FIANELLO SABINO(RIETI): SCRIGNO DI STORIA, LEGGENDA, ARTE E CULTURA-
Comitato Salviamo Fianello
BREVI CENNI STORICI-Comitato Salviamo Fianello–Nell’Abbazia di Farfa è custodito un documento dal quale risulta che nel 1036 d. C. il Castello di Fianello fu “ceduto” all’Abbazia da un certo Berlengario con le quote della moglie Bizanna e delle figlie Susanna ed Erlengarda. Da qui sono scattate, ad opera dell’Associazione Fianello, le ricerche storiche, dalle quali è risultato che, nel Medioevo, Fianello è stato possedimento del Ducato longobardo di Spoleto (591-800 d. C.), poi dei Savelli e, nel Rinascimento, degli Orsini.
Nell’antichità la regione fu abitata dai Sabini e definitivamente sottomessa a Roma nel 290 a. C. . Dopo Costantino fu annessa alle provincie di Tuscia ed Umbria. Dal 591 d. C. l’intera Sabina fu controllata stabilmente dai Longobardi del ducato di Spoleto. Le prime incursioni dei Saraceni in Sabina si ebbero nell’877, cui seguirono quelle degli Ungari finchè, all’inizio dell’anno 1000 incominciò, per motivi di difesa, il fenomeno dell’incastellamento quando i borghi si insediano sulle cime più elevate, intorno ad un castello e ad una chiesa, e tutto il territorio circostante viene quasi a far da corona a quelle alture fortificate e piene di vita.
Prima di giungere al paese si trova sulla destra il cimitero, addossato alle rovine della chiesa romanica di S. Maria. Nel 1950, eseguendosi lavori per l’apertura di una strada di accesso, si scoprì una fossa entro cui, gettate alla rinfusa, c’erano numerose sculture. Erano tutte incrostate di calce, per cui l’ipotesi più probabile è che, al tempo della costruzione della chiesa, il materiale marmoreo della villa antico-romana sia stato adoperato per fare calce.
Di queste statue, attualmente conservate a Roma, se ne sono interessati alcuni autori: Andreae Bernard “Statuette einer Tanzerin ans Fianello Sabino” (Mainz 1962); D. Faccenna “Rinvenimento di un gruppo di sculture” in Fianello Fraz. di Montebuono (1951).
Nel 1997, la studiosa tedesca Christiane Vorster, ha tenuto una conferenza su tali statue datandole intorno al 100 a. C.
Sul retro della chiesa di S. Maria, ancora esiste la ghiera di uno speco dell’acquedotto antico romano che adduce tutt’ora acqua “saluberrima” da una sorgente lontana circa mezzo chilometro.
La formazione del borgo di Fianello risale al periodo medioevale. Le fortificazioni erano surrogate da una cintura di case addossate le une alle altre; gli abitanti delle quali andavano a costituire l’anello più estremo dell’organizzazione sociale del borgo. E’ evidente l’estrema aderenza dell’abitato alla situazione geomorfologica del terreno: struttura anulare, pseudoconcentrica, il cui margine era abitato dai soggetti più umili e le cui fasce più interne dai cittadini via via più vicini ai gentili. Il borgo è arroccato su un colle di media altezza, un centinaio di metri rispetto al fondovalle.
La struttura urbanistica, chiusa da due porte, non presenta le smagliature assai frequenti negli abitati medievali italiani dove, man mano che la popolazione aumentava, si occupavano anche i versanti dei colli.
Fianello, secondo il Tomassetti, -“delizioso castello posto in una valle con fecondo territorio e buoni fabbricati”- possedeva un monte dei pegni ed un monte frumentario ed una Fondazione per l’Ospedale, la cui attività consisteva nel distribuire pane a tutte le famiglie il giorno del sabato santo. Questa enorme quantità di pane veniva cotta nel Forno Monumentale, ancora esistente e funzionante.
La chiesa di S. Giovanni Battista, difronte al Palazzo, è stata edificata su altra preesistente d’impianto tardo romanico. All’interno vi sono quadri restaurati dalle Belle Arti ed una statua lignea della Madonna del 1600.
Il Palazzo sorge su un lato della piazza, che è l’unico slargo topograficamente definito in tutto il piccolo abitato. Una piazza che, malgrado le sue ristrettissime dimensioni (è larga appena una decina di metri), riassume in sè tutti i simboli cardine della gerarchia medievale. Infatti è presente sul lato opposto la chiesa, ricostruita nel 1571 e la Torre medievale longobarda, che prima era forse isolata ed aveva funzioni difensive e cultuali, raro esemplare di torre pentagonale con volta a vela (sec. VI°-VII° d. C.).
Il primo nucleo del palazzo è databile tra l’XI e XII secolo, mentre la rimanente parte, unita alla prima mediante un sovrappasso, è databile intorno alla fine del 1500, come si evince anche dal portale che è chiaramente rinascimentale, tuttora in ottimo stato di conservazione.
Gli scantinati, voltati a botte o a crociera, presentano ancora i segni della loro primitiva utilizzazione: depositi di olio e vino, che venivano lavorati negli stessi ambienti (buche scavate nel terreno e rivestite di laterizi).
Fianello possedeva alcuni frantoi ove si produceva l’olio con macine in pietra mosse dall’asino (ne restano due).
L’atto di cessione di Fianello all’abbazia di Farfa fu formalizzato nel 1036 ed è conservato negli archivi dell’Abbazia, ove risultò registrato per pochi anni. Poi, Fianello riappare nella documentazione nel 1191 soggetto al Papato, cui versava un censo annuo. Ma il cattivo governo dei rettori pontifici portò vari paesi della Sabina alla ribellione (Fianello 1352, Rieti 1375): i territori ribelli furono messi al sacco.
TERZO APPUNTAMENTO NELLA RASSEGNA AUTUNNALE DEL TEATRO
POTLACH CON UNO SPETTACOLO SU DON LORENZO MILANI
Fara in Sabina (RIETI)-
Fara in Sabina-Il 19 novembre alle ore 17.00 ospite al Teatro Potlach di Fara in Sabina, vi aspetta uno spettacolo coinvolgente in cui la sottile linea tra pubblico e scena teatrale tenderà a svanire sotto i vostri
occhi.
Uno spettacolo coraggioso, anticonvenzionale, con la voglia di creare un luogo di incontro.
In onore del centenario dalla nascita di Don Lorenzo Milani la compagnia Chille de la balanza porta in scena uno spettacolo collettivo dal titolo “I CARE. Lettera ad una professoressa”, sotto la guida di Claudio Ascoli.
Una storia trascinante, che abbatte la quarta parete con parole, oggetti ed eventi liberamente scelti dal pubblico. Lo spettacolo è un tutt’uno di quattro scritture collettive, elaborate attraverso la partecipazione attiva degli spettatori, che daranno vita alla scenografia, ai suoni, alle luci e a disegni dal vivo, insieme, seguendo il verbo dell’Imparar facendo, proprio come fece don Miliani quando scrisse la Lettera ad una professoressa con ai suoi allievi.
Un sacerdote percorre uno stretto sentiero tra gli alberi, la sua tunica picchiettata da ispide gocce di pioggia autunnale. Il sacerdote, conosciuto dalla Chiesa fiorentina come la campana stonata,
cammina sul sentiero verso Barbiana, la città dov’è stato appena trasferito.
È il 7 dicembre 1952 e il sacerdote Don Lorenzo Milani arriva a Barbiana dove qualche anno dopo scriverà con gli allievi della sua scuola: “Lettera ad una professoressa”.
Una polemica verso l’istruzione italiana. Con l’intento di dimostrare come: “Una scuola che seleziona distrugge la cultura”. Uno scritto nato da una scrittura collettiva.
Se vi sentite pronti a levare le mani dalle tasche e ad agire raggiungeteci al Teatro Potlach di Fara Sabina, per partecipare al terzo appuntamento della rassegna: Autunno a Teatro.
Vi aspettiamo con un biglietto al prezzo speciale di 5 euro.
Per info e prenotazioni si può scrivere per sms o WhatsApp al numero del Teatro Potlach: 3517954176.
Noi che siam stati partigiani propone tre storie, una al femminile e due al maschile, tutte romagnole, e ambientate a non molta distanza o nei pressi della linea Gotica che fu, come è noto, l’ultimo baluardo tedesco e “repubblichino” contro le armate alleate che risalivano da sud per dilagare nella pianura Padana, e vide un’intensa attività partigiana con terribili orrori, stragi ed eccidi perpetrati dai nazifascisti. Raccontate, alternando la prima o la terza persona, le storie incrociano la grande storia dove trovano un posto degno. Ma eccone i protagonisti. Mario Bonazza, classe 1928, nome di battaglia Calipso, partigiano ravennate, di Marina di Ravenna per l’esattezza, combattente col leggendario comandante Bulow, Arrigo Boldrini, 28ª brigata Garibaldi. Sergio Giammarchi, forlivese, sale in montagna con Adriano Casadei per unirsi alla banda di Silvio Corbar. Nara Lotti, staffetta partigiana di Santa Sofia, si schiera, sull’esempio dei fratelli combattenti nella Resistenza, contro la prepotenza criminale dei nazifascisti: durissime ma letterariamente bellissime l’infanzia e la giovinezza di questa donna che non piegò mai la testa. (Dalla prefazione di Gianfranco Miro Gori)
Edizioni del Loggione srl
Via Piave, 60 – 41121 – Modena – Italy
I nostri libri sono distribuiti da diversi distributori regionali:
Per l’Emilia Romagna, Marche, Abruzzo: EUROSERVIZI, Via Agucchi 84/12. 40133 Bologna. Tel. 051/3140183 – 333/1222979 – euroservizibologna@gmail.com
Per la Lombardia e il Canton Ticino DISTRIBOOK , Via M.F. Quintiliano 20 – 20138 Milano tel. +39-02.58.01.23.29 – fax +39-02.58.01.23.39 distribook@gmail.com
Per il Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta BOOK SERVICE , Via Bardonecchia 174/D – 10141 Torino tel. +39 011 772436-7724391 – fax +39 011 7724495 bookservice@tin.it
Per il Veneto – Friuli Venezia Giulia – Trentino Alto Adige Cierrevecchi srl – Distribuzioni Editoriali Via V.S. Breda 26/C 35010 Limena (PD) Tel 049 8840299 info@cierrevecchi.it
Per il Lazio – Abruzzo – Umbria – Sicilia MEDIALIBRI DIFFUSIONE SRL Via Baldo degli Ubaldi 144, 00167 ROMA. Tel. 06 6627304. Fax 06 6627690. E-mail: medialibri@tiscalinet.it.
Per la Toscana e il resto d’Italia Libro Co. Italia Via Borromeo, 48 50026 San Casciano in Val di pesa (FI) Tel. 055-8228461 fax 055-8228462 WWW.libroco.it
Napoli e il cinema di Elvira Notari-Edizione italiana a cura di Maria Nadotti.
Quodlibet Editore-Macerata-Roma
Il Libro
Una grande città, Napoli – con le sue strade, le sue vedute, il suo universo iconografico, la sua vocazione filmica – guardata a distanza di anni attraverso gli occhi di due donne. Elvira Coda Notari (1875-1946), la prima e più prolifica cineasta italiana, tra il 1906 e il 1930 realizza più di sessanta lungometraggi, un centinaio di corti di «attualità» e numerosi brevi documentari commissionati da emigrati napoletani trasferiti in America, finché la censura fascista e la transizione al sonoro costringono la sua casa di produzione, la Dora Film, a cessare le attività. Giuliana Bruno, napoletana, si trasferisce a New York negli anni Ottanta e lì inizia a ricostruire un momento particolare della storia della sua città di origine; quello in cui, insieme al cinema, nasceva la modernità, con i suoi innovativi linguaggi di movimento, i nuovi mezzi di trasporto, le gallerie o passages e le altre trasformazioni tecnologiche e urbanistiche che rivoluzionarono le modalità della percezione tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. A partire da frammenti filmici, fotogrammi, copioni e scritti emersi da una lunga ricerca d’archivio condotta in Italia e negli Stati Uniti tra quanto è rimasto a documentare la pionieristica opera di Elvira Notari e della Dora Film, Rovine con vista fa propria la visione del mondo di una regista dimenticata, che con la sua cinepresa ha cercato di catturare la città e le sue forme di vita «dal vero». Ne deriva una ricognizione trasversale che coinvolge il cinema e la fotografia, la letteratura e la storia dell’arte, la cultura popolare, i palcoscenici, le riviste, l’architettura e la storia della medicina.
«Un bellissimo libro… Rovine con vista può essere letto come racconto di un viaggio. Ci si mette in movimento e si seguono due piste: una, rigorosa e preziosissima, è la accurata ricostruzione analitica del cinema di Elvira Notari. L’altra, appena dissimulata da un filtro critico “alto” ma non impervio, è la tensione personale della donna che ha scritto il libro. Parlando da regista, è come se adesso esistesse un testo che potrebbe persino invitarmi alla trasposizione cinematografica, cioè a un impossibile remake, di un film che di fatto nessuno può più vedere. Oltre che per il suo impegno critico, è di questa tensione creativa e vitale che sono grato a Giuliana».— Mario Martone
Indice
Premessa all’edizione italiana
Ringraziamenti
Introduzione. Coordinate di una ricerca
Parte prima. Elvira Coda Notari e il cinema napoletano: panorama storico
1. Problemi di storia e di cinema nella cultura italiana
2. Riviste di cinema e storiografia filmica
Parte seconda. Cinema su sfondo urbano: topoanalisi della spettatorialità
3. Passeggiando attorno alla caverna di Platone, ovvero l’inconscio ha trovato casa
4. Incorporamenti spettatoriali: anatomie del visibile e corpo-paesaggio femminile
Parte terza. La fabbrica della cultura cinematografica
5. Dora Film: una casa di produzione cittadina
6. Donne al lavoro: la manifattura filmica
7. La Dora Film d’America: donne ed emigranti nel sogno americano
8. Censura: tagliare le ali al desiderio
Parte quarta. Il tessuto metropolitano
9. Frammenti di un discorso analitico: lacune
10. L’architettura del melodramma pubblico: la corporeità della strada
11. Tra festa e legge: la carnevalizzazione del racconto
12. Vedute urbane: città-paesaggio cinematografica, prospettiva artistica e viaggio turistico
Parte quinta. Geografie femminili
13. Anatomia di un’analisi. Il noir d’autore
14. Cinema popolare e letteratura delle donne: il transito del discorso femminile
15. Figure della medicina: isteria e lezione d’anatomia
16. Topografie di oscuri piaceri femminili
17. Scritto sul corpo: erotismo, morte e agiografia
Postfazione. La mappa in rovina, riconnessa
Filmografia
Elenco delle illustrazioni
Indice dei nomi
L’autore Giuliana Bruno
Giuliana Bruno, nata a Napoli, vive a New York. È titolare della cattedra di Visual and Environmental Studies alla Harvard University ed è nota a livello internazionale per la sua ricerca che esplora le intersezioni tra arti visive, architettura e media. Con Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (Bruno Mondadori, 2006; Johan & Levi, 2015) ha introdotto la categoria interpretativa della «geografia emozionale» e ha vinto il Premio Kraszna-Krausz per il miglior libro sulle immagini in movimento. Tra i suoi volumi si ricordano Pubbliche intimità. Architettura e arti visive (Bruno Mondadori, 2009) e Superfici. A proposito di estetica, materialità e media (Johan & Levi, 2016). Il suo ultimo libro è Atmospheres of Projection. Environmentality in Art and Screen Media (University of Chicago Press, 2022). Nel 2020 è stata insignita di un dottorato honoris causa dall’Institute for Doctoral Studies in the Visual Arts.
Quodlibet srl via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi 23 62100 Macerata tel. +39 0733 26 49 65 / fax 0733 26 73 58
Sede di Roma: via di Monte Fiore, 34 00153 Roma tel. +39 06 5803683 / 06 5809672
« Me voilà donc, telle que je suis ! Seule, seule, et pour la vie entière sans doute. Déjà seule ! C’est bien tôt. J’ai franchi, sans m’en croire humiliée, la trentaine ; car ce visage-ci, le mien, ne vaut que par l’expression qui l’anime, et la couleur du regard, et le sourire défiant qui s’y joue — ce que Marinetti appelle ma gaiezza volpina… Renard sans malice, qu’une poule aurait su prendre ! Renard sans convoitise, qui ne se souvient que du piège et de la cage… Renard gai, oui, mais parce que les coins de sa bouche, et de ses yeux, dessinent un sourire involontaire… Renard las d’avoir dansé, captif, au son de la musique…»
Sidonie-Gabrielle Colette – Il vagabondo
“Eccomi qui, proprio come sono! Solo, solo, e per tutta la vita senza dubbio. Già solo! È troppo presto che sono passato, non credendomi umiliato, trent’anni; perché questo volto, il mio, vale solo per l’espressione che lo anima, e il colore dello sguardo, e il sorriso diffidente che ci gioca — quella che Marinetti chiama la mia gaiezza volpina… Volpe senza cattiveria, che una gallina avrebbe potuto prendere! Volpe senza avidità, che ricorda solo la trappola e la gabbia… Volpe gay, sì, ma perché gli angoli della bocca, e gli occhi, disegnano un sorriso involontario… Volpe stanca di ballare, prigioniera, a suon di musica… “
Biografia di Sidonie-Gabrielle Colette
Colette, pseudonimo di Sidonie-Gabrielle Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye, 28 gennaio 1873 – Parigi, 3 agosto 1954), è stata una scrittrice e attrice teatrale francese, considerata fra le maggiori figure della prima metà del XX secolo. Insignita delle più importanti onorificenze accademiche, nonché Grand’Ufficiale della Legion d’onore, fu la prima donna nella storia della Repubblica Francese a ricevere funerali di stato.
Colette è stata una delle grandi protagoniste della sua epoca, un mito nazionale: oltre che scrittrice prolifica, fu attrice di music-hall. Spesso nuda durante le sue esibizioni, autrice e critica teatrale, giornalista e caporedattrice, sceneggiatrice e critica cinematografica, estetista e commerciante di cosmetici, ebbe tre mariti e un’amante, mentre più volte fu al centro di scandali per le sue disinibite relazioni sentimentali con alcune personalità mondane, di ambo i sessi, della società francese.
Pur disprezzando le femministe della sua epoca, la sua vita e la sua opera letteraria furono la testimonianza di una donna libera, anticonformista ed emancipata, che sfidò le convenzioni e restrizioni morali, e che contribuì a rompere alcuni tabù femminili già a partire dalla sua prima creazione letteraria, il personaggio di Claudine “dall’ammiccante selvatichezza, dalla spregiudicata sensualità”e, come la definirà Willy, “una tahitiana prima dell’avvento dei missionari […], più amorale che immorale”. La fortunata serie delle Claudine, piena di un certo pigmento erotico, ai primi del XX secolo rivestiva un carattere osé notevole.
NANCY CUNARD, la poetessa dalla vita intensa e spericolata….
LA POETESSA PIÙ BELLA DEL MONDO – EREDITIERA, MUSA DI HUXLEY E MAN RAY, AMANTE DI POUND, ELIOT E ARAGON, VIAGGIATRICE E PASIONARIA, FU LA PRIMA A PUBBLICARE BECKETT CON LA SUA CASA EDITRICE – IMITATISSIMO IL SUO STILE: CILINDRO, ABITI D’ARGENTO, BRACCIALI E CAPELLI CORTI – NON SPOSATA, RIBELLE, FUMAVA, BEVEVA E AMAVA IL SESSO-
Quando nel 1925 scrive Parallax, Nancy Cunard ha in mente due uomini: T.S. Eliot e Ezra Pound. Il primo perché, due anni prima, aveva scritto La terra desolata, che è il modello per il poema lungo della Cunard; le due opere sono pubblicate dalla stessa casa editrice, la piccola e prestigiosa Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf.
Il secondo perché era stato proprio Pound, dopo avere letto le poesie della raccolta Outlaws del 1921, a spingere la Cunard a continuare a scrivere, spiegandole, in una lunga lettera, che doveva riuscire a «rendere il discorso della poesia perfino più vivido di quello della prosa» e ricordandole che «l’arte è lunga».
In quella lettera, Pound le diceva anche quanto desiderasse che Nancy tornasse a Parigi. La loro storia d’amore, lunga cinque anni, era già cominciata. In realtà anche Eliot era stato amante di Nancy Cunard, pur se per una notte soltanto, nell’estate del ’22: anche se la disapprovava, e la considerava una tentatrice (in seguito l’aveva perfino dipinta come una prostituta, sotto le spoglie di Fresca, in una parte della Terra desolata che Pound lo convinse a tagliare), nemmeno lui era riuscito a resisterle, come lei stessa raccontò in una Lettera in versi scritta dopo la morte del poeta nel gennaio del 1965 (lei morì due mesi dopo), e pubblicata ora nei Selected Poems, una raccolta di poesie, in parte inedite, a cura di Sandeep Parmar (Fyfield Books).
Del resto era difficile, quasi impossibile resistere a Nancy Cunard. Nata nel 1896 a Nevill Holt, nel Leicestershire, in una residenza immensa (il salone da solo era più grande della New York Public Library), erede di un impero di costruttori navali baronetti dai tempi della Regina Vittoria, discendente di Benjamin Franklin, figlia di un padre, Bache, interessato soltanto alla caccia e alla campagna inglese e di una madre americana ricchissima, Maud, arrivata in Europa per ottenere un titolo e entrare nell’alta società politica, aristocratica e letteraria di Londra (e Lady Cunard ne fu una regina), Nancy si abitua subito ad alcune cose poco comuni, specialmente per l’epoca: i suoi genitori vivono vite separate;
la madre ha decine di amanti, e non li nasconde affatto; il suo primo amico a quattro anni non è una bambina, bensì il romanziere irlandese George Moore, amante della madre, a cui resta legata per tutta la vita e che le fa da padre insieme a Norman Douglas; viaggia e viene istruita per tutta Europa; ai balli e ai tè organizzati da Lady Cunard arrivano Somerset Maugham, i Balfour, gli Asquits, Pound (che chiede soldi per sostenere James Joyce mentre scrive l’Ulisse), Eliot…
Ereditiera, poetessa, editrice per tre anni, come racconta nel libro, ricchissimo di aneddoti, These were the Hours – Memories of My Hours Press, scrittrice, giornalista in prima fila durante la guerra di Spagna, pasionaria quasi ossessiva per le cause della repubblica in Spagna e per la difesa della cultura e dei diritti dei neri in America (sua è la raccolta Negro, una antologia che è la prima nel suo genere, e che nel ’34, quando esce, è accolta con derisione perfino dalla stampa di sinistra), collezionista di arte «primitiva» dall’Africa all’Oceania e, in particolare, di vistosissimi braccialetti d’avorio che portava a decine fino al gomito, amante di artisti, poeti, scrittori e musicisti celebri, fra cui T.S. Eliot, Samuel Beckett e Pablo Neruda (tutti anni prima del Nobel…) e poi Ezra Pound, Louis Aragon, Tristan Tzara e Aldous Huxley, Nancy Cunard era una donna bellissima e magnetica.
Gli occhi enormi e blu, la figura esile, la voce dolce e acuta insieme, la falcata leggendaria. E poi lo stile, imitatissimo per il resto del secolo, dal cilindro agli abiti d’argento, dai quattrocento bracciali ai capelli corti, una giovane donna non sposata (lo fu per pochissimi anni, con un soldato australiano), ribelle, che fumava e beveva e non si negava nulla.
Così racconta Anthony Thorne nel volume Nancy Cunard. Brave Poet, Indomitable Rebel (1968, a cura di Hugh Ford) che raccoglie i ricordi di amici e ammiratori: «Un giorno una ragazza mi ha detto: Entro in una stanza e in fondo c’è la donna più bella che abbia mai visto. Poi mi avvicino e mi rendo conto che è Nancy Cunard».
Thorne incontra Nancy per la prima volta a Venezia, dove lei versa una flûte di champagne nel Canal Grande in nome di un suo vecchio amore, il jazzista di colore Henry Crowder; poi, dopo una notte insieme, lasciano il palazzo a bordo di una gondola. Undici anni dopo, di nuovo a Venezia, Thorne ritrova lo stesso gondoliere che ricorda esattamente Nancy.
Anche quando è ormai anziana, zoppicante, rovinata dall’alcol, dalle malattie respiratorie e dalla magrezza eccessiva, se entra in un locale, o si presenta a teatro, tutti gli occhi si volgono immediatamente verso di lei, e nel silenzio che si crea si sente solo il tintinnio dei suoi bracciali. Questa è Nancy Cunard, «un corpo come una scultura» a detta di Langston Hughes, che collaborò a Negro.
Non soltanto una avventuriera: lo è stata, nel sesso (si dice che si sia fatta asportare l’utero per avere libertà totale), nelle abitudini quotidiane, nei viaggi per mezzo mondo, nelle cause sposate spesso d’istinto.
Ma è stata una figura letteraria, e non soltanto come musa, anche se ha ispirato Huxley (innamorato perso, l’ha riprodotta in varie sue eroine), il bestseller degli anni Venti Green Hat di Michael Arlen, Aragon (che fu quasi sul punto di sposare), Tzara, Evelyn Waugh, Pound e Neruda, e poi pittori come Oskar Kokoschka e Alvaro Chile Guevara, fotografi come Man Ray e Cecil Beaton, lo scultore Brancusi. Williams Carlos Williams, che giocava a tennis con lei e Hemingway, la definì «uno dei più grandi fenomeni di quel mondo», gli anni Venti.
La prova della sua sensibilità letteraria, oltre che nelle opere di poesia, è soprattutto nella sua attività di editrice e curatrice di raccolte. L’avventura della sua Hours Press comincia nel 1928 e finisce nel 1931. Nasce in Normandia, a Réanville, in una casa di campagna acquistata e arredata da Nancy con grande amore (sua madre riteneva che «solo i banali hanno bisogno di una casa»); poi si sposta a Parigi, in rue Guenégaud, a due passi dalla Galleria Surrealista.
Londra non era la città giusta per Nancy, anche se si era creata una sua «Corrupt Coterie», cenava con Keynes e Lytton Strachey, frequentava i Woolf (poco, perché Virginia era gelosa…). È a Parigi, nei primi anni Venti, che trova il suo mondo: fra i Surrealisti e i Dada, tutti suoi amici e spesso amanti, ospiti fissi nel suo appartamento all’Île Saint-Louis, che era appartenuto a Modigliani.
In nemmeno quattro anni la Hours Press pubblica 23 libri di pregio, con copertine firmate da artisti come Man Ray, John Banting, Yves Tanguy: in catalogo vanta George Moore, l’amico che le garantisce un esordio da «tutto esaurito»; Louis Aragon che traduce l’«intraducibile» Caccia allo Snark di Lewis Carroll; due titoli di Norman Douglas; Mes Souvenirs, saggi scritti apposta per lei da Arthur Symons, il critico letterario che «esportò» Verlaine e i simbolisti Oltremanica; le poesie di Robert Graves e Laura Riding; i versi di Richard Aldington (suo è il bestseller della casa editrice, Last Straws); This Chaos di Harold Acton, per il quale Nancy è stata «la Gioconda degli anni Venti»; i primi trenta Cantos di Pound (A Draft of XXX Cantos); una raccolta di poesie di John Rodker, editore di Eliot e della «più bella edizione dei Cantos» di Pound, secondo la stessa Cunard. Le promette «qualcosa» James Joyce, «il mio visitatore più famoso in rue Guenégaud», dove si reca con insistenza in cerca di una raccomandazione per un suo amico, un cantante irlandese.
Non se ne fa nulla, né per la raccomandazione, né per l’opera da pubblicare. Ma la sua vera «scoperta» è Samuel Beckett. Nel senso che è la prima a pubblicarlo. In These were the Hours (pubblicato postumo nel ’69) la Cunard spiega il suo obiettivo di editrice: «Fare soprattutto poesia contemporanea di genere sperimentale – sempre cose molto moderne, pezzi brevi di grande qualità che, per loro natura, possono avere difficoltà a trovare editori commerciali». Così, a caccia di talenti nuovi, lancia un concorso: dieci sterline in premio all’autore della migliore poesia sul tempo, cento righe al massimo. Fino all’ultimo, Nancy e l’amico Aldington si trovano a leggere roba impubblicabile; ma, la notte della scadenza…
Qualcuno ha lasciato una poesia, si intitola Whoroscope; l’autore è sconosciuto, si chiama Samuel Beckett, è nato a Dublino e già questo lo rende simpatico alla Cunard che ha antenati illustri e ribelli anche in Irlanda, e comunque le basta scorrere i versi per capire che il vincitore del concorso è proprio lui.
E che felicità prova venticinque anni dopo, quando Aspettando Godot va in scena a Parigi e il mondo si accorge del merito che spetta al suo autore. Beckett le rimane sempre amico e affezionato; nel 1956 le scrive: «Ho ancora Negro comodo nella mia libreria, a differenza della maggior parte di ciò che avevo… E perfino qualche Whoroscope».
Le chiede di spedirgli una copia di Parallax, perché vorrebbe rileggerlo. Per l’antologia black Beckett ha tradotto diciotto saggi, fra cui un Manifesto dei Surrealisti francesi e un articolo su Louis Armstrong e il jazz; ha firmato per Henry-Music, versi dedicati alla musica di Henry Crowder, uno dei volumi di maggior pregio della Hours Press. Il loro legame dura per tutta la vita, anche se Beckett la trova sempre più esile e troppo «ossessionata» dalla questione spagnola.
Eppure, anche in questo caso, la Cunard dimostra il suo talento. Nel 1937 rimette in funzione la vecchia pressa Mathieu di Réanville per pubblicare sei pamphlet, o plaquettes, che finiscono sotto il titolo The Poets of the World Defend the Spanish people!. A stampare accanto a lei c’è Pablo Neruda, i versi, in inglese, spagnolo e francese sono di Tzara, Aragon, Hughes, García Lorca e W.H. Auden, di cui appare la controversa Spain.
Dopo le plaquettes è la volta di un questionario agli scrittori, un’idea nuova all’epoca: Nancy spedisce a tutti quelli che conosce (e non) delle domande sulla guerra, per capire da che parte stiano. Il volume che raccoglie le 148 risposte si intitola Authors Take Sides on the Spanish War: non pubblicata quella indimenticabile di George Orwell, che la prega di non scocciarlo più. Lui, in Spagna, si è appena preso una pallottola.
Dopo la guerra, la vita per Nancy non è più la stessa. La sua casa di Réanville è distrutta dai nazisti, il suo mondo è in pezzi. La madre l’ha diseredata da un decennio, al grido di: «Davvero mia figlia conosce un Negro?». Ha ancora degli amanti, sempre più giovani; continua a viaggiare, a bere troppo e a scrivere: nel ’54 e nel ’56 pubblica due biografie di George Moore e Norman Douglas, molto elogiate dalla critica. Rifiuta ogni proposta di scrivere la sua autobiografia (perciò bisogna accontentarsi di due biografie, comunque ricche di dettagli, una del ’79 di Anne Chisholm e una del 2007 di Lois Gordon).
Paga, più che mai, l’esclusione da un mondo per il quale lei è troppo diversa. E che l’ha punita, a modo suo: non potendole impedire la libertà di dire, scrivere e fare, per lo più ha tentato di negarle la patente della serietà intellettuale.
Descrivendo Lucy, l’anti-eroina di Punto contro punto, Huxley parla così (indirettamente) di Nancy: «Era tutto ciò che le persone, per invidia o per disapprovazione, dicevano di lei, eppure era la più squisita e meravigliosa delle creature». Muore sola, a Parigi, pochi giorni dopo avere compiuto 69 anni. Le sue ceneri sono al Père-Lachaise, il cimitero degli immortali.
Fonte Articolo scritto da Eleonora Barbieri per “il Giornale”
La vie n’est qu’une ombre qui passe, un pauvre acteur
Qui s’agite et parade une heure, sur la scène,
Puis on ne l’entend plus. C’est un récit
Plein de bruit, de fureur, qu’un idiot raconte
Et qui n’a pas de sens.
MACBETH
La vita è solo un ombra che passa, un povero attore
Chi si alza e sfila per un’ora, sul palco,
Poi non si sente più. È una narrazione
Pieno di rumore e furia che racconta un idiota
E chi non ha senso.
William Shakespeare-(1564 – 1616)— The Tragedy of Macbeth (1623); traduction de Yves Bonnefo, éditions Folio, coll. « Folio classique », 1995 Littérature et Poésie
sono l’intruso che non ti dà pace
l’esteta delle tue ubbie, il vandalo
delle tue ritrosie
non ti scostare dice
non ti faccio del male
voglio solo accertarmi del tuo cuore
voglio esserti Mercuzio
in cerimonia d’amore
reggere il tuo polso se sei pronto.
AMORE AL TEMPO DI SAFFO
Chissà i banchetti, chissà
le tazze lasciate lì sul prato
e nelle stanze i profumi; chissà
l’ombretto degli occhi e le unghie
meravigliose nei graffi; chissà
i sandali lì di lato in disordine, chissà
le dita sottili e le caviglie,
umide le labbra. E fuori
oltre le crete e i marmi, oltre
i sassi scuri dei selciati, oltre
il bronzo dei monili e la pietra
dei capitelli, in cima
oltre le capre e il cardo, oltre
il mirto e la porpora, gli uccelli
in libertà gioiosa e più su
più su più su le nuvole
STRAPPO
Nel costato, che all’inizio dici:
più a fondo!
può succedere, poi
più sotto, nel ventre
che dici: che succede?
poi
è troppo! ti alzi, ti vesti…
è tardi, è già successo.
I tuoi soliti occhi
non sono più gli stessi di pupilla
e il resto del corpo
che fu letizia! è già squarcio.
Chi mette le mani
lì dentro, al calduccio di viscere?
L’unghia è spezzata.
C’è un raschio nel buio
e mortale velluto sulla bara.
Da: Vittorio Franceschi, Canti dell’autunno inoltrato, Raffaelli 2018.
VITTORIO FRANCESCHI è nato nel 1936 e diplomatosi all’Accademia Antoniana di Bologna nel 1958,Vittorio Franceschi ha fatto del mondo dello spettacolo la sua vita, diventando attore di teatro, regista e drammaturgo. Dopo aver girato l’Europa, lui insieme ai suoi testi, oggi insegna recitazione alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna, di cui è codirettore. Accanto all’amore per il teatro coltiva anche quello per la poesia. Nel 2004 ha pubblicato Stramba Bologna sghemba e nel 2011 Il volo dei giorni, entrambi con la nostra casa editrice; Tre ballate da cantare ubriachi e altre canzoni del 2013 è stato invece pubblicato dall’editore Pendragon. Da poco è uscita la sua ultima raccolta poetica, Canti dell’autunno inoltrato, che questa sera (giovedì 17 maggio) l’autore presenterà in forma di spettacolo nella sua città di
Il libro di Ludovico Quaroni, l’architetto che fotografava Roma
By Angela Madesani
–
È stato uno dei protagonisti della ricostruzione postbellica, uno dei più noti docenti della facoltà di Architettura della Capitale, Ludovico Quaroni (Roma, 1911-1987), al quale Humboldt Books dedica un volumetto delizioso, Roma 1968. Il libro contiene le immagini che Ludovico e il nipote Livio hanno dedicato a Roma, ma, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, non ci troviamo di fronte a un libro di immagini di architettura, piuttosto a una serie di fotografie di documentazione della città, dove accanto agli edifici ci sono le persone, anch’esse protagoniste delle immagini. Quella del grande architetto è una lettura libera, che ha un precedente nel bel volume pubblicato da Laterza nel 1969, Immagine di Roma. LE FOTOGRAFIE ROMANE DI LUDOVICO QUARONI
Il libro è accompagnato da un prezioso testo di un allievo di Quaroni, Francesco Pecoraro, introdotto da una frase dell’architetto che ci fa comprendere il senso di tale lavoro: “Vogliamo che si sviluppi una critica delle città, accanto alla critica letteraria, alla critica delle arti plastiche, del cinematografo e della musica”. Le sue non sono delle semplici immagini, ma un autentico strumento di lavoro: “Per lui fotografare Roma” ‒ spiega Pecoraro ‒ “significava coglierne qui e là, con un solo scatto, la complessità e la manomissione, la contraddizione e la sovrapposizione degli elementi che la compongono (che la componevano negli anni Sessanta), il lascito, le ferite indelebili, le effrazioni, le profanazioni, le distruzioni, su cui, se davvero ce ne importasse qualcosa, piangeremmo”. In quelle foto sono poste accanto tante città diverse, quella dei poveri, della piccola borghesia, degli accattoni. Una città complessa, che potrebbe somigliare, per certi punti di vista, a quella che Pasolini ci ha raccontato in Mamma Roma, uno dei suoi capolavori cinematografici.
ROMA VISTA DA QUARONI
Ci troviamo proprio, secondo il pensiero di Quaroni, di fronte a un continuum, di case, cose, persone, alberi, fiume. Non c’è soluzione di continuità. Uno spazio particolare hanno le automobili spesso presenti, simbolo di conquista negli Anni del boom. La sua è un’indagine di matrice sociale di notevole importanza, che ci aiuta a comprendere la situazione romana di quel periodo, assai diversa da quella milanese. I casermoni popolari sono accanto ai campi e alle baraccopoli nella prima periferia della città, in un insieme in cui è la tristezza a dominare.
Chiude il libro un bel testo di Ludovico Quaroni accompagnato dai provini annotati a mano dall’architetto, che ci fanno comprendere la sua metodologia lavorativa.
‒ Angela Madesani
Ludovico Quaroni – Roma 1968
Humboldt Books, Milano 2021
Pagg. 112, € 20
ISBN 9788899385873 www.humboldtbooks.com
Bibbiena | Arezzo- Dal 01 Aprile 2023 al 04 Giugno 2023
Il CIFA, Centro Italiano della Fotografia d’Autore, ente nato per volontà della FIAF – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche,associazione senza fini di lucro che si prefigge lo scopo di divulgare e sostenere la fotografia su tutto il territorio nazionale, presenta la nuova mostra “Carla Cerati – Le scritture dello sguardo” che inaugurerà sabato 1 aprile 2023 alle ore 16.30 presso il CIFA e il nuovo libro a lei dedicato per la collana “Grandi Autori della fotografia contemporanea”.
L’esposizione fotografica proposta da FIAF e curata da Roberto Rossi, Presidente FIAF, presenta una parte importante, ed in alcuni casi meno conosciuta, del lavoro fotografico di Carla Cerati. Il libro che accompagna la mostra, curato da Lucia Miodini ed Elena Ceratti, è l’occasione per continuare l’esplorazione promossa dall’editoria FIAF del mondo delle Fotografe Italiane iniziato nell’anno 2000 con il volume dedicato a Giuliana Traverso e che annovera nelle sue due principali collane, quella delle Monografie e quella dei Grandi Autori, nomi come Eva Frapiccini, Patrizia Casamirra, Antonella Monzoni, Paola Agosti, Angela Maria Antuono, Chiara Samugheo, Stefania Adami, Lisetta Carmi, Cristina Bartolozzi, Giorgia Fiorio.
Ben più di un’antologica della sua produzione, la mostra ci aiuta ad entrare in contatto con la forte personalità di questa Autrice espressa nell’impegno civile e alimentata dalle passioni per la scrittura e per la fotografia. “L’una e l’altra”, affermava Carla Cerati: sono due attività che coesistono, ma non si fondono. È sempre un’osservazione della realtà: la fotografia le serve per documentare il presente, la parola per recuperare il passato. L’incontro tra fotografia e testo caratterizza il percorso di Cerati.
La Cerati si avvicina alla fotografia agli inizi degli anni ‘60 fotografando il suo ambiente famigliare. È un periodo in cui anche grazie al crescente sviluppo economico del dopoguerra, la fotografia diventa una pratica personale diffusa e alla portata anche dei ceti sociali meno abbienti. Per chi come Cerati desidera andare oltre la cosiddetta foto di famiglia e vuole approfondire contenuti e tecnica fotografica, non esistono in Italia, salvo rarissime eccezioni come il Bauer, prima scuola pubblica di fotografia fondata nel 1954, altri luoghi da frequentare che i circoli fotografici.
Un percorso analogo è stato compiuto da altri fotografi della sua generazione, come ad esempio Gianni Berengo Gardin, Mario De Biasi, Nino Migliori, Fulvio Roiter, che, avvicinatisi alla fotografia frequentando le associazioni fotografiche fin dall’immediato dopo guerra, hanno poi scelto la strada del professionismo sotto varie forme. Cerati per un certo periodo frequenta il Circolo Fotografico Milanese, che in quegli anni è animato da un intenso dibattito tra coloro che privilegiano visioni di tipo estetico-formale e altri interessati alla ripresa del reale. Fa sua questa seconda visione e decide di avvicinarsi al professionismo.
Nata a Bergamo da una famiglia di origine borghese con regole e principi tradizionali molto rigidi, se ne allontana sposandosi a 21 anni. La vita nell’immediato dopo guerra può essere economicamente difficile per dei giovani sposi e per contribuire al bilancio familiare lavora come sarta, prima a Legnano e poi a Milano, dove la coppia si trasferirà nel 1952. Quando alla fine degli anni ’50 decide di acquistare dal padre una Rollei, ha già potuto assistere al tumultuoso e complesso sviluppo del capoluogo milanese e non resta indifferente ai cambiamenti che ne derivano: il suo stile documentario caratterizzato da un rapporto immediato con il reale, sfocia in una capacità narrativa di tipo sociologico. Guarda ai piccoli eventi del quotidiano e rifugge dagli stereotipi e dalla retorica avvicinandosi per affinità di pensiero e di impegno civile alla concerned photography promossa da Cornel Capa.
“Con questa mostra e la monografia a lei dedicata, la FIAF desidera rendere omaggio ad un’Autrice che si è sempre impegnata attivamente sul fronte della tutela della professione” – ha dichiarato Roberto Rossi, Presidente FIAF.
Carla Cerati è stata parte attiva e segretaria della sezione Milanese dell’AIRF (Associazione Italiana Reporters Fotografi), fondata nel 1966, in un momento in cui i fotoreporter lottavano perché il loro lavoro e la loro professionalità venissero riconosciuti. E nel 1976, a seguito della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Legge Bonifacio che sanciva i diritti dei fotogiornalisti, è stata tra i firmatari insieme a Uliano Lucas, Carlo Arcadi, Walter Battistessa, Giancarlo De Bellis, Alberto Roveri e Mauro Vallinotto, di un documento che, a partire dall’analisi dei punti di criticità del lavoro del fotogiornalista, propone una visione non individualistica della professione. Non ultimo il suo impegno nell’approfondire e diffondere la conoscenza dei suoi colleghi fotografi, come ad esempio Paolo Monti e Gabriele Basilico, pubblicandola in interviste video conservate nelle Teche RAI.
“Siamo veramente felici di poter ospitare al CIFA i lavori di Carla Cerati e di dare al pubblico la possibilità di immergersi nelle scritture del suo sguardo – ha dichiarato Claudio Pastrone, Direttore del CIFA – Passando dal corridoio principale ed entrando e uscendo dalle 16 celle del Centro il visitatore ha la possibilità di comprendere la sua storia umana e professionale. Cerati fotografa dai primi anni Sessanta, inizialmente rivolge il proprio sguardo all’ambiente che le è prossimo. Poi con occhi disincantati fotografa il mondo che le sta attorno. Convinta, lo dichiarerà più tardi, che la fotografia possa contribuire a cambiare la società. Il suo percorso, complesso e impegnato su vari fronti, mantiene una propria unità e coerenza nell’attenzione per la condizione umana, per la dimensione esistenziale; nella sua capacità di raccontare fuori da ogni retorica con uno sguardo intenso, partecipe e al contempo unico ed efficace, le contraddizioni della contemporaneità”.
Dal 01 Aprile 2023 al 04 Giugno 2023
Bibbiena | Arezzo
Luogo: CIFA – Centro Italiano della Fotografia d’Autore
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.