrittrici celebri, sempre in bilico tra necessità e libertà, e qualche volta si intreccia con la loro.
Louisa’s family experienced financial hardship, and while Louisa took on various jobs to help support the family from an early age, she also sought to earn money by writing. In the 1860s she began to achieve critical success for her writing with the publication of Hospital Sketches, a book based on her service as a nurse in the American Civil War. Early in her career, she sometimes used pen names such as A. M. Barnard, under which she wrote lurid short stories and sensation novels for adults. Little Women was one of her first successful novels and has been adapted for film and television. It is loosely based on Louisa’s childhood experiences with her three sisters, Abigail May Alcott Nieriker, Elizabeth Sewall Alcott, and Anna Alcott Pratt.
Louisa was an abolitionist and a feminist and remained unmarried throughout her life. She also spent her life active in reform movements such as temperance and women’s suffrage. During the last eight years of her life she raised the daughter of her deceased sister. She died from a stroke in Boston on March 6, 1888, just two days after her father’s death and was buried in Sleepy Hollow Cemetery. Louisa May Alcott has been the subject of numerous biographies, novels, and a documentary, and has influenced other writers and public figures such as Ursula K. Le Guin and Theodore Roosevelt.
Early life
Birth and early childhood
Louisa May Alcott at age 20
Louisa May Alcott was born on November 29, 1832, in Germantown,[1] now part of Philadelphia, Pennsylvania. Her parents were transcendentalist and educator Amos Bronson Alcott and social worker Abigail May.[2] Louisa was the second of four daughters, with Anna as the eldest and Elizabeth and May as the youngest.[3] Louisa was named after her mother’s sister, Louisa May Greele, who had died four years earlier.[4] After Louisa’s birth, Bronson kept a record of her development, noting her strong will,[5] which she may have inherited from her mother’s May side of the family.[6] He described her as “fit for the scuffle of things”.[7]
The family moved to Boston in 1834,[8] where Louisa’s father established the experimental Temple School[9] and met with other transcendentalists such as Ralph Waldo Emerson and Henry David Thoreau.[10] Bronson participated in child-care but often failed to provide income, creating conflict in the family.[11] At home and in school he taught morals and improvement, while Abigail emphasized imagination and supported Alcott’s writing at home.[12] Writing helped her handle her emotions.[13] Louisa was often tended by her father’s friend Elizabeth Peabody,[14] and later she frequently visited Temple School during the day.[15]
Louisa kept a journal from an early age. Bronson and Abigail often read it and left short messages for her on her pillow.[16] She was a tomboy who preferred boys’ games[17] and preferred to be friends with boys or other tomboys.[18] She wanted to play sports with the boys at school but was not allowed to.[19]
Alcott was primarily educated by her father, who established a strict schedule and believed in “the sweetness of self-denial.”[20] When Louisa was still too young to attend school, Bronson taught her the alphabet by forming the letter shapes with his body and having her repeat their names.[21] For a time she was educated by Sophia Foord,[22] whom she would later eulogize.[23] She was also instructed in biology and Native American history by Thoreau, who was a naturalist,[24] while Emerson mentored her in literature.[25] Louisa had a particular fondness for Thoreau and Emerson; as a young girl, they were both “sources of romantic fantasies for her.”[26] Her favorite authors included Harriet Beecher Stowe, Sir Walter Scott, Fredericka Bremer, Thomas Carlyle, Nathaniel Hawthorne, Goethe, and John Milton, Friedrich Schiller, and Germaine de Staele.[27]
In 1840, after several setbacks with Temple School and a brief stay in Scituate,[28] the Alcotts moved to Hosmer Cottage in Concord.[29] Emerson, who had convinced Bronson to move his family to Concord, paid rent for the family,[30] who were often in need of financial help.[31] While living there, Alcott and her sisters befriended the Hosmer, Goodwin, Emerson, Hawthorne, and Channing children, who lived nearby.[32] The Hosmer and Alcott children put on plays and often included other children.[33] Louisa and Anna also attended school at the Concord Academy, though for a time Louisa attended a school for younger children held at the Emerson house.[34] At eight years-old, Louisa wrote her first poem, “To the First Robin”. When she showed the poem to her mother, Abigail was pleased.[35]
In October 1842 Bronson returned from a visit to schools in England[36] and brought Charles Lane and Henry Wright with him[37] to live at Hosmer Cottage, while Bronson and Lane made plans to establish a “New Eden”.[38] The children’s education was undertaken by Lane, who implemented a strict schedule. Louisa disliked Lane and found the new living arrangements difficult.[39]
In 1843 Bronson and Lane established Fruitlands, a utopian community,[40] in Harvard, Massachusetts, where the family were to live.[41] Louisa later described these early years in a newspaper sketch titled “Transcendental Wild Oats”, reprinted in Silver Pitchers (1876), which relates the family’s experiment in “plain living and high thinking” at Fruitlands.[42] There, Louisa enjoyed running outdoors and found happiness in writing poetry about her family, elves, and spirits. She later reflected with distaste on the amount of work she had to do outside of her lessons.[43] She also enjoyed playing with Lane’s son William and often put on fairy-tale plays or performances of Charles Dickens‘s stories.[44] She read works by Dickens, Plutarch, Lord Byron, Maria Edgeworth, and Oliver Goldsmith.[45]
During the demise of Fruitlands, the Alcotts discussed whether or not the family should separate. Louisa recorded this in her journal and expressed her unhappiness should they separate.[46] After the collapse of Fruitlands in early 1844, the family rented in nearby Still River,[47] where Louisa attended public school and wrote and directed plays that her sisters and friends performed.[48]
In April 1845 the family returned to Concord, where they bought a home they called Hillside with money Abigail inherited from her father.[49] Here, Louisa and her sister Anna attended a school run by John Hosmer after a period of home education.[50] The family again lived near the Emersons, and Louisa was granted open access to the Emerson library, where she read Carlyle, Dante, Shakespeare, and Goethe.[51] In the summer of 1848 sixteen-year-old Louisa opened a school of twenty students in a barn near Hillside. Her students consisted of the Emerson, Channing, and Alcott children.[52]
The two oldest Alcott girls continued acting in plays written by Louisa. While Anna preferred portraying calm characters, Louisa preferred the roles of villains, knights, and sorcerers. These plays later inspired Comic Tragedies (1893).[53] The family struggled without income beyond the girls’ sewing and teaching. Eventually, some friends arranged a job for Abigail[54] and three years after moving into Hillside, the family moved to Boston. Hillside was sold to Nathaniel Hawthorne in 1852.[55] Louisa described the three years she spent at Concord as a child as the “happiest of her life.”[56]
Boston
When the Alcott family moved to South End, Boston in 1848,[57] Louisa had work as a teacher, seamstress, governess, domestic helper, and laundress, to earn money for the family.[58] Together, Louisa and her sister taught a school in Boston,[59] though Louisa disliked teaching.[60] Her sisters also supported the family by working as seamstresses, while their mother took on social work among the Irish immigrants. Elizabeth and May were able to attend public school, though Elizabeth later left school to undertake the housekeeping.[61] Due to financial pressures, writing became a creative and emotional outlet for Louisa.[62] In 1849 she created a family newspaper, the Olive Leaf, named after the local Olive Branch. The family newspaper included stories, poems, articles, and housekeeping advice.[63] It was later renamed to The Portfolio.[64] She also wrote her first novel, The Inheritance, which was published posthumously and based on Jane Eyre.[65] Louisa, who was driven to escape poverty, wrote, “I wish I was rich, I was good, and we were all a happy family this day.”[66]
Early adulthood
Life in Dedham
Abigail ran an intelligence office to help the destitute find employment.[67] When James Richardson came to Abigail in the winter of 1851 seeking a companion for his frail sister and elderly father who would also be willing to do light housekeeping,[68] Louisa volunteered to serve in the house filled with books, music, artwork, and good company on Highland Avenue.[69] Louisa may have imagined the experience as something akin to being a heroine in a Gothic novel, as Richardson described their home in a letter as stately but decrepit.[69]
Louisa May Alcott
Richardson’s sister, Elizabeth, was 40 years old and suffered from neuralgia.[70] She was shy and did not seem to have much use for Louisa.[69] Instead, Richardson spent hours reading her poetry and sharing his philosophical ideas with her.[71] She reminded Richardson that she was hired to be Elizabeth’s companion and expressed that she was tired of listening to his “philosophical, metaphysical, and sentimental rubbish.”[69] Richardson’s response was to assign her more laborious duties, including chopping wood, scrubbing the floors, shoveling snow, drawing water from the well, and blacking his boots.[72]
Louisa quit after seven weeks, when neither of the two girls her mother sent to replace her decided to take the job.[69] As she walked from Richardson’s home to Dedham station, she opened the envelope he handed her with her pay.[69] One account states that she was so unsatisfied with the four dollars she found inside that she mailed the money back to him in contempt.[69] Another account states that Bronson may have returned the money himself and rebuked Richardson.[73] Louisa later wrote a slightly fictionalized account of her time in Dedham titled “How I Went Into Service”, which she submitted to Boston publisher James T. Fields.[74] Fields rejected the piece, telling Louisa that she had no future as a writer.[74]
Autrice Beatrice Masini è nata a Milano, dove lavora nell’editoria.Giornalista al Giornale e poi alla Voce, editor, traduttrice, scrive per bambini e per adulti. I suoi libri per ragazzi (albi, racconti, romanzi) sono tradotti in una ventina di lingue. Bambini nel bosco (Fanucci, 2010) è stato il primo libro per ragazzi ad essere selezionato per il Premio Strega. Con Tentativi di botanica degli affetti (Bompiani, 2013) ha vinto il premio Selezione Campiello, il premio Viadana, il premio Alessandro Manzoni.
Louisa May AlcottLouisa May AlcottLouisa May Alcott
Amici e amanti della Sardegna- Maria Carta Cantante-
Breve Biografia-Maria Carta Nacque a Siligo, un piccolo paese della provincia di Sassari, il 24 giugno 1934. Alla nascita le fu dato il nome di Maria Giovanna Agostina: Giovanna perché nacque il giorno della festa di san Giovanni e Maria Agostina per ricordare la nonna materna. All’età di otto anni perse il padre per una grave malattia e fu costretta, come del resto tutti i bambini della sua condizione sociale, ad affrontare le fatiche quotidiane sia in casa sia in campagna[1].
Nel 1957, a 23 anni, vinse il concorso di bellezza Miss Sardegna e partecipò al concorso nazionale di Miss Italia. Prese parte come attrice al fotoromanzo Questo sangue sardo, scritto e realizzato da Abramo Garau a Sardara[2]. Intorno al 1960 si trasferì a Roma, dove conobbe lo sceneggiatore Salvatore Laurani, che poi sposò. Frequentò il Centro Nazionale di Studi di Musica Popolare, diretto da Diego Carpitella, presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia[3] e contemporaneamente portò avanti un percorso di ricerca musicale ed etnografica con importanti produzioni e collaborazioni.
Nel 1971 realizzò due album: Sardegna canta e Paradiso in re, e intanto frequentò l’etnomusicologo Gavino Gabriel. Lo stesso anno venne trasmesso dalla Rai il documentario Incontro con Maria Carta (fotografia di Franco Pinna e testi di Velia Magno), nel quale Maria cantò e recitò con Riccardo Cucciolla. Venne registrato anche un altro documentario (con regia di Gianni Amico su soggetto e sceneggiatura di Salvatore Laurani) dal titolo Maria Carta. Sardegna, una voce.
Nel 1972 recitò al Teatro Argentina a Roma nella Medea di Franco Enriquez. Lo stesso anno incontrò Amália Rodrigues, con la quale tenne un concerto al Teatro Sistina[4]. Nel 1973 le due artiste realizzarono una tournée in Sardegna[5]. Nel 1974 partecipò a Canzonissima, interpretando il Deus ti salvet Maria. Arrivò in finale e si classificò seconda nel girone della musica folk con il brano Amore disisperadu. Nel 1975 tenne un importante concerto al Teatro Bol’šoj di Mosca. Nel 1976 venne eletta, per il Partito Comunista Italiano, nel consiglio comunale di Roma e rimase in carica fino al 1981.
Nella sua carriera si ritagliò un ruolo in alcuni film e godette dell’amicizia di registi famosi come Pier Paolo Pasolini, Francis Ford Coppola e Franco Zeffirelli: suoi infatti furono i ruoli della madre di Vito Corleone ne Il padrino – Parte II (1974) di Coppola e di Marta nello sceneggiato Gesù di Nazareth (1977) di Zeffirelli. Nel 1980 partecipò al Festival d’Avignone, nel 1987 si esibì nella cattedrale di San Patrick a New York e nel 1988 nella cattedrale di St. Mary a San Francisco. Nel 1992 realizzò il musical teatrale A piedi verso Dio con brani composti da Franco Simone. Maria Carta tenne il suo ultimo concerto a Tolosa, in Francia, il 30 giugno 1993. Malata da tempo di tumore, morì nella sua casa di Roma all’età di 60 anni.
Poesie di Tove Ditlevsen – Poetessa e scrittrice danese-
Poesie di Tove Ditlevsen (1917-1976) Poetessa e scrittrice danese, è stata una delle personalità più eminenti della letteratura danese del Novecento. Il suo debutto avvenne nel 1939 con la raccolta Pigesind [Anima di fanciulla]. La crescita nel quartiere operaio di Vesterbro a Copenaghen ha inciso su tutta la sua attività letteraria. Attraverso poesie, romanzi, racconti, saggi e storie per bambini, Tove Ditlevsen ha cercato e ritrovato, per tutta la vita, il mondo della sua infanzia lì collocato. Amore e matrimonio, fragilità e divorzio, scrittura e morte sono stati tutti immortalati nello stile semplice e sobrio, e insieme doloroso e umoristico, che caratterizza la sua scrittura. Amata dai lettori e criticata dai letterati, la sua notorietà in patria fu enorme al pari della sua produzione. Con più di trenta libri pubblicati, Tove Ditlevsen ha dato un’incisiva testimonianza sulla condizione di essere donna e scrittrice nel ventesimo secolo. Di recente è stata tradotta in vari paesi la cosiddetta Trilogia di Copenaghen, romanzi fondamentali in cui Tove Ditlevsen ripercorre la sua vita, dando ai diversi stadi di essa tre titoli esemplari: Infanzia [Barndom], Gioventù [Ungdom] e Dipendenza [Gift]. Questa è la prima edizione italiana che presenta una selezione delle sue poesie.
Tove Ditlevsen
Poesie di Tove Ditlevsen
DOMENICA
*
La domenica non succede mai niente.
La domenica non si trova mai un nuovo amore.
È il giorno degli infelici.
Giorno della pensione o giorno della famiglia.
Le ore più dolorose dell’amante
quando immagina l’amato
con i figli sulle ginocchia
mentre sua moglie, sorridendo,
entra ed esce con vassoi invitanti.
Un giorno maledetto.
Una volta doveva essere diverso.
Perché altrimenti dovremmo tutti
aspettare con ansia la domenica per tutta la settimana?
Forse quando eravamo a scuola?
Ma già allora le campane suonavano
tristi e grigie come la pioggia e la morte.
A quel punto le voci degli adulti
erano deboli e silenziose come se cercassero
invano le parole della domenica.
L’odore di umidità e di pane ammuffito,
del sonno, di stivali di gomma e cicoria
già invadeva le scale allora
e la strada, che era dura, vuota e diversa
in modo desolato.
L’odore della domenica ci riempiva
con lo spesso strato di delusione
che segue un’aspettativa
senza un obiettivo specifico.
E quando, allora? In un luogo prima della memoria
C’era felicità, un’attesa irresistibile
che nessuno era ancora riuscito a deludere.
Allora le campane significavano che papà era a casa,
i baffi, le sopracciglia nere e l’odore del tabacco masticato
erano lì e lì rimanevano, vicino,
e – chissà – la risata della tua giovane madre
sembrava più felice rispetto agli altri giorni.
È domenica. Non troverai mai
un nuovo amore quel giorno.
Siedi in soggiorno
stordita e rigida come un ritaglio di cartone
agli occhi dei bambini.
Scavano con i piedi
e combattono senza energia.
“Dovremmo fare qualcosa”, dici.
«Sì», dice una voce da dietro il giornale.
Allora restate entrambi in silenzio, perché tutto ciò che volete
fare è nascosto e segreto
e sarebbe inaccettabile per l’altro.
Le campane della chiesa suonano. i nasi dei bambini
si riempiono di un odore ereditato.
Sui loro dolci volti scivola
una bruttezza passeggera.
Una luce appassita
sorge dai loro occhi.
Ma tutti aspettiamo con ansia la domenica
tutta la settimana, tutta la vita,
Aspettiamo l’emozione di centinaia
di domeniche lunghe, vuote, estenuanti.
Giornata della famiglia, giornata della pensione,
l’inferno degli amanti segreti.
Quel giorno in cui il grigiore nauseabondo degli adulti
impregna i bambini e stabilisce
l’incomprensibile malinconia domenicale degli anni a venire.
—————————————————–
Tove Ditlevsen
Avvertimento
Mi ami? Allora devi anche conoscere
lo strano gioco del mio cuore esigente
che può sognare, ma non sa struggere
per il desiderio di qualcosa d’esistente.
Ti conduce per strade oscure e insapute
che ti graffiano a sangue in cinte selvagge.
Ha il suono pesante di melodie perdute
e ama di notte i temporali e le piogge –
e se resti con me, si chiude e ti forza
via via più lontano da ogni strada e sentiero;
senza ali solo scioccamente svolazza,
e fa male saperlo come io so che è vero.
* * *
Autoritratto 1
Non so:
fare da mangiare
camminare col cappello
far star bene la gente
indossare gioielli
ordinare fiori
ricordare appuntamenti
ringraziare per i regali
dare vere mance
trattenere un uomo
mostrare interesse
agli incontri coi genitori.
Non so
smettere di:
fumare
bere
mangiare cioccolato
rubare ombrelli
svegliarmi in ritardo
dimenticare di ricordare
compleanni
e pulire le unghie.
Allisciarmi
la gente
svelare segreti
amare
posti strani
e psicopatici.
So:
stare da sola
lavare i piatti
leggere libri
formare frasi
ascoltare
ed essere felice
senza sensi di colpa.
* * *
Gli eterni tre
Ci sono due uomini al mondo, che
costantemente m’incrociano la strada:
uno è colui che io amo,
l’altro colui che mi ama.
Uno è in un sogno notturno
che abita nel mio pensiero più tetro,
l’altro alla porta del cuore sta attorno
ma io lo lascio al chiuso sul retro.
Uno mi ha dato un soffio di primavera
di quella felicità che presto scolora,
l’altro mi ha donato la sua vita intera
e non ne ha riavuta neppure un’ora.
Uno freme nel canto del sangue
dove l’amore è libero e puro,
l’altro è tutt’uno col giorno che langue
in cui i sogni non hanno futuro.
Ogni donna sta tra questi due uomini
innamorata, amata, e pura –
una volta ogni cent’anni può accadere
che essi si fondano in uno.
Tove Ditlevsen
Tove Ditlevsen
The Art Life
The first English-language translation of Tove Ditlevsen’s poetry distills the intensity and mordant humor that make her one of Denmark’s most revered exports.
“Our imaginary home, the home we share.”
— Roberto Bolaño, “Dance Card,” tr. Chris Andrews
How does Art Arrive on Earth?
In the months since filmmaker David Lynch left the planet, under the deep freeze and then the toxic thaw here by the Great Lakes, where they’ve reinforced the disused industrial roads to truck in heavy equipment for the foundation of an inestimably massive black site that locals aren’t supposed to know about, some poets and I huddled in our separate beds, so late in the work day it was almost the work morning, and shared links to interviews with the always-elder Lynch, parables of how Art entered his life, and thereby, our own.
Here’s one. It takes place circa 1961 in Alexandria, Virginia. It’s about ten o’clock at night when fourteen-year-old Lynch opens his eyes in the dark:
Well, I was on the front lawn of my girlfriend’s house in the ninth grade, and I was meeting a fellow named Toby Keeler who didn’t go to my high school, went to—he went to a private school, and he was telling me that his father was a painter. I thought at first his father was a house painter. But he said, no, a fine art painter. And a bomb went off in my head, a bomb that changed my life. In a millisecond completely changed my life. From that moment on, I wanted to be a painter—only that.
In another version, the elder Lynch attests on behalf of the younger: “And I wanted to live the art life.”
Even now, when it’s so late, or even then, in 1961, at the bombsite somewhat closer to the beginning of the end of the world, “the art life” opens up from the slightest aperture: a single word slipped into the adolescent ear on a suburban lawn at night. The word “painter” is excised from its familiar context, both professional and domestic, and inserted into a strange one—”fine art.” Precise as a bomb, it restarts the clock.
Lynch repeats and repurposes the nocturnal lighting and scenography of his initiation into the Art Life in accounting for his transition from painting to film:
I had a painting going, which was of a garden at night. It had a lot of black, with green plants emerging out of the darkness. All of a sudden, these plants started to move, and I heard a wind. I wasn’t taking drugs! I thought, Oh, how fantastic this is!
And I began to wonder if film could be a way to make paintings move.
In this parable, Art enters from elsewhere, and through the ear: I heard a wind. A cosmic soundtrack arrives out of synch but then adheres to the sticky picture track prepared for its arrival. A new phase of the Art Life begins. Art severs the artist from the mundane, but sticks around, like a severed ear in the grass, as its own uncanny aperture.
For the young Lynch, the Art Life begins with the word “painter,” uttered on the lawn at night. For the Korean modernist Kim Haekyŏng, it began with the first two words from the title of the film beloved by his Francomaniac occupiers, Cocteau‘s Le sang d’un poète; Le sang became Yi Sang, the alias under which he undertook a farcical campaign of art-as-crime which ended in his internment and death. For the queer Helsinki poet Gunnar Björling, it was the obnoxious term “dada,” and for the teenaged Kurt Cobain, the adjective “punk.” For the young Kazuo Ohno, a poster of the flamenco dancer La Argentina provided the form, stance, costume, and demeanor for the exacting postwar Japanese dance practice Butoh—the same La Argentina who provided the emblem of the theory and practice of the duende for Lorca.
So Art arrives on Planet Killer, to a species that most needs and mostly doesn’t deserve it, slipping its dubious toxin or glitchy bug into the brain of the waking artist through the slightest of apertures: an advertising poster, a movie title, a chance encounter, a magic word. Yet from that smallest of openings issues the new life, the Art Life.
Tove Ditlevsen
The Art Life of Tove Ditlevsen
Born in 1917 to working-class parents, Tove Ditlevsen was a celebrated voice—and a celebrity—in Danish literature for nearly four decades. She debuted at 21 with the poetry collection Pigsend, variously translated as Girl-soul or A Girl’s Mind. Published during the Nazi occupation and bearing a drawing of a “chaste” naked maiden on its cover, the book became a sensation, as did its author. (According to her translators Sophia Hersi Smith and Jennifer Russell, Ditlevsen claimed to be 20, so as “to seem extra precocious.”) Three decades of publishing in an ever-expanding array of forms and media followed, from novels, poems, and essays to radio plays, lifestyle features, advice columns in women’s magazines, and even wittily composed personal ads planted like bombs in the newspaper edited by her (fourth) ex-husband.
Literature, money, popularity, photography, and circulation in media are all mutually reinforcing elements of Ditlevsen’s singular, and singularly modern, career. In her foreword to a new selection of Ditlevsen’s poems, There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die (Farrar, Straus and Giroux, 2025), translated by Hersi Smith and Russell, the contemporary Danish author Olga Ravn further reckons that “Ditlevsen was one of Denmark’s most photographed writers. Her fame helped keep her financially afloat.” This is emblematized by Ravn’s remark that, after Ditlevsen’s early death by suicide at fifty-eight, “photographs of her funeral procession show a sea of working-class women trailing behind her coffin through the streets of Copenhagen.”
Literature, money, popularity, photography, and circulation in media are all mutually reinforcing elements of Ditlevsen’s singular, and singularly modern,
career.
So how did Ditlevsen arrive at such an exceptionally robust Art Life? By her own account, hers was not a birth starred for Art. Her father, a committed socialist, was a stover in a factory, though frequently unemployed; a habitual reader, he was inconsistent in his support for his daughter, insisting, “Fool, a girl can’t be a poet!” Her favored older brother was waylaid in his attempt to attain the higher economic and social rank of “skilled worker” when the cellulose to which he was exposed at his apprenticeship permanently damaged his lungs. Her mother was a vivacious but frequently vindictive figure whose constant refrain, settling like shrapnel in the flesh of her young daughter, was “Everything written in books is a lie.” As a practical concern, the young Ditlevsen was not permitted to enter high school, but rather left for a series of domestic jobs meant to prepare her for gift, which in Danish translates as both marriage and poison.
How Art came for young Ditlevsen provides both the theme and the plot of her novelistic-memoirs, presented to anglophone readers as the Copenhagen Trilogy but really made up of three separate volumes: Barndom (Childhood, 1967), Ungdom (Youth, 1967) and Gift (Marriage/Poison, 1971, rendered in English as Dependency.) The packaging of these works as a handsome single-volume edition under the export-only title Copenhagen Trilogy in 2021 appears to be an invention of the marketing team at Farrar, Straus and Giroux. Yet such cunning engineering is felicitous, as it has allowed the anglophone reader to meet Ditlevsen as an artist, and literally on her own terms: the early Art Life as she conceived of it toward the end of her own.
Childhood opens with a defining scene of Art’s arrival. Here the not-yet-school-aged Ditlevsen is seated at the kitchen table, looking past her unreliable mother—”Beautiful, untouchable, lonely, and full of secret thoughts I would never know,” the girl sentimentally supposes.
Behind her on the flowered wallpaper, the tatters pasted together by my father with brown tape, hung a picture of a woman staring out the window. On the floor behind her was a cradle with a little child. Below the picture it said, ‘Woman awaiting her husband home from the sea’. Sometimes my mother would suddenly catch sight of me and follow my glance up to the picture I found so tender and sad. But my mother burst out laughing and it sounded like dozens of paper bags filled with air exploding all at once.
The mother unleashes scornful laughter in the attempt to break Art’s spell on the daughter, but somehow is also converted, in this moment, to Art’s uncanny purposes. She begins to sing a saucy ditty “with a clear and defiant little-girl voice that didn’t belong to her.” Next comes a transcription in full of the ditty, in which an unfaithful wife leans out the window to warble at her lover “Can’t I sing / Whatever I wish for my Tulle? / Visselulle, visselulle, visselulle.” Thus the child fulfills Art’s imperative, transcribing the scene in the library of memories; the author, on the page.
Young Ditlevsen’s acolyte-like attendance on Art is rewarded as this opening chapter concludes:
I carried the cups out to the kitchen, and inside of me long, mysterious words began to crawl across my soul like a protective membrane. A song, a poem, something soothing and rhythmic and immensely pensive, but never distressing or sad, as I knew the rest of my day would be distressing and sad. When these light waves of words streamed through me, I knew that my mother couldn’t do anything else to me because she had stopped being important to me. My mother knew it, too, and her eyes would fill with cold hostility.
If the opening scene establishes the sightlines and eerie acoustics of Art’s arrival in Ditlevsen’s life, here Art enforces an even more startling adjustment in circumstance. The “light waves of words” transform the child’s sense of her own place in the world, temporarily neutralizing immediate axes of violence and control—her mother “had stopped being important to me.” The rest of the Trilogy—and the rest of Ditlevsen’s life and work—will be spent devising ways to parry the world’s hostility and step into the power of the Art Life.
As Ditlevsen enters her schoolyears, both “the grownups” and her schoolmates can easily detect her attunement to Art’s presence; she cries, for example, at the unexpected beauty of rote school hymns. Yet the same class, gender, and family pressures which attempt to reform her abnormal connection to Art ultimately offer a thrilling and unexpected solution when the girls in her class begin buying and circulating “Poetry Albums,” something between an autograph album and a yearbook, which girls are expected to tote around, exchange, and inscribe insipid quotes in. Even Ditlevsen’s mother consents to buy her one.
The arrival of the Poetry Album represents a true turning point for Ditlevsen; for the first time, she has a designated place to collect her own poetry. At first, the album provides her with a way to hide her nascent poetry in plain sight, though she conceals the album itself under a pile of folded towels, in her underwear, even taking it to the hospital with her under the pretense of collecting autographs. But it also becomes a means of “publishing” her work—at first unintentionally, when her brother finds the album and both praises Ditlevsen’s facility and jeers her “lies,” and then purposefully, as she begins to show it to other youths and then, finally, to possible editors. In fact, rather than entrust the precious album to a mutual acquaintance so he can approach an editor on her behalf, she heads for an editor’s office herself, poetry album in tow. This heroic self-belief does lead to publication, first of an individual poem, then a book of poetry, then a novel, and finally a fully realized, very public Art Life.
Crucially, the miraculous arrival of the Poetry Album transforms Copenhagen Trilogy itself into a kind of poetry album. Here, amid the alternately grim, drab, and highly thrilling scenes of her childhood, youth, and dependency, Ditlevsen inscribes snippets of poems, whether by herself or others. Considering that these memoirs were written some three decades later, the keenness and delight with which Ditlevsen recalls these early poems amplifies their power; the reader discovers them along with the young poet, whether it be a verse by Baudelaire (“the pitchers are filled with wine, / the twilight-veiled earth”), a lyric passage by the Nobelist Johannes V. Jensen (“And now like the evening star, then like the morning star, shines the little girl who was killed at her mother’s breast”), or a draft of what will become Ditlevsen’s own first publication, in 1939, the poem “To My Dead Child”:
I never heard your little voice,
Your pale lips never smiled at me.
And the kick of your tiny feet
is something I will never see.
These poems hang like amulets amid the velvet-draping of the prose. They mark Art’s path, the path the girl must follow: the dazzling coordinates of the Art Life.
There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die
With the newly selected poems, anglophone readers who came to know Ditlevsen through the Trilogy will feel a strong sense of familiarity, delight, and allegiance. The opening selection from Pigsend (especially “To My Dead Child”) will cause the fangirl’s heart to leap. The decision to title the volume There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die seems to ratify a readerly inclination to imagine the “extra precocious” girl-poet of the Trilogy as the ghostwriter of this entire selection, even though it collects verse written well into middle age. Ravn makes this connection in her foreword and draws out its political implications:
You could say that Ditlevsen’s so-called sentimentality is a poetic anachronism that functions as a subversive tool, an anachronism on a par with a woman’s emotional life. There live girls in us that will not die.
A more ambivalent reading of the title, however, redoubles its power. The girl who will not die haunts and unsettles the poet. The opening poems, written in Ditlevsen’s youth, place the female speaker at the center of the roles Romantic poetry assigns the young girl: that of dying, or dead, or ideal. In “Ritual,” Ditlevsen’s girl-speaker seizes and redecorates this convention: “When I am dead, please lay me / to rest in a jet-black coffin, / and dress me in a crimson gown / with long sleeves made of velvet.” The funeral procession shall be accompanied, improbably enough, with the 1925 Dixieland-pastiche “Dinah” (popularized by one Fanny Rose Shore, who became so identified with the song she made her stage name Dinah!) By the final quatrain, the party is over, and the speaker rests in her desired coffin.
This jet-black coffin with its young, speaking girl—now alive, now dead—forms a persistent, uncanny battery in the book. We encounter the young girl and her dead, alive, dead-alive progeny again and again. In a consistent trope, the adult woman-speaker reflects on the lost dreams of girlhood, yet the thick, conventional nostalgia is pierced by a startling image:
It was on a night like this
I must have been seventeen—
are the red shards of my love
still there in the tall grass?
Here the scene of love becomes the scene of the crime.
In a poem titled “Recognition,” the grave becomes a place where adult women apprehend their shared plight: “Wordlessly we understood— / with dead leaves in our eyes and hair.” The next poem, “The Children’s Eyes,” begins, “I dread the children’s eyes.” The conventionally tender maternal gaze which Ditlevsen’s speakers frequently assume when addressing children, however hypothetical and/or dead, is now reversed; it is the children who gaze at the speaker, and their gazes are piercing, haunted, dreadful, strange.
Translators Hersi Smith and Russell render the persistent intensity, deepening tone, and gradually shifting forms of Ditlevsen’s work with the immersiveness of a ghost story, converting this Selected Poems into a nimble page-turner. The poems lose the rhyme and boxy shape of the early quatrains, assuming an addictive free verse with short lines that refuse to telegraph their intentions; meanwhile, risen from her youthful coffin, that is, from the coffin of youth, the young girl is no longer identical with the speaker but instead haunts her, while the aging speaker’s attitude toward the girl grows more troubled. A poem toward the end of the volume, “Self-Portrait 4,” describes with disgust a former neighbor, an old lady who misremembers the speaker-Tove as a noisy, heedless child:
I don’t remember
the old woman
from my childhood …
She knows something
about me she won’t divulge
a secret I’ve never told.
It fills her up
and keeps death at bay
she tells lies and intends
to outlive me.
I never took the stairs in bounds
I was a quiet child.
I hate her.
Here the speaker wishes to disavow the “old woman” but ends up assigning her a power which seems stored in the pronoun she—a witchy power which the adult speaker also accesses. “She knows something / about me she won’t divulge / a secret I’ve never told.” Facing each other across the mirror of that unpunctuated enjambment, “She” and “I” are disturbingly close; they seem to wear each other’s faces. Moreover, “she tells lies and intends to outlive me,” the speaker complains, but we know from Childhood that lies are what authors write, and in fact young Ditlevsen defends her poems by vowing allegiance to such lies: “I know that sometimes you have to lie in order to bring out the truth.”
So, who lies? Who lives? Who hates? Who dies? By the last line, through the fluid and felicitous ambiguity of the translation, that “her” is so porous, so capacious, it’s as much a yielding grave as a pronoun; like any grave or woman, it can hold all the hate. Does the speaker hate her child-self? Does she hate the old neighbor-lady who lies about her? Maybe the titular girl-who-will-not-die has now uncannily assumed the role of speaker, casting the adult Ditlevsen as a lying old lady, trying to outlive her child-self. Well, this undead girl will not let that happen. There is a young girl who will not die. And she will have the last word, as she had the first.
Ditlevsen, like David Lynch, pursued the Art Life to the end. In the version she relates in the Trilogy, she has children, husbands, and lovers, but she refuses to keep house, exchanges one husband for another, and seems most at peace when a nanny or female friend is nearby to attend to the babies. All the while, poems rise like stars, novels rise in clouds of racket from the typewriter, sorrow rises from illness, and bliss from drugs; all while she fashions and refashions the scenes, props, and personages of early inspiration into an oeuvre as luminous and haunted as a department store mirror in which the young girl studies her possible futures and the aging woman searches the black pools of her pupils for the little doll who used to live there. That girl will not die, though Ditlevsen does.
And, later, twelve-year-old Olga Ravn encounters Ditlevsen’s poems on a shelf in her grandfather’s study and pictures her “wander[ing] through a forest of pop songs, picking shiny, bright-red plastic apples for her poems”—which is to say, she pictures a version of herself, wandering the grove of Art. Her, her, her. Who encounters, who wanders, who picks, who dies? Still later, Ravn edits and publishes I Wanted to Be a Widow, and I Wanted to Be a Poet: Forgotten Texts by Tove Ditlevsen (2015), and the author and translator Michael Favala Goldman spots Gift in an airport gift store and begins it. Still later, the Copenhagen Trilogy is summoned into being, featuring previously published translations of Childhood and Youth by Tiina Nunnally and culminating in Goldman’s translation, Dependency. And later, thousands of anglophone readers will read it, and still later, which is to say now, now we can clutch There Lives a Young Girl in Me Who Will Not Die to our chests, just as young Ditlevsen held to the miracle of her Poetry Album.
Joyelle McSweeney’s collections of poetry include The Red Bird (2002), winner of the 2001 Fence Modern Poetry Series, The Commandrine and Other Poems (2004), Percussion Grenade (2012), Toxicon and Arachne (2020), a finalist for the 2021 Kingsley Tufts Award, and Death Styles (2024). She is also the author of the novels Nyland, the Sarcographer (2007) and Flet (2007); the prose work Salamandrine, 8…
Non ci lasceremo mai. Nella Resistenza e nella memoria- articolo di Amalia Perfetti
Questo è un libro prezioso, come lo sono i libri che raccontano le storie delle donne e degli uomini che hanno partecipato alla lotta di Liberazione del nostro Paese. Questo vale per chi scrive, ma penso di poter parlare anche a nome di quante e quanti come me hanno l’onore di conoscere Iole Mancini. Feltrinelli Editore “Un Amore partigiano” ha però un valore aggiunto. Tante volte abbiamo sentito questa straordinaria ragazza di 102 anni raccontare dei terribili giorni a via Tasso; tante volte l’abbiamo sentita descrivere la “fame nera” di quei nove lunghissimi mesi dell’occupazione di Roma, ma anche dell’amore per il suo Ernesto, Ernesto Borghesi, uno dei gappisti romani. Ed è bello sapere che ora i ricordi di Iole sono anche lì, nero su bianco, e possiamo condividerli tutte le volte che vogliamo.
Iole Mancini.Un amore partigiano
L’amore per Ernesto è il protagonista principale del libro, è il titolo a segnalarcelo subito e lei ci tiene moltissimo. Un sentimento nato in vacanza, in spiaggia, come nascono tanti amori. Era l’estate del 1937, alle Grotte di Nerone di Anzio, Iole aveva 17 anni. Ricorda tutto di quel momento e lo racconta a Concetto Vecchio che in questo libro ha raccolto le memorie di Iole. E questa è un po’ una storia nella storia: quella dell’incontro tra il giornalista e la partigiana. Quella tra Vecchio e Mancini doveva essere un’intervista per il 25 aprile del 2021 ma si è trasformata in un libro e in un’amicizia. Mesi di incontri, chiacchierate, ricordi, fotografie, letture, ricerche. Nel volume ritroviamo insieme alla narrazione della storia di Iole e di Ernesto, quella dei mesi della lotta di Liberazione a Roma e dell’amicizia che nasce tra il 2021 e il 2022 e si cementa a ogni presentazione. Lo abbiamo visto alla prima che si è svolta a Roma, presso la Casa della memoria e della storia, lo scorso 29 aprile e a quella di Colleferro il 3 giugno successivo. Tra loro è un dialogo che sul filo del racconto, del ricordo e dell’intesa continua oltre il libro. In qualche modo il libro, che pure è intenso, ricco di particolari, emozionante, è come se fosse l’inizio di un ragionamento ininterrotto.
Iole è generosa e attenta nel libro come nelle presentazioni (che ha fatto e vuole continuare a fare) nelle quali con i suoi occhi vispi cerca lo sguardo delle ragazze e dei ragazzi. Ed è a loro che vuole parlare in particolare: “raccontare quelle terribili storie, quei mesi così crudeli è importante – inizia così l’intervento di Iole nella presentazione romana –, perché i giovani non lo sanno, non conoscono la Resistenza e allora bisogna spiegare a loro com’era nata, come si è sviluppata in tutta Italia spontaneamente”, o ancora come scrive nel libro che “i giovani devono capire cos’è la dittatura, che può sempre tornare, sotto altre forme. Non immaginano neanche minimamente quel che abbiamo patito nei nove mesi dell’occupazione nazifascista, che tempo infame!”.
Il libro è un continuo intreccio tra la storia d’amore di Iole ed Ernesto e le azioni coraggiose dei gappisti romani, di una città che si ribella e fa rete; e poi gli arresti, le fucilazioni, l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Iole ed Ernesto si sposano “nell’ora più buia di Roma” il 5 marzo 1944: pochi giorni prima era stata uccisa Teresa Gullace, qualche giorno dopo, il 7 marzo, a Forte Bravetta sarebbero stati fucilati per rappresaglia dieci partigiani, tra i quali Giorgio Labò, Guido Rattoppatore e Toto Bussi. Erano giorni di paura e fame, resta difficile per noi oggi pensare di sposarsi proprio in quel clima. “Perché – chiede Vecchio a Iole Mancini – celebrare il matrimonio proprio in quel momento livido, con gli Alleati sbarcati ad Anzio da due mesi ma incapaci di avanzare verso la Capitale? I nazisti, sempre più efferati, davano la caccia agli oppositori con rastrellamenti a tutte le ore”. “Proprio per questo! – risponde la partigiana – per essere almeno marito e moglie nel caso fosse avvenuto l’irreparabile”.
Per Iole ed Ernesto non avvenne l’irreparabile, ma furono mesi sempre più difficili, segnati prima l’arresto di lui poi dalla fuga e poco dopo dall’arresto di Iole che finisce a via Tasso per 10 lunghissimi giorni: lei resiste, non parla, continua a dire – è Priebke a interrogarla – che Ernesto “sta a regina Coeli”.
Arriverà il 4 giugno 1944, la Liberazione di Roma. Sarà il destino a salvare Iole, ma è una storia, questa, che si deve leggere o ascoltare con le parole di una testimone straordinaria di mesi difficili, lunghissimi, ma nei quali si costruiva la libertà. E Iole ricorda sempre che “la libertà è una parola per me preziosa, perché significa la vita”. In questo libro di vita ce n’è tanta, quella difficile dei tempi difficili e bui nei quali però mai era venuta meno la speranza di un mondo migliore. Le parole di Iole ci invitano a continuare a farlo e a non abbassare mai la guardia, a partecipare.
Abbiamo bisogno di leggere e conoscere storie come quelle di Iole Mancini, che magari faranno venire la voglia di saperne di più e di guardare le città e i luoghi in cui viviamo con occhi diversi e riconoscenti, proprio come dice Concetto Vecchio parlando di Roma dopo averla “percorsa” attraverso gli occhi di Iole e di quante e quanti hanno raccontato quei mesi terribili sì, ma di solidarietà, speranze, coraggio e amore.
Amalia Perfetti, presidente della sezione Anpi Colleferro “La Staffetta Partigiana” e componente della presidenza Anpi provinciale di Roma-
Fonte–Patria Indipendente- Periodico dell’ANPI-Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
ANPI –Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Foto Gallery
Roma, Casa della memoria e della storia. Al centro Iole Mancini e Concetto Vecchio, con loro Marina Pierlorenzi, vicepresidente comitato provinciale Anpi Roma, che ha moderato l’incontro, e Fabrizio De Sanctis, presidente del comitato provinciale Anpi Roma e dirigente nazionale dell’associazione dei partigiani-Colleferro (RM). Iole Mancini e Concetto Vecchio insieme ad Amalia Perfetti (in piedi con il fazzoletto Anpi al collo), presidente della sezione locale dei partigiani e autrice della recensione, e a tanti giovani che non sono voluti mancare alla presentazione del libro-Iole ed Ernesto sposiUna bellissima foto di Iole Mancini, ragazza partigiana di 102 anni…ANPI- Comitato antifascista della SABINA
con testo introduttivo del Prof. Carlo Spartaco Capogreco,
Mimesis editore
Quell’Italietta fascista, razzista e ipocrita
Articolo di Anna Longo, giornalista Rai
Un diario letterario da dentro un “campo del duce”, la fotografia dell’Italietta fascista, la rimozione e la riscoperta del libro e della figura della sua autrice. Il testo di Maria Eisenstein,che pubblica Mimesis comprende tutto questo, cioè non solo lo scritto di Maria Eisenstein, ma anche un saggio introduttivo che descrive l’appassionante ricerca condotta da Carlo Spartaco Capogreco sulle tracce della giovane ebrea e delle persone che lei incontra e presenta. Nell’insieme una lettura che cattura, sorprende, emoziona, e spesso indigna.
L’internata n. 6”, di Maria Eisnstein
Maria nasce a Vienna da una famiglia di origine polacca il 22 settembre 1914. Giunge in Italia nel ’36 per studiare le “belle lettere” a Firenze, e qui si laurea nel ’39 con una tesi in letteratura tedesca. È colta, intelligente, bella. Nel 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, viene catturata e condotta nel campo di concentramento femminile di Lanciano, in Abruzzo. Sui cinque mesi di internamento scrive appunti incisivi, precisi, spietati anche verso se stessa. Vi troviamo tutta l’insensatezza del meccanismo della segregazione che nel caso di Lanciano produsse una sconfortante “accozzaglia” (la definizione è di Maria) di 75 donne estranee l’una all’altra, che parlavano lingue diverse, senza nulla in comune se non il disagio di una convivenza forzata e troppo intima. La tragica fissazione del fascismo di perseguitare prostitute, omosessuali, slavi, ebrei, zingari, oppositori politici reali o sospetti, di scovare spie e di punirle, portò tra il 1940 e il ’43 all’istituzione di una cinquantina di campi di internamento, a volte costruiti ex novo, spesso insediati in edifici esistenti approssimativamente riadattati. A Lanciano si scelse la “Villa Sorge”, una casa malandata presa in affitto, per una cifra sostanziosa, dal regime.
L’internata n. 6”, di Maria Eisnstein ed. 1944
Maria riflette sull’incomunicabilità, sull’impossibilità della solidarietà, sulla paura. “Più mi agito e più mi pare di essere in un mondo fittizio, non vero. O meglio: meno mi pare di essere io, in quel mondo” Non è lei, è il “6” colei che vive nel campo. Maria è nascosta, viene fuori solo di sera, e la sera trova “il coraggio di avere paura”. Maria, a differenza della maggior parte delle altre recluse, è consapevole dell’odio assoluto e assurdo di Hitler per tutti gli ebrei, percepisce il pericolo dello sterminio, del genocidio. La sua anima sensibile è continuamente offesa non solo dalla dimensione alienante dell’internamento, che abbrutisce e violenta la personalità di tutte, anche di quelle più forti, ma anche dalla miseria dei comportamenti di chi lo gestisce, le ruberie, la corruzione, i ricatti, l’ipocrisia. Lo stesso fuori dal campo, dove troviamo opportunismo, maschilismo, mediocrità. Si approfitta della presenza delle donne di Villa Sorge per alzare i prezzi dei prodotti in vendita. Come ha detto Elisa Guida in una delle presentazioni del libro (a Roma, alla Casa della Memoria, il 28 gennaio 2016) nel diario di Maria Eisenstein “la grande storia passa per le piccole storie, non c’è confine tra pubblico e privato, e l’Italietta fascista ne esce demolita”.
Non deve stupire dunque più di tanto il fatto che “L’internata n.6”, il libro/diario pubblicato nell’ottobre del ’44 nella Roma appena liberata, sia poi di fatto scomparso. Un’opera del genere cozzava con il mito del “bravo italiano”. Si deve a Carlo Spartaco Capogreco e a Gianni Giovannelli il merito di averlo recuperato. Un libro bellissimo e importante, per conoscere il nostro passato e per riflettere su come certe attitudini amorali rischiano sempre di produrre un certo fascismo di ritorno.
Breve biografia di Amalia Guglielminetti, poetessa e scrittrice. (Torino, 4 aprile 1881 – Torino, 4 dicembre 1941) -Appartenente alla piccola borghesia industriale, ricevette un’educazione rigidamente cattolica per volere del nonno, uomo dai costumi molto austeri e acceso clericale.
Una voce
Una voce nell’ombra ha qualche volta
la morbidezza calda d’una cosa
tangibile. Non s’ode e non s’ascolta,
ma sul cuor che l’accoglie quasi posa
le sue parole ad una ad una come,
quando langue, le sue foglie una rosa.
Se invoca piano, in ansia, un caro nome
par che vi tremi il mal represso ardore
d’un bacio non osato fra le chiome.
E di soverchia intensità essa muore
soffocata ed il pianto che l’assale
sembra il principio dolce dell’amore
ed è l’inizio acerbo del suo male.
*
Le seduzioni
Colei che ha gli occhi aperti ad ogni luce
e comprende ogni grazia di parola
vive di tutto ciò che la seduce.
Io vado attenta, perchè vado sola,
e il mio sogno che sa goder di tutto,
se sono un poco triste mi consola.
In succo io ho spremuto ogni buon frutto,
ma non mi volli sazïare e ancora
nessun mio desiderio andò distrutto.
Perciò, pronta al fervor, l’anima adora
per la sua gioia, senza attender doni,
e come un razzo in ciel notturno ogni ora
mi sboccia un riso di seduzïoni.
*
Vortice
Noi ci fissammo, con un folgorio
d’occhi tenace. Io so che in quel momento
il cuore ti tremò del tremor mio.
Eravamo seduti con il mento
nella mano, in un’ombra di veranda,
in qual tempo, in qual giorno, io non rammento.
Rammento che giungeva a ondate, blanda,
una lontana musica e che spesso
ripeteva un motivo di domanda.
A un tratto ci trovammo così presso
da provarne vertigini, e smarriti
impallidimmo del pallore stesso
come su un buio vortice che inviti.
*
Pallore
Oggi mi trovi pallida, ma sai
che un poco sempre io son pallida. È strano
come il mio volto non s’accenda mai.
Solo la bocca un fior di melagrano
sboccia sotto il tuo bacio, e il cuore pulsa,
– oh così forte! – sotto la tua mano.
Ma goda o soffra l’anima convulsa,
il marmo della fronte non confessa
gioia di amore o strazio di ripulsa.
Quanto più sfatta io piego su me stessa,
più s’impietra la maschera del volto.
Ma quando cedo dall’angoscia oppressa,
piango non vista il mio pianto raccolto.
*
L’etèra
Io t’ho seguita, sotto i primi lumi
rossastri d’una sera cittadina,
pallida etèra grave di profumi.
E parvi la falena che s’ostina
intorno ad una lampada notturna,
sempre più attratta e sempre più vicina.
Curiosità di male, taciturna,
mi trascinò nell’orbita di quella
ch’era del male più goduto l’urna.
Colei che attira asseta arde e flagella,
l’ombre accendeva di sua rossa chioma,
e molle andando, alla falena snella
vampava della sua carne l’aroma.
*
Asprezze
Aspra son io come quel vento vivo
di marzo, il quale par crudo di geli
ma discioglie la neve su pel clivo.
Vento di marzo che agita gli steli
pigri, scopre vïole in mezzo all’erba,
scompiglia erranti nuvole pei cieli.
Asprigna io sono e rido un poco acerba.
Mordere più che accarezzar mi piace
ed apparir più che non sia superba.
Come il vento di marzo io non do pace.
Godo sferzare ogni anima sopita,
e trarne l’ire a un impeto vivace
per sentirla vibrar fra le mie dita.
*
La solitudine
Siamo soli nel mondo: ciascun vive in mezzo a un deserto.
Nulla per noi è certo fuorchè questo vuoto profondo.
E i contigüi casi degli uomini, e i sogni e le cose
son come ombre fumose vanenti su torbidi occasi.
Talvolta amor mezzano avvicina due solitari,
li illude un’ora e ignari e ignoti li avventa lontano.
Ciascun ch’ami il suo orgoglio la sua verità o il suo errore
è un mesto viaggiatore superstite sopra uno scoglio.
S’illude egli alle prime carezze dell’onde e del vento,
ma tosto lo sgomento dello spazio enorme l’opprime.
Né v’ha cosa più triste della non colmabil lacuna,
dell’ombra che s’aduna fosca fra chi esiste e chi esiste.
*
Sera di vento
Dolce salire nella chiara sera,
sola col vento che m’abbraccia, folle
più d’ogni amor, la strada erta del colle
fra un presagio lontan di primavera.
Dolce, s’io pur di un’ironia leggiera
mi punga, come chi desto da un molle
sogno, se quasi già doler si volle,
ride di sua stoltezza passeggiera.
O breve inganno, io ben di te mi spoglio.
Fatta serena, del destino il gioco
senza umiltà io seguo e senza orgoglio.
Ma mi figuro d’avanzar guardinga
e curiosa, per gioir fra poco
d’altra menzogna bella di lusinga.
*
La malinconia
Dentro le vene la malinconia
s’insinua, ed è un morbo sonnolento
cui giova non trovar medicamento,
uno stupor di morbida follìa.
Il desiderio più tenace svia,
smemora del più intenso sentimento,
quasi vapori un greve incantamento
d’oppio, in cui goda più chi più s’oblìa.
Essa è come un giaciglio, ove un’inerte
stanchezza ci abbandoni svigorite,
con le treccie disciolte e a braccia aperte.
Ed ha il torpor d’alcune notti estive,
in cui ci s’addormenta indolenzite
dallo spasimo oscuro d’esser vive.
*
L’antico pianto
Quindi prosegua per cammini ombrosi,
a fior di labbro modulando un canto
che per me l’altra notte mi composi.
Poichè talor non piango io il mio pianto,
lo canto, e qualche mia triste canzone
fu come il sangue del mio cuore infranto.
Tempo fu che le mie forze più buone
stremai in canti a’ piedi d’un Signore
che m’arse di ben vana passïone.
Io piangevo così note d’amore,
come la cieca in sul quadrivio, volta
al sole, canta il suo buio dolore
e non s’avvede che nessun l’ascolta.
*
Amalia Guglielminetti,Poetessa italiana
Breve biografia di Amalia Guglielminetti, poetessa e scrittrice. (Torino, 4 aprile 1881 – Torino, 4 dicembre 1941) -Appartenente alla piccola borghesia industriale, ricevette un’educazione rigidamente cattolica per volere del nonno, uomo dai costumi molto austeri e acceso clericale.
La prima collaborazione letteraria di Amalia risale al 1901, quando iniziò a pubblicare le sue poesie sul supplemento domenicale della “Gazzetta del popolo”. Erano versi scolastici e di maniera, nei quali l’autrice non aveva ancora maturato moduli espressivi propri e originali; in tal senso bisognerà attendere il 1907, anno della pubblicazione di “Le vergini folli”. La silloge fu molto ben accolta dal pubblico e soprattutto dalla critica: Arturo Graf ne lodò l’impronta innovativa e il felice connubio di spontaneità e qualità; Dino Mantovani paragonò Amalia a Saffo e a Gaspara Stampa. Più sottile fu il giudizio di Guido Gozzano (con cui la poetessa ebbe una intensa relazione amorosa), che ravvisò nell’opera una sensibile dipendenza dai canoni dannunziani e l’espressione di un’anima “un poco amara, un poco inferma”.
Nella poesia di Amalia, infatti, c’è una malinconia soffusa, come un alone di nebbia che ammanta ogni cosa. Perfino guardando la bellezza di un fiore, i suoi occhi la vedono già appassita; quasi come se l’anima, ormai ammalata di disinganno, non sapesse fare a meno di strappare il velo e guardare oltre, per cogliere tutto il male che si cela dietro gli incanti e le dolcezze.
Con gli anni, la sua scrittura si svincolò progressivamente dalle influenze dannunziane, acquistando in forza e profondità; i versi si fecero più concisi, lo stile più essenziale, l’uso degli aggettivi sempre più limitato. Negli anni Trenta, Amalia fu per qualche tempo a Roma, dove tentò la via del giornalismo ma senza il successo sperato.
Nel 1937 tornò nella sua città natale, dove visse in solitudine gli ultimi anni della sua vita. Nel 1941, durante un bombardamento, cadde dalle scale mentre correva al rifugio antiaereo, procurandosi una brutta ferita che causò la sua morte per setticemia. E’ sepolta al Cimitero Monumentale di Torino.
Ha lasciato diverse opere degne di interesse fra raccolte poetiche, fiabe, romanzi e lavori teatrali. Di recente, la casa editrice Bietti ha ripubblicato le sue poesie e gli scambi epistolari con Guido Gozzano, di cui sono state successivamente realizzate anche versioni digitali.
a cura di Donatella Pezzino
Fonti:
– Amalia Guglielminetti, Le vergini folli, Torino-Roma, Società Tip. Ed. Nazionale, 1907
– Amalia Guglielminetti, Le seduzioni, Torino, S. Lattes e C., 1909
– Amalia Guglielminetti, I serpenti di Medusa, Milano, La Prora, 1934
Alaíde Foppa (1914-1980)–nació el 3 de diciembre de 1914 en Barcelona, con un destino tan brillante como trágico. Vivió unos años en Argentina, y pasó su adolescencia en Italia, país de origen de su padre. También estuvo un tiempo en Guatemala, donde obtuvo la ciudadanía a través de su marido. Por cuestiones políticas, debió exiliarse a México por un tiempo. Allí trabajó como profesora en la Facultad de Filosofía y Letras, a cargo de la cátedra de Literatura Italiana. Apoyó fervientemente los movimientos feministas; fundó la revista FEM y colaboró por distintos medios contra la represión de la mujer. En la década del 70, reflejó la profunda tristeza por la muerte de sus hijos y su marido en una serie de poemas muy conmovedores. Al regresar de su exilio, en 1980, fue secuestrada y nunca volvieron a verla. Su labor como poetisa lo comenzó quizás en Italia, donde también realizó sus estudios universitarios. Entre sus poemarios más destacados se encuentran “La sin Ventura”, “Aunque es de noche” y “Elogio de mi cuerpo”. De este último podemos apreciar “El corazón” y “Las manos“. También incursionó en la crítica de arte, promoviendo el trabajo de jóvenes artistas, y en la traducción de poesía francesa e italiana.
Adios
Con los ojos de la despedida
os vi aquel día,
cosas de nuestra vida.
Con los ojos de la despedida,
la vida parecía
una cosa perdida.
La casa estaba vacía
en la hora de la despedida,
y sin embargo quedaban
las cosas de nuestra vida.
Dicen que es del tamaño
de mi puño cerrado.
Pequeño, entonces,
pero basta
para poner en marcha
todo ésto.
Es un obrero
que trabaja bien
aunque anhele el descanso,
y es un prisionero
que espera vagamente
escaparse.
Las manos
Mis manos,
débiles, inciertas,
parecen
vanos objetos
para el brillo de los anillos,
sólo las llena
lo perdido,
se tienden al árbol
que no alcanzan,
pero me dan el agua
de la mañana,
y hasta el rosado
retoño de mis uñas
llega el latido.
Oraciòn
Dame, señor
un silencio profundo
y un denso velo
sobre la mirada.
Así seré un mundo
cerrado:
una isla oscura;
cavaré en mí misma dolorosamente
como en tierra dura
Y cuando me haya desangrado
ágil y clara será mi vida
Entonces, como río sonoro y transparente,
fluirá libremente
el canto encarcelado.
Destierro
Mi vida
es un destierro sin retorno.
No tuvo casa
mi errante infancia perdida,
no tiene tierra
mi destierro.
Mi vida navegó
en nave de nostalgia.
Viví a orillas del mar
mirando el horizonte:
hacia mi casa ignorada
pensaba zarpar un día,
y el presentido viaje
me dejó en otro puerto de partida.
¿Es el amor, acaso,
mi última rada?
Oh brazos que me hicieron prisionera,
sin darme abrigo…
También del cruel abrazo
quise escaparme.
Oh huyentes brazos,
que en vano buscaron mis manos…
Incesante fuga
y anhelo incesante
el amor no es puerto seguro.
Ya no hay tierra prometida
para mi esperanza.
Ella se siente.
Ella se siente a veces
como cosa olvidada
en el rincón oscuro de la casa
como fruto devorado adentro
por pájaros rapaces,
como sombra sin rostro y sin peso.
Su presencia es apenas
vibración leve
en el aire inmóvil.
Siente que la traspasan las miradas
y que se vuelve niebla
entre los torpes brazos
que intentan circundarla.
Quisiera ser siquiera
una naranja jugosa
en la mano de un niño
-no corteza vacía-
una imagen que brilla en el espejo
-no sombra que se esfuma-
y una voz clara
-no pesado silencio-
alguna vez escuchada.
Los Pies
Ya que no tengo alas,
me bastan
mis pies que danzan
y que no acaban
de recorrer el mundo.
Por praderas en flor
corrió mi pie ligero,
dejó su huella
en la húmeda arena,
buscó perdidos senderos,
holló las duras aceras
de las ciudades
y sube por escaleras
que no sabe a donde llegan.
Alaíde Foppa (1914-1980)-Poetessa, scrittrice e traduttrice guatemalteca. Esule in Messico ,Alaíde Foppa ,Poetessa guatemalteca vi fondò la rivista femminista “Fem”. Tornata in Guatemala per rinnovare il passaporto dopo l’assassinio del figlio, guerrigliero nella EGP, fu rapita in pieno giorno dai corpi paramilitari e presumibilmente assassinata.
IL TEMPO, IV
La mattina mi fa male.
Vorrei
fosse già notte
e il giorno
un’altra goccia
di passato
un’esigenza in meno
di risposta.
Preferisco la notte
che perdona
la mia stanchezza
e promette sogni.
—————————————————–
Parole di carne e ossa : Alaide Foppa
Costa poco la parola, anzi, non costa nulla. Tanto, la si dice soltanto e dire non è fare. Dire non vale. Non è vincolante. Non è una promessa. Si può sempre tornare indietro, tanto l’ho solo detto. Siamo abituati a poter dire tutto ciò che vogliamo senza temere alcuna conseguenza e infatti diciamo tutto, siamo circondati di parole e produciamo in continuazione fiumi di parole, parliamo senza fine, senza pensare, scriviamo, leggiamo, pensiamo, le parole non ci lasciano mai in pace ( e nemmeno noi a loro concediamo un attimo di tregua), ci girano sempre intorno, le sentiamo, ma non le ascoltiamo e se le ascoltassimo, scopriremmo che il più delle volte non significano nulla. Tutto è possibile, tutte le parole sono permesse e in questo fiume traboccante le parole non si distinguono più.
Nell’arco di un’ora, si afferma tutto e il contrario di tutto, si parla, si mente, si dimentica ciò che si è appena detto ( e ciò che hanno detto gli altri ), tanto, dire non è fare, la parola non costa nulla e come tutto ciò che non ha un costo, vale poco. Mentre lentamente stiamo soffocando in quel mare di parole senza senso, prive di contenuto che produciamo in ogni istante, le nostre amate chiacchiere, in altre parti del mondo – e in altri tempi – per una parola sola, si può finire in carcere o addirittura perdere la propria vita. Lo so che questa non è una novità. Non è un’ affermazione originale, anzi, lo sanno tutti. Sto facendo del moralismo? E’ come quando si osa dire che noi mangiamo fino al vomito mentre altrove ogni trenta secondi si muore per mancanza di cibo? Non si può dire questo, perché tanto si sa? Perché tanto non cambia nulla. Perché tanto…
Ma non parlo della fame nel mondo. Parlo di chi ha perso la vita per aver detto la sua parola. Perché una parola non è solo una parola, ma è già un atto. Dire è fare. Ogni parola crea una nuova realtà. Dipende da noi.
(Questo non è un bel testo, non è scritto bene e non dice nulla di nuovo. Eppure non intendo limarlo. Non ho in questo momento alcuna voglia di scrivere un bel testo molto originale e very sophisticated, perché la mia stessa abilità di manovrare le parole, come di volta in volta conviene, mi spaventa. Mi è sospetta. Io, donna di lettere che ha condotto tutta la sua vita nella o con la parola, talvolta non mi fido più di me stessa.
Alaide Foppa : Tre poesie
Alaide Foppa (*1914) fu rapita il 19.12.1980 in Guatemala. Da allora non si ha più notizie di lei.
Nata in Italia da madre guatemalteca e padre argentino, trascorse la sua infanzia e gioventù in Italia e Belgio. Sposa Alonso Solórzano, un giurista che, negli anni ’50 fu membro di due governi in Guatemala. Nei tempi della dittatura, la famiglia chiede asilo politico in Messico.
Alaide Foppa fu una donna emancipata che, oltre ad occuparsi dei suoi 5 figli, fu poetessa, professoressa universitaria per italianistica, nonché traduttrice dei sonetti di Michelangelo, fondatrice della rivista “ Fem” e fondatrice di una cattedra per sociologia femminile all’università di città del Messico.
Nonostante la sua appartenenza alla borghesia, Foppa, una convinta femminista e al contempo una donna elegante dei gusti raffinati, si schiarò per la sinistra. Tre dei suoi figli appartenevano alla Guerillia guatemalteca. Poco tempo dopo che fu ucciso il suo figlio Juan Pablo, Foppa sparì insieme al suo autista.
Si presume che in Guatemala sono spariti durante gli anni delle vari guerre civili più di 45.000 persone.
Señor, estamos solos,
Señor, estamos solos,
Yo, frente a Ti:
Diálogo imposible.
Grave es tu presencia
Para mi solitario amor.
Escucho tu llamada
Y no sé responderte.
Vive sin eco y sin destino
El amor que sembraste:
Sepultada semilla
Que no encuentra el camino
Hacia la luz del día.
En mi pecho encendiste
Una llama sombría
¿Por qué señor,
no me consumes entera,
si no hay para tu amor
otra respuesta
que mi callada espera?
Signore, siamo soli
Signore, siamo soli
di fronte a Te :
Dialogo impossibile.
Grave è la tua presenza
per il mio amore solitario.
Ascolto la tua chiamata
e non so risponderti.
Vive senza eco e senza destino
l’amore che tu hai seminato:
seme sepolto
che non trova la via
verso la luce del giorno.
Nel mio petto hai acceso
una fosca fiamma.
Perché, Signore
non mi consumi tutta
se al tuo amore non c’è
altra risposta
che la mia silenziosa speranza?
Oraciòn
Dame, señor
un silencio profund
y un denso velo
sobre la mirada.
Así seré un mundo
cerrado:
una isla oscura;
cavaré en mí misma dolorosamente
como en tierra dura
Y cuando me haya desangrado
ágil y clara será mi vida
Entonces, como río sonoro y transparente,
fluirá libremente
el canto encarcelado.
Preghiera
Dammi, oh Signore,
un silenzio profondo
e un denso velo
sugli occhi.
E un mondo si chiuderebbe:
un isola oscura;
scaverò dentro me stessa dolorosamente
come nella terra dura.
E quando sarò dissanguata,
agile e chiara sarà la mia vita.
E come un fiume sonoro e trasparente
scorrerà liberamente
il canto imprigionato.
Ella se siente a veces
como cosa olvidada
en el rincón oscuro de la casa
como fruto devorado adentro
por los pájaros rapaces,
como sombra sin rostro y sin peso.
Su presencia es apenas
vibración leve
en el aire inmóvil.
Siente que la traspasan las miradas
y que se vuelve niebla
entre los torpes brazos
que intentan circundarla.
Quisiera ser siquiera
una naranja jugosa
en la mano de un niño
-no corteza vacía-
una imagen que brilla en el espejo
-no sombra que se esfuma-
y una voz clara
-no pesado silencio-
alguna vez escuchada.
Talvolta si sente
come una cosa dimenticata
nell’ angolo oscuro della casa
come frutto divorato di dentro
da uccelli rapaci,
come ombra senza faccia né peso.
La sua presenza è appena
una lieve vibrazione
nell’aria immobile.
Si sente trapassare dagli sguardi
e diventare nebbia
tra le goffe braccia
che la cingono.
Può darsi che voglia essere qualcosa,
un’arancia succosa
nella mano di un bambino
– non una buccia vuota –
un’immagine che brilla nello specchio
– non un’ ombra che svanisce –
e una voce chiara
– non il pesante silenzio –
qualche volta ascoltata.
( dallo Spagnolo di Susanne Detering)
Fonte- La poesia e lo spirito (Lpels) è un blog collettivo di letteratura e società, democratico, aperto, sensibile alle istanze autentiche di rinnovamento culturale, sociale, economico e politico. Fondato da Fabrizio Centofanti come blog personale nel 2006, diventa collettivo con il contributo di Antonella Pizzo e soprattutto di Franz Krauspenhaar. Universalmente noto per la sua capacità di accoglienza, Lpels ha ospitato e ospita contributi di grande spessore – facilmente raggiungibili attraverso la funzione “ricerca”. Aspira, in tal modo, a essere una presenza efficace nel panorama culturale italiano e possibilmente uno strumento di cambiamento e di trasformazione delle strutture di potere, spesso ingiuste e indegne dei valori umani in cui la persona si riconosce in ogni spazio e in ogni tempo, al di là di credenze e tessere politiche.
Alaíde Foppa ,Poetessa guatemalteca.
Breve biografia di Alaíde Foppa (1914-1980)-Poetessa, scrittrice e traduttrice guatemalteca. Esule in Messico ,Alaíde Foppa ,Poetessa guatemalteca vi fondò la rivista femminista “Fem”. Tornata in Guatemala per rinnovare il passaporto dopo l’assassinio del figlio, guerrigliero nella EGP, fu rapita in pieno giorno dai corpi paramilitari e presumibilmente assassinata.
Poesia di Antonia Pozzi: la porta che si chiude -3 dicembre del 1938.
Quando Antonia Pozzi arrivò, la mattina del 2 dicembre 1938, la neve aveva rivestito di bianco la campagna intorno all’ abbazia di Chiaravalle. Lasciò la bicicletta e si sedette a pochi metri da una roggia, come in Lombardia chiamano i piccoli corsi d’ acqua che traversano i campi. Aveva con sé un barattolo di pasticche. Le ingoiò con una sola sorsata d’ acqua e poi si sdraiò sulla neve, dove la trovarono ancora viva. Morì poche ore dopo.Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola. Adagiata su un prato innevato di Chiaravalle, imbottita di farmaci e tristezza, se ne andava Antonia Pozzi. Lo sguardo perso nello sguardo senza pupilla del cielo. Aveva ventisei anni.
La porta che si chiude
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all’irruente fuga
d’una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.
Antonia Pozzi, considerata oggi una delle voci più belle e intense del novecento italiano, riposa a Pasturo (Valsassina) nel paese dove ancora si respira il respiro della sua anima e dove le hanno dedicato dei cartelli con le sue poesie.
Fonte- Sitting on the dock of the bay²
ANTONIA POZZI-Copia del manoscritto PREGHIERA ALLA POESIA
ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … …
È strana, a volte, la vita. Se osserviamo dall’esterno, alcune persone sembrano insolitamente privilegiate e la loro esistenza fluisce serena, senza ostacoli, come un fiume che scorre inarrestabile. Eppure, talvolta, quel moto lento e inesorabile si interrompe bruscamente, magari per una casualità o per un intervento volontario, e noi restiamo attoniti e smarriti ad interrogarci sul perché. Cosa può aver spinto, a soli 26 anni, Antonia Pozzi a compiere il suo tragico gesto in una gelida giornata decembrina di tanti anni fa, quando sull’Europa si addensavano minacciose le nubi di guerra? Forse non sapremo mai se le ragioni del suo suicidio sono da ricercarsi in un oscuro “male di vivere”, oppure in un sentimento di disperazione fatale. Possiamo asserire con certezza però che il panorama letterario italiano ne risultò impoverito perché, come ebbe a commentare Dino Formaggio, un famoso filosofo legato da profonda amicizia con la donna: “la poesia di Antonia Pozzi rimane, più che mai oggi, una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite, della poesia lirica italiana di questo secolo“. Una voce isolata e solitaria, quella della Pozzi, a lungo poco nota, fino alla “riscoperta” da parte di Montale, che ne decretò la fama definitiva. Milanese, nata nel 1912 da una facoltosa famiglia alto-borghese (il padre era un noto avvocato, la madre, una nobildonna nipote di Tommaso Grossi, scrittore amico di Carlo Porta e del Manzoni), Antonia Pozzi studia al liceo classico “Manzoni”, nella sua città, e intreccia ben presto una relazione con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, relazione fortemente avversata dai genitori, terminata nel 1933, con il trasferimento dell’insegnante a Roma. L’ambiente altolocato di appartenenza offre alla giovane molteplici stimoli culturali: la frequentazione di un circolo sociale esclusivo, un palco riservato alla Scala e – chance non comune all’epoca – la possibilità di viaggiare. Antonia suona il pianoforte, dipinge, si dedica alla fotografia, pratica il nuoto, il tennis, lo sci, l’equitazione. E’ una bionda bellezza esile e raffinata, con i bei capelli ondulati tagliati corti, stile Anni Trenta. Il mondo sembra spalancarsi dinanzi a lei, caleidoscopio rutilante di opportunità ed emozioni. Quando si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, nel 1930, sembra aprirsi per lei un nuovo capitolo, il più felice, della sua breve esistenza. Frequenta molti dei nomi più importanti del firmamento intellettuale milanese di quegli anni, da Vittorio Sereni ad Enzo Paci, da Luciano Anceschi a Remo Cantoni, ma nessuno avrà maggiore influenza su di lei del docente di estetica Antonio Banfi, con cui si laureerà nel 1935. Viaggia in Italia, Austria, Germania e Inghilterra, ma visita anche le periferie della sua città, un mondo per il quale prova compassione, sentendosi quasi in colpa per i suoi natali privilegiati. Non a caso preferisce all’elegante mondanità milanese la solitudine della vita immersa nella natura incontaminata di Pasturo, presso Lecco, dove si erge la settecentesca villa di famiglia. Antonia fa lunghe escursioni a piedi o in bicicletta, ama la selvaggia bellezza di quei paesaggi ricchi di picchi innevati, di torrenti e di crepacci. Trae fonte di ispirazione dalla natura, è il silenzio delle alture che la induce alla meditazione sulla finitezza umana. Scatta fotografie ai luoghi ed agli abitanti, colti nelle loro umili mansioni quotidiane. Solo in alcuni e brevi momenti la giovane riesce a sentirsi in pace con se stessa. Poi la Storia, con la sua urgenza, irrompe anche nel ritiro dorato di Antonia: è il 1938 e le leggi razziali fasciste colpiscono alcuni dei suoi amici più cari. La giovane scrive, amara, al Sereni: <<l’età delle parole è finita per sempre>>. Il male di vivere, di cui soffre da tempo, si acuisce. “Morte” è una parola dolorosamente ricorrente nei suoi versi. Pericolosamente ricorrente. E la morte, infine, si materializza e se la porta via il 3 dicembre 1938, quando Antonia decide di avvelenarsi con dei barbiturici nei prati antistanti l’abbazia cistercense di Chiaravalle. Il suo biglietto di addio ai genitori parla di un’invincibile “disperazione mortale”, ma la sua famiglia nega a lungo la circostanza del suicidio, per evitare lo scandalo. Le sue prime opere vengono pubblicate postume, dalla Mondadori, un anno dopo la sua morte, dopo essere state revisionate dal padre, che modifica soprattutto quelle dai contenuti amorosi. Ma, a dispetto delle manipolazioni subite, la produzione lirica della Pozzi affascina tuttora generazioni di lettori per la modernità e per la scarna essenzialità dei suoi versi soffusi di tristezza, debitori del crepuscolarismo e dell’espressionismo tedesco.
Dopo un lungo periodo di oblio, persino il cinema si è interessato ad Antonia e la sua vita è stata ricostruita nel cine-documentario della regista Marina Spada in “Poesia che mi guardi”, presentato fuori concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia, nel 2009. In occasione del centenario della sua nascita, i registi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno, poi, realizzato un film-documentario dal titolo “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa” e nel 2016 è stato proiettato, al Cinema Mexico di Milano , un film sulla sua vita intitolato “Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino. Oggi ella riposa nel cimitero di Pasturo, e la sua tomba è vegliata dal monumento funebre dello scultore Giannino Castiglioni, un “Cristo Giovane” che ha lo sguardo rivolto alla Grigna, alle amate montagne testimoni silenti e imperturbabili della “breve sosta” di Antonia nella nostra dimensione terrena.
Articolo di Giovanna Potenza , è una dottoressa di ricerca specializzata in Bioetica. Ha due lauree con lode, è autrice della monografia “Bioetica di inizio vita in Gran Bretagna” (Edizioni Accademiche Italiane, 2018) e ha vinto numerosi premi di narrativa. È uno spirito curioso del mondo che ama viaggiare e scrivere e che legge avidamente libri che riguardino il Rinascimento, l’Età Vittoriana, l’Arte e l’Antiquariato. Ha una casa ricca di oggetti antichi e di collezioni insolite, tra cui quella di fums up e di bambole d’epoca “Armand Marseille”.
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