LEONESSA (Rieti) quì è nato BIXIO CHERUBINI famosissimo Poeta e Compositore .
Vincitore del festival di Sanremo- con VOLA COLOMBA – Autore delle canzoni: MAMMA -Violino tzigano, Tango delle capinere-
BIXIO CHERUBINI-(Leonessa, 27 marzo 1899 – Milano, 14 dicembre 1987)-
BIXIO CHERUBINI Vincitore del I festival di Sanremo- con VOLA COLOMBA cantata da Nilla Pizzi- Autore della celebre canzone MAMMA cantata da BENIAMINO GIGLI–
BIXIO CHERUBINI è entrato nella storia della musica leggera italiana come autore di evergreen come Violino tzigano, Mamma, Tango delle capinere e Vola colomba.
Nel corso della sua carriera ha usato anche gli pseudonimi Liman, Carlo Alberto Liman, Pasquale Caliman, Stilos.
-Biografia-
Figlio e nipote di due garibaldini (questa la causa del nome particolare), discendente del compositore Luigi Cherubini, dopo aver interrotto gli studi a Rieti per arruolarsi come volontario nella Prima guerra mondiale come pilota, iniziò a scrivere i primi testi al termine del conflitto, pubblicando una raccolta di poesie, Canti in grigioverde.
Nel 1919 si trasferisce a Roma per frequentare l’Università e lavorare alle Poste, ma in realtà si dedica alla musica leggera (contro il volere del padre, docente universitario, che lo vorrebbe laureato), iscrivendosi nel 1920 alla SIAE e scrivendo alcune canzoni, tra le quali riscuote particolare successo il brano Ciondolo d’oro, su musica di Guglielmetti: proprio per questo motivo Cherubini decide di abbandonare gli studi.
Nel 1927 si trasferisce a Milano, e in breve tempo consolida la sua carriera con altri brani di grande successo, spesso sulle musiche del Maestro Dino Rulli, quali Apaches, Mimì, Yvonne, Fox trot della nostalgia o del Maestro Alfredo Del Pelo, come Biondo corsaro (del 1924), e decide di fondare le edizioni musicali La Casa della Canzone.
Nel 1923 conosce a Roma il compositore napoletano Cesare Andrea Bixio, che gli viene presentato da Trilussa e con cui inizia una lunga e prolifica collaborazione già nel 1925 con le canzoni Siberiana, Nuvola e L’ultima java: negli anni successivi arriveranno i successi maggiori per la coppia, con brani come Tango delle capinere, La canzone dell’amore, Trotta cavallino, Violino tzigano, Lucciole vagabonde, La mia canzone al vento, Valzer dell’organino, Madonna fiorentina, Miniera, Signora fortuna e, soprattutto, Mamma, divenendo quindi, prima del secondo conflitto, il paroliere più importante per le canzoni di Gabrè, Silvana Fioresi, Oscar Carboni, Beniamino Gigli, il Trio Lescano, Luciano Virgili, Luciano Tajoli, Achille Togliani e Natalino Otto.
Raccoglie inoltre una delle più grosse collezioni italiane di dischi a 78 giri, con tutte le versioni incise delle sue canzoni ed altri, superando i 5000 pezzi: durante un bombardamento però questa collezione viene completamente distrutta.
Nel 1943 aderisce alla Resistenza, aggregandosi al comando partigiano di Val Marchirolo, nel Varesotto, per poi riprendere l’attività nel secondo dopoguerra.
Nel 1948 fondò l’UNCLA (Unione Nazionale Compositori Librettisti e Autori), della quale resterà presidente sino al 1987, anno della sua morte (causata da un edema polmonare). Fu inoltre autore di Spazzacamino, Quell’uccellin che vien dal mare e, insieme a Carlo Concina, di Vola colomba, brano con cui Nilla Pizzi vinse il Festival di Sanremo 1952.
Compose i testi di altri brani presentati alla manifestazione ligure, tra i quali conquistano la medaglia d’argento Campanaro (1953) ed Il torrente (1955), che Bixio firma con lo pseudonimo Carlo Alberto Liman (a volte citato come Pasquale Caliman) in quanto il regolamento dell’epoca impediva di partecipare alla gara con più di un pezzo, e in quell’edizione Bixio aveva già firmato ufficialmente la canzone Sentiero.
Nel 1974 scrive l’ultima canzone insieme a Cesare Andrea Bixio, Quando riascolterai questa canzone, incisa da Achille Togliani.
Nel 2009, in occasione del 110º anniversario della sua nascita, la sua città natale, Leonessa, gli ha dedicato una serie di iniziative per ricordarne la memoria.
Bixio Cherubini ha avuto quattro figlie: Graziella, Ornella, Gabriella e Fiorella (quest’ultima cantante con lo pseudonimo Fiorella Bini).
La riflessione in forma di Poesia sulla guerra di Bertolt Brecht
Dopo l’incendio del Reichstag da parte dei nazisti, il 28 febbraio 1933, Bertolt Brecht decise di fuggire dalla Germania e recarsi in Danimarca con la famiglia. Aveva previsto la catastrofe imminente che l’ascesa del nazismo avrebbe portato con sé.
Anche in esilio Bertolt Brecht tuttavia non smise di denunciare con forza, attraverso la poesia, ogni tipo di oppressione e disuguaglianza. Non dimenticò la sua causa sociale e dedicò le sue poesie contro la guerra al popolo, che in silenzio è costretto a patire le decisioni prese dai potenti.
Agli occhi dell’intellettuale tedesco la guerra non è altro che una delle massime espressioni degli interessi capitalistici praticata ai danni dei più umili.
I suoi versi verranno raccolti nel 1939 nella celebre silloge Poesie di Svendborg, considerata la summa poetica dell’impegno antinazista di Brecht.
Oggi quella raccolta appare come una drammatica profezia della Seconda guerra mondiale, al pari del quadro Guernica di Pablo Picasso che denunciava l’opera di distruzione messa in atto dalla Germania di Hitler.
Brecht assistette alla drammatica escalation che portò a una delle guerre più drammatiche della storia e raccontò quel tragico sviluppo storico tramite il climax ascendente dettato dai suoi versi.
Scopriamo le poesie contro la guerra di Bertolt Brecht che oggi sono un invito a riflettere su quanto sta accadendo in seguito all’invasione russa dell’Ucraina.
Generale di Bertolt Brecht-
Generale, il tuo carro armato
è una macchina potente
Spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido d’una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.
Quando la guerra comincia di Bertolt Brecht
Forse i vostri fratelli si trasformeranno
e i loro volti saranno irriconoscibili.
Ma voi dovete rimanere eguali.
Andranno in guerra, non
come ad un massacro,
ad un serio lavoro. Tutto
avranno dimenticato.
Ma voi nulla dovete dimenticare.
Vi verseranno grappa nella gola
come a tutti gli altri.
Ma voi dovete rimanere lucidi.
Chi sta in alto dice pace e guerra di Bertolt Brecht
Sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
son come vento e tempesta.
La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.
La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto.
La guerra che verrà di Bertolt Brecht
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
C’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
Faceva la fame. Fra i vincitori
Faceva la fame la povera gente egualmente.
Quelli che stanno in alto di Bertolt Brecht
Quelli che stanno in alto
si sono riuniti in una stanza.
Uomo della strada
lascia ogni speranza.
I governi
firmano patti di non aggressione.
Uomo qualsiasi,
firma il tuo testamento.
Mio fratello aviatore di Bertolt Brecht
Mio fratello era aviatore
Un giorno ricevette la cartolina.
Fece i bagagli, e andò via,
Lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
Di spazio. E prendersi terre su terre,
Da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che si è conquistato
È sui monti del Guadarrama.
È lungo un metro e ottanta
E di profondità uno e cinquanta…
Al momento di marciare di Bertolt Brecht
Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico.
Quando chi sta in alto parla di pace di Bertolt Brecht
Quando chi sta in alto parla di pace
la gente comune sa
che ci sarà la guerra.
Quando chi sta in alto maledice la guerra
le cartoline precetto sono già compilate.
Sul muro c’era scritto col gesso di Bertolt Brecht
Sul muro c’era scritto col gesso:
vogliono la guerra.
Chi l’ha scritto
è già caduto
Palestrina- La cista di un’elegante donna del III secolo a.C.
torna a Preneste, dove fu prodotta e utilizzata.
Palestrina Con “100 opere tornano a casa” i capolavori dell’arte escono dai depositi e tornano a Palestrina nelle sale dei musei. Grazie al progetto del Ministero della Cultura “100 opere tornano a casa” è tornata oggi a Palestrina dai depositi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli la Cista Borgiana. L’opera, rinvenuta nel corso del Settecento nel territorio di Palestrina, l’antica Praeneste, appartenne per un periodo a Ennio Quirino Visconti, prima di entrare a far parte della collezione del cardinale Stefano Borgia.
Con la vendita della collezione da parte del nipote Camillo, seguita alla scomparsa del Borgia, la cista confluì insieme ad una parte della collezione nel Real Museo Borbonico, l’attuale Museo Archeologico di Napoli. La cista è un recipiente di forma cilindrica e dotato di coperchio, in uso durante l’antichità per contenere oggetti di toletta o di abbigliamento sia maschile sia femminile. di vita quotidiana molto diffuso, ricopriva anche una funzione rituale legata ai culti dionisiaci: era chiamata cista mystica, e veniva utilizzata per contenere i serpenti sacri da impiegare durante i riti per la divinità. Fra i centri più noti di questa produzione si annovera proprio Preneste (l’odierna Palestrina), antica città del Lazio, che ne realizzò diversi esemplari dal IV secolo in poi. Dopo secoli, la preziosa cista torna quindi nel territorio per il quale era stata creata, destinata ad accompagnare, insieme alle suppellettili che certamente conteneva, l’ultimo viaggio di una sconosciuta donna prenestina, in una delle necropoli presenti nel territorio. Un percorso comune a tante opere prodotte per la ricca Praeneste, andate nel tempo ad arricchire le collezioni di musei in ogni parte del mondo, e che in questo caso ritorna invece nel contesto di provenienza. La cista andrà ad arricchire la Sala delle Necropoli al secondo piano del Palazzo Colonna Barberini, sede del Museo archeologico Nazionale di Palestrina, in coerenza con l’iniziativa promossa dal progetto “100 opere tornano a casa” voluto dal Ministro della Cultura Dario Franceschini per valorizzare il patrimonio storico artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali e per promuovere i musei più piccoli, periferici e meno frequentati. Hanno accolto l’arrivo dell’opera il Sindaco di Palestrina Mario Moretti, la Direttrice del Museo Marina Cogotti, il Direttore Regionale Musei del Lazio Stefano Petrocchi.
Sabato 13 aprile, a Mompeo, nell’ambito della rassegna di spettacolo dal vivo “A porte Aperte 2024” del Comune di Mompeo con la direzione artistica di Renato Giordano, presso la Sala Fabrizio Naro del Castello Orsini Naro alle ore 18.00 avrà luogo lo spettacolo “E’ solo un buco nell’acqua” scritto e diretto da Simone Corbisiero con Antonio Monsellato e Nicolas Zappa.
La commedia è una pièce sull’amicizia, sul dolore di due personaggi che dialogando grottescamente mettono a nudo ognuno le proprie fragilità, i propri traumi in un viaggio dentro le loro esistenze. Un non vedente e il suo accompagnatore sembrano parlare di massimi sistemi passeggiando, ai margini della civiltà, in quella che sembrerebbe essere una discarica, ma dietro c’è dell’altro. Tra i due in realtà a parlare è perlopiù il non vedente, un “poeta” dai modi burberi il quale in maniera scanzonata e pazzoide mette duramente alla prova la pazienza dell’accompagnatore, un uomo all’apparenza schivo e impenetrabile. Quella che sembra una quotidiana seppur buffa e stravagante “ora d’aria” si trasformerà in un viaggio introspettivo in cui i ruoli si confondono e cambiano di significato fino ad arrivare al nocciolo, al segreto che lega i due in maniera indissolubile. Uno spettacolo poetico e davvero divertente che viaggia tra l’assurdo e il grottesco. Ispirato ad un evento realmente accaduto.
Il territorio di Mompeo era in antichità abitato certamente dai Sabini, collegati con la città di Curi (Cures), che doveva sorgere nei pressi di Corese Terra. Poi attraverso varie vicende i Sabini si fusero coi Romani formando un unico popolo.
Anche sulle colline di Mompeo, relativamente vicine all’Urbe e già ben note, sorsero con il tempo le dimore campestri di Romani abbienti. Gli avanzi dei monumenti che ancora si vedono testimoniano l’antica esistenza di ville più o meno importanti delle quali non altro resta se non quella parte cui i Romani annettevano la maggiore importanza, cioè le conserve d’acqua, gli acquedotti e i locali da bagno.
A chi appartenessero queste ville è oscuro. Una vecchia tradizione vuole che qui Fabio Massimo (275-203 a.C.) “cunctando restituit rem”, avesse una villa, cui si riconnetterebbe il vocabolo “Massaccio” ancora conservato da alcuni terreni di Mompeo e alla quale alluderebbe, secondo il Sestili, Cicerone là ove dice “Villa Fabii Maximi in agro sabino”. Veramente questa ipotesi non è avvalorata da prove.
L’antica credenza, poi, che nel comune di Mompeo, in località Palombara, sorgesse la villa di Gneo Pompeo ha prove molto più sicure, tra le quali principale quella di natura linguistico fonetica. Del resto valore probatorio ha l’interpretazione fatta dal Barbiellini-Amidei delle lettere “P.L.” che figurano nella lapide che il Marocco vide sulla facciata nord della grande tomba della Palombara.
Non senza ragione però i Romani illustri scelsero a loro dimora questa parte della Sabina. Oltre la vicinanza di Roma, il clima salubre, il suolo fertile, le acque abbondanti, parlava loro il ricordo di un’antichissima città sabina, la quale dopo la vicina Curi era la più viva e palpitante alla loro memoria: era il ricordo dell’antica Regillo, la patria di Atto Clauso (310 a.C. “per i Romani Appio Claudio”) per la cui venuta a Roma “Claudia nunc diffunditur et tribus et gens per Latium, postquam in partem data Roma sabinis”.
È tradizione che nel territorio di Mompeo sorgesse l’antica città di Regillo e infatti la principale via del paese era denominata Corso Regillo. Ora porta questo nome la piazza dinanzi alla chiesa e la circonvallazione.
Dopo l’età imperiale, si rinvengono notizie di Mompeo nell’817 dal Regesto Farfense, dove si parla del Fundum Pompeianum quale territorio di pertinenza dell’abbazia benedettina, confermato in una nota dell’825, e nell’840 in un diploma dell’imperatore Lotario. Di lì a poco, nell’875, l’abate Giovanni conferisce l’investitura feudale dei suoi domini a un tale Francone, che fa edificare la sua fortezza su un colle, cioè l’attuale zona del centro storico. Dalla metà del X secolo, dopo le invasioni saracene che avevano sconvolto anche la terra sabina, fino alla distruzione dell’abbazia di Farfa, si sa che il feudo di Mompeo passò ai fratelli Gaderisio e Ottaviano di Buza.
Nel XII secolo divenne signore feudatario di Mompeo Simeotto Orsini, capostipite di una lunga dinastia che diede lustro e prestigio a questa terra per cinque secoli. Il feudo rimase in possesso degli Orsini almeno fino al 1559, quando gli abitanti restaurano la chiesa parrocchiale dedicata alla natività durante la signoria di Alessandro e Virginia Orsini.
Mompeo, eretto in marchesato, fu poi venduto ai marchesi Capponi di Firenze, che a loro volta lo cedettero, il 15 maggio del 1646, alla nobile famiglia romana dei Naro, che lo possedette fino agli inizi dell’Ottocento. Sotto i Naro furono edificati e valorizzati i complessi monumentali più importanti che oggi possiamo ammirare. La vecchia fortezza degli Orsini venne quasi del tutto ristrutturata e soltanto due torri rimasero indenni. Al suo posto venne edificato un palazzo baronale di notevole rilevanza dal punto di vista monumentale, circondato da giardini, fontane e attraversato da viali del quale esiste una descrizione del Piazza che lo paragona al castello incantato di Armida. Nello stesso periodo il marchese Naro fece costruire una maestosa porta d’accesso in travertino, ristrutturando e riorganizzando urbanisticamente l’abitato, le cui vie furono lastricate e articolate al servizio del nuovo palazzo baronale che divenne il polo unico e unificatore di Mompeo.
Nel 1663 fu riedificata completamente la chiesa parrocchiale, nella quale fu costruita una cappella gentilizia. Anche il figlio Fabrizio proseguì l’opera paterna, abbellendo la nuova chiesa. L’attività di Fabrizio e di Bernardino Naro, amici di papa Urbano VIII, contribuì al progresso civile e culturale della comunità di Mompeo. A testimoniare il profondo legame affettivo che univa Fabrizio e Bernardino Naro a Mompeo, vi è anche il fatto che entrambi vollero che il loro cuore fosse sepolto nella cappella gentilizia della chiesa parrocchiale di Mompeo. Le rispettive tombe invece si trovano nella cappella gentilizia di famiglia nella basilica di Santa Maria sopra Minerva in Roma. Dopo questo periodo di particolare splendore, si ricorda ancora la famiglia Naro fino alla metà del XVIII secolo, cui fecero seguito fino al Novecento, quali proprietari del palazzo baronale, i Patrizi, i Luciani, i Ciufici, nonché i Baranello e i Di Salvo. Dal 1995 il palazzo baronale è proprietà del Comune di Mompeo.
Il 1 gennaio 1900 nasce PAOLA BORBONI, LA SIGNORINA TERRIBILE DEL TEATRO ITALIANO
Tratto dal libro di MUSINI DANIELA- Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia
Editore Piemme
Fu un’anticipatrice lungimirante in molte cose, Paola Borboni, oltre che attrice dotata di talento superlativo: fu la prima ad esibirsi in Teatro a seno nudo, la prima monologhista italiana, in quel lontano 1954, e probabilmente l’unica a calcare ancora i palcoscenici alla veneranda età di 93 anni e per di più con un’opera di Pirandello, mica pizza e fichi.<<Sono la prima attrice del Novecento>> amava ripetere con malizia e aveva ragione: era nata infatti il 1 gennaio del 1900 a Golese di Parma; quindi sicuramente la prima anagraficamente parlando, ma non solo. Non sarà stata forse la più grande della sua epoca (quando lei muoveva i primi passi c’erano ancora Eleonora Duse che giganteggiava e l’odiata Marta Abba che le aveva rubato la scena nella compagnia teatrale e nel cuore di Pirandello), ma sicuramente è stata la più spregiudicata e versatile. I suoi genitori avevano pensato per lei ad un mestiere quieto e tranquillo, da brava ragazza: maestra, ad esempio, ma si sa, le brave ragazze vanno in Paradiso, le altre dappertutto e soprattutto se la spassano un mondo. E Paolina (all’anagrafe) Borboni “brava ragazza” non fu mai, ma la vita se la godette tanto. Ma tanto tanto. Per cominciare, a sedici anni mollò la scuola, che aveva frequentato di mala voglia, per seguire la sua aspirazione più grande: fare l’attrice. Nel 1916 era considerato un mestiere poco edificante per una signorina di buona famiglia qual era, ma lei dei giudizi altrui se ne infischiava allegramente (e lo farà per tutta la vita) e quindi a Milano dove la famiglia si era trasferita dal parmense, frequenta l’Accademia dei Filodrammatici della città meneghina sotto la guida di Teresa Valvassura.
È avvantaggiata in questo dal fatto che il padre Giuseppe è un impresario teatrale specializzato in allestimenti di opere liriche e conosce bene l’ambiente teatrale della città, ma la sua non fu una strada spianata, ma un percorso costruito con talento, arguzia, spregiudicatezza, intelligenza e carattere di ferro. La madre, Gemma Paris, ricchissima ereditiera di Parma, aveva investito il suo ingente patrimonio nell’attività del marito perché amava la Cultura e l’ambiente teatrale ma nonostante ciò non fu entusiasta all’inizio di avere una figlia attrice. Provò a dissuaderla, ma Paola era e sarà sempre un osso duro e non ci fu verso di farle cambiare idea. Giovane com’è e birichina come appare, le mettono alle costole allora un’austera governante che ha da subito vita difficile accanto a quella ragazzina turbolenta, esuberante e civetta. E infatti la signora resiste pochi mesi e se ne va sbattendo la porta. Paola tira un sospiro di sollievo: è libera finalmente da controlli e divieti dai quali si sentiva soffocare e che non tollererà mai nella sua lunghissima vita. Dopo un debutto a Lodi nella commedia “Il fiore della vita” dei fratelli Quintero, per lei a sedici anni c’è la grande occasione che arriva in maniera inaspettata: come spesso accade a Teatro o nell’Opera Lirica, la protagonista femminile della compagnia di Alfredo De Santis si ammala e lei, che è l’attrice giovane, la sostituisce nel “Dio della vendetta” di Shalomon Asch. Riscuote un successo personale eclatante e da quel momento non si ferma più. Affianca la grande Irma Gramatica (che aveva soffiato la parte di Mila di Codra nella dannunziana “La figlia di Iorio” nientemeno che alla Duse) in vari allestimenti, poi è una splendida Anna Page nelle “Allegre comari di Windsor” di Shakespeare e per nove anni sarà primattrice accanto a Armando Falconi con cui mette in scena ben trenta commedie italiane e francesi. Nel frattempo è cresciuta sia attorialmente che fisicamente: è diventata bella e sensualissima, ha affilato la sua ironia e incrementato la volitività, ha consolidato la testardaggine e potenziato la trasgressione. È audace e nel contempo raffinata, è provocante ma mai volgare, è allusiva e talvolta impudica ma sempre con classe. Gli spettatori, soprattutto quelli maschili, vanno in sollucchero quando lei appare sulla scena con tutta la sua insinuante e consapevole carica erotica. Nel 1925, mentre il Fascismo esalta la donna quale angelo del focolare e premia le mamme prolifiche, lei ha l’ardire di sfidare la censura andando in scena a seno nudo nello spettacolo teatrale “Alga Marina” di Carlo Veneziani. Doveva rappresentare una sirena che esce dall’acqua e quando tutti, vedendola seminuda, gridarono allo scandalo, lei replicò con la verve briosa e polemica che la connotava: <<Ipocriti che non siete altro! Se faccio la sirena, me lo dite come potrei uscire dall’acqua tutta vestita? Che forse le sirene vanno in giro protette da uno scafandro?>>
Quello spettacolo scatenò un elettrizzante putiferio, con il pubblico che quasi faceva a botte per accaparrarsi un posto in prima fila e che la felice penna di Orio Vergani raccontò così: <<Le repliche di quella commedia mobilitirano più binocoli di quanti ne fossero stati usati in mezzo secolo di prove ippiche a San Siro.>> Seni nudi in scena in Italia non se n’erano visti se non di sfuggita in qualche malandrino teatrucolo di periferia che ospitava scalcinate compagnie di avanspettacolo con le soubrettine disposte a tutto pur di attirare gli spettatori. Intanto il padre muore prematuramente e la madre si ritrova oberata da debiti. Paola è costretta a lavorare a ritmi serrati e ad accettare anche ruoli che più che mettere in luce le sue enormi capacità attoriali, mirano ad evidenziare il suo innegabile sex-appeal. Ma a lei sta bene tutto ciò: è egocentrica ed esibizionista, ama le sfide e i riflettori, ha un seno perfetto e un corpo che è un invito al peccato e li esibisce con gusto e malizia in “Diana al bagno”, in cui appare nuda, velata appena da una tunica trasparente e gode degli sguardi accesi degli uomini in platea che l’applaudono freneticamente. <<Mi divertivo a fare un po’ di chiasso, madre natura mi aveva dato la bellezza. E, allora, perché non farne partecipe il pubblico?>> I ruoli che le affidano nei primi tempi appartengono ai cliché della commedia sofisticata: <<Dovevo fare la cocotte, la rubamariti, l’amante>> ricorderà lei da anziana, non senza una punta di civettuolo compiacimento. Voci (maligne?) la vogliono in quel periodo amante fugace di Mussolini, dal quale era andata a perorare una causa e dal quale era uscita un filino scarmigliata. Comunque sia nel 1929 è così famosa che viene invitata a bordo della corazzata Giulio Cesare con una delegazione del Parlamento Italiano. A proposito di politica: lei, trasgressiva, ironica e audace anche nel linguaggio, ammoniva sempre le giovani attrici delle sue compagnie: <<Le mutande sono come i governi. C’è sempre qualcuno che li vuole far cadere.>> Quanto a lei le portava sempre rosse, quando le portava. Corteggiatissima e disincantata quanto basta, sapeva tenere a bada gli uomini e quando vedeva una sua giovane allieva corteggiata da qualche marpione, soleva ammonirla: <<Ricordati carina, che anche nel migliore degli uomini sonnecchia sempre una canaglia.>> Lei ne aveva incontrati di tipi così, hai voglia!
Fu corteggiata persino dal più irresistibile dei seduttori: Gabriele d’Annunzio, al quale disse di no per un antico rispetto nei confronti della sua collega Eleonora Duse (anche se il rapporto tra i due era finito da un pezzo) ma soprattutto per non far parte di quella vendemmia della carne che ogni notte andava in scena al Vittoriale. Non era tipa lei da confondersi con le clarisse e le badesse di passaggio che movimentavano le insonni notti dell’Imaginifico. Non fu mai una comparsa, ma sempre protagonista. Della scena e della vita: <<Ero bella, molto. Ero intelligente, molto. Avevo talento, molto. Ho dato molto fastidio>>, soleva ripetere. Nonostante in molti, infastiditi dalla sua bravura e dal suo mordace temperamento, le remassero contro 1935 diventa capocomico della Compagnia Pirandelliana e mette in scena ben diciassette opere del drammaturgo siciliano, riuscendo a dosare mirabilmente i chiaroscuri della sua voce e a dare vita alle vibrazioni dell’anima di personaggi indimenticabili, come l’inquieta Silia Gala de “Il gioco delle parti”, ma anche quello disperato di Donna Anna Luna ne “La vita che ti diedi” che lui aveva scritto espressamente per Eleonora Duse, ma che la grande Tragica non volle poi interpretare. Paola adorava Pirandello: <<Era bellissimo. Ai miei occhi era un uomo bellissimo. Elegante, assolutamente elegante, naturalmente elegante.>> Chissà, se lui non fosse stato perso per quel demonio di donna che fu Marta Abba, forse loro due avrebbero costituito una coppia magnifica. Si erano incontrati nel foyer del Teatro Quirino; lei indossava un abito blu, di una sfumatura particolare detta blu Nattier (dal nome di un pittore del Settecento, un colorista straordinario che aveva creato quella particolare nuance) e lui l’aveva omaggiata con un <<Che donna elegante!>>. Diventa quindi una delle più intense interpreti pirandelliane, ma la sua versatilità la porta anche ad apparire nei filmetti sexy degli anni Settanta: lo fa per soldi e perché la diverte far arricciare il naso ai critici teatrali che non le perdonavano quelle scivolate goliardiche. Il cinema in realtà non l’attrae più di tanto (anche se ha girato oltre 70 film dal 1918 al 1990) ma dice sì a Pietro Germi per il suo “Gelosia”, a Fellini che la vuole nel suo capolavoro “I vitelloni” e a Manfredi per quel gioiello che fu “Per grazia ricevuta”, e a Dino Risi che le riserva uno dei ruoli più divertenti della sua carriera nel film “Sesso matto” del 1973, in cui lei appare per quel che è: una vegliarda di settantatré anni concupita da un immenso Giancarlo Giannini il quale, animato da impulsi erotici geriatrici, trascura e tradisce la sua carnalissima moglie (una Laura Antonelli di stordente sensualità) perché invaghito di lei (in realtà, si scoprirà alla fine, il vero oggetto del desiderio era la di lei madre novantenne). Ma il Teatro resta e resterà fino alla fine il suo vero amore: <<Il cinema è un’operazione commerciale e l’attore resta sempre un po’ marionetta. Mentre il Teatro è vita, è come mangiare, dormire, amare>>
E sulle tavole del palcoscenico costruisce una carriera leggendaria passando con disinvoltura da Sofocle a Marco Praga, da Rosso San Secondo a d’Annunzio, da Diego Fabbri a George Bernard Shaw, da Garcia Lorca a Ugo Betti, Giuseppe Dessì. Ci furono allestimenti che fecero epoca come quando dà vita ad una immensa Elettra nella “Orestiade” di Eschilo accanto ad un’icona come Maria Melato, o quando appare nelle vesti della Clitemnestra alfieriana in un allestimento memorabile accanto a Ruggero Ruggeri, Gasmann, Rina Morelli e Mastroianni o quando fornirà una magistrale interpretazione ne “L’anima buona di Sezuan” di Bertold Brecht per la regia di Strehler. È poliedrica e aperta alle novità (sarà lei, con intelligente lungimiranza, a imporre Pinter in Italia) interpretando ardui autori come Ionesco e Beckett. Non si risparmia, ha energia ed entusiasmo e calca il palcoscenico in tutta la sua prismatica bellezza, in tutte le sue istrioniche forme: commedia, dramma, cabaret, operetta. È superlativa in tutti i ruoli, una primadonna nata, un vero animale da palcoscenico. Dal 1954 al 1968 stupisce il pubblico con un suo personale one woman show: portare in scena sette recital, formati da cinque monologhi ciascuno, che lei inscrive in un ambizioso progetto teatrale di madri, zitelle e donne sole al tramonto, dove, prima e sola in Italia, interpreta una serie di testi di autori italiani tra cui Bacchelli, Alvaro, Savinio, Buzzati e l’immancabile Pirandello. Riuscirà a metterne in scena solo cinque dei sette programmati, con un successo incredibile corredato da premi e riconoscimenti prestigiosi. Per rinforzare la memoria, scrive e riscrive le battute del copione su un foglio: <<venti, trenta volte, così non le dimentico più>>, fedele ad un metodo utilizzato dai grandi attori dell’Ottocento, come ad esempio Ruggiero Ruggieri, dal fisico statuario e dalla voce stentorea, grande interprete dei drammi dannunziani, con il quale recitò spesso a Teatro.
Ci fu un altro memorabile compagno di scena che divenne anche compagno di vita, Salvo Randone, più giovane di lei di sei anni, ma più saggio e ponderato di lei che rimarrà una capricciosa, irresistibile bambina anche a novant’anni. Restano insieme per molti anni e si lasceranno malamente quando lui, chiamato in qualità di primo attore da Paolo Grassi, abbandona di colpo la compagnia teatrale e approda al Piccolo Teatro di Milano. Paola non glielo perdonerà. Sa essere rancorosa, caustica e anche vendicativa, all’occorrenza. Ha un brutto carattere, dicono i colleghi: autoritaria, perfida, velenosa, aggressiva, persino antipatica. Lei lo sa e non fa nulla per cambiare. Le sue liti sono leggendarie, le sue battute al vetriolo, le sue invettive taglienti. Ne hanno fatto le spese molti attori, ma l’alterco più clamorosa avvenne con Rascel con cui nel 1968 al Sistina di Roma Paola è in scena nella commedia musicale “Venti zecchini d’oro” scritta da Pasquale Festa Campanile per la regia di Zeffirelli. Fra lei e il piccoletto non corre buon sangue; sono entrambi polemici e puntigliosi e gli attriti sono quotidiani. Per fargli dispetto, conoscendo la puntualità e la professionalità di Rascel, arrivava sempre con un regale ritardo, portandolo all’esasperazione. Una culmine di una vibrante discussione Rascel, inviperito, le gridò: <<Vecchia! Sei vecchia! Vecchia!>> e lei, acuminata come un ago: <<Sono vecchia, sì, ma sono stata giovane e bella. Tu alto, mai!>>
Sempre al Sistina nel 1972 applausi per lei a scena aperta nelle vesti di Cecilia Patterson in “Ciao Rudy” accanto ad Alberto Lionello, Mita Medici e Giusi Raspani Dandolo. Anno memorabile quel 1972: mette in atto uno dei suoi coup de théâtre meglio riusciti: sposa Bruno Villaraggio, in arte Bruno Vilar, uno sconosciuto artista (mimo, poeta e pittore) di trent’anni anni, ossia quarantadue meno di lei. Al matrimonio lei appare vezzosa e maliziosa, lui intimidito e innamoratissmo. La pubblica opinione irride e deride, le riviste di gossip raggiungono tirature record grazie a questa coppia sbilenca in cui lei, intelligente e autoironica, lo presenta in pubblico non come marito, ma come il mio futuro vedovo. Ma il destino è bislacco e le riserva un’atroce messa in scena: il 23 giugno 1978 lei e il marito sono in viaggio. Ad un tratto lo schianto, esiziale: Bruno muore, lei, a settantotto anni riemerge dalla carcassa accartocciata dell’auto, malconcia, ma pervicacemente viva. Ha varie fratture, ma sopravvive, seppure con il cuore che le scoppia dal dolore. <<Io l’ho sposato perché mi chiudesse gli occhi. La cosa orrenda è che poi è morto lui e io non finirò mai di piangerlo>> racconterà in un’intervista. È distrutta dentro, ma riemerge, ancora una volta, grazie al Teatro. Dopo quell’incidente rimarrà claudicante per sempre, ma non demorde. Sarah Bernhardt in fondo aveva continuato a recitare con una gamba amputata, figuriamoci se lei si arrende per una zoppìa seppure vistosa. E pazienza se dovrà usare le stampelle anche quando è in scena: non se ne vergogna, non le occulta, anzi, le riveste di stoffe damascate e sgargianti, per stupire, come sempre.
La televisione l’acclama e a “Portobello”, l’indimenticato programma condotto dall’inarrivabile Enzo Tortora, riesce persino a far parlare il pappagallo, da sempre chiuso in un ostinato mutismo, nonostante centinaia di ospiti, anche illustri, c’abbiano provato. Arriva lei, elegantissima come sempre con il suo amato turbante e l’occhio birbante di sempre e quel dispettoso pappagallo la prende in simpatia e le risponde: anche lui, insomma, si inchina alla regina delle scene Paola Borboni. A ottant’anni si innamora, corrisposta di un uomo di quaranta: il regista Fabio Battistini. La vita insomma continuava per lei anche a quella veneranda età fra tenerezze, interviste, comparsate, ricordi e palcoscenico. Sì, ancora il palcoscenico. A 93 anni va in scena per l’ultima volta con il suo amato Pirandello: “Il berretto a sonagli” e poi l’anno si ritira in una casa di riposo a Bodio Lomnago vicino Varese. Ma in fondo non lascia del tutto le scene, non ne è capace: nelle malinconiche sere dell’ultima stagione della sua vita reciterà ancora per gli adoranti ospiti di quel ricovero e li delizierà citando le sue celebri battute, <<posso andare d’accordo con un cattivo, con un cretino no>> o la risposta famosissima che diede ad un’impertinente quanto sciocca giornalista, <<Signora, i denti sono suoi?>> <<Certo cara, li ho pagati>>), o raccontando gli aneddoti più divertenti della sua vita.
Uno lo ripeteva spesso e ne rideva anche lei, ossia quella volta che Salvo Randone, una notte in cui erano in viaggio in treno insieme, e lei aveva la luna di traverso e non la finiva più di rompere gli zebedei, esasperato, approfittò di un rallentamento del treno per buttarsi giù, senza valigia, senza meta, in piena campagna. Quando le chiedevano quali fossero le doti indispensabili per essere vincenti in quel mestiere che lei portò avanti per ben 76 anni, rispondeva con un sorriso: <<Per fare l’attrice ci vuole fascino, morbidezza, attrazione fisica, morale e psichica. Ma ci vuole anche molta generosità per essere una e cento persone. E poi molta fantasia.>> Il sipario si chiuse definitivamente per lei il 9 aprile 1995. Sul prato dell’ospizio, in quella giornata piena di sole, ci fu una danza policroma di farfalle e di petali.
Daniela Musini-Tratto dal mio libro Le Magnifiche-33 donne che hanno fatto la storia d’Italia (Piemme) Ps: Sereno e luminoso 2023 a tutti Voi
Niente di noi saprebbe morire; ferma le tue braccia
Sulla stanza che plana e dove l’orbe immobile
Concentra l’infinito dei cieli a cui non arriviamo.
Donandomi a te con tutta la mia tristezza
T’avrei dunque piegata alla mia gola, o gioia?
Sono un raggio spezzato di qualche stella in disgrazia
Per sentir scorrere queste lacrime nel mio cuore?
Come m’appari luminosa e profana,
Con la tua chioma in cui la mia bocca ha rotolato.
Golfo del ricordo dove fanno rotta le tartane,
In un odore di miele e uva pigiata!
Ah! dovrei inghiottir la mia forza e sparire
In quest’onda sulla quale il mio bacio s’è sospeso,
Leccherò la traccia dove s’imprime il tuo essere,
Per sentirti pesare sul mio petto disteso.
Avrò goduto di te fino a sentire il mio sogno
Esplodere sotto la mia tempia. Ad ogni battito,
Proiettata al di là delle stagioni sollevatesi,
Vedevo la nostra anima con la sua ala sospesa.
Ma più batteva la sera, più credevo di sentire,
In un caos di fiori, musica e incenso,
Le nostre fronti rompere quest’ombra dove caliamo,
E questo pianto che si sarebbe allargato per sempre.
Stringiamoci! il tempo ha bisogno di nutrimento.
In lui nel gettare i nostri corpi, possiamo contemplarci
Un alone formidabile intorno a un’ossatura,
E il cielo su di noi che sembra averci oltrepassato.
MERCATO ARABO
Il gran odore familiare dalle ali di zafferano,
Diavolo giallo arrotolato nella sua corona d’aglio,
Di pimenti e cipolle. Cabili e bestiame
Che scalpicciano sotto il cielo tra lo sterco.
Frutti delle ravine che salgono in piramidi d’oro,
Imbrattando di cielo le botteghe spelate,
Ammasso bianco d’un arabo che dorme
Accanto ad angurie sgozzate.
E sempre a dominare il mezzodì dalla sua voce bruna,
Aratore del sole, discepolo delle cicogne,
Il muezzin canta.
Mendicanti e vecchi mostrano la loro faccia orba;
La moresca s’aggira più lenta.
Solo, vestito di pimenti e zeppo d’aromi,
Il mercato si solleva.
Bucce d’oro si muovono negli scoli,
L’uomo del caffè moro ha fischiato alle sue greggi,
L’odore vivente sale. E, curvo sul suo sogno,
L’uomo schiaccia una rosa e pidocchi sulla sua pelle.
IL MUEZZIN
Il silenzio ha domato la terra;
Plana la città;
La moschea ha ripreso la sua postura di sultana:
Dormicchia tra le pietre.
È aurora?
La notte ha strappato il suo scamiciato di stelle;
Fiocchi di chiarezza nevicano sul Bosforo.
Un blu sordo ha lambito le feluche; le vele
Tirano su gli ormeggi;
In uno sciabordio di perle,
E in tono minore, con le gutturali
Rose, il canto s’infrange,
Brillo d’eternità.
Splendido e scialbo,
Indossando il suo bianco mantello come una zimarra,
Canta il muezzin. La città
È un vascello morto che beccheggia verso la luce;
E riecco unico l’istante ove i terrazzi,
Scrollando la rugiada, slacciano con lentezza
La loro veste di preghiera.
SIDI-BOU MÉDINE
Uccello sfracellato di cui lo scheletro danza
Tra due cordoni
Di case morte.
Villaggio di lebbrosi, famelico di silenzio,
Dove le piaghe,
Come una zimarra,
Ricoprono le porte,
Facendo colare il cielo sul ventre delle giare,
Mettendo a crudo su canestri di pietre
Cocci di sole e brandelli di rose.
Golfo della miseria
Dove la moschea si poggia,
Dove la bellezza, come un leone riposa,
Dove lo spazio,
A dispetto del tempo e del silenzio,
Fonde,
Alla cima dei piedritti che i secoli oltrepassano,
Le ali del nulla…
LA MORTE PUÒ SOPRAFFARMI
La morte può sopraffarmi, ho teso già avanti
Le mie ali per la partenza. Sono sicura
Di trovare lassù la casa che mi è dovuta,
Dovrei affondare in più solitudine.
La mia soddisfazione sarà stare al tuo tavolo,
Dolore che unisce il ricco e il bisognoso;
Porterò nella mia sacca un po’ di sabbia,
E riaccenderemo il fuoco di San Giovanni.
Che cosa vuoi, Signore, che non puoi più dormire,
Ti ho pregato di venire a farmi visita,
Ed ecco che le mie notti ricominciano a fiorire
Con la grazia dell’angelo e della clematide.
BATTITO D’ALI
Sere d’estate così dolci, velate d’azzurre increspature,
Dove il cuore viene a morire in un battito d’ali,
Fanno gli alberi leggeri come dorati capelli
Sui quali, sognando, fluttuerebbero merletti.
Il lago ha rivestito i suoi toni di chiaroscuri
E riflette nell’acqua, dal ciel, l’unica stella…
Guardiamoci, vuoi, in fondo ai nostri occhi
Così che il nostro amore rialzi il suo velo candido.
Ah! Lasciamoci cullare dal fato divino…
Che gioia amarsi nel cuore stesso delle cose,
Gettare alla vita un dolce e lungo sguardo,
Gettare alla vita, a mani piene, delle rose.
DEMONE DELL’EQUATORE
Demone dell’equatore incatenato nelle stive,
Per secoli d’ombra e passività,
Ho balzato verso i tuoi occhi con la voluttà
D’un marinaio senza luce che ritrova la sua rotta.
Sciolgo dunque quel ciel che mi divora i polsi,
D’un sol colpo, faccio saltare quelle cinghie di tela,
La mia pelle deve sentir le alghe e gli embrioni delle stelle,
Sdraiarmi sotto il cielo dentro cui ti bagni.
Origlia! la notte salta attraverso i cavi,
Si muove il mio corpo e ti chiama, i garretti tesi,
Umidi di profumi, dimoriamo a mezz’aria,
Tutto l’oceano contro la tempia, in pieno miraggio.
IL MIO LETTO È CALDO COME UNA ROSA
Entra. Il mio letto è caldo come una rosa.
L’ombra ha calato gli occhi; un odore di moschea
Si sparge tra i miei seni. Ho rimesso tutte le cose
Al loro posto effimero e, avendole mascherate,
Avendo loro, goccia a goccia, infuso il nostro sangue,
Avendole fatte inchinare, chiedere grazia
E astenersi da ogni giuramento, ho messo la mia faccia
Contro la sera, ho staccato ciò che discende
Dall’ora, ed eccomi. Che la stanza abbia un cuore
E batta. Quanto a noi, consumeremo il cielo
Con un ritmo uguale, un po’ soprannaturale,
Come conviene a due amanti agghindati di lacrime.
Entra, ho preparato la notte come una culla.
La cicogna, mia sorella, è in piedi alla porta;
La voluttà respira e i nostri corpi sono così belli
Che sembra entrare in una città morta.
All’immobilità, uniamo il grido selvaggio
Di bestie che stanno figliando. Affrettiamoci, affrettiamoci
Ad afferrare quello che passa! E, gettando sul mio strato
La tua criniera di lupo,
La tua maschera di soldato e il mio mantello di fata,
Siamo quelli che se ne ritornano, non avendo altro
Che un otre di sole e dei clamori di cane,
E che salutano la morte dal blu della loro spada.
L’OASI
È un giardino del Sud dalle fioriture giganti.
Lembi di sole, strappati dal vento,
Sanguinano tra la sabbia, e c’è un battito
Di foglie e d’acqua chiara, una canzone demente,
Chiamata degli altopiani che la primavera porta
E che irrompe in acquazzoni e ricade in bouquet.
Gli alberi hanno teso le loro braccia, la terra grida,
Un miagolio blu s’esaspera e tace,
Poi di colpo riprende con note sorde.
Un cielo zeppo di sabbia accoglie l’orizzonte,
Un silenzio sfrenato s’addensa in gocce pesanti,
E, proclamando il suo risveglio,
L’oasi canta, attraverso i tramezzi
Del sole.
EFFETTO DI LUNA
Gli uccelli hanno taciuto per molto tempo; la strada
Che conduce al cimitero è piena di grilli;
Un silenzio infinito aleggia sopra i campi
E sembra che la campagna stia origliando.
La casa si tira addosso un gran lembo di luna,
Azzurra è la notte; al largo, una canzone: il mare!
E sempre, e sempre, a dominar il mio rancore,
Questo grido disperato del mio cuor per la tua carne!
Articolo e traduzione di Emilio Capaccio–Jeanne Dortzal(Nemours, distretto di Tlemcen, Algeria, 24 gennaio 1878 – Parigi, 1943) è stata un’attrice teatrale, drammaturga e poetessa algerina di lingua francese.
Dotata di grande bellezza, lasciò, ancora adolescente, l’Algeria con la madre, che si era separata dal marito, e grazie all’amicizia del poeta Pierre Guédy, con il quale più tardi ebbe un figlio, intraprese la carriera di attrice di teatro.
Pierre Guédy, che era anche amico stretto del critico teatrale e scrittore Paul Léautaud, fu uno dei primi, insieme al poeta Jean Lorrain, allo scrittore Victor Margueritte e alla stessa Jeanne Dortzal, a partecipare all’esordio del fotoromanzo letterario francese, dalle tinte blandamente erotiche, rivolto a un giovane pubblico femminile, e curato dall’editore Nilsson.
Gli esordi della Dortzal avvennero nel vaudeville con l’opera: “Le Faubourg” di Abel Hermant, poi l’attrice passò al Teatro dell’Odéon di Parigi, recintando in ruoli classici e al Teatro Francese di Anversa. In questi anni conobbe un apprezzabile successo, tanto da essere raffigurata anche su alcuni francobolli degli inizi del ‘900.
Intorno al 1910 lasciò l’attività teatrale per dedicarsi completamente alla scrittura: scrisse pezzi teatrali, alcuni racconti, ma soprattutto raccolte poetiche, tra le quali ricordiamo: Vers sur le Sable(1901); Vers l’Infini (1904); Le Jardin des Dieux (1908); Les Versets du Soleil (1921); La Croix de Sable (1927); Le Credo sur la Montagne (1934).
Morì nel 1943 distrutta dal dolore per la perdita prematura di quell’unico figlio, Pierre, avuto da Pierre Guédy.
Civita Castellana (Vt). Tesori sotto gli alberi e i prati. Recuperato il tempio di Giunone a Falerii
Il Comune di Civita Castellana, la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale, la direzione regionale Musei Lazio e il dipartimento di scienze dell’antichità della Sapienza – Università di Roma hanno, infatti, ancora una volta unito le proprie forze per affrontare un nuovo percorso di ricerca e disseminazione della città antica.Le ricerche archeologiche sull’antica città preromana di Falerii, che hanno conosciuto una forte ripresa nel corso degli ultimi anni, si sono intensificate nel corso di questo inizio 2023, grazie alla stretta collaborazione tra tutti gli enti operanti sul territorio. Sono loro, infatti, il vero motore di questa nuova stagione di indagini avviata ormai dal 2020. Civita Castellana è un comune di circa 15.000 abitanti della provincia di Viterbo, nel Lazio. È sorta sulle rovine di Falerii Veteres città dei falisci di epoca arcaica. I Falisci erano una popolazione che parlava una lingua simile al latino, ma in Etruria. L’influenza etrusca sulla civiltà falisca è dunque fondamentale. Chiaro esempio è la scrittura della lingua falisca, di origine proto-Latina con influenza etrusca.
“L’attenzione in questa prima parte del 2023 è stata posta su un’altra area di grande rilevanza della città preromana: il santuario in località Celle, tradizionalmente riconosciuto come dedicato a Giunone Curite. – afferma il Comune di Civita Castellana – Indagato per la prima volta alla fine dell’‘800, il suo rinvenimento causò subito grande scalpore per la monumentalità e perché, di fatto, venne riconosciuto come il primo esempio di tempio etrusco-italico a essere riportato alla luce durante l’avventurosa stagione di ricerche che caratterizzò gli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia”.
su un enorme basamento di 1400 mq, venne studiato a più riprese negli anni ’30 e poi negli anni ’70 del secolo scorso. I reperti rinvenuti, oggi in parte esposti presso il museo nazionale Etrusco di Villa Giulia e in parte presso il museo archeologico dell’Agro Falisco a Civita Castellana e pertinenti sia alla decorazione dell’edificio sia alla stipe votiva, attestano una frequentazione dell’area dal VI sec. a.C. alla prima età imperiale. Stando all’interpretazione generalmente accettata, nell’area si deve riconoscere il luogo di culto da cui prendeva le mosse la processione annuale in onore di Giunone, di cui ci dà conto il poeta latino Ovidio in una delle sue odi.
“Un monumento di tale rilevanza aveva necessità di essere nuovamente portato alla luce, di essere pienamente valorizzato e reso di nuovo fruibile dal pubblico. A tale scopo, attraverso la sinergia tra istituzioni, è stato possibile avviare dal mese di marzo scorso un’opera di ripulitura dell’area dalla vegetazione infestante. – affermano i vertici del Comune di Civita Castellana – Parte integrante del percorso di ricerca e divulgazione è anche il PCTO con l’istituto di istruzione superiore Ulderico Midossi di Civita Castellana, realizzato con l’équipe del progetto Falerii del dipartimento di scienze dell’antichità della Sapienza – Università di Roma, al fine di realizzare un percorso espositivo che verrà inaugurato presso il museo dell’Agro Falisco al Forte Sangallo nella seconda metà del prossimo mese di maggio e in cui sarà possibile, per la prima volta, toccare con mano la monumentalità del tempio che si ergeva in località Celle. Queste sono però solo alcune delle attività condotte in questi primi mesi del 2023 per favorire la riscoperta dell’antica Falerii. Consci dell’importanza di rivolgersi al pubblico dei più piccoli, si è infatti ideato il progetto pilota “Venite con noi al museo?”, che ha visto l’adesione di quasi 350 bambini delle scuole primarie di Civita Castellana. I piccoli studenti hanno potuto trascorrere una mattinata in compagnia degli archeologi del progetto Falerii, scoprendo il museo archeologico dell’Agro Falisco e le modalità con cui vengono trattati i reperti rinvenuti in uno scavo archeologico. Tutto ciò in attesa ovviamente della ripresa degli scavi sul colle di Vignale, prevista per il prossimo mese di giugno”.
Roma- al Teatro Cometa Off va in scena CHILOMETRO_42
spettacolo scritto da Giovanni Bonacci e diretto e interpretato da Angela Ciaburri
Approda a Roma, al Teatro Cometa Off, dal 27 al 29 marzo, CHILOMETRO_42, spettacolo scritto da Giovanni Bonacci e diretto e interpretato da Angela Ciaburri, molto attiva non solo in teatro (CARROZZERIA ORFEO, TEATRO STABILE DI GENOVA), ma anche al cinema e in tv (tra gli ultimi lavori GOMORRA LA SERIE, YARA di Marco Tullio Giordana, GIRASOLI di CATRINEL MARLON, NOI e RESTA CON ME per Rai1 e altri progetti in uscita).
In “Chilometro 42” vengono raccontate le tappe fondamentali della vita di Kathrine Switzer, la prima donna nella storia ad aver corso una maratona ufficiale. La pièce è accompagnata dalla musica dal vivo di MUNENDO che, coniugando strumenti elettronici a quelli classici, sonorità degli anni ‘60 a possibilità ultra contemporanee, crea una colonna sonora in continuo dialogo con l’attrice. La storia di questo personaggio, che ha segnato profondamente il mondo dello sport e il rapporto di quest’ultimo con la società civile, avvia una riflessione in parole e musica su temi centrali quali l’inclusione, il riconoscimento e la parità dei diritti. La corsa, già̀ di per sé, contiene una serie di metafore che vale la pena raccontare: “corsa” come viaggio, misura di se stessi, avvicinamento al trascendentale. Nello spettacolo, infatti, si corre: partiture fisiche, che declinano, in tanti modi diversi, questo sport nei suoi aspetti più̀ tecnici e spettacolari. Ma, attraverso questo personaggio, che ha segnato profondamente il mondo dello sport ed il suo rapporto con la società̀ civile, l’obiettivo è quello di interrogarsi su temi ancora scottanti.. La corsa, più̀ che oggetto della messa in scena, diventa allegoria: la ricerca della propria identità̀ passando attraverso crepe, crisi e rotture. La pièce è strutturata lungo tre piani narrativi, nei quali si avvicendano diversi personaggi, interpretati dalla stessa attrice: Kathrine, la narratrice, e altri, coprotagonisti di una biografia romanzata, che fa del passaggio da registri brillanti a registri drammatici il suo punto di forza.
CHILOMETRO_42 nasce dalle connessioni create dal progetto SUPERFICIE di Matteo Santilli, e proseguirà la sua tournée al Festival Strabismi-Sezione Primavera il 29 maggio e dal 3 al 9 giugno al Fringe Festival di Milano. Il testo è stato finalista al premio Hystrio scritture di scena nel 2022.
ANGELA CIABURRI
Origini campane (1988), vive a Roma. Attrice, in «Chilometro_42» anche regista, molto attiva non solo in teatro (CARROZZERIA ORFEO, TEATRO STABILE DI GENOVA, TEATRO QUIRINO), ma anche al cinema e in tv (tra gli ultimi lavori GOMORRA LA SERIE, YARA di Marco Tullio Giordana, NOI per Rai1 e altri progetti in uscita nel 2024..
MUNENDO ( Armando Valletta )
Romano, inizia a studiare musica all’età di 5 anni. Nel 2007 compone i primi brani e si diploma in programmazione MIDI e fonia al Saint Louis College of Music. Si esibisce in vari locali della capitale in band, in duo e come one man band, avvalendosi di una loopstation. Anche cantautore, pubblica diversi singoli tra cui “Zanzare”, distribuito da Artist First. Dal 2021 collabora con Superficie
GIOVANNI BONACCI
Nato a Roma nel 1987, si avvicina al teatro come attore, ma poi si appassiona anche alla scrittura e gli viene, da subito, riconosciuto un grande talento come autore. Infatti, da diversi anni, contestualmente alle sue attività nell’ambito della recitazione (spettacoli, monologhi scritti e recitati, da lui stesso, progetti con le scuole) viene ingaggiato come dramaturg.
PROGETTO SUPERFICIE
CHILOMETRO_42 nasce dalle connessioni create da SUPERFICIE di Matteo Santilli. Un progetto che si focalizza sul mestiere dell’attore tramite interviste, serate di performance teatrali e produzione di spettacoli.
Il progetto SUPERFICIE pone il focus su tutti quei professionisti dello spettacolo che si distinguono per la qualità del loro lavoro all’interno di una sorta di “fascia di mezzo”, posizionata subito sotto il mondo delle STAR, ma decisamente al di sopra del mondo degli emergenti; : chiunque viva il proprio mestiere indipendentemente dall’essere un “nome”.
PROGETTO SUPERFICIE
presenta
CHILOMETRO _42
scritto da Giovanni Bonacci
diretto e interpretato da Angela Ciaburri
musica dal vivo di Munendo
in collaborazione con SUPERFICIE
DAL 27 AL 29 MARZO ORE 21
TEATRO COMETA OFF-ROMA
Da Mercoledì 27 a Venerdì 29 Marzo 2024 alle ore 21.00
ROMA-L’urlo dell’africanita’ al Teatro di Villa Lazzaroni-
Roma-Secondo appuntamento della Rassegna MARTEDI’ MUSICA al Teatro di Villa Lazzaroni il 19 marzo alle ore 20,30 con L’URLO DELL’AFRICANITA’ di e con Lisa Manara e Aldo Betto.
Un itinerario di viaggio che attracca alle banchine di svariati Paesi, inondati dalle musiche viscerali che parlano la lingua e la cultura della gente che li vive. Dal jazz del Sudafrica, ci si avvia alla scoperta delle morne capoverdiane, si balla sopra i ritmi ipnotici nordafricani e si arriva poi a sondare il terreno del groviglio delle influenze della musica afroamericana, sempre sfruttando la forma canzone, che nei concerti viene portata ad una dimensione più istintiva e libera. Un canovaccio musicale che si appella alle grandi voci di Miriam Makeba, Nina Simone, Cesaria Evora, Fatoumata Diawara, Abbey Lincoln rievocate dalla splendida ed espressiva voce di Lisa Manara, accompagnata da musicisti del calibro di: Aldo Betto, Federico Squassabia, Paolo Rubboli e Fabio Mazzini. Il concerto può essere in Duo (voce e chitarra), Trio (voce, tastiere/basso sinth e batteria) o Quartet (voce, chitarra, batteria e tastiere/basso).
Dalla partecipazione a The Voice a vocalist di Gianni Morandi nel Tour D’Amore D’Autore per due stagioni, per arrivare ad aprire il concerto di Fabio Concato. Suona pianoforte e chitarra e nel suo curriculum tantissimi concerti e collaborazioni con artisti importanti: Quintorigo, Tommy Emmanuel, Eric Sardinas, Diunna Greenleaf…
Nel 2011 partecipa al Talent: “The Voice” of Italy, nella squadra di Riccardo Cocciante e sempre nel 2011 vince il concorso “Donne Jazz & Blues”, che le permette di partecipare ad un workshop sulla voce presso la Venice Voice Academy di Los Angeles.
Nel 2018 viene scelta per il ruolo di vocalist nel Tour di Gianni Morandi “D’Amore D’Autore”.
Dopo la data zero di Jesolo (VE), per due stagioni, insieme all’Eterno Ragazzo, ha calcato il palco dei più importanti palazzetti e teatri d’Italia, cantando tra l’altro all’Arena di Verona e al Teatro Antico di Taormina.
Prossimi appuntamenti:
– martedì 9 aprile Tutta Colpa di James Dean di e con Forlenzo
– martedì 16 aprile Portrait of Ennio. The Jazz side of Ennio Morricone di e con Patrizio Destriere Quartet
L’URLO DELL’AFRICANITA’
Lisa Manara
con Aldo Betto
ROMA al Teatro Ambra Jovinelli va in scena “Iliade – il gioco degli dei”-
Dal 13 sino al 24 marzo, al Teatro Ambra Jovinelli, Alessio Boni insieme agli storici compagni di avventure teatrali Roberto Aldorasi, Francesco Niccolini e Marcello Prayer, firma dopo I Duellanti e Don Chisciotte, la drammaturgia di Iliade – il gioco degli dei, per specchiarsi nei miti più antichi della poesia occidentale e nella guerra di tutte le guerre. Interpreti della piéce saranno Alessio Boni, Iaia Forte, Haroun Fall, Jun Ichikawa, Francesco Meoni, Elena Nico, Marcello Prayer ed Elena Vanni.
Iliade canta di un mondo in cui l’etica del successo non lascia spazio alla giustizia e gli uomini non decidono nulla, ma sono agiti dagli dèi in una lunga e terribile guerra senza vincitori né vinti. La coscienza e la scelta non sono ancora cose che riguardano gli umani: la civiltà dovrà attendere l’età della Tragedia per conoscere la responsabilità personale e tutto il peso della libertà da quegli dèi che sono causa di tutto ma non hanno colpa di nulla.
In quel mondo arcaico dominato dalla forza, dal Fato ineluttabile e da dèi capricciosi non è difficile specchiarci e riconoscere il nostro: le nostre vite dominate dalla paura, dal desiderio di ricchezza, dall’ossessione del nemico, dai giochi di potere e da tutte le forze distruttive che ci sprofondano nell’irrazionale e rendono possibile la guerra. Ci sono tutti i semi del tramonto del nostro Occidente in Iliade che, come accade con la grande poesia, contiene anche il suo opposto: la responsabilità e la libertà di scegliere e di dire no all’orrore.
A dieci anni dalla nascita, dopo I Duellanti e Don Chisciotte, il Quadrivio, formato da Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer, riscrive e mette in scena l’Iliade per specchiarsi nei miti più antichi della poesia occidentale e nella guerra di tutte le guerre.
Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer
Spettacolo realizzato in occasione di Bergamo Brescia Capitale Italiana della Cultura 2023
Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo
in coproduzione con
Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo – Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
presentano
ALESSIO BONI IAIA FORTE
in
I L I A D E
“IL GIOCO DEGLI DEI”
UNO SPETTACOLO DEL QUADRIVIO
testo di FRANCESCO NICCOLINI
liberamente ispirato all’Iliade di Omero
drammaturgia di Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Francesco Niccolini e Marcello Prayer
con (in o.a.)
HAROUN FALL – JUN ICHIKAWA – FRANCESCO MEONI
ELENA NICO – MARCELLO PRAYER – ELENA VANNI
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
disegno luci Davide Scognamiglio
musiche Francesco Forni
creature e oggetti di scena
Alberto Favretto – Marta Montevecchi – Raquel Silva
Orario:
dal martedì al sabato ore 21:00
venerdì 15, mercoledì 20 e giovedì 21 marzo ore 19:30
domenica ore 17:00
Contatti:
Botteghino 06 83082620 – 06 83082884
Giugno dal lunedì al sabato ore 10.00-19.00
Luglio: dal lunedì al venerdì ore 10.00 – 19.00
Dal 5 agosto al 3 settembre compresi chiuso.
Dal 4 settembre fino ad inizio spettacoli: dal lunedì al sabato ore 10.00-19.00
Orario invernale: dal martedì al sabato ore 10.00 – 19.00 e la domenica ore 14.00-16.00 – lunedì chiuso
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