Tutti hanno sentito il suo nome, molti hanno udito la sua voce. La parabola spettacolare di un’artista che conobbe un’ascesa scabrosa benché non avara di riconoscimenti, fino a un culmine breve come tutti i culmini, e una prolungata, malinconica discesa verso una brusca morte misteriosa, ha ispirato romanzi, poesie, testi teatrali e musicali, spettacoli di danza, film, programmi radiofonici e televisivi. Crisalide mutatasi in icona di eleganza femminile, la greco-americana si fece italiana, anzi veneta (di Verona) e poi milanese, per finire francese o quasi: l’essenza internazionale del melodramma italiano non poteva essere sancita in forma più apodittica. Il suo canto, ora osannato ora censurato, il suo stile interpretativo paragonato alle grandi voci dell’Ottocento, le sue riconosciute facoltà di attrice hanno riportato prepotentemente l’opera lirica al centro del dibattito intellettuale, hanno aperto nuovi sentieri nel repertorio, hanno contribuito a rafforzare in Italia il ruolo della regìa operistica. Maria Callas (1923-1977) è tutto questo. Per la prima volta, filosofi, storici della letteratura, dell’arte, del teatro, del cinema, della danza, della moda, sociologi della comunicazione indagano gli effetti della sua presenza umana e artistica nella sfera dello spettacolo e del costume sociale. Lo studio del lascito artistico è affidato ai musicologi, impegnati anche a delineare possibili metodologie per un terreno di ricerca ancora poco dissodato – almeno in Italia – quale è l’interpretazione musicale. Dei ricordi parlano testimoni diretti e amici del grande soprano.
C’è ancora domani, bisogna agire oggi- il film di Paola Cortellesi-
Il risveglio, uno sbadiglio e un “bello” schiaffo in faccia. Lei è Delia (Paola Cortellesi), lui Ivano (Valerio Mastandrea), i due protagonisti di C’è ancora domani, il primo lavoro dietro alla macchina da presa da Paola Cortellesi. Un film che ha riempito le sale (anche un giovedì sera, a Barge, cinema di provincia, Provincia di Cuneo, la coda era lunga e non tutto il pubblico è riuscito a entrare… buon segno) e che inizia con una scena di violenza gratuita e insensata. Comune e “normale” per l’epoca. Una Roma in bianco e nero, una Roma che esce a pezzi dalla Seconda Guerra mondiale; sta per iniziare il boom ma l’eco della borsa nera, le ferite del conflitto nella città e nelle anime delle persone sono ancora presenti e ben rappresentate da Cortellesi. Al centro una storia, che in realtà è soltanto uno dei mille esempi che potevano essere molto attuali in quell’Italia, e che ancora oggi rimangono purtroppo oggetto della cronaca nera e del dibattito politico.
La trama è chiara fin da subito, dalla prima scena. Quello che segue è un ritratto dell’Italia di quegli anni, fatta di uomini che lavorano, che hanno il completo e totale controllo sulla vita di moglie, figli e figlie; di povertà e di grandi sogni. C’è la figura centrale della figlia di Delia, Marcella, che vede le profonde ingiustizie subite quotidianamente dalla madre, che la spingono a ribellarsi, ma che poi rischia di ricadere lei stessa in quello che stava vivendo Delia.
C’è anche però un affresco sulla solidarietà che oggi rischia di perdersi, soprattutto nelle grandi città. Il cortile circondato dai palazzi è il luogo centrale della vita, dove ci si può rifugiare e dove si può trovare aiuto e sostegno, dove passa la vita, dove non si hanno segreti. C’è il mercato rionale dove Delia incontra la sua amica, a cui confida i segreti più intimi e dove trova riparo; c’è la presenza dei soldati americani, con i quali c’è una totale incomunicabilità dovuta alle lingue diverse, ma c’è anche comprensione e sostegno.
«Un film che tutti dovrebbero vedere, un film che dovrebbe essere proiettato in ogni scuola». Queste alcune delle frasi più significative che stanno circolando sul web, riguardo a C’è ancora domani. Non si può non essere d’accordo, anche perché il tema centrale attorno a cui si svolge il plot del film è quello su cui è necessario un importante e profondo intervento culturale, che ha mille rivoli e mille implicazioni e prevede una crescita collettiva. Passi avanti ne sono stati fatti, oggettivamente, ma la strada è ancora lunga. Nel film la violenza, escluso il primo schiaffo, è rappresentata con una scelta particolare: viene sempre celata, o meglio trasformata in una danza. Una scelta stilistica che forse ottiene ancora di più l’effetto voluto. Sta succedendo quella cosa, non la vediamo, ma tutti sappiamo.
Il secondo elemento portante è quello che sorprende alla fine della pellicola: chi non ha ancora visto il film potrebbe interrompere qui la lettura dell’articolo, per non rovinarsi la sorpresa… «Adesso l’ammazza»; «Ora fugge con il grande amore della sua vita». Questo è ciò che si potrebbe aspettare con le ultime sequenze… e invece Cortellesi fa una scelta, politica in tutti i sensi, diversa. Il suo percorso di emancipazione infatti inizia con un atto simbolico, quello del voto. Per la prima volta infatti, il 2 giugno 1946, le donne votano: in massa, l’89% delle aventi diritto. Una rivoluzione silenziosa, resa possibile da quello che c’è stato negli anni immediatamente precedenti. Questo sacrosanto diritto infatti è figlio dell’antifascismo, della guerra di Liberazione, dei partigiani e delle partigiane, che hanno accelerato un processo che non aveva mai trovato un terreno così fertile da poter attecchire in modo definitivo.
Articolo di Samuele Revel-30 novembre 2023
Foto da My Movies-Fonte Riforma / L’Eco delle Valli Valdesi-Agenzia stampa NEV – Notizie evangeliche
Paolo Genovesi Fotoreportage: “Palombara Sabina by night “
F.L.”Le vie e i vicoli di Palombara al tramonto del sole, quando la luce è inghiottita dalle tenebre, per Paolo Genovesi diventano teatro e spettacolo. La notte diventa materna e accogliente ed è lì che ,negli angoli del Borgo, Paolo trova e fotografa la pace e ci fa “sentire “ la tranquillità e, quindi, per l’ anima ogni cosa diventa sopportabile. Le foto di Paolo sono scenario ideale per riflessioni esistenziali e trovi sempre il riflesso di noi stessi. Le foto di Paolo sono “tranquillizzanti” perché sanno accompagnarci dalla sera che si trasforma nella notte , ma una notte materna che ci accoglie con la speranza di credere in un nuovo giorno diverso. Grazie Paolo”
Benvenuti nell’atmosfera incantata dell’Autunno a Farfa con le foto di Paolo Genovesi
F.L:”Farfa è un Borgo di straordinaria bellezza naturale e storica e Paolo Genovesi, con la sua fotocamera, ha saputo catturare l’ atmosfera e la calma di questa stagione, trasformando con le foto la routine in un’esperienza autunnale indimenticabile. L’autunno è una stagione ricca di dettagli e sfumature, e le foto di Paolo possono essere il mezzo per catturare questa bellezza. Esprimere l’autunno richiede sensibilità e attenzione ai dettagli: dai colori delle foglie cadenti e al suono dei passi che immaginiamo su un sentiero coperto di foglie secche. Le immagini possono rendere tangibili le emozioni che l’autunno suscita, come la nostalgia per l’estate appena passata o l’attesa per l’inverno in arrivo. Questo è il messaggio che Paolo Genovesi trasmette con le sue foto.
La “bambinaia fotografa” che è diventato un caso clamoroso emerso sulla scena dal nulla-
Le strade di New York e Chicago come un palcoscenico, l’autoritratto come via per trovare il proprio posto nel mondo, i dettagli di vita ritracciabili in un volto: è questa la poetica dello scatto che è uscita allo scoperto solo nel 2007, grazie a John Maloof, un giovane statunitense che, cercando del materiale su cui effettuare una ricerca sulla città di Chicago, trovò dentro una scatola acquistata all’asta il grande repertorio di negativi e rullini ancora da sviluppare di Vivian Maier.
Chi era Vivian Maier? Anche il suo “casuale scopritore” non lo seppe, ma nel corso di una ricerca attenta, Maloof ricostruì tessera dopo tessera la vita della fotografa statunitense classe 1926. Di lei scoprì che lavorò tutta la vita come tata, solo nel tempo libero si dedicava alla sua passione: la fotografia, la street photography. C’è chi addirittura accosta la figura della fotografa a Emily Dickinson, la poetessa che relegò in un cassetto le sue riflessioni e le sue opere, senza ricorrere mai alla pubblicazione.
In una foto la sua immagine si riflette da uno specchio all’altro. Quasi all’infinito. Un super selfie ante litteram, verrebbe da dire: lei, la sua Rolleiflex, un orologio e dei pacchi. C’è la sintesi di una vita in questo scatto senza tempo. Una vita che avrebbe dovuto restare segreta. Vissuta e finita lì. Invece il caso si ci è messo di mezzo e ha voluto che venisse fuori. Perché Vivian Maier, nata a New York il primo febbraio del 1926 e morta a Chicago il 21 aprile del 2009, è per l’anagrafe una bambinaia. Una bambinaia mezza francese (la mamma era di un piccolo paese delle Alpi, il papà di origine austro-ungarica lasciò la casa di famiglia quando Vivian aveva 4 anni) per le famiglie benestanti di New York e Chicago. Strana, misteriosa, per certi versi eccentrica, ma fondamentalmente riservata, se non invisibile. E così lei voleva restare.
Invece Vivian Maier è oggi Una fotografa ritrovata, come sintetizza efficacemente il titolo del libro che la celebra da alcuni mesi in Italia (di John Maloof, Contrasto, pagine 285, euro 39,00) e che accompagna – dopo una esposizione al Man di Nuoro – la mostra che apre domani a Milano al Forma Meravigli (fino al 31 gennaio 2016, tutti i giorni dalle 11 alle 20, giovedì dalle 12 alle 23) a cura di Anne Morin e Alessandra Mauro, con 120 fotografie in bianco e nero. Vivian Maier conservava i suoi 150mila scatti, 3mila stampe e filmati super 8 e 16 millimetri all’interno di un box di Chicago, insieme a tantissime cianfrusaglie, oggetti da collezione, pezzi di vita. Un “tesoro nascosto” che dopo anni di affitto non pagati venne stato confiscato, messo all’asta in diversi lotti e quindi “rivelato”. Nel 2007, i ricordi custoditi dalla bambinaia s’incontrarono con l’ansia del racconto e della scoperta di John Ma-loof, un giovane agente immobiliare che stava raccogliendo materiale su Chicago per coltivare il suo vero talento, la scrittura.
Il 26enne acquistò per 38 dollari il contenuto di un baule con trentamila negativi e vari oggetti da collezione, diventando poi il principale curatore del “lascito” della Maier. La curiosità fu forte. Cosa contenevano quelle pellicole? Quali facce avrebbero svelato? Quali luoghi avrebbero mostrato? Maloof ordinò minuziosamente ogni cosa come mostra il film-documentario distribuito in Italia da Feltrinelli Real Cinema – Alla ricerca di Vivian Maierdi Maloof con Charlie Siskel (sarà proiettato al Cinema Apollo a Milano, il 25 novembre alle 21.30) – e si metterà alla ricerca del misterioso autore. «Volevo sapere – racconta – chi si nascondeva dietro quel lavoro, ma avevo solo il nome di Vivian Maier: sarà una giornalista, una fotografa professionista? Così ho cercato su Google e ho trovato solo l’avviso della sua morte, pubblicato giusto qualche giorno prima. Ho recuperato un indirizzo tra le sue cose e dopo aver rintracciato il numero di telefono, ho chiamato e ho detto che ero in possesso dei negativi di Vivian Maier». La risposta fu sorprendente: «Era la mia bambinaia! ». «La sua bambinaia? E perché farebbe tutte queste fotografie? Ciò che quell’uomo mi ha detto di lei mi ha profondamente stupito: era una solitaria, non sapeva nulla della sua vita amorosa, della sua famiglia, dei suoi figli, ma era stata una madre per lui. Tutto questo ha stuzzicato la mia curiosità».
Il giallo si infittì, ma si aprì un mondo. Continuarono le ricerche, i pezzi del puzzle si composero lentamente uno dopo l’altro. E venne fuori la vita di Vivian Maier: una bambinaia, amorevole con i bimbi, con qualche mania, dei segreti, e una passione nascosta e solitaria per la fotografia. Talmente nascosta che mai ha pubblicato una foto e mai ha fatto vedere i suoi lavori a qualcuno. La tata nel suo giorno libero metteva la sua Rollei al collo e girava per le strade. Con uno sguardo curioso, a volte malinconico, altre ironico. Si soffermava sui piccoli dettagli, le scarpe buffe, la mise eccentrica, le imperfezioni; le persone, soprattutto bambini e anziani; i racconti di vita, quella che le scorreva davanti agli occhi per strada, la città e i suoi abitanti in un momento di cambiamento sociale e culturale. Ma c’era soprattutto lei, che spuntava da uno specchio, che si rifletteva su una vetrina, che s’intravedeva in un riflesso. Una donna in continua ricerca di identità, “giocando” con la sua Rolleiflex, una macchina che ha fatto la storia della fotografia mondia-le, con il caratteristico visore per l’inquadratura posto nella parte superiore. «Perfetta per chi vuole restare invisibile», fa notare il grande fotografato americano, Joel Meyerowitz, apprezzando i suoi lavori di street photography. È stata una vita non facile, quella della Maier.
Dopo che il padre lasciò casa, la madre, Maria Jaussaud, si rifugiò da un’amica francese, nel Bronx, una fotografa professionista che probabilmente accese la passione di Vivian sin da piccola. Maria fece poi ritorno in Francia, a Saint-Julien-en-Champsaur, portando con sé Vivian, fra il 1932 e 1938. Qui Vivian tornerà da sola, nel 1950, per reclamare l’eredità di una prozia: userà quel denaro per viaggiare e comprare la sua prima macchina fotografica. Eseguirà tante foto di paesaggi e ritratti degli abitanti della valle. E poi in giro per Cuba, Canada, California. Nel 1956 si trasferì definitivamente a Chicago dove lavorerà per la famiglia Gensburg per 17 anni. Nel bagno allestirà la camera oscura. Ma nei periodi di vacanza sarà sempre con la valigia verso l’Asia, nelle Filippine e India, in Medio Oriente e nell’Europa meridionale. Come se ci fossero due Vivian. La tata e la fotografa globetrotter. «Seppur scattate decenni or sono occhi – scrive lo scrittore e curatore Marvin Heifermann, nella prefazione al catalogo –, le fotografie di Vivian Maier hanno molto da dire sul nostro presente. Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina e usò questo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita. Proprio come Maier, noi oggi non stiamo semplicemente esplorando il nostro rapporto col produrre immagini ma, attraverso la fotografia, definiamo noi stessi». La fotografia che ci ha regalato questa bellissima storia, destinata altrimenti a restare in un box di Chicago.Articolo di Giuseppe Matarazzo
Paolo Genovesi Fotoreportage- il Castello Savelli di Palombara Sabina
Il castello ha la forma di un poligono irregolare di sei lati, con un lato di circa 100 metri a nord dove si affacciano gli edifici residenziali e da cui parte una lunga appendice che termina con il Torrione in Piazza Vittorio Veneto. Due lati, orientati a ovest e sud-ovest, sono lunghi 35 e 50 metri e delimitano il giardino pensile. Un lato di 25 metri è orientato a sud e il sesto lato, di 75 metri, a sud est. La metà dell’area verso settentrione, dove il pendio del colle è agevole, è occupata dai palazzi residenziali. L’altra metà verso mezzogiorno, molto scoscesa, è occupata dal borgo e dal giardino pensile. Il complesso ricopre una superficie di 10.500 mq su cui si sviluppano migliaia di metri cubi di volume con 108 stanze, molte di notevole ampiezza. Nel perimetro sorgono tre palazzi – il palazzo di Troilo, il Palatium degli Ottaviani (X -XI sec) e il palazzo di Giacomo – tre corti, una cappella e quattro torri. Le sale più belle sono decorate da affreschi del 1500 della scuola di Raffaello. Palombara Sabina, con il suo schema ad anelli concentrici, ha nel Castello Savelli il punto focale. La prima menzione si ritrova nel Regesto Sublacense del 1064. Il castrum originario, che nel 1000 aveva già assunto una forma quadrangolare, inglobando il Palatium sorto sulla fabbrica longobarda, rimane in possesso degli Ottaviani per circa due secoli. Nel 1216, anno in cui Onorio III fa restaurare la chiesa di S. Biagio e fa costruire quella di S. Egidio, è passato alla famiglia Savelli. Al momento del cambio di proprietà, si presenta già come un poligono irregolare, con torri con merlature agli angoli e l’abitazione del Signore a forma di casamatta. Tra il XIII e la prima metà del XV secolo, i Savelli apportano poche trasformazioni, aggiungendo solo un camminamento fortificato lungo la cinta muraria, a settentrione. Nel 1480, con Giacomo e Troilo Savelli e il loro zio cardinale Giovan Battista, si ha la trasformazione da organismo difensivo a residenza baronale rinascimentale: vengono completate le fabbriche sul versante occidentale (l’appartamento del Cardinale al piano primo e l’appartamento di Giacomo al piano secondo, entrambi ricavati nelle strutture della vecchia Rocca) e viene edificato ex novo l’appartamento di Troilo sul versante orientale. Con questi cambiamenti, l’evoluzione del Castello può considerarsi sostanzialmente conclusa. Solo nel 1556 una parte viene distrutta dall’incendio appiccato dal Duca d’Alba nella guerra tra Paolo IV e gli Spagnoli. Dal 1870 il Castello diviene proprietà comunale e agli inizi del 900 è adibito, con qualche modifica, a carcere mandamentale. Nel 1949 è acquistato dagli Sforza – Cesarini ma ritorna poi di proprietà comunale. Dopo i restauri degli anni 80, il Castello Savelli è oggi dotato di una foresteria, di cucina e servizi, di una sala conferenze e di numerosi ambienti utilizzati per ospitare manifestazioni. Il giardino pensile, con la sua vista che spazia dai monti Cornicolani fino al mare, viene utilizzato per ricevimenti di matrimoni.
Fonte REGIONE LAZIO- Rete delle dimore storiche del Lazio
«Di fronte alle preferenze italiane del primo quarto del secolo, l’attività di Ponti rappresenta la responsabilità del gusto europeo e la sua necessità di essere moderno ad ogni costo».
– Edoardo Persico
Il volume raccoglie otto saggi inediti sulla multiforme attività di Gio Ponti distribuiti in quattro aree tematiche, dedicate alla scrittura per le riviste che ha fondato («Domus», «Stile», «Bellezza») o per altri giornali («Corriere della Sera»), alla grafica e all’illustrazione editoriale, al progetto di architettura e, infine, al progetto di design. È certo arduo scomporre l’opera di una personalità poliedrica come quella di Ponti, che non a caso si è costantemente servito di pseudonimi. Il suo lavoro, del resto, va considerato il prodotto di un’officina di progetto, composta di volta in volta di collaboratori e discipline differenti, che deve la sua coerenza all’adozione di un metodo unitario, teso a far prevalere l’intenzione progettuale sul processo attraverso cui essa si realizza. La sua impronta non è mai standardizzata, anche se sempre riconoscibile, come nel caso degli artigiani che Ponti ha costantemente frequentato, promosso e amato per la loro semplicità, «cioè sincerità, ordine, il che vuol dire in sintesi essenzialità». I contributi qui riuniti dunque cercano di leggere disegni, pubblicazioni, edifici decisivi per la sua carriera (Palazzo Montecatini, Torre Pirelli), progetti di oggetti diversissimi tra loro, dal cucchiaio all’automobile, nonché il suo impegno pubblicistico specie all’estero in virtù del quale, secondo Alessandro Mendini, Ponti va considerato come il «generoso moltiplicatore della cultura dei designer italiani». Seguendo le diverse tipologie di prodotto che escono dall’officina di Ponti, questo libro offre dunque nuove interpretazioni corredate da fotografie e documenti spesso inediti, in collaborazione con i Gio Ponti Archives.
Recensioni- I libri di architettura, arte e design da leggere a novembre scelti da Elle decor
Nel ventre dell’architetto
Marco Filoni
«il Venerdì – la Repubblica»
10 novembre 2023
Il gesto. dell’architetto, l’eleganza della postura. Lo sguardo di Gio Ponti è rivolto al cielo, perché tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Lo guarda la moglie Giulia, sullo sfondo i figli Giulio e Letizia. È la sua casa milanese, il ventre dell’architetto, in una foto del 1957. Compare in un libro sontuoso, Officina Gio Ponti curato da Manfredo di Robilant e Manuel Orazi per le edizioni Quodlibet.
Raccoglie saggi che ci portano dentro quel cantiere di idee, discipline e avventure dello spirito che possono esser accolte sotto il nome di Gio Ponti – ripercorse qui attraverso la scrittura, la grafica, l’architettura e il design. Un libro che insegna moltissimo, arricchito da una conversazione tra Paolo Rosselli e Joseph Rykwert. Imperdibile.
Nel laboratorio infinito di Gio Ponti
Roberto Dulio
«Domenica – Il Sole 24 Ore»
05 novembre 2023
Gio Ponti — rigorosamente senza accento sulla o — non era solo un architetto. Anzi, come ci fa intuire già dal titolo il volume Officina Gio Ponti, nella sua non breve esistenza (1891- 1979) l’istrionico protagonista della vita culturale milanese, e non solo, è stato disegnatore, illustratore (lo spiega il saggio di Francesco Parisi e via via quelli degli altri autori), grafico (Mario Piazza), pittore, decoratore, direttore artistico, scrittore (Cecilia Rostagni), poeta, redattore, editore, designer e imprenditore (Elena Dellapiana), visionario progettista di automobili (Gabriele Neri), talent scout, urbanista, costumista, scenografo, stilista, consulente, collezionista, docente, fotografo… E si potrebbe continuare.
Anche architetto, certo, e lo diventa senza dubbio, dopo l’esordio in collaborazione con Emilio Lancia, con due sostanziali capolavori: l’Istituto di Matematica (1932-35) alla Città Universitaria di Roma — sotto la regia di Marcello Piacentini — e la sede della Montecatini (1935-38) a Milano (della quale si occupa Manfredo di Robilant). Il celeberrimo grattacielo Pirelli (1952-61) a Milano (sul quale scrive Fulvio Irace, principale fautore della riscoperta di Ponti a partire dalla fine degli anni 8o), conferma il talento dell’architetto milanese e la sua fama internazionale.
Per quanto celebre in vita — del resto autolegittimato dalla imponente attività editoriale inventata e praticata durante tutta la sua attività — Ponti sconterà dopo la morte, più che una rimozione, impossibile (della fortuna critica si occupa Manuel Orazi), una sorta di riduzione ad architetto volage, quasi bricoleur. Le multiple sfaccettature della sua personalità non erano amate né dall’accademia, della quale comunque faceva parte — era docente al Politecnico di Milano — né dalla critica militante degli architetti più engagés: nel 1955 sarà clamorosamente rifiutata Ia sua richiesta di adesione all’MSA (Movimento Studi di Architettura). «Una volta ero con Rogers; a un certo punto guardo l’orologio e dico: Devo andarmene perché ho un appuntamento. Dove vai? Vado da Gio Ponti. Come Puoi parlare con quel fascistone?» (ricorda Joseph Rykwert intervistato da Paolo Rosselli, pure autore dell’itinerario pontiano per immagini che accompagna e chiude il volume).
Del resto, la strumentale, più che ideologica, vicinanza al Fascismo aveva permesso a Ponti la riforma produttiva ed espressiva del comparto delle arti decorative, in parallelo al ruolo che Piacentini stava giocando per l’architettura, portandolo nel Dopoguerra a scontare l’esplicita diffidenza dei più giovani colleghi, spesso suoi ex allievi.
Ma a differenza di Piacentini, Ponti nel Dopoguerra maturerà una palingenesi creativa sorprendente. Il grattacielo Pirelli testimonia il magistrale compimento della sua ambizione a essere moderno, anzi modernissimo, grazie a quella complessa relazione tra i saperi, tra la pratica delle arti, dell’architettura, e delle imprese — di differente natura e segno — che aveva del resto alimentato la sua vena creativa negli anni tra le due guerre. Il romano Istituto di Matematica, sorta di Giano bifronte tra il connubio piacentiniano di avanguardia e tradizione e l’esplicita assonanza all’immaginario Iecorbusieriano e costruttivista, anticipala milanese sede della Montecatini, che lungi dall’essere una dichiarazione di fede banalmente avanguardista, si rivela come un dispositivo dal raffinato equilibrio tra innovazione e tradizione. Genialmente ambigua — come la quasi coeva Stazione di Santa Maria Novella a Firenze (1932-35)di Giovanni Michelucci e del Gruppo Toscano — la Montecatini invera l’immagine di un clamoroso rinnovamento della scena urbana, con le sue forme stereometriche e l’estetizzazione degli impianti, ma al tempo stesso testimonia il carsico legame che Ponti mantiene con la classicità. In fondo la pianta ad H dell’edificio potrebbe rimandare a certe soluzioni di aggregazioni planimetriche dell’amato Palladio, iI rivestimento è in prezioso marmo, mentre l’immagine monolitica del corpo edilizio, bucato dalla regolare sequenza delle aperture, pare memore di certe periferie sironiane, deprivate certo dell’aura tragica e ricondotte verso una rigorosa fiducia nel futuro.
L’amicizia e l’interesse per Mario Sironi, o il forte legame con Arturo Martini — che per la Montecatini doveva realizzare una monumentale scultura da porre all’esterno dell’edificio — nonché l’empatia per un progetto di rinnovamento espressivo realisticamente radicato nelle condizioni del proprio tempo, testimoniano la naturale prossimità di Ponti alla temperie del Novecento sarfattiano, ormai sfaldatosi alla fine degli anni 3o, ma assai vivo nella memoria dei suoi protagonisti. Uno straordinario paesaggio urbano di Sironi campeggerà sempre nella casa milanese di Ponti in via Dezza (il soggiorno della quale compare sulla copertina del volume, in una fotografia del 1957 con l’architetto, la moglie Giulia Vimercati e figli Giulio e Letizia), insieme alle opere dell’altro grande artista suo sodale, Massimo Campigli, che lo aveva ritratto con la famiglia nel 1934 (insieme anche le altre figlie: Lisa e Giovanna). Architettura e arte: i due poli tra i quali prende corpo la mutevole e coerente officina pontiana.
I libri di architettura, arte e design da leggere a novembre scelti da Elle decor
Silvia Airoldi
«Elle decor»
04 novembre 2023
Architetto, pittore, docente universitario, costumista, scenografo, arredatore, disegnatore per l’industria, scrittore. La parola poliedricità può forse sintetizzare l’attività svolta da Gio Ponti, nei molteplici ambiti e discipline, nel corso della sua lunga carriera. E proprio l’idea interessante di restituire quella “programmatica poliedricità” è il focus del libro, edito da Quodlibet, attraverso la proposta di otto saggi articolati su scrittura, grafica per libri e riviste, progetto di architettura e progetto di design, ovvero quattro delle diverse sfere di interesse di Ponti. Il suo lavoro è pensato come il prodotto di una officina di progetto, in cui i materiali lavorati possono variare, ma gli strumenti e il metodo di lavoro sono comuni e hanno un luogo di svolgimento fisso, che è Milano, si legge nell’introduzione. La metafora dell’officina suggerisce anche come l’obiettivo costante dell’attività di Ponti progettista sia stato quello di far prevalere l’intenzione progettuale sul processo attraverso cui essa si realizza, preservando sempre il suo ruolo autoriale. Guardando al catalogo dei lavori alle diverse scale di Ponti, edifici costruiti e oggetti prodotti, sembra fatto di tanti microcosmi; l’opera a cui Ponti pensa è un’opera chiusa, non aperta (come espresso nel libro, pubblicato nel 1945, dal titolo emblematico, “L’architettura è un cristallo”: il cristallo è una forma perfetta, che non può e non deve essere modificata, e il cui valore compete alla sfera estetica, dunque simbolica, prima che utilitaria). La forma, definita una volta per tutte, è attributo fondamentale dell’architettura nell’ideale di Ponti e, nella sua concezione, “ante litteram rispetto alla postmodernità”, l’architettura diventa mezzo per la comunicazione e la spettacolarizzazione del paesaggio. Lungo tutta la sua carriera, Ponti rivendica il mestiere dell’architettura come disciplina basata sulla libertà creativa del professionista messa al servizio della committenza, per lui quasi sempre definita da privati o da imprese. E in questo senso è determinante il rapporto con la Montecatini e la Pirelli, alla base dei progetti milanesi del Palazzo della Montecatini e del Grattacielo Pirelli, edifici con un ruolo chiave nella sua carriera. In cinquant’anni di professione l’architetto milanese è stato anche fondatore e direttore di riviste come ‘Domus’, ‘Stile’ e ‘Bellezza’ e ha collaborato con quotidiani e testate importanti, come ‘Il corriere della Sera’; autore di tantissimi testi e di una decina di libri, dove sono ‘sedimentate le sue idee, si è rivelato uno scrittore prolifico, come dimostrano anche i diversi pseudonimi utilizzati. Ponti ha ampliato il suo campo d’indagine, ovvero il territorio dell’architettura, esplorando o rivalutando settori dell’artigianato o industriali che erano stati ignorati o bistrattati dalla cultura architettonica ufficiale, come l’arredo navale o ferroviario; ha progettato oggetti di design, dal cucchiaio all’automobile, riflettendo il suo ruolo di «generoso moltiplicatore della cultura dei designer italiani», secondo le parole di Alessandro Mendini. Nel volume, i saggi degli autori interpretano disegni, testi e pubblicazioni di Ponti, analizzano i progetti degli edifici come Palazzo Montecatini, Grattacielo Pirelli, quelli degli oggetti di design, dal cucchiaio all’automobile, approfondendo alcune tematiche, anche con l’aiuto di fonti inedite tratte da Gio Ponti Archives, per offrire nuovi spunti e letture dell’attività di Ponti che, “di fronte alle preferenze italiane del primo quarto del secolo, rappresenta la responsabilità del gusto europeo e la sua necessità di essere moderno ad ogni costo”. Gli autori dei saggi sono: Elena Dellapiana, Manfredo di Robilant, Fulvio Irace, Gabriele Neri, Manuel Orazi, Francesco Parisi, Mario Piazza, Paolo Rosselli e Cecilia Rostagni.
Lo Studio ha sede in via Antonio Bosio in un villino costruito intorno agli anni Dieci nell’allora Via Alessandro Torlonia in una zona di Roma immersa nel verde e che ritorna in numerose pagine pirandelliane.
Corrado Alvaro così ricorda il verde che circondava la casa:“Nel mezzo dello studio c’era un divano con le spalle a una grande vetrata che dava, a destra, in un giardino. Il giardino era uno scenario vicino di lauri e di cipressi. Ma oltre a questo verde perenne e grave, che appena imbiondiva al sole di primavera, ci doveva essere qualche grande albero che perdeva le foglie, un platano o una magnolia; ricordo bene a certe stagioni quel fruscìo … È strano che questo fruscìo faccia parte dei miei ricordi su quello studio, e questo sfogliare sia trasferito in un parco anziché fra le carte del letterato”.
L’appartamento è costituito da un ampio soggiorno-studio, da una camera da letto e da una terrazza. L’arredo è quello originale: risale al 1933, quando lo scrittore vi si trasferì al suo rientro in Italia, dopo gli anni trascorsi a Berlino e a Parigi. Parte della mobilia, in stile fiorentino, risale al 1910 e proviene da precedenti abitazioni dello scrittore (una scrivania, due librerie a vetrine, due savonarola). Acquisti successivi furono invece il grande divano, le poltrone, una seconda scrivania, alcune scaffalature e l’intera camera da letto, in stile razionale.
La biblioteca comprende circa 2.000 volumi appartenuti allo scrittore. Lo studio conserva inoltre gli oggetti d’uso, compresa la piccola macchina da scrivere portatile divenuta un inseparabile strumento di lavoro. Tra i quadri figurano quattro opere del figlio Fausto. Numerosi i manoscritti relativi a poesie, romanzi e drammi.
Lo Studio, oltre ad essere il luogo della scrittura (nei primi anni della permanenza in via Bosio, Luigi Pirandello portava a compimento Pensaci Giacomino! e Così è (se vi pare), era anche luogo di conversazione e ritrovo: il divano e le poltrone accoglievano i suoi incontri con i familiari e con le personalità a lui vicine; ricordiamo, tra gli altri, i nomi di Lucio d’Ambra, Silvio d’Amico, Eduardo De Filippo.
Dalla luminosità e dall’ampiezza dello Studio si passa alla sobrietà di una stanza da letto dalle linee essenziali con un terrazzo dal quale, allora, si potevano scorgere i pini di Villa Torlonia. Gli abiti, i cappelli, il bastone, la divisa della Reale Accademia d’Italia sono ancora conservati nell’armadio.
È in questa stanza che il 10 dicembre del 1936 Pirandello muore.
Di quel giorno, Corrado Alvaro ha tracciato pagine indimenticabili:
Noi entrammo in quel suo studio, ed era pieno di gente, ma di gente agitata, in piedi, convulsa, curiosa, che fumava, si chiamava, parlava ad alta voce, come se il padrone di casa l’avesse invitata a un ricevimento e tardasse a entrare. … Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c’era quel silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di “povero cristo” … E di là, nello studio, quel chiacchiericcio da ricevimento, come aspettando che egli apparisse. … Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada bagnata .. La bara di abete tinto da poco con una mano di terra bruna, fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero fermi davanti al cancello a vederla partire verso gli alberi brumosi in fondo al viale.
[Le citazioni di Corrado Alvaro sono tratte dalla Prefazione a Novelle per un anno, Arnoldo Mondadori Editore, 1956, pp. 6-41]
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Biografia di Luigi Pirandello
Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 nella contrada Caos nei pressi di Girgenti (oggi Agrigento) da Caterina Ricci-Gramitto e Stefano Pirandello. La famiglia, di tradizione garibaldina e antiborbonica, è proprietaria di alcune miniere di zolfo. Nel 1886 dopo gli studi liceali compiuti a Palermo, Luigi Pirandello rientra a Girgenti, per lavorare con il padre nella gestione di una miniera di zolfo. Nel 1886 si iscrive all’Università di Palermo, per poi trasferirsi nel 1887 a Roma dove frequenta la Facoltà di Lettere, nel 1889, a causa di un contrasto con Onorato Occioni, professore di Lingua e Letteratura Latina, si trasferisce all’Università di Bonn, dove nel 1891 si laurea in Filologia romanza con la tesi Suoni e sviluppo dei suoni nella parlata di Girgenti.
Intanto ha già esordito come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di Gea (1891), raccolta che dedica a Jenny Schulz-Länder, di cui a Bonn si è innamorato.
Nel 1892, fermamente deciso a dedicarsi alla sua vocazione letteraria, si stabilisce a Roma, dove vive grazie ad un assegno mensile del padre. Nell’ambiente letterario della capitale conosce e stringe amicizia con il conterraneo Luigi Capuana che lo esorta a scrivere narrativa. Compone così le prime novelle e il suo primo romanzo, uscito nel 1901 con il titolo L’esclusa. Non abbandona comunque la poesia: escono nel 1895 le Elegie renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la sua ultima raccolta poetica. Nel 1894 sposa a Girgenti, con matrimonio combinato tra le famiglie, Maria Antonietta Portolano, figlia di un ricco socio del padre. Si stabilisce definitivamente a Roma, dove nascono i tre figli Stefano (1895), Rosalia (detta Lietta, 1897) e Fausto (1899).
La vita familiare scorre abbastanza tranquillamente ma a partire dal 1903 l’allagamento della miniera di Aragona condiziona negativamente il tenore di vita familiare, e i disturbi nervosi di Maria Antonietta, fino ad allora latenti, si aggravano. Lo stato di alterazione psichica di Maria Antonietta si riverserà sempre più spesso sulla famiglia. Luigi assiste la moglie fino al 1919, anno in cui la donna verrà ricoverata in una casa di cura (dove resterà fino alla morte nel 1959).
Luigi modifica il rapporto fino ad allora totalmente disinteressato con la letteratura ed inizia una fitta collaborazione con diversi giornali e riviste letterarie. Scrive il romanzo Il turno (edito nel 1902) e lavora ai suoi primi testi teatrali. In opposizione all’estetismo dominante, fonda con Ugo Fleres ed altri amici il settimanale letterario «Ariel», dove tra l’altro pubblica il testo teatrale L’epilogo (poi La morsa). Dal 1898 al 1922 insegna Stilistica presso l’Istituto Superiore Femminile di Magistero di Roma.
Nel 1904 esce a puntate sulla «Nuova Antologia» il romanzo Il fu Mattia Pascal; Pirandello riscuote un tale successo che uno dei più importanti editori di Milano, Emilio Treves, decide di occuparsi della pubblicazione delle sue opere.
Nel 1908 pubblica due saggi, Arte e scienza e L’umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a professore universitario ordinario. L’anno successivo pubblica la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani che ripercorre la storia del fallimento e della repressione dei Fasci; la seconda parte uscirà in volume nel 1913. Del 1911 è anche il romanzo Suo marito. Nel 1915 pubblicherà il romanzo Si gira …, ristampato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Nel 1915 l’Italia entra in guerra e il figlio Stefano parte volontario, presto viene fatto prigioniero nel campo di Mauthausen prima e in quello di Plan poi. La prigionia di Stefano durerà tre anni, il periodo è testimoniato da un intenso scambio epistolare tra padre e figlio.
Gli anni della Grande Guerra, sono vissuti da Luigi ancora più dolorosamente per la perdita, nel 1915, dell’amata madre Caterina.
Nel 1916 e nel 1917 scrive alcune delle più celebri opere in dialetto siciliano poi tradotte in italiano: Pensaci, Giacuminu!, ‘A birritta cu’ i ciancianeddi, Liolà, ‘A giarra; Cappiddazzu paga tuttu, ‘A vilanza, La patente; sempre nel 1917 scrive Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà, L’innesto, Ma non è una cosa seria; nel 1918 – anno in cui viene rappresentato Il giuoco delle parti – esce il primo volume di Maschere nude, titolo sotto cui Pirandello raccoglie i suoi testi teatrali.
Nel 1920 vengono pubblicate Tutto per bene, La Signora Morli, una e due, Come prima, meglio di prima.
Il 1921 è un anno fondamentale per il suo teatro: il 10 maggio la compagnia Dario Niccodemi mette in scena al Teatro Valle di Roma Sei personaggi in cerca d’autore: mentre a Roma la commedia da fare viene accolta tra contrasti, Pirandello raggiunge il grande successo internazionale.
Nel 1921 inizia la stesura di Enrico IV che in una lettera a Ruggero Ruggeri egli stesso definisce una delle sue opere più originali; la tragedia di Enrico IV rappresenta il primo incontrastato successo di Luigi Pirandello. Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno. La sua produzione teatrale prosegue con Vestire gli ignudi (1922), L’uomo dal fiore in bocca (1923), La vita che ti diedi (1923), Ciascuno a suo modo (1924).
Nel 1923 Adriano Tilgher pubblica Studi sul teatro contemporaneo con cui offre la prima interpretazione del teatro pirandelliano in cui chiarisce la presenza nell’opera di Luigi Pirandello del contrasto tra la vita e la forma. A Pirandello inizialmente piacque l’analisi tilgheriana ma nel tempo la ritenne troppo limitante e qualche anno dopo il rapporto tra i due si interruppe.
Nel 1924 Pirandello si iscrive formalmente al partito fascista; l’anno seguente inizia l’esperienza del capocomicato con l’avventura del Teatro d’Arte che durò tre stagioni teatrali, dal 1925 al 1928, prima nella sede stabile del Teatro Odescalchi a Roma poi con l’esperienza della Compagnia nomade che portò nel mondo le innovazioni teatrali dell’autore-regista. Per la serata inaugurale del Teatro d’Arte (2 aprile 1925), Pirandello scelse l’atto unico La Sagra del Signore della Nave composto nel 1924. L’interprete per eccellenza delle sue scene è l’attrice Marta Abba, conosciuta nel 1924 a cui Pirandello resterà legato tutta la vita.
Nonostante l’adesione formale di Pirandello al Partito Fascista, il suo stile di vita ed il pensiero espresso dalla sua arte non erano certo allineati alla “filosofia” fascista, tanto meno lo erano i suoi personaggi; non si può infatti definire Pirandello un intellettuale fascista.
Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila al quale l’autore aveva lavorato per molti anni; nel 1926 e nel 1927 scrive Diana e la Tuda, L’amica delle mogli, Bellavita.
Nel 1928, sciolta la sua Compagnia, Pirandello inizia gli anni del suo volontario esilio, Berlino prima, Parigi poi.
La nuova colonia (1928) inaugura l’ultima stagione pirandelliana, quella fondata sui «miti» moderni, che prosegue con Lazzaro (1929) e culmina nell’opera incompiuta I giganti della montagna. Nel 1929, mentre si trova a Berlino, è nominato membro della Reale Accademia d’Italia, parteciperà all’inaugurazione dell’Accademia alla presenza di Mussolini.
Sempre nel 1929 termina la stesura di O di uno o di nessuno e dell’atto unico Sogno (ma forse no), che verrà rappresentato la prima volta a Lisbona nel 1931; nel gennaio del 1930 a Königsberg avrà invece luogo la prima rappresentazione di Questa sera si recita a soggetto; seguono Sgombero (1931), Trovarsi (1932), nel Quando si è qualcuno (1933). Nell’aprile del 1933 prima proiezione a Roma del film Acciajo, tratto dal regista tedesco Walter Ruttmann dallo scenario di Pirandello Gioca, Pietro! (musiche di Gian Francesco Malipiero). Alla fine del 1933 si stabilisce a Roma in un appartamento in via Antonio Bosio, nella stesso villino alloggia il figlio Stefano con la famiglia. Una volta rientrato in Italia, ritorna ad occuparsi del suo progetto di fondare il Teatro di Stato, un teatro d’arte con una sede stabile; fino alla fine dei suoi giorni sperò – invano – che il Partito lo aiutasse concretamente a realizzare il suo grande sogno.
Nel gennaio 1934, a Braunschweig, va in scena l’opera di Malipiero su libretto di Pirandello La favola del figlio cambiato: nonostante il successo di pubblico e di critica le autorità naziste vietano le repliche dell’opera; nel mese di marzo La favola andrà in scena al Teatro dell’Opera di Roma alla presenza del Duce il quale, irritato, ne proibisce ogni replica.
Nel mese di ottobre Pirandello presiede il IV Convegno della Fondazione Alessandro Volta dedicato al Teatro Drammatico; per l’occasione metterà in scena La figlia di Iorio di d’Annunzio al Teatro Argentina di Roma.
Il 10 dicembre 1934 a Stoccolma gli viene consegnato il Premio Nobel per la Letteratura «per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte del dramma e della scena».
Nel 1935 proseguono i suoi tentativi con il Duce per realizzare un Teatro di Stato che non si farà mai, alla fine del 1935 prima rappresentazione di Non si sa come al Teatro Argentina di Roma.
Nel 1936, deluso dal disinteresse del Partito per il suo grande progetto teatrale, Pirandello si dedica alla promozione di Marta Abba sulle scene americane. Numerosi i viaggi in Italia e all’estero, ma anche i momenti trascorsi con i familiari e gli amici più intimi. In dicembre si ammala di polmonite mentre segue le riprese del film di Pierre Chenal L’homme de nulle part tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa di via Antonio Bosio il 10 dicembre 1936.
Tra le sue carte si scoprono le ultime volontà da rispettare. Il giorno dopo la morte, un carro funebre solitario si avvia verso il cimitero del Verano dove il suo corpo verrà cremato. Le ceneri sono conservate al Caos, in una roccia all’ombra del famoso pino solitario non lontano dalla casa natia di fronte al mare africano.
Dina Saponaro – Lucia Torsello, Profilo Biografico,
in Luigi Pirandello, Opere,
a cura di Franca Angelini
Illustrazioni di Mimmo Paladino
Classici Treccani,
I grandi autori delle Letteratura Italiana
Collana diretta da Carlo Maria Ossola,
Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Roma, 2012.
MUSEI GRATUITI A ROMA
ROMA- La città eterna offre delle perle di storia e arte senza chiedervi di mettere mano al portafogli. Sono almeno 20 i musei di Roma che prevedono ingresso gratuito tutto l’anno tra cui la collezione privata di Carlo Bilotti, l’imprenditore che ha donato al comune di Roma il proprio “bottino” di opere di DeChirico, Warhol, Rotella e Severini. Anche il museo Napoleonico e della MemoriaGaribaldina, a Roma, sono gratis. Noi però vi consigliamo di visitare lo studio di Pirandello, visto che di arte a cielo aperto farete indigestione a Roma, e considerato che sicuramente avrete scelto di visitare le cose imperdibili come la Cappella Sistina o il Colosseo. E quindi in una Roma “letteraria” e meno iconica e simbolica della sua stessa storia, potete andare a vedere lo studio, che si trova sulla Nomentana, di uno dei maggiori artisti della parola. La casa è stata trasformata in museo e conserva arredi, biblioteca e cimeli originali, così come sono stati lasciati dal Pirandello.
«una certa dose di meledicenze, un po’ di veleno, alcuni aneddoti e pettegolezzi… Scrivo del mio tempo» Sergej M. Ejzenstejn
«Ma c’è stata la vita?…Si direbbe ci sia stata. Vissuta in modo acuto, allegro, doloroso, addirittura vivida in alcuni momenti,indubbiamente pittoresca, e tale che non la cambierei con nessun’altra» Sergej M. Ejzenstejn
Il bisogno di scrivere prende forma precocemente in Ejzenstejn, che sin dal 1917-1918 annota in quaderni e su foglietti improvvisati ogni sorta di riflessione: da considerazioni sul teatro a impressioni tratte dalle letture fatte, da divagazioni filosofiche a piccoli aneddoti buffi.
Nel 1946, sulla soglia dei cinquant’anni, mentre si accinge a scrivere le proprie memorie, egli nota come per tutta la vita, nel suo lavoro, si sia occupato «di opere à thèse» dimostrando, spiegando, insegnando. Mentre «qui», dichiara, «voglio girovagare per il mio passato, come amavo fare per antiquari e rigattieri del mercato Aleksandrovskij a Piter, per i bouquinistes dei lungosenna a Parigi, per Amburgo o Marsiglia di notte, per le sale dei musei delle cere».
Ecco allora che in queste pagine letture e stralci di vita vissuta s’intrecciano; Dumas e Hugo, Zola e Balzac si profilano nelle sale borghesi della casa paterna, Maeterlinck e Schopenhauer si stagliano sullo sfondo della guerra civile, le città d’Europa e d’America sono evocate ora attraverso incontri fortuiti con artisti di fama, da Pirandello a Cocteau, da Zweig a Joyce, ora tramite associazioni libere con temi ed eventi storici legati ai luoghi visitati: la polizia americana e francese e le tecniche del romanzo giallo, le millenarie piramidi dello Yucatan e la Chiesa ortodossa medievale, gli esordi teatrali e cinematografici a Riga e Pietrogrado, i ricordi d’infanzia sul Baltico, le prime impressioni della Rivoluzione, il fronte e la guerra civile nella Russia bianca, le emozioni per i successi professionali all’estero e in patria, i viaggi… Così la vita del grande regista «sfreccia nella memoria come un film con dei vuoti, dei pezzi spariti, con scene incollate in modo sconnesso, come un film la cui “idoneità alla distribuzione” sia pari al trentacinque per cento».
Eppure, lo scrittore Ejzensˇtejn non ci ha mai parlato in modo così chiaro. Giacché solo qui, e forse nei primi giovanili appunti «per sé», egli scrive senza altra finalità se non quella, appunto, di «scrivere». Nei suoi intenti c’è dunque l’idea di afferrare, tramite la scrittura, episodi, incontri, attimi,
immagini di quella vita che spesso noi tutti «percorriamo al galoppo, senza guardarci intorno, come un trasbordo dopo l’altro», e dalla quale, «come dal finestrino di un treno, sfrecciano via frammenti d’infanzia, pezzi di gioventù, scampoli di maturità».
È lui stesso, in apertura delle Memorie, ad annotare: «Come vorrei esaurire il capitolo riguardante la mia vita con tre parole! “Visse, meditò, si appassionò”. E che queste pagine possano servire a descrivere ciò di cui ha vissuto, su cui ha meditato e a cui si è appassionato l’autore».
Biografia di Sergey Michajlovic Ejzenstejn (1898-1948), massimo interprete del cinema russo e geniale innovatore della teoria cinematografica, iniziò il suo lavoro creativo come scenografo e regista teatrale (Il messicano, 1920-21; Anche il più saggio sbaglia, 1923; Mosca ascolti?, 1923; Maschere antigas, 1923-24). Il suo primo film è Sciopero (1924). Seguono: La corazzata Potëmkin (1925); Ottobre (1924); Il vecchio e il nuovo (La linea generale) (1926-29); Qué viva Mexico! (1930-31), incompiuto; Il prato di Bezin (1937), incompiuto; Aleksandr Nevskij (1938); Ivan il Terribile (I parte 1944, II parte, nota col titolo La congiura dei Boiardi, 1946). Dal 1928 fu anche insegnante di regia all’Istituto statale di cinematografia. Nel 1940 mise in scena La Valchiria di Wagner al teatro Bol’soj di Mosca. Al lavoro creativo di Ejzenstejn si affianca, fin dall’inizio, una straordinaria produzione di testi teorici nei quali l’indagine sul cinema si svolge, di regola, nel contesto di una penetrante riflessione sull’arte che oggi possiamo considerare senz’altro come uno degli episodi salienti del pensiero estetico moderno.
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