L’Aquila, “Tommaso racconta Tommaso” Recital sulla figura del primo biografo di San Francesco di Assisi. Martedì 22 Ottobre 2024 ore 18:30 sarà rappresentato a L’Aquila, Teatro Comunale Ridotto, in nome della fratellanza, della solidarietà e della pace
L’AQUILA – Con il Patrocinio del Comune di L’Aquila e del Comune di Celano il Recital “Tommaso racconta Tommaso”, che già ha raccolto unanime consenso di pubblico e di critica, è presentato all’Aquila dall’Associazione Corale Polifonica “ Giuseppe Corsi “ di Celano e la Compagnia “Teatro Lanciavicchio “ di Avezzano, su testo di Don Antonio Salone. Dopo le quattro repliche nel 2023 a Tagliacozzo ( Teatro Talia), ad Avezzano ( Castello Orsini), a Celano (Chiesa Madonna delle Grazie ) e nella Diocesi di Rieti ( Teatro Santa Filippa Mareri ), questa quinta replica del Recital è stata fortemente voluta dal Nunzio Apostolico S.E.Orlando Antonini presente alla rappresentazione del 5 ottobre 2023 ad Avezzano, positivamente interessato dal lavoro messo in scena.
Il testo del recital è stato scritto da Don Antonio Salone che ha condotto uno studio approfondito sulla figura di Fra Tommaso, come testimonia l’ampia bibliografia a corredo del testo e realizza una nuova prospettiva di indagine e di lettura della figura di Tommaso da Celano.Con la regia di Antonio Silvagni, la Compagnia “Teatro Lanciavicchio” propone gli allestimenti scenici, costumi ,luci e uno straordinario e coinvolgente lavoro di interpretazione del testo, con gli attori Matteo Di Genova, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Giacomo Vallotta che sanno proporre la storia di Tommaso in tutta la sua spiritualità. La Maestra Maria Rosaria Legnini,con il Gruppo corale “Giuseppe Corsi” di Celano, ha scelto i brani musicali: musiche medievali a commento delle scene, ponendo attenzione al genere delle Laudi dal Laudario di Cortona, rielaborate e affidate alla voce del Soprano Ilenia Lucci, accompagnata dai componenti della formazione strumentale “MusiCanto Quartet“ composto dai Maestri: Corrado Morisi Fisarmonica, Beatrice Ciofani Violino e Paolo D’Angelo Chitarra. Presenta Domenica Carusi.
Si ringraziano: il Comune dell’Aquila, Sindaco Pierluigi Biondi, il Comune di Celano, Sindaco Settimio Santilli, tutti i sostenitori che hanno consentito la realizzazione dello spettacolo, il Nunzio Apostolico S.E. Orlando Antonini e collaboratori tutti. Il Recital “ Tommaso racconta Tommaso “ rientra nelle attività condotte fin dal 2014 dall’Associazione “ Giuseppe Corsi “ di Celano iniziate con lo studio e la rielaborazione del “Dies Irae” e proseguite nel corso di 10 anni con studi, concerti, animazione liturgiche di cerimonie religiose nell’ambito del “Cammino Misericordioso : Tommaso e Francesco nella terra dei Marsi”. Il recital dunque nasce dalla volontà di far conoscere la figura di Tommaso da Celano e di porre attenzione anche alla ricostruzione storica musicale e teatrale. La rappresentazione del Recital “ Tommaso racconta Tommaso” al Teatro Comunale Ridotto dell’Aquila prosegue il lavoro incessante, svolto da dieci anni, teso alla conoscenza, all’approfondimento e alla comprensione della figura di Tommaso da Celano.
Con la scelta del genere teatrale Recital si è voluto offrire a un vasto pubblico l’opportunità di conoscere la figura di Fra Tommaso, normalmente studiata dal ristretto numero degli specialisti nel settore. Un’occasione importante per conoscere ed apprezzare i valori della fratellanza, della solidarietà , del rispetto dell’ambiente e della riscoperta di relazioni interpersonali improntate all’accoglienza, all’amore reciproco, alla non violenza, alla pace.
Guido Zaccagnini Una storia dilettevole della musica-
-Insulti, ingiurie, contumelie e altri divertimenti-
Marsilio Editori Venezia
Descrizione del libro di Guido Zaccagni-Ombrosi o passionali, romantici o iper-razionali: le vite dei musicisti sono policrome come le melodie con cui accendono i nostri sensi e pensieri. Tensioni emotive, vizi e virtù si traducono nelle loro composizioni, ragion per cui conoscerli e riconoscerli permette di intravedere il volto umano di personalità spesso idealizzate. Forte del rapporto sentimentale e professionale che da circa mezzo secolo intrattiene con la musica in veste di storico, studioso e divulgatore, Guido Zaccagnini racconta i rapporti tra i grandi protagonisti e i segreti dietro la nascita di melodie e falsi miti frettolosamente etichettati come capolavori. Accanto alle vicende biografiche non manca inoltre di chiarire aspetti teorici e legati ai vari contesti che hanno determinato l’affermarsi di leggende o la parabola discendente di forme musicali, correnti e strumenti, dalla Mazurka alla Sonata, dal Verismo all’Impressionismo, dal clavicembalo all’organo ecc. Narrando l’indole autoritaria e iraconda di Händel e le intemperanze di Wagner, la passione per i lepidotteri di Camille Saint-Saëns e il pallino di Erik Satie per gli ombrelli, le bordate di Prokof’ev contro Šostakovič e il Puccini double face, dandy nel bel mondo e «sor Giaomo» per gli amici, l’autore ricompone in modo originale i vari filoni che nel corso dei decenni hanno attraversato le fasi stilistiche della musica, delineando un avvincente affresco che va da Beethoven a Strauss, passando per Schubert, Schumann, Brahms, Wolf e Mahler. Far rivivere dissidi tecnici, morali e concettuali permette di «sollecitare una riflessione e conferire a questi monumenti della nostra civiltà musicale un tocco di umanità: che potrà, forse, farceli sentire più vicini; e magari farceli amare di più».
Breve biografia di Guido Zaccagnini
Guido Zaccagnini ha insegnato Storia della musica presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. Scrive per quotidiani e riviste, ed è autore e conduttore per Rai Radio 3, Rai News 24 e Rai 5. Ha fondato e diretto l’ensemble Spettro Sonoro, con cui ha eseguito e registrato, tra le altre, l’opera omnia di Nietzsche. Autore di una monografia su Berlioz, ha tradotto e curato La generazione romantica di Charles Rosen e Su Beethoven. Musica, mito, psicoanalisi, utopia di Maynard Solomon.
Guido Zaccagnini
Una storia dilettevole della musica
Insulti, ingiurie, contumelie e altri divertimenti
Giuseppe Clericetti -CAMILLE SAINT-SAËNS- Il Re degli spiriti musicali-
Zecchini Editore Varese
Il 16 dicembre 1921, alle 22.30, dopo una giornata di lavoro e studio, Camille Saint-Saëns si spegne nel suo letto, ad Algeri.
Dal libro di Giuseppe Clericetti, “Camille Saint-Saëns. Il Re degli spiriti musicali”:
In una lettera del 1914 a Gabriel Renoud, Saint-Saëns ammette che il suo animo ha subito duri colpi: ma non gli hanno tolto la fede, «l’avevo già persa». Il Nostro si riferisce verosimilmente al momento della perdita dei suoi due figli, nel 1878. In un’altra lettera dell’epistolario con Gabriel Renoud, Saint-Saëns parla esplicitamente del suo credo:
«[…] È stata una crisi terribile, una lacerazione orribile; capisco bene che molti rifiutano questa lotta! Ci si accontenta di una religiosità vaga; si recita il Credo senza riflettervi, senza vedere le impossibilità che esso enuncia a ogni parola, ed è così che vivono i nove decimi dei cristiani, rimettendosi al prete per farsi spiegare i dogmi che egli non spiega, il dogma essendo per definizione incomprensibile all’intelligenza umana… Quando scrivo musica religiosa mi metto volontariamente in questo stato di religiosità vaga, nel quale vive la maggioranza dei fedeli, ciò mi permette di scriverla in tutta sincerità».
Ciononostante la chiesa si approprierà dell’immagine post mortem di Saint-Saëns: la fotografia ufficiale del compositore sul suo letto di morte lo mostra con un crocifisso in grembo.
La Società Astronomica di Francia commenta le esequie religiose solenni: «il suo animo non credente ne ha riso».
CAMILLE SAINT-SAËNS
Visionario, artigiano, sperimentatore.
VIII+292 – f.to cm. 17×24 – Illustrato – Euro 37,00
Su Camille Saint-Saëns possiamo scoprire (quasi) tutto grazie ai due volumi di Giuseppe Clericetti, tanto diversi quanto insostituibili su un compositore considerato uno dei massimi rappresentanti dell’arte musicale del XIX secolo.
“Il Re degli spiriti musicali” costituisce il primo studio pubblicato in Italia su Saint-Saëns ed è articolato in due parti: una prima sezione presenta la biografia del compositore e la seconda parte è dedicata ai suoi scritti; il libro è completato dall’elenco delle sue composizioni, la bibliografia, l’indice dei nomi e una serie di preziose fotografie e illustrazioni.
Il secondo volume, “Visionario, artigiano, sperimentatore”, investiga i suoi poemi sinfonici che inaugurano il genere su territorio francese, il prezioso corpus delle 127 mélodies, i numerosi nessi con la musica di Mozart, i curiosi autoimprestiti, la prima partitura d’autore dedicata all’accompagnamento musicale in àmbito cinematografico, per finire con un esercizio di confronti interpretativi sulle prime registrazioni di Samson et Dalila.
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Marc Chagall dipinto del 1938 intitolato ” Crocifissione bianca “-
Per Marc Chagall, Cristo non è solo l’uomo-Dio del cristianesimo, ma soprattutto il simbolo stesso del popolo ebraico perseguitato.
Lo splendido quadro del pittore ebreo di origine russa Marc Chagall dipinto nel 1938 intitolato ” Crocifissione bianca ” e conservato presso l’Istitut for Art di Chicago, presenta un’altra visione molto personale del Cristo in croce. Tutto il quadro è in movimento e i colori che predominano sono il grigio e il bianco che si incontrano in continue sfumature che creano un effetto plumbeo. Il crocifisso è posto nel centro del quadro, e si distingue per la sua grandezza, la sua posizione e curiosamente, anche per il panno con le tipiche decorazioni ebraiche, che avvolge i suoi fianchi. Tutto intorno vi sono scene di disordine. Alla sua destra orde rivoluzionarie con bandiere rosse entrano nella scena saccheggiando e appiccando il fuoco alle case di un villaggio. Profughi chiedono aiuto gesticolando da un battello; figure emancipate cercano, in primo piano, di salvarsi come fuggendo dal quadro. Alla sua sinistra si nota un uomo in uniforme nazista che profana la sinagoga e in primo piano un uomo sembra fuggire scavalcando un rotolo della Torah in fiamme. In alto, piangenti, troviamo alcuni rabbini e una donna che fluttuano nella fredda oscurità dello sfondo. Ed ecco che un chiaro raggio di luce penetra dall’alto e illumina la figura del crocifisso che composto, sembra quasi reclini la testa per non guardare. Stranamente questo crocifisso non presenta tracce di sofferenza, mentre è sofferente l’ambiente circostante che rappresenta la disperazione del popolo ebraico durante le persecuzioni antisemite naziste e bolsceviche.
Ciò che colpisce è il fatto che l’autore di quest’opera è ebreo e unisce in un unico grande quadro elementi particolari della sua tradizione religiosa e il centro della religione cristiana. Chagall vede nella figura del crocifisso, nella passione del profeta degli ebrei, del Dio della cristianità morto come uomo, un simbolo valido universalmente per esprimere la miseria del suo tempo. Tra queste traumatiche esperienze il crocifisso è l’unica speranza che resta all’uomo: per questo viene raffigurato senza i tipici segni di una morte sofferente, e una scala fa da ponte tra l’umano e la luce del divino. Cristo quindi è colui che avvicina le sofferenze degli uomini al Trascendente. Per evidenziare il carattere universale della sofferenza, vi è ai piedi della croce il candelabro a sette braccia della tradizione ebraica. Cristo diviene così, per Chagall, non solo l’uomo-Dio del cristianesimo, ma soprattutto il simbolo stesso del popolo ebraico perseguitato.
Biografia
Marc Chagall nacque in una famiglia ebraica a Lëzna, presso Vicebsk, una città di lingua yiddish in Bielorussia, allora facente parte dell’Impero russo. Il giorno stesso della sua nascita, il villaggio venne attaccato dai cosacchi durante un pogrom e la sinagoga fu data alle fiamme; da allora, l’artista – rievocando le proprie origini – userà dire: “Io sono nato morto”. Chagall era il maggiore di nove fratelli; il padre, Khatskl (Zakhar) Chagall, era un mercante di aringhe sposato con Feige-Ite.[1] Nelle opere dell’artista ritorna spesso il periodo dell’infanzia nello shtetl, villaggio ebraico,[2] felice nonostante le tristi condizioni degli ebrei russi sotto il dominio degli zar e il cui onnipresente ricordo condizionerà tutta l’opera futura.
Ricevette un’istruzione primaria ebraica tradizionale – secondo la Torah, il Talmud, con lo studio dell’antica lingua ebraica. Nell’autunno del 1900 si iscrisse alla scuola cittadina di quattro classi con una specializzazione artigianale, dove eccelse solo nel disegno e nella geometria. Dopo aver convinto la sua famiglia, riluttante a fargli intraprendere la carriera artistica in quanto cosa espressamente vietata dalla Torah, Chagall dapprima lavorò assai di malavoglia come ritoccatore nella bottega di due fotografi, ma nel 1906 iniziò a studiare pittura alla scuola-laboratorio del maestro Yehuda (Yudl) Pen, il solo pittore di Vicebsk: rimarrà nel suo studio per due mesi, non ritrovandosi nell’insegnamento accademico del maestro, e l’anno successivo si trasferì a San Pietroburgo. Qui frequentò l’Accademia Russa di Belle Arti con il maestro Nikolaj Konstantinovič Rerich, che lo ricompenserà con una borsa di studio, e conobbe artisti di ogni scuola e stile. Tra il 1908 e il 1910 studiò prima in una scuola privata, poi alla scuola Zvanceva con Léon Bakst, che per primo gli parlò dei nuovi orizzonti culturali dell’Occidente e gli fece conoscere la pittura di Cézanne e Gauguin.[3]. Per mantenersi gli studi a San Pietroburgo, Chagall lavorava come artigiano dipingendo insegne di negozi, oltre a realizzare le prime opere originali. Questo fu un periodo difficile per lui: gli ebrei potevano infatti vivere a San Pietroburgo solo con un permesso apposito, infatti venne imprigionato per essere rimasto fuori dal ghetto oltre l’orario consentito. Rimase nella città fino al 1910, anche se di tanto in tanto tornava nel paese natale, dove nel 1909 incontrò, grazie alla modella e amica Thea Brachman, Bella Rosenfeld, figlia di ricchi orefici e sua futura moglie. Nel 1912 aderì alla Massoneria[4].
Una volta divenuto noto come artista, nel 1910 Chagall lasciò San Pietroburgo per Parigi avvicinandosi alla comunità artistica di Montparnasse: «Nessuna Accademia avrebbe potuto darmi tutto quello che ho scoperto divorando le esposizioni di Parigi, le sue vetrine, i suoi musei […] Come una pianta ha bisogno di acqua, così la mia arte aveva bisogno di Parigi», dirà poi. A Parigi il giovane Chagall conobbe diversi intellettuali d’avanguardia; si stabilì presto alla Ruche e strinse amicizia con Guillaume Apollinaire, Robert Delaunay, Fernand Léger e Eugeniusz Zak; manterrà però un certo scetticismo nei confronti del cubismo, considerandolo troppo “realista” e attaccato al lato fisico delle cose, mentre lui si sentiva più attratto «dal lato invisibile, quello della forma e dello spirito, senza il quale la verità esterna non è completa». In questo periodo, nel disordine del suo studio e sempre a corto di cibo e mezzi dipinse i suoi primi capolavori, nei quali il ricordo di casa e dello shtetl è predominante: Alla Russia, agli asini e agli altri, Il Santo vetturino e soprattutto Io e il villaggio, fiaba cubista dove in un’unica visione sono racchiusi paesaggi russi, fantasie popolari, proverbi ebraici.[5]Il poeta Cendrars gli dedicò quattro dei suoi Poèmes élastiques e Apollinaire, riferendosi alla sua pittura, la definì “soprannaturale”. Chagall potrà affermare con soddisfazione: «Ho portato dalla Russia i miei oggetti, Parigi vi ha versato sopra la sua luce». Nel 1914 ritornò a Vicebsk fermandosi a Berlino, dove il mercante d’arte Herwarth Walden organizzò nella propria galleria la prima personale dell’artista, che ebbe un ottimo successo di pubblico e critica. Poco dopo il ritorno in Russia, scoppiò la prima guerra mondiale che, insieme alla successiva rivoluzione, lo terrà di fatto bloccato in patria fino al 1923. Intanto, nel 1915 si era unito in matrimonio con Bella Rosenfeld; nel 1916 nacque la loro prima figlia, Ida.
A Vicebsk, dove ritrovò la famiglia, Chagall dipinse opere come L’Ebreo in rosa, L’ebreo in preghiera, La passeggiata e Compleanno. Nel 1917 prese parte attiva alla rivoluzione russa: in sostituzione del servizio militare, lavorò a Pietroburgo al Ministero della Guerra, dove conobbe i grandi poeti russi del periodo (Pasternak, Esenin, Majakovskij), realizzò le prime illustrazioni per libri e giornali ed espose in alcune importanti collettive. Il Ministro sovietico della cultura Lunačarskij lo nominò Commissario dell’arte per la regione di Vicebsk, dove fondò una “Libera Accademia d’Arte” e il Museo di arte moderna; non ebbe tuttavia successo nella politica del governo dei soviet. Chagall incitò gli artisti di ogni età ad abbandonare gli atelier e portare il loro contributo alla preparazione della festa, oltre che a seguire il proprio estro creativo: così, le opere decorative per il primo anniversario della Rivoluzione scontentarono i funzionari del governo che, in luogo dei ritratti trionfali di Marx, Engels e Lenin, si ritrovarono effigi di mucche e cavalli volanti ed umanizzati. Per questo, Chagall entrò in contrasto con la sua stessa scuola (in cui militava El Lissitzky), conforme per motivi politici al suprematismo, assolutamente agli antipodi rispetto al suo stile fresco ed “infantile”. Dopo un breve viaggio a San Pietroburgo per chiedere «pane, colori e denaro», il pittore trovò al ritorno la sua stessa scuola trasformata in una “accademia suprematista”. Di conseguenza, nel 1920 Chagall fu costretto a dimettersi e si trasferì con la moglie e la figlioletta a Mosca, dove il governo gli affidò l’insegnamento dell’arte agli orfani di guerra delle colonie Malachovka e III Internazionale, mestiere di certo più limitante del precedente. Nello stesso periodo accettò la commissione per la decorazione di nove pannelli (oggi ne rimangono 7) per il Teatro Ebraico di Stato “Granovskij” e disegnò una serie di illustrazioni per il ciclo di poesie in yiddish Grief del poeta David Hofstein, anch’egli insegnante presso il rifugio Malachovka.
Amareggiato, nel 1923 Chagall riuscì finalmente a lasciare la Russia rivoluzionaria grazie all’ambasciatore lituano e, dopo un breve e sofferto soggiorno a Berlino (i quadri che vi aveva lasciato erano andati distrutti o dispersi a causa della guerra) e una commissione del gallerista Cassirer, si trasferì a Parigi, dove ritrovò alcuni dei vecchi contatti. In questo periodo pubblicò le sue memorie in yiddish, trascritte inizialmente in russo e poi tradotte in francese dalla moglie Bella; scrisse anche articoli e poesie pubblicati in diverse riviste e alcuni scritti raccolti in forma di libro e pubblicati postumi. Il mercante Ambroise Vollard gli commissionò varie illustrazioni (principalmente acqueforti), tra cui quelle per le Anime morte di Gogol’, per le Favole di La Fontaine (queste ultime, iniziate negli anni ’30 ed interrotte a causa della morte di Vollard e dello scoppio della guerra, verranno concluse e pubblicate solo negli anni’50), e soprattutto per la Bibbia, che sin dall’infanzia considerava il suo racconto preferito; per poterne assimilare l’anima il più possibile, all’inizio degli anni ’30 Chagall e la famiglia compirono un viaggio in Palestina. Nel 1937 acquisì la cittadinanza francese; durante l’occupazione nazista in Francia nella seconda guerra mondiale e a seguito della deportazione degli Ebrei e dell’Olocausto, gli Chagall fuggirono da Parigi e si nascosero presso Villa Air-Bel a Marsiglia; il giornalista statunitense Varian Fry li aiutò poi nella fuga verso la Spagna e il Portogallo.[6] Da lì, nel 1941 la famiglia Chagall si stabilì negli Stati Uniti, dove sbarcò il 22 giugno, giorno dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica.
Negli Usa, Chagall frequentò la numerosa comunità artistica fuggita dall’Europa e grazie all’aiuto del gallerista Pierre Matisse (figlio del celebre Henri) espose in numerose mostre collettive e non; nonostante l’intensa attività e i numerosissimi contatti con la cultura americana, però, si rifiuterà sempre di prendere la cittadinanza statunitense e di imparare l’inglese, continuando ad esprimersi in francese e in yiddish. Il 2 settembre 1944 l’amatissima Bella, soggetto frequente nei suoi dipinti e compagna di vita, morì per un’infezione virale mal curata. La sua morte fu un durissimo colpo per l’artista, che per quasi un anno non riuscì più a dipingere; uscirà dalla depressione solo grazie alla figlia Ida che, oltre a spronarlo a lavorare e fargli tornare l’amore per la vita, nel 1945 gli presentò la trentenne canadese Virginia Haggard McNeil, già separata da un pittore da cui aveva avuto una figlia e con la quale Chagall cominciò una relazione che durerà sette anni e che porterà alla nascita del figlio David il 22 giugno1946. Durante questi duri anni di esilio negli USA, Chagall lavorò a numerose opere, ottenendo commissioni per lavori teatrali che si concretizzarono in imponenti e vivaci scenografie, come quelle per Aleko (settembre 1942, ispirato ad un poema di Puškin) o per L’uccello di fuoco del 1949 al Metropolitan Opera House delle cui scenografie e costumi ideati da Chagall e dalla figlia Ida il compositore Stravinskij ammirò soprattutto la pittura delle scene, “di uno sfoggio fiammeggiante”, rimase meno contento dei costumi.[7] Oltre a questi grandi lavori, l’artista realizzò anche le illustrazioni per le Notti arabe (ispirate alle Mille e una notte), riprendendo per l’editore newyorkese Wolff un’opera già richiestagli anni prima da Vollard; inoltre, collaborò con la rivista “Derrière le miroir”, edita da Aimé Maeght, che diverrà, da quel momento, il suo principale mercante per l’Europa.
Finita la guerra e passata la tempesta dell’Olocausto (che la sua anima sensibile non gli aveva permesso di dipingere direttamente, ma di evocare attraverso opere allegoriche), nel 1948 Chagall fa ritorno in Europa e, dopo un breve soggiorno a Parigi, nel 1949 si stabilisce ad Orgeval. Nel 1947 la Francia gli aveva reso omaggio con un’importante personale al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris e l’anno successivo la Biennale di Venezia gli conferirà il Gran Premio per l’incisione. Un’altra importante antologica si tiene nel 1954 alla Galleria Maeght. In questi anni intensi, dopo l’austerità della guerra, riscopre colori liberi e brillanti: le sue opere sono ora dedicate all’amore e alla gioia di vivere, con figure morbide e sinuose. Agli inizi degli anni’50 l’editore Teriade gli pubblica tutte le opere commissionate da Vollard e rimaste fino ad allora inedite. Su consiglio dello stesso editore, Chagall acquista la tenuta Les Collines alle porte di Vence, in Provenza, dove si stabilisce definitivamente. Nello stesso periodo, la figlia Ida sposa il museologo svizzero Franz Meyer, mentre va rapidamente affievolendosi la relazione dell’artista con Virginia Haggard.
Stabilitosi nel sud, Chagall comincia a cimentarsi anche con la scultura, la ceramica e il vetro: prima ad Antibes, infine a Vallauris presso l’atelier Madoura gestito dai coniugi Ramié (dove incontra più volte Picasso, che vi lavora alacremente, e qualche volta anche Matisse), Chagall lavorerà a più riprese producendo vasi, sculture e bassorilievi con le forme dei temi a lui più cari: figure sacre e bibliche, immagini femminili, strani animali… Nel 1951, inoltre, Chagall conosce Valentina (detta “Vavà”) Brodsky con cui, dopo un breve e travolgente idillio, si risposa nel 1952 a Clairefontaine, presso Rambouillet: anch’ella di origine russa ed ebrea, sarà la sua nuova musa ispiratrice, affiancando il ricordo di Bella nelle tele dell’artista che, con lei, scopre ben presto la Grecia e l’Arte Classica. Intorno alla fine degli anni ’50 Chagall comincia a produrre arazzi e soprattutto vetrate: le prime sono quelle del battistero per la chiesa di Notre-Dame-de-Toute-Grace ad Assy, poi quelle per la cattedrale di Metz. Nel 1957 si reca nuovamente in Israele, dove nel 1960 crea una vetrata per la sinagoga dell’ospedale Hadassah Ein Kerem. Altre stupende vetrate sono realizzate, tra il 1958 e il 1968, per la cattedrale di Reims, e nel 1964 l’artista ne dona una all’ONU con tema pacifista, in memoria di Dag Hammarskjöld. Nuove opere su vetro vedono la luce per la Cappella dei Cordiglieri a Sarrebourg (1975), per la chiesa di S. Stefano a Magonza (1978) ed infine per la Chapelle du Saillant a Voutezac, nel Corrèze, nel 1982. Nel 1963 aveva ottenuto dal ministro Malraux la commissione per decorare il soffitto dell’Opéra di Parigi, che ornò con figure allegoriche di opere celebri; ritornerà poi ad allestimenti teatrali, con la messa in scena del Flauto magico nel 1965; poi nel 1966 progetta un affresco per il nuovo parlamento israeliano, mentre per l’università Knesseth realizza una serie di arazzi, tutti a sfondo biblico, con l’aiuto della celebre Manifattura dei Gobelins. Nello stesso anno per l’editore Amiel pubblica L’Esodo, una serie di 24 litografie a colori, ed intensifica l’attività grafica.
Durante la guerra dei sei giorni l’ospedale Hadassah Ein Kerem viene bombardato e le vetrate di Chagall rischiano di essere distrutte: solo una viene danneggiata, mentre le altre vengono messe in salvo. In seguito a questo episodio, Chagall scrive una lettera in cui afferma di essere preoccupato non per i suoi lavori, bensì per la salvezza di Israele, vista la sua origine ebraica. Nel 1972 esegue, per il comune di Chicago, un mosaico dedicato alle Quattro stagioni. Dopo tanti anni, invitato dal governo sovietico, nel 1973 torna anche in Russia, dove sarà accolto trionfalmente a Mosca e a Leningrado: qui ritrova, dopo cinquant’anni, una delle sorelle, ma si rifiuta di tornare nella natia Vicebsk. Nello stesso anno -e nel giorno del suo compleanno– s’inaugura, a Cimiez vicino a Nizza, il Museo nazionale messaggio biblico di Marc Chagall che riunisce le sue opere sulla Bibbia: si tratta di diciassette dipinti dedicati alla Genesi, all’Esodo e al Cantico dei Cantici e degli schizzi relativi agli stessi dipinti, donati allo Stato francese da Chagall e Vavà tra il 1966 e il 1972. Viaggia poi in Italia: nel 1976 un suo Autoritratto entra nella collezione degli Uffizi, e due anni dopo Palazzo Pitti gli dedica una mostra. Nel 1977 il Presidente Valéry Giscard d’Estaing lo nomina Cavaliere di Gran Croce della Legion d’onore, e una nuova imponente mostra personale s’inaugura al Louvre nell’ottobre del 1977.
Nello stesso anno, l’editore Maeght pubblica Et sur la Terre… di Malraux con le illustrazioni dell’artista. Le ultime esposizioni sono nel 1984 al Pompidou, al Museo di Nizza, ed infine l’imponente retrospettiva alla Fondazione Maeght tra luglio ed ottobre del 1984. Dopo una vita lunga e ricca di soddisfazioni artistiche e personali, Chagall muore a 97 anni a Saint-Paul-de-Vence, dove risiedeva, il 28 marzo1985. Viene sepolto nel piccolo cimitero locale, dove nel 1993 lo raggiungerà Vavà.
Stile
Chagall nei suoi lavori si ispirava alla vita popolare della Russia europea e ritrasse numerosi episodi biblici che rispecchiano la sua cultura ebraica. Negli anni sessanta e settanta, si occupò di progetti su larga scala che coinvolgevano aree pubbliche e importanti edifici religiosi e civili. Le opere di Chagall si inseriscono in diverse categorie dell’arte contemporanea: prese parte ai movimenti parigini che precedettero la prima guerra mondiale e venne coinvolto nelle avanguardie. Tuttavia, rimase sempre ai margini di questi movimenti, compresi il cubismo e il fauvismo. Fu molto vicino alla Scuola di Parigi e ai suoi esponenti, come Amedeo Modigliani.
I suoi dipinti sono ricchi di riferimenti alla sua infanzia, anche se spesso preferì tralasciare i periodi più difficili. Riuscì a comunicare felicità e ottimismo tramite la scelta di colori vivaci e brillanti. Il mondo di Chagall era colorato, come se fosse visto attraverso la vetrata di una chiesa. Marc Chagall si è occupato anche di Mail art.[8]
Durante il suo primo soggiorno a Parigi rimane colpito dalle ricerche sul colore dei Fauves e da quelle di Robert Delaunay (definito il meno cubista dei cubisti). Il suo mondo poetico si nutre di una fantasia che richiama all’ingenuità infantile e alla fiaba, sempre profondamente radicata nella tradizione russa; le esperienze e il mondo della sua infanzia rimasero sempre incisivamente presenti in lui, radicandosi a tal punto che le rielaborò più e più volte nella sua mente trasfondendole quindi nella sua pittura.[5][9] La semplicità delle forme di Marc lo collega al primitivismo della pittura russa del primo Novecento e lo affianca alle esperienze di Natal’ja Sergeevna Gončarova e di Michail Fedorovič Larionov, per cui lo si può considerare un neo-primitivista. Con il tempo il colore di Chagall supera i contorni dei corpi espandendosi sulla tela. In tal modo i dipinti si compongono di macchie o fasce di colore, sul genere di altri artisti degli anni Cinquanta appartenenti alla corrente del Tachisme (da tache, macchia). Il colore diventa così elemento libero e indipendente dalla forma.
Chagall e la Bibbia
Chagall fu affascinato sin dagli anni giovanili dalla Bibbia, da lui considerata come la più importante fonte di poesia e di arte, ma è solo a partire dagli anni ’30 che se ne interessò profondamente e iniziò a studiarla con dedizione. L’occasione per farne un lavoro giunse nel 1930, quando l’editore e mercante d’arte francese Ambroise Vollard, per il quale aveva già illustrato Le anime morte di Gogol’ e Le Favole di La Fontaine, gli commissionò una serie di tavole dedicate al tema biblico. Chagall vi si dedicò con entusiasmo per tutto il decennio, tanto da intraprendere appositamente un viaggio sui luoghi delle vicende narrate dai Testi Sacri, tra Egitto, Siria e Palestina: da questo momento in poi, la Bibbia occuperà l’intera produzione artistica dell’autore, che ne fornirà un’interpretazione pur mediata dall’influenza delle avanguardie francesi.
A partire dal 17 settembre 2014, e fino al primo febbraio 2015, il Museo diocesano di Milano dedica all’artista un’esposizione, concepita come una vera e propria sezione della retrospettiva esposta a Palazzo Reale, intitolata “Chagall e la Bibbia”. Fulcro della mostra sono le 22 gouaches preparatorie, inedite fino al settembre 2014, quando sono state pubblicate dall’editore Jaca Book all’interno del volume Chagall. Viaggio nella Bibbia.[10]
Il Museo Garibaldino di Mentana-MuGa, venne realizzato nel 1905, voluto dallo stesso architetto che ne curò il progetto, Giulio De Angelis, con lo scopo di custodire in un’apposita struttura tutti i cimeli garibaldini dei valorosi combattenti della Campagna dell’Agro Romano per la liberazione di Roma ed in particolare della battaglia di Mentana del 3 novembre 1867.
Il MuGa è stato oggetto nel 2017 di un importante intervento di rinnovamento, con l’ideazione di un nuovo percorso di visita, notevolmente valorizzato con l’aggiunta di un’ala multimediale.
Il museo
Nato per conservare la memoria e i cimeli risorgimentali, il Museo Garibaldino di Mentana vuole oggi, nel XXI secolo, suscitare una riflessione su quanto accaduto durante il Risorgimento. Gli ideali che infiammarono quel periodo non appartengono a un’epoca ormai lontana e sorpassata, ma sono ancora attuali e attuabili ovunque, seppur in contesti ovviamente diversi. Lalibertà dei popoli, la dignità sociale di ogni uomo, ildiritto costituzionale, il bisogno di “sentire” una patria in cui riconoscere radici comuni e valori condivisi, sono entità da riscoprire ancora oggi nel loro profondo significato. Ed è proprio con questo spirito che il Museo Garibaldino di Mentana si propone oggi come rinnovato custode di questi ideali, guardando al passato per sostenere il presente e costruire il futuro.
Il complesso dal 1997 è gestito dal Comune di Mentana.
La storia
Nel 1905 venne realizzato il Museo Garibaldino, voluto dallo stesso architetto che ne curò il progetto, Giulio De Angelis. Sfruttando il pian terreno della casa appartenuta alla famiglia Ferri, l’architetto ideò un museo a forma di tempio classico, interamente realizzato in peperino. Su uno dei lati corti vi è la scritta “ROMA O MORTE”, al di sopra della quale svettano i simboli del Risorgimento (a ovest l’aquila, a est la lupa) inquadrati da corone d’alloro. Le severe linee architettoniche sottolineano l’austerità di un progetto profondamente legato, nonostante i quasi vent’anni che li separano, alla vicina ara-ossario.
L’ara-ossario garibaldino
La disfatta di Mentana, al di là dei ritardi e degli indugi, fu un duro colpo per Garibaldi, il quale, credendo di avere l’appoggio della popolazione romana e del governo italiano, si ritrovò invece da solo. Gli intrighi e i retroscena, a cui non aveva mai voluto piegarsi, vinsero la genuinità del suo pensiero politico lasciandogli nel cuore un’amarezza che non lo abbandonerà sino alla morte, il 2 giugno 1882. Malgrado ciò, Mentana divenne presto un simbolo delle lotte risorgimentali e come tale fu definita “la porta calda di Roma”, paragonando il sacrificio dei circa 300 volontari al più antico gesto eroico degli altrettanti Spartani alle Termopili. Un sacrificio che non fu vano poiché, solo tre anni più tardi, il 20 settembre 1870, la breccia di Porta Pia sancì l’annessione di Roma all’Italia. Nel 1877, in onore dei caduti, si decise di costruire nella zona denominata Rocca di Mentana un grande Sacrario. All’interno sono conservati i resti dei volontari caduti al seguito di Giuseppe Garibaldi negli scontri della Campagna dell’Agro Romano per la liberazione di Roma (1867). L’ara-ossario è stata inaugurata nel novembre 1877 a seguito di sottoscrizione nazionale coordinata da un comitato presieduto dal Gen. Avezzana ed è opera dell’Ing. Augusto Fallani. Il discorso inaugurale fu pronunciato da Benedetto Cairoli.
La sala multimediale – Un’esperienza multisensoriale
Il Museo Garibaldino di Mentana si arricchisce della grande sala multimediale che occupa tutto il piano rialzato dell’edificio comunale dove ha anche sede l’ufficio del Sindaco. La tecnologia aiuta il visitatore a vivere un’esperienza particolare all’interno del museo aiutandolo a immergersi nell’atmosfera del passato. All’interno della sala multimediale del museo di Mentana si può ascoltare dalla voce del grande Generale Giuseppe Garibaldi il racconto della battaglia del 3 novembre 1867. È possibile vivere in prima persona un’esperienza multisensoriale ascoltando la riproduzione dei rumori di quel giorno: lo scoppio dei fucili, il boato dei cannoni. Inoltre un sistema sincronizzato di luci mette in evidenza i punti salienti del racconto.
Informazioni
BIGLIETTO INGRESSO € 3,00
BIGLIETTO INGRESSO SCUOLE NON RESIDENTI € 2,00
dietro presentazione di elenco nominativo degli alunni su carta intestata della scuola
BIGLIETTO INTEGRATO DUE MUSEI € 5,00
BIGLIETTO INGRESSO INTEGRATO SCUOLE NON RESIDENTI € 4,00
dietro presentazione di elenco nominativo degli alunni su carta intestata della scuola
Premio IILA Photo Identità. Così uguali Così diversi – XV edizione-
Museo di Roma in Trastevere-PHOTO IILA è il premio dedicato a fotografi latinoamericani under 40.- È uno dei progetti di cooperazione culturale dell’IILA-Organizzazione internazionale italo-latino americana, realizzato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano (DGCS/MAECI), in collaborazione con i Paesi latinoamericani membri dell’IILA e il Centro Sperimentale di Fotografia Adams.
Photo IILA è un premio finalizzato a promuovere la conoscenza della fotografia latinoamericana emergente e a incentivare le opportunità di collaborazione internazionale. Sin dal 2008 questo premio offre in Italia un interessante spazio allo sguardo originale dei giovani fotografi latinoamericani sul mondo: un vero e proprio osservatorio privilegiato sull’America Latina contemporanea, attraverso le scoperte e gli interrogativi che il mezzo fotografico sa cogliere in profondità e trasmettere con immediatezza.
Il tema della XV edizione è “Identità. Così uguali, così diversi”: identità è ciò che ci definisce come esseri umani e come parte di una comunità caratterizzata da molteplici forme di espressione e da peculiarità che rendono ogni individuo unico all’interno della società.
In mostra i lavori di Andrés Pérez (Repubblica Bolivariana del Venezuela), vincitore di questa quindicesima edizione con il progetto “Familia Muerta”; Verónica Javier (Uruguay), menzione d’onore con il progetto “Patrones identitarios”; Enrique Pezo (Perù), vincitore della precedente edizione, che presenta il progetto ispirato alla città di Roma realizzato durante la residenza d’artista svolta nel 2023, “Ficciones de un tiempo infinito”.
Per concludere, con l’intento di rafforzare il fecondo dialogo fra fotografia latinoamericana e fotografia italiana, l’IILA ha invitato ad esporre assieme ai fotografi latinoamericani Dario De Dominicis, con il progetto “Francisco”.
Informazioni
Luogo
Museo di Roma in Trastevere
Orario
Dal 18 settembre al 27 ottobre 2024
Da martedì a domenica ore 10.00 – 20.00 Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura
Chiuso il lunedì
CONSULTA SEMPRE LA PAGINA AVVISI prima di programmare la tua visita al museo
Luciano Feliciani-Aaron Copland- Pioniere della musica americana-
Zecchini Editore-Varese
DESCRIZIONE- Libro di Luciano Feliciani-Aaron Copland,Compositore poliedrico, intellettuale raffinato, pioniere della nuova musica classica americana, Aaron Copland ha percorso quasi interamente un secolo travagliato e ricco di cambiamenti come il Novecento. Il libro ripercorre la lunga e straordinaria vita del compositore statunitense, consacrata alla creazione di un nuovo linguaggio musicale che incarnasse lo spirito americano, mettendone in evidenza opere e pensiero estetico. L’influenza della musica di Copland sui compositori americani a lui successivi è indiscutibile, quanto palesi sono la sua originalità e il suo stile musicale unico e immediatamente riconoscibile. Divenuto ben presto leader e guida per la nuova generazione di musicisti americani, i suoi scritti e la sua attività di direttore d’orchestra e interprete hanno contribuito alla promozione ed alla diffusione della musica americana in tutto il mondo. Conclude il libro una trattazione ricca di esempi sulla sua musica, che offre al lettore un’utile traccia per comprendere il suo linguaggio compositivo e i periodi stilistici che caratterizzano la sua opera.
Copland nacque a New York nel 1900, quinto figlio di immigrati ebrei di origine lituana. Si avvicinò alla musica quando era già un adolescente, ascoltando la musica di Chopin, Debussy, Verdi e frequentando corsi di armonia e contrappunto, guidati tra gli altri da Robin Goldmark. Nel 1921 coronò il suo desiderio di studiare in Francia, diventando il primo allievo americano della famosa insegnante e organista Nadia Boulanger, grazie alla quale imparò ad apprezzare compositori antichi, come Monteverdi e Bach, e moderni, come Ravel. In occasione dei concerti della Boulanger negli Stati Uniti Copland scrisse uno dei suoi primi lavori, una sinfonia per organo e orchestra.
Nel 1924, tornò in America e cominciò una fase compositiva influenzata dal jazz. In questo periodo compose Music for the Theater e Concerto per Pianoforte. Nel 1925, insieme ad altri 14 artisti emergenti e meritevoli, ricevette il “Guggenheim Fellowship”. In questi anni compose musica in uno stile più astratto, per poi avere un drastico cambiamento alla metà degli anni Trenta, quando compose musica più accessibile a un grande pubblico.
Dal 1936 al 1946 compose una serie di brani che sono da annoverare tra le sue composizioni più famose: El Salon Mexico, An Outdoor Overture, Billy the Kid, Quiet City, Sonata per Pianoforte, Danzon Cubano, Rodeo, A Lincoln Portrait, Sonata per Violino, Appalachian Spring e la Terza Sinfonia. Questo periodo particolarmente prolifico verrà premiato nel 1945 con il “Premio Pulitzer” per la Musica.
Amico e spesso mentore di grandi figure della musica, come Leonard Bernstein, Lukas Foss e Seiji Ozawa, fu un grande sostenitore dei giovani compositori e dei loro lavori, anche come insegnante al Berkshire Music Festival di Tanglewood.
Nella sua lunga carriera fu insignito di oltre 30 lauree onorarie e di innumerovoli premi.
Copland morì nel 1990, a 90 anni, per le complicazioni della malattia di Alzheimer.
Vita privata
A differenza di molti uomini della sua generazione, Copland non fu mai tormentato dalla propria omosessualità.[1] Si accettò come omosessuale già da giovane e per tutta la vita ebbe rapporti abbastanza duraturi con altri uomini. Fu amante e allo stesso tempo mentore di Leonard Bernstein, ed ebbe relazioni anche con il ballerino Erik Johns, il fotografo Victor Kraft, il compositore John Brodbin Kennedy e il pittore Prentiss Taylor.[2][3]
Una scultura ambientale di Paolo Icaro arriva alla Pinacoteca Civica
Fabriano-In occasione della XX Giornata del Contemporaneo, inaugura oggi “Artificio naturale”, scultura ambientale di Paolo Icaro acquisita nella collezione della Pinacoteca Civica Bruno Molajoli di Fabriano
Il progetto-In occasione della XX Giornata del Contemporaneo, promossa da AMACI, inaugura oggi “Artificio naturale“, scultura ambientale di Paolo Icaro acquisita nella collezione della Pinacoteca Civica Bruno Molajoli di Fabriano.
Il progetto, a cura di Marcello Smarrelli, promosso dal Comune di Fabriano e ideato in collaborazione con la Fondazione Ermanno Casoli, è sostenuto dal PAC2022-2023 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura
Nota Biografica di Paolo Icaro
Nato a Torino (1936), Paolo Icaro è protagonista assoluto delle ricerche artistiche degli anni Sessanta. Vicino all’esperienza dell’Arte Povera, sin dagli esordi sperimenta il divenire dell’azione scultorea in relazione alla forma e allo spazio, utilizzando materiali elementari e duttili come cemento, argilla, carta, legno e gesso.
Forma, spazio, equilibrio–Artificio naturale, realizzata nel 2011, riflette perfettamente questa continua ricerca e sperimentazione. L’installazione è composta da cinque massi in pietra, semplicemente adagiati a terra. Lo scultore ha inizialmente modellato in argilla una pietra “ideale”, levigandola fino a farla sembrare un sasso perfetto, come se fosse stato plasmato dall’acqua di un torrente. Da questa forma originale sono stati creati cinque esemplari in gesso, poi in cemento, e infine, grazie a una scansione 3D, sono stati scolpiti in pietra di Matraia. Pur avendo la stessa forma, i cinque massi appaiono diversi in quanto posti in cinque posizioni differenti, le uniche in cui stanno in equilibrio.
Il progetto è accompagnato da un programma di incontri pubblici, laboratori didattici per bambini e da una pubblicazione, edita da Chimera Editore, con testi di Marcello Smarrelli e Simone Ciglia.
INFORMAZIONI-Artificio Naturale Dove: Pinacoteca Civica Bruno Molajoli, Fabriano, piazza Papa Giovanni Paolo II Quando: 12 ottobre 2024 Orari: ore 11, inaugurazione dell’opera e presentazione con l’artista
dalle ore 10.00 alle ore 18.00, Open day a ingresso gratuito con visite guidate ogni ora alla collezione storica e contemporanea Orari apertura pinacoteca: dal martedì alla domenica dalle ore 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00
-Gli ARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANE.
Copia anastatica dell’Articolo dalla Rivista EMPORIUM n° mese di maggio 1908
Un arco trionfale, o arco di trionfo, è una costruzione con la forma di una monumentale porta ad arco, solitamente costruita per celebrare una vittoria in guerra, in auge presso le culture antiche. Questa tradizione nasce nell’Antica Roma, e molti archi costruiti in età imperiale possono essere ammirati ancora oggi nella “città eterna“.
Alcuni archi trionfali erano realizzati in pietra, a Roma in marmo o travertino, ed erano dunque destinati ad essere permanenti. In altri casi venivano eretti archi temporanei, costruiti per essere utilizzati durante celebrazioni e parate e poi smontati. In genere solo gli archi eretti a Roma vengono definiti “trionfali” in quanto solo nell’Urbe venivano celebrati i trionfi e onorato l’ingresso del vincitore. Gli archi eretti altrove sono generalmente definiti “onorari” e avevano la funzione di celebrare nuove opere pubbliche. Originariamente gli archi erano semplici e avevano una sola apertura (fòrnice), nell’età tardoimperiale si arricchirono con fòrnici laterali e rilievi scultorei decorativi. Sulla sommità, detta attico, erano poste statue e quadrighe guidate dall’imperatore. L’età augustea inaugurò una tipologia grandiosa dell’arco di trionfo; era arricchito con rilievi in marmo o in bronzo che raccontavano le imprese di guerra dell’imperatore.
La costruzione degli archi romani assunse man mano, un ruolo pressoché simbolico. Essi infatti si rifanno alle porte monumentali, allineate alle mura della città, ma da esse si differiscono non tanto strutturalmente, ma, appunto, simbolicamente. Essi sono, infatti, dedicati a grandi imprese compiute da imperatori, generali, quali guerre, conquiste o anche alla semplice edificazione di infrastrutture come ponti e strade. Altro elemento di grande importanza, e quindi da sottolineare, è la circostanza che la monumentalità sia data dalla sovrapposizione di due elementi strutturali: la volta ed il trilite (due colonne che sorreggono un architrave). Di questi due, solo la volta è l’elemento portante: il peso dell’intera struttura è scaricato solamente su di esso e non sulla struttura trilitica.
Il 1 gennaio 1900 nasce PAOLA BORBONI, LA SIGNORINA TERRIBILE DEL TEATRO ITALIANO
Tratto dal libro di MUSINI DANIELA- Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia
Editore Piemme
Fu un’anticipatrice lungimirante in molte cose, Paola Borboni, oltre che attrice dotata di talento superlativo: fu la prima ad esibirsi in Teatro a seno nudo, la prima monologhista italiana, in quel lontano 1954, e probabilmente l’unica a calcare ancora i palcoscenici alla veneranda età di 93 anni e per di più con un’opera di Pirandello, mica pizza e fichi.<<Sono la prima attrice del Novecento>> amava ripetere con malizia e aveva ragione: era nata infatti il 1 gennaio del 1900 a Golese di Parma; quindi sicuramente la prima anagraficamente parlando, ma non solo. Non sarà stata forse la più grande della sua epoca (quando lei muoveva i primi passi c’erano ancora Eleonora Duse che giganteggiava e l’odiata Marta Abba che le aveva rubato la scena nella compagnia teatrale e nel cuore di Pirandello), ma sicuramente è stata la più spregiudicata e versatile. I suoi genitori avevano pensato per lei ad un mestiere quieto e tranquillo, da brava ragazza: maestra, ad esempio, ma si sa, le brave ragazze vanno in Paradiso, le altre dappertutto e soprattutto se la spassano un mondo. E Paolina (all’anagrafe) Borboni “brava ragazza” non fu mai, ma la vita se la godette tanto. Ma tanto tanto. Per cominciare, a sedici anni mollò la scuola, che aveva frequentato di mala voglia, per seguire la sua aspirazione più grande: fare l’attrice. Nel 1916 era considerato un mestiere poco edificante per una signorina di buona famiglia qual era, ma lei dei giudizi altrui se ne infischiava allegramente (e lo farà per tutta la vita) e quindi a Milano dove la famiglia si era trasferita dal parmense, frequenta l’Accademia dei Filodrammatici della città meneghina sotto la guida di Teresa Valvassura.
È avvantaggiata in questo dal fatto che il padre Giuseppe è un impresario teatrale specializzato in allestimenti di opere liriche e conosce bene l’ambiente teatrale della città, ma la sua non fu una strada spianata, ma un percorso costruito con talento, arguzia, spregiudicatezza, intelligenza e carattere di ferro. La madre, Gemma Paris, ricchissima ereditiera di Parma, aveva investito il suo ingente patrimonio nell’attività del marito perché amava la Cultura e l’ambiente teatrale ma nonostante ciò non fu entusiasta all’inizio di avere una figlia attrice. Provò a dissuaderla, ma Paola era e sarà sempre un osso duro e non ci fu verso di farle cambiare idea. Giovane com’è e birichina come appare, le mettono alle costole allora un’austera governante che ha da subito vita difficile accanto a quella ragazzina turbolenta, esuberante e civetta. E infatti la signora resiste pochi mesi e se ne va sbattendo la porta. Paola tira un sospiro di sollievo: è libera finalmente da controlli e divieti dai quali si sentiva soffocare e che non tollererà mai nella sua lunghissima vita. Dopo un debutto a Lodi nella commedia “Il fiore della vita” dei fratelli Quintero, per lei a sedici anni c’è la grande occasione che arriva in maniera inaspettata: come spesso accade a Teatro o nell’Opera Lirica, la protagonista femminile della compagnia di Alfredo De Santis si ammala e lei, che è l’attrice giovane, la sostituisce nel “Dio della vendetta” di Shalomon Asch. Riscuote un successo personale eclatante e da quel momento non si ferma più. Affianca la grande Irma Gramatica (che aveva soffiato la parte di Mila di Codra nella dannunziana “La figlia di Iorio” nientemeno che alla Duse) in vari allestimenti, poi è una splendida Anna Page nelle “Allegre comari di Windsor” di Shakespeare e per nove anni sarà primattrice accanto a Armando Falconi con cui mette in scena ben trenta commedie italiane e francesi. Nel frattempo è cresciuta sia attorialmente che fisicamente: è diventata bella e sensualissima, ha affilato la sua ironia e incrementato la volitività, ha consolidato la testardaggine e potenziato la trasgressione. È audace e nel contempo raffinata, è provocante ma mai volgare, è allusiva e talvolta impudica ma sempre con classe. Gli spettatori, soprattutto quelli maschili, vanno in sollucchero quando lei appare sulla scena con tutta la sua insinuante e consapevole carica erotica. Nel 1925, mentre il Fascismo esalta la donna quale angelo del focolare e premia le mamme prolifiche, lei ha l’ardire di sfidare la censura andando in scena a seno nudo nello spettacolo teatrale “Alga Marina” di Carlo Veneziani. Doveva rappresentare una sirena che esce dall’acqua e quando tutti, vedendola seminuda, gridarono allo scandalo, lei replicò con la verve briosa e polemica che la connotava: <<Ipocriti che non siete altro! Se faccio la sirena, me lo dite come potrei uscire dall’acqua tutta vestita? Che forse le sirene vanno in giro protette da uno scafandro?>>
Quello spettacolo scatenò un elettrizzante putiferio, con il pubblico che quasi faceva a botte per accaparrarsi un posto in prima fila e che la felice penna di Orio Vergani raccontò così: <<Le repliche di quella commedia mobilitirano più binocoli di quanti ne fossero stati usati in mezzo secolo di prove ippiche a San Siro.>> Seni nudi in scena in Italia non se n’erano visti se non di sfuggita in qualche malandrino teatrucolo di periferia che ospitava scalcinate compagnie di avanspettacolo con le soubrettine disposte a tutto pur di attirare gli spettatori. Intanto il padre muore prematuramente e la madre si ritrova oberata da debiti. Paola è costretta a lavorare a ritmi serrati e ad accettare anche ruoli che più che mettere in luce le sue enormi capacità attoriali, mirano ad evidenziare il suo innegabile sex-appeal. Ma a lei sta bene tutto ciò: è egocentrica ed esibizionista, ama le sfide e i riflettori, ha un seno perfetto e un corpo che è un invito al peccato e li esibisce con gusto e malizia in “Diana al bagno”, in cui appare nuda, velata appena da una tunica trasparente e gode degli sguardi accesi degli uomini in platea che l’applaudono freneticamente. <<Mi divertivo a fare un po’ di chiasso, madre natura mi aveva dato la bellezza. E, allora, perché non farne partecipe il pubblico?>> I ruoli che le affidano nei primi tempi appartengono ai cliché della commedia sofisticata: <<Dovevo fare la cocotte, la rubamariti, l’amante>> ricorderà lei da anziana, non senza una punta di civettuolo compiacimento. Voci (maligne?) la vogliono in quel periodo amante fugace di Mussolini, dal quale era andata a perorare una causa e dal quale era uscita un filino scarmigliata. Comunque sia nel 1929 è così famosa che viene invitata a bordo della corazzata Giulio Cesare con una delegazione del Parlamento Italiano. A proposito di politica: lei, trasgressiva, ironica e audace anche nel linguaggio, ammoniva sempre le giovani attrici delle sue compagnie: <<Le mutande sono come i governi. C’è sempre qualcuno che li vuole far cadere.>> Quanto a lei le portava sempre rosse, quando le portava. Corteggiatissima e disincantata quanto basta, sapeva tenere a bada gli uomini e quando vedeva una sua giovane allieva corteggiata da qualche marpione, soleva ammonirla: <<Ricordati carina, che anche nel migliore degli uomini sonnecchia sempre una canaglia.>> Lei ne aveva incontrati di tipi così, hai voglia!
Fu corteggiata persino dal più irresistibile dei seduttori: Gabriele d’Annunzio, al quale disse di no per un antico rispetto nei confronti della sua collega Eleonora Duse (anche se il rapporto tra i due era finito da un pezzo) ma soprattutto per non far parte di quella vendemmia della carne che ogni notte andava in scena al Vittoriale. Non era tipa lei da confondersi con le clarisse e le badesse di passaggio che movimentavano le insonni notti dell’Imaginifico. Non fu mai una comparsa, ma sempre protagonista. Della scena e della vita: <<Ero bella, molto. Ero intelligente, molto. Avevo talento, molto. Ho dato molto fastidio>>, soleva ripetere. Nonostante in molti, infastiditi dalla sua bravura e dal suo mordace temperamento, le remassero contro 1935 diventa capocomico della Compagnia Pirandelliana e mette in scena ben diciassette opere del drammaturgo siciliano, riuscendo a dosare mirabilmente i chiaroscuri della sua voce e a dare vita alle vibrazioni dell’anima di personaggi indimenticabili, come l’inquieta Silia Gala de “Il gioco delle parti”, ma anche quello disperato di Donna Anna Luna ne “La vita che ti diedi” che lui aveva scritto espressamente per Eleonora Duse, ma che la grande Tragica non volle poi interpretare. Paola adorava Pirandello: <<Era bellissimo. Ai miei occhi era un uomo bellissimo. Elegante, assolutamente elegante, naturalmente elegante.>> Chissà, se lui non fosse stato perso per quel demonio di donna che fu Marta Abba, forse loro due avrebbero costituito una coppia magnifica. Si erano incontrati nel foyer del Teatro Quirino; lei indossava un abito blu, di una sfumatura particolare detta blu Nattier (dal nome di un pittore del Settecento, un colorista straordinario che aveva creato quella particolare nuance) e lui l’aveva omaggiata con un <<Che donna elegante!>>. Diventa quindi una delle più intense interpreti pirandelliane, ma la sua versatilità la porta anche ad apparire nei filmetti sexy degli anni Settanta: lo fa per soldi e perché la diverte far arricciare il naso ai critici teatrali che non le perdonavano quelle scivolate goliardiche. Il cinema in realtà non l’attrae più di tanto (anche se ha girato oltre 70 film dal 1918 al 1990) ma dice sì a Pietro Germi per il suo “Gelosia”, a Fellini che la vuole nel suo capolavoro “I vitelloni” e a Manfredi per quel gioiello che fu “Per grazia ricevuta”, e a Dino Risi che le riserva uno dei ruoli più divertenti della sua carriera nel film “Sesso matto” del 1973, in cui lei appare per quel che è: una vegliarda di settantatré anni concupita da un immenso Giancarlo Giannini il quale, animato da impulsi erotici geriatrici, trascura e tradisce la sua carnalissima moglie (una Laura Antonelli di stordente sensualità) perché invaghito di lei (in realtà, si scoprirà alla fine, il vero oggetto del desiderio era la di lei madre novantenne). Ma il Teatro resta e resterà fino alla fine il suo vero amore: <<Il cinema è un’operazione commerciale e l’attore resta sempre un po’ marionetta. Mentre il Teatro è vita, è come mangiare, dormire, amare>>
E sulle tavole del palcoscenico costruisce una carriera leggendaria passando con disinvoltura da Sofocle a Marco Praga, da Rosso San Secondo a d’Annunzio, da Diego Fabbri a George Bernard Shaw, da Garcia Lorca a Ugo Betti, Giuseppe Dessì. Ci furono allestimenti che fecero epoca come quando dà vita ad una immensa Elettra nella “Orestiade” di Eschilo accanto ad un’icona come Maria Melato, o quando appare nelle vesti della Clitemnestra alfieriana in un allestimento memorabile accanto a Ruggero Ruggeri, Gasmann, Rina Morelli e Mastroianni o quando fornirà una magistrale interpretazione ne “L’anima buona di Sezuan” di Bertold Brecht per la regia di Strehler. È poliedrica e aperta alle novità (sarà lei, con intelligente lungimiranza, a imporre Pinter in Italia) interpretando ardui autori come Ionesco e Beckett. Non si risparmia, ha energia ed entusiasmo e calca il palcoscenico in tutta la sua prismatica bellezza, in tutte le sue istrioniche forme: commedia, dramma, cabaret, operetta. È superlativa in tutti i ruoli, una primadonna nata, un vero animale da palcoscenico. Dal 1954 al 1968 stupisce il pubblico con un suo personale one woman show: portare in scena sette recital, formati da cinque monologhi ciascuno, che lei inscrive in un ambizioso progetto teatrale di madri, zitelle e donne sole al tramonto, dove, prima e sola in Italia, interpreta una serie di testi di autori italiani tra cui Bacchelli, Alvaro, Savinio, Buzzati e l’immancabile Pirandello. Riuscirà a metterne in scena solo cinque dei sette programmati, con un successo incredibile corredato da premi e riconoscimenti prestigiosi. Per rinforzare la memoria, scrive e riscrive le battute del copione su un foglio: <<venti, trenta volte, così non le dimentico più>>, fedele ad un metodo utilizzato dai grandi attori dell’Ottocento, come ad esempio Ruggiero Ruggieri, dal fisico statuario e dalla voce stentorea, grande interprete dei drammi dannunziani, con il quale recitò spesso a Teatro.
Ci fu un altro memorabile compagno di scena che divenne anche compagno di vita, Salvo Randone, più giovane di lei di sei anni, ma più saggio e ponderato di lei che rimarrà una capricciosa, irresistibile bambina anche a novant’anni. Restano insieme per molti anni e si lasceranno malamente quando lui, chiamato in qualità di primo attore da Paolo Grassi, abbandona di colpo la compagnia teatrale e approda al Piccolo Teatro di Milano. Paola non glielo perdonerà. Sa essere rancorosa, caustica e anche vendicativa, all’occorrenza. Ha un brutto carattere, dicono i colleghi: autoritaria, perfida, velenosa, aggressiva, persino antipatica. Lei lo sa e non fa nulla per cambiare. Le sue liti sono leggendarie, le sue battute al vetriolo, le sue invettive taglienti. Ne hanno fatto le spese molti attori, ma l’alterco più clamorosa avvenne con Rascel con cui nel 1968 al Sistina di Roma Paola è in scena nella commedia musicale “Venti zecchini d’oro” scritta da Pasquale Festa Campanile per la regia di Zeffirelli. Fra lei e il piccoletto non corre buon sangue; sono entrambi polemici e puntigliosi e gli attriti sono quotidiani. Per fargli dispetto, conoscendo la puntualità e la professionalità di Rascel, arrivava sempre con un regale ritardo, portandolo all’esasperazione. Una culmine di una vibrante discussione Rascel, inviperito, le gridò: <<Vecchia! Sei vecchia! Vecchia!>> e lei, acuminata come un ago: <<Sono vecchia, sì, ma sono stata giovane e bella. Tu alto, mai!>>
Sempre al Sistina nel 1972 applausi per lei a scena aperta nelle vesti di Cecilia Patterson in “Ciao Rudy” accanto ad Alberto Lionello, Mita Medici e Giusi Raspani Dandolo. Anno memorabile quel 1972: mette in atto uno dei suoi coup de théâtre meglio riusciti: sposa Bruno Villaraggio, in arte Bruno Vilar, uno sconosciuto artista (mimo, poeta e pittore) di trent’anni anni, ossia quarantadue meno di lei. Al matrimonio lei appare vezzosa e maliziosa, lui intimidito e innamoratissmo. La pubblica opinione irride e deride, le riviste di gossip raggiungono tirature record grazie a questa coppia sbilenca in cui lei, intelligente e autoironica, lo presenta in pubblico non come marito, ma come il mio futuro vedovo. Ma il destino è bislacco e le riserva un’atroce messa in scena: il 23 giugno 1978 lei e il marito sono in viaggio. Ad un tratto lo schianto, esiziale: Bruno muore, lei, a settantotto anni riemerge dalla carcassa accartocciata dell’auto, malconcia, ma pervicacemente viva. Ha varie fratture, ma sopravvive, seppure con il cuore che le scoppia dal dolore. <<Io l’ho sposato perché mi chiudesse gli occhi. La cosa orrenda è che poi è morto lui e io non finirò mai di piangerlo>> racconterà in un’intervista. È distrutta dentro, ma riemerge, ancora una volta, grazie al Teatro. Dopo quell’incidente rimarrà claudicante per sempre, ma non demorde. Sarah Bernhardt in fondo aveva continuato a recitare con una gamba amputata, figuriamoci se lei si arrende per una zoppìa seppure vistosa. E pazienza se dovrà usare le stampelle anche quando è in scena: non se ne vergogna, non le occulta, anzi, le riveste di stoffe damascate e sgargianti, per stupire, come sempre.
La televisione l’acclama e a “Portobello”, l’indimenticato programma condotto dall’inarrivabile Enzo Tortora, riesce persino a far parlare il pappagallo, da sempre chiuso in un ostinato mutismo, nonostante centinaia di ospiti, anche illustri, c’abbiano provato. Arriva lei, elegantissima come sempre con il suo amato turbante e l’occhio birbante di sempre e quel dispettoso pappagallo la prende in simpatia e le risponde: anche lui, insomma, si inchina alla regina delle scene Paola Borboni. A ottant’anni si innamora, corrisposta di un uomo di quaranta: il regista Fabio Battistini. La vita insomma continuava per lei anche a quella veneranda età fra tenerezze, interviste, comparsate, ricordi e palcoscenico. Sì, ancora il palcoscenico. A 93 anni va in scena per l’ultima volta con il suo amato Pirandello: “Il berretto a sonagli” e poi l’anno si ritira in una casa di riposo a Bodio Lomnago vicino Varese. Ma in fondo non lascia del tutto le scene, non ne è capace: nelle malinconiche sere dell’ultima stagione della sua vita reciterà ancora per gli adoranti ospiti di quel ricovero e li delizierà citando le sue celebri battute, <<posso andare d’accordo con un cattivo, con un cretino no>> o la risposta famosissima che diede ad un’impertinente quanto sciocca giornalista, <<Signora, i denti sono suoi?>> <<Certo cara, li ho pagati>>), o raccontando gli aneddoti più divertenti della sua vita.
Uno lo ripeteva spesso e ne rideva anche lei, ossia quella volta che Salvo Randone, una notte in cui erano in viaggio in treno insieme, e lei aveva la luna di traverso e non la finiva più di rompere gli zebedei, esasperato, approfittò di un rallentamento del treno per buttarsi giù, senza valigia, senza meta, in piena campagna. Quando le chiedevano quali fossero le doti indispensabili per essere vincenti in quel mestiere che lei portò avanti per ben 76 anni, rispondeva con un sorriso: <<Per fare l’attrice ci vuole fascino, morbidezza, attrazione fisica, morale e psichica. Ma ci vuole anche molta generosità per essere una e cento persone. E poi molta fantasia.>> Il sipario si chiuse definitivamente per lei il 9 aprile 1995. Sul prato dell’ospizio, in quella giornata piena di sole, ci fu una danza policroma di farfalle e di petali.
Daniela Musini-Tratto dal mio libro Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia (Piemme) Ps: Sereno e luminoso 2023 a tutti Voi
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