Fara in Sabina (Rieti)-Un ricco weekend di spettacoli al Teatro Potlach –
Fara in Sabina – Va in scena al Teatro Potlach ,Sabato 29 Marzo alle ore 21.00, “MOBY DICK”con Maurizio Stammati adattamento e regia Antonello Antonante scene e costumi Dora Ricca allestimento scenografico e foto di scena Eros Lealeluci e audio Giuseppe Canonaco immagini Angelo Gallo-
“MOBY DICK”con Maurizio Stammati adattamento e regia Antonello Antonante
Moby Dick, allegoria dell’uomo alla ricerca di se stesso ed esplorazione del mistero.Nelle pagine di Melville si scopre che quell’abbandonare la sicurezza della terraferma, per puntare verso la verità del mare aperto, appaga per sempre l’istinto di qualsiasi Ulisse e l’ambizione di qualsiasi gioventù. La Pequod (il nome della baleniera del capitano Achab) si trasforma, preso il mare, in un microcosmo, in una medievale allegoria dell’uomo, del suo destino, delle sue scelte, o addirittura in un riassunto della storia dell’uomo. Achab, nella sua determinazione di lottare, sino all’autodistruzione o al sacrificio, per conoscere la verità assoluta (perché questo è il senso della sua caccia alla balena) scopre (per tutti noi) il limite fatale della sua follia che sta nella superbia, il peccato dei peccati.Moby Dick di Hermann Melville è uno dei capolavori della letteratura americana, considerato opera fondamentale della letteratura mondiale.
“MOBY DICK”con Maurizio Stammati adattamento e regia Antonello Antonante
Età consigliata: da 13 anni
Biglietto: 10 €
Info e prenotazioni scrivendo SMS o WhatsApp al numero del Teatro Potlach: 351.7954176
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E la domenica… appuntamento in teatro per tutta la famiglia!
Domenica 30 Marzo alle ore 17.00 al Teatro Potlach di Fara Sabina
“Fiabe scacciamostri” – Teatro Laboratorio Isola di Confine
Di e con: Giulia Castellani, Valerio Apice
Canzoni originali: Giulia Castellani
A volte i bambini hanno paura di andare a dormire. Fa paura il buio della notte, con le sue ombre lunghe, che nasconde chissà quale orribile mostro. Anche Nicolino ha paura e non vuole proprio addormentarsi.
«Papà! Papà! Mi racconti una storia?»
«Va bene, Nicolino, però poi promettimi che ti addormenterai»
Lo spettacolo racconta diverse storie, con le tecniche del teatro d’attore e del teatro di figura, accompagnato da canzoni e musica dal vivo. Nicolino ascolterà fiabe classiche come “I musicanti di Brema” e fiabe più moderne come “Il mostro peloso” tratto dal libro di Henriette Bichonnier. Fiabe di spavento e di coraggio, ma anche per sorridere ed esorcizzare insieme le paure dei bambini.
E alla fine… Si addormenterà Nicolino?
|Adatto a partire dai 3 anni.
Biglietto: 5 €
Info e prenotazioni scrivendo SMS o WhatsApp al numero del Teatro Potlach: 351.7954176
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TEATRO POTLACH via Santa Maria in Castello n. 28, Fara in Sabina (RI)
regia Gianni Puccini, con Gian Maria Volonté, Riccardo Cucciola, Don Backy, Lisa Gastoni, Serge Reggiani .
Il Film I SETTE FRATELLI CERVI racconta la storia vera della famiglia Cervi,una famiglia di contadini con radicati sentimenti antifascisti,i 7 Fratelli Cervi presero attivamente parte alla resistenza contro i nazi-fascisti.Presi prigionieri ,furono torturati e poi fucilati dai Fascisti il 28 Dicembre 1943 al poligono di Tiro di Reggio Emilia. IL sacrificio dei Fratelli Cervi rappresenta uno degli episodi più drammatici della Resistenza…IL Film ripercorre ,in Lunghi Flashback,la storia di questa famiglia. Un film forse oggi un po’ didascalico ma Utile per non dimenticare.
I SETTE FRATELLI CERVI
LA STORIA DEI CERVI
E’ una storia che parte dalla fine, quella dei sette Fratelli Cervi e di Quarto Camurri. Dallo sparo unisono che alle 6,30 del 28 dicembre 1943 falciò al Poligono di Tiro di Reggio Emilia le vite di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore insieme al compagno di lotta di Guastalla. Alcune ricostruzioni collocano il momento della fucilazione in altra ora. Tutte concordano sulla “discrezione” dell’eccidio: i documenti ufficiali rassicurano l’autorità sulla assenza di sguardi indiscreti. Così avvenne per la frettolosa tumulazione delle salme, ad evitare una qualunque forma di pubblica riconoscibilità di quell’atto madornale. Sono forse le stesse, neonate gerarchie repubblichine a rendersi conto dell’enormità del gesto. Di certo, se ne avvedono le autorità “centrali”, di quello stato fascista che non c’è più ma che si vuole prolungare nell’ombra fosca dell’occupazione tedesca. Da Brescia, dove si improvvisano le sedi istituzionali della Repubblica di Salò, giunge una sola domanda, scarabocchiata sul verbale dell’esecuzione: “sono 7 fratelli?”
La famiglia Cervi
Nessuna notizia venne ostentata sulla sanguinosa rappresaglia ordinata dai maggiorenti della RSI reggiana, in risposta all’attentato mortale a Davide Onfiani presso Bagnolo. Il Solco Fascista dello stesso giorno ricorda solo che “otto elementi, rei confessi di violenze e aggressioni…” sono stati passati per le armi all’alba di “oggi, 28 dicembre”. E’ immediata la percezione del crimine abnorme perpetrato, che rappresenta il primo vero faccia a faccia tra partigiani e fascisti a Reggio Emilia. I repubblichini riconoscono nella banda il primo vero nemico organizzato, con indizi schiaccianti a loro carico; ciò nonostante, la brutale rappresaglia segnerà per sempre la storia dei 20mesi della Resistenza reggiana. I Cervi se ne vanno così, nel volgere di un anno convulso e lunghissimo. Nel livido silenzio dell’inverno ’43, quando ancora tutto deve accadere a Reggio Emilia, a Casa Cervi tutto sembra essere già finito. E’ il punto in cui la storia deve fare qualche passo indietro. Ad un’altra alba, quella del 25 novembre dello stesso anno. Un mese prima, i Cervi vengono sorpresi insieme ad alcuni componenti della loro “banda” nella loro casa colonica. Siamo al podere dei Campirossi, tra Campegine e Gattatico, in aperta campagna reggiana. Un plotone di militi della Guardia Nazionale Repubblica circonda l’abitazione, su precise indicazioni da parte di delatori locali. Il Capitano Pilati è venuto in forze, “ufficialmente” 35 uomini, ma i testimoni in casa svegliati dall’accerchiamento ne contano molti di più. Cento, centocinquanta per alcuni. L’ordine dei fascisti è chiaro: arrendersi subito, deporre le armi, consegnare i prigionieri rifugiati. Perchè la famiglia Cervi è una famiglia ribelle, i suoi sette figli maschi hanno preso (tra i primi a Reggio Emilia) le armi dopo l’8 settembre; e hanno fatto della loro casa un ricovero per fuggiaschi e resistenti di ogni nazionalità. I fascisti e gli assediati si scambiano colpi di fucile e mitraglia, per alcuni un accenno di resistenza, per altri un fuoco serrato. In ogni caso, la reazione dalle finestre della casa è breve, perchè in poco tempo stalla e fienile sono avvolti dalle fiamme. L’incendio è certamente appiccato dagli assalitori, circostanza sempre negata dai diretti interessati. Ci sono donne e bambini, la stalla è piena di mucche, tutta la decennale fatica di Papà Alcide e della famiglia sta andando rapidamente in fumo. La resa è inevitabile.
Vengono arrestati tutti i componenti della “banda Cervi”: i sette figli maschi di Alcide, il padre stesso, Quarto Camurri, Dante Castellucci (Facio) e il russo Anatolij Tarassov, più 3 soldati alleati unitisi al gruppo partigiano: i sudafricani John David Bastiranse (Basti) e John Peter De Freitas (Jeppy), l’irlandese Samuel Boone Conley. Le loro strade si dividono presto, perchè ai soldati stranieri viene riservato un trattamento migliore. Lo stesso “Facio”, fingendosi francese, non verrà trattenuto dalle milizie reggiane. Molti di loro proseguiranno l’esperienza partigiana sull’appenino. Ma queste, sono altre storie.
I SETTE FRATELLI CERVI
La sorte dei Cervi invece è quella di nemici dell’ordine pubblico. Ribelli sediziosi e comunisti; non va meglio al disertore della Milizia Volontaria Quarto Camurri, “italiano rinnegato” come recita la cronaca fascista della “brillante operazione di polizia militare”.
L’alba del 25 novembre è, negli occhi e nella memoria dei testimoni, ma anche dei conterranei dei Cervi, il vero consumarsi della tragedia. Mai prima di quel momento si era vista all’opera la macchina repressiva della RSI, mai il conflitto era arrivato così vicino. Per le 5 donne e i 10 bambini (alcuni in fasce) della casa ai Campirossi, sono i momenti della paura, del fuoco, del violento distacco dai propri affetti. Per la popolazione locale, il disvelamento del volto truce del fascismo in armi, disposto a tutto per il controllo del territorio.
In realtà la pianura reggiana era già immersa confronto in atto, tra le forze declinanti ma agguerrite del “nuovo” fascismo e la montante attivitàclandestina degli antifascisti organizzati. L’opzione delle armi, resa concreta dopo l’8 settembre, stava già portando i segnali di una lotta senza quartiere tra gappisti e repubblichini, alzando il livello dello scontro. I Cervi stessi fanno parte di quel movimento avanzato che all’indomani dell’Armistizio intende fare delle retrovie nazifasciste un luogo instabile, e della pianura reggiana un territorio ostile per gli occupanti e i collaborazionisti.
Ci sono dunque, molti antefatti a quelle due albe di violenza che portarono i Cervi al carcere di San Tommaso e un mese dopo al plotone di esecuzione. Il più importante di questi è la scelta precoce, radicale di opposizione al regime già a partire dagli anni ’30, nel culmine della parabola di consenso al Duce e all’impero coloniale. Per una famiglia di solide radici cattoliche, impegnata in politica già prima della dittatura, si tratta di una opzione naturale. Il fascismo aveva progressivamente spazzato via tutti i riferimenti pubblici che costituivano l’identità civile dei Cervi: Alcide, iscritto al Partito Popolare fino al 1921, e pure sensibile alla predicazione di Camillo Prampolini nelle campagne, ha educato i figli all’impegno coniugato alla fede. Dalla madre Genoeffa Cocconi, i 9 figli (si devono sempre aggiungere al computo le figlie Rina e Diomira) hanno preso l’amore per la lettura, l’inquietudine culturale e la sete di conoscenza. Sono autodidatti, i Cervi, spinti da un desiderio di emancipazione sociale che passa per il lavoro nei campi, l’innovazione nella stalla.
Da mezzadri ad affittuari, nel volgere del primo decennio fascista la già numerosa famiglia
Cervi cerca una strada nuova. Si trasferiscono nel 1934 al podere ai Campirossi, tra Caprara e Praticello. Che trasformano ad immagine e somiglianza delle loro ambizioni agricole moderne, delle loro letture scientifiche. Studiano, sperimentano, falliscono e riescono più volte. Con la stessa irrequieta dedizione, Aldo Cervi è il primo a maturare una compiuta coscienza antifascista; abbraccia l’ideologia comunista, lui che era stato un attivista in prima fila per l’azione cattolica locale. Ed è insieme a Didimo Ferrari, altro campeginese noto nella storia partigiana, che prende corpo l’idea di una Biblioteca Popolare. Libri per difendersi dallo sfruttamento, per essere liberi di pensare fuori dagli schemi: un’intuizione sorprendente per una famiglia di contadini, non certo di intellettuali; che aveva, però, sperimentato sul campo l’efficacia del sapere. Più studio significava più latte dalle mucche, più resa dei campi. Padroni del proprio lavoro, e così delle proprie idee.
Con ruoli e intensità diversi, tutta la famiglia partecipa alla marcia di Aldo verso lo scontro con il fascismo. Dalla lotta all’ammasso (il conferimento forzoso al regime di produzione agricola), passando per i primi volantini, Casa Cervi diventa un laboratorio di antifascismo applicato. Le informative su questa famiglia di irrequieti contadini, e di chiare simpatie comuniste, si accumulano sui tavoli della autorità. Non solo il terzogenito Aldo, ma anche Gelindo e Ferdinando sono fatti oggetto di segnalazioni e provvedimenti restrittivi tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40. Il cammino politico dei Cervi è complesso e articolato, risulta impossibile comprimerlo in poche righe. Ricalca lo stesso percorso carsico dell’antifascismo minoritario, delle avanguardie del movimento in quegli anni. Allo stesso tempo, ne presenta tratti unici, legati all’esperienza di riscatto sociale e produttivo.
Saranno gli incontri personali, nient’affatto casuali, a fare la differenza. Cosi come era stato con “Eros”, la movimentata gioventù antifascista si cerca e si ritrova nella clandestinità. Lucia Sarzi, attrice itinerante e già militante comunista, porterà ad Aldo e ai suoi fratelli nuovi spazi operativi, contatti, legami con i centri clandestini della nascente resistenza. Nel frattempo, i Cervi non rinunciano al loro progetto di agricoltura di progresso. Il primo trattore, una “macchina del futuro” in quegli anni, arriva nel ’39, seguito dal più potente Landini a testa calda due anni dopo. La stessa abitazione si amplia per contenere l’espansione produttiva del podere nel 1941.
Per loro, contadini di scienza di giorno e cospiratori di notte, non è certo facile abbandonare gli affetti domestici, la famiglia che nel frattempo si è completata di 4 spose e 10 bambini (23 persone in tutto). Ma sono tra i primi a farlo, pronti a rompere gli indugi già un mese dopo l’armistizio. Tanto precoce è la loro scelta, così lo è la loro irruenza per passare dalla propaganda all’azione. Anche in contrasto con gli altri compagni di lotta che attendono, pianificano, e non condividono l’approccio immediato della nascente “banda Cervi”. Aldo, Otello Sarzi, Dante Castellucci, Tarassov e altri Cervi saliranno in montagna nell’ottobre del 1943, non prima di aver trasformato la casa ai Campirossi in un centro di latitanza. Si alternano azioni in montagna (l’assalto alla caserma di Toano, l’incontro con Don Pasquino Borghi a Tapignola) e i “colpi” in pianura, come il disarmo del Presidio dei Carabinieri a San Martino in Rio e il fallito attentato al segretario del Partito Fascista Repubblicano Giuseppe Scolari. Sono gli ultimi, convulsi giorni dei Cervi liberi. La Resistenza è già una realtà, ma dal percorso incerto e ancora acerbo nel 1943, anche in una terra di passioni democratiche come Reggio Emilia. Spintasi oltre il confine della clandestinità, in un contesto non ancora strutturato e conflittuale, la banda Cervi rimane isolata. Ed ecco arrivare la cattura, dopo meno di 80 giorni dall’8 settembre.
Per restituirci l’umanità del primo sacrificio reggiano alla Resistenza, vale la pena, in conclusione, sfogliare le lettere che i fratelli scrivono a casa, nel mese di prigionia e interrogatori che li separa dall’esecuzione. Una fine forse attesa per alcuni (Aldo e i fratelli più “esposti”), inconcepibile per altri, improvvisa per tutti. Le prime raccomandazioni sono per il podere, il timore che la fatica del lavoro vada in fumo. Quasi che la parentesi della cattura sia solo una pausa dall’operosità dei campi e della stalla. Poi la consapevolezza, sempre più concreta, che i piani dei fascisti sono altri. Gli affetti lontani, la madre e le mogli, i figli. E’ un commiato sfilacciato e mai definitivo, quello che si consuma con la famiglia. Fino all’epilogo, che impedirà a Papà Cervi, loro compagno di cella fino alla fine, di congedarli prima della traduzione al poligono.
Il 28 dicembre 1943, nel modo peggiore possibile, cala il sipario sull’intervento diretto dei Cervi nella Resistenza reggiana. Un contributo folgorante e annichilito anzitempo. E inizia, da quel momento, il loro ruolo simbolico, che attraverserà tutta la storia della Liberazione locale, e oltre la guerra ne incarnerà il sacrificio e la dedizione.
Salvatore Quasimodo li ha resi immortali in questa poesia: “Ai Fratelli Cervi, alla loro Italia”. Ci pare il modo migliore per commemorarli, in questi giorni di festa, che sono anche di memoria. Perché un Paese senza memoria semplicemente è un Paese che non esiste. Sarà per questo che tentano in ogni modo di farci dimenticare. Ma noi resistiamo e ricordiamo.
In tutta la terra ridono uomini vili, principi, poeti, che ripetono il mondo in sogni, saggi di malizia e ladri di sapienza. Anche nella mia patria ridono sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria malinconia dei poveri. E la mia terra è bella d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure di pietra e di dolore, d’antiche meditazioni.
Gli stranieri vi battono con dita di mercanti il petto dei santi, le reliquie d’amore, bevono vino e incenso alla forte luna delle rive su chitarre di re accordano canti di vulcani. Da anni e anni vi entrano in armi, scivolano dalle valli lungo le pianure con gli animali e i fiumi.
Nella notte dolcissima Polifemo piange qui ancora il suo occhio spento da navigante dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura, vestono la morte e ridono i nemici familiari. Alcuni erano con me nel tempo dei versi d’amore e solitudine nei confusi dolori di lente macine e di lacrime. Nel mio cuore finì la loro storia quando caddero gli alberi e le mura tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.
Ma io scrivo ancora parole d’amore, e anche questa è una lettera d’amore alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi non alle sette stelle dell’orsa: ai sette emiliani dei campi. Avevano nel cuore pochi libri, morirono tirando dadi d’amore nel silenzio. Non sapevano soldati filosofi poeti di questo umanesimo di razza contadina. L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore, non per memoria, ma per i giorni che strisciano tardi di storia, rapidi di macchie di sangue.
Fara in Sabina-Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina:Intervista alla Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Fara in Sabina (Rieti)-Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina, sito nel borgo antico di Fara in Sabina, celebra un anniversario importante: lo scorso 16 marzo 2024, infatti, è stata inaugurata la sala che ospita il prezioso corredo della Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, testimone di una delle pagine più travagliate e avventurose della storia dell’archeologia, insieme al suo reperto più celebre: il Carro del Principe di Eretum.
Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina:Intervista alla Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Il recupero, il restauro, la fruizione e la valorizzazione del ritrovamento sono stati resipossibili dal lavoro sinergico del Comune di Fara in Sabina e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti.
Per omaggiare questo primo anniversario, il museo ha organizzato un evento speciale previsto per sabato 29 marzo 2025, al quale saranno presenti diverse figure di rilievo tra cui l’archeologa dott.ssa Paola Santoro, dirigente emerito del Consiglio Nazionale delle
Ricerche ed ex dirigente dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico a Montelibretti. È stata allieva del grande etruscologo Massimo Pallottino e attualmente ricopre il ruolo di direttrice del Museo Civico Archeologico di Magliano Sabina.
Dottoressa Santoro, lei ha diretto e promosso ricerche topografiche e scavi nella Sabina Tiberina, che hanno avuto come risultato l’identificazione di alcune città con le necropoli, tra cui quella di Colle del Forno: può parlarcene?
Sì, dirigevo le ricerche sui Sabini del Tevere. È stato abbastanza complicato perché iprimi scavi, avvenuti negli anni Settanta, sembravano una sorta di libro di cui sono state ritrovate solo alcune pagine sparse. Noi abbiamo cercato di collegarle tra loro, ma ovviamente i buchi restano. Per fortuna siamo stati ricompensati perché nella seconda serie di campagne di scavo, iniziate negli anni 2000, abbiamo trovato la tomba 36, conosciuta come Tomba del Trono, conservata anch’essa al museo di Fara in Sabina.
Cosa avete scoperto durante gli scavi?
Nel ‘73 è stata allestita una prima esposizione al Consiglio Nazionale delle Ricerche per mostrare che la Sabina non è una zona grigia dell’archeologia, come diceva l’archeologo Pallottino, ma appare con un profilo archeologico ben definito. Da quel momento,coadiuvati dalla Soprintendenza, abbiamo ripreso a studiare tutti i Sabini del Tevere confermando la presenza di due fari nella Sabina Tiberina: uno è la città di Tito Tazio e Numa Pompilio, ossia Cures, e l’altro è la necropoli che ci ha dato l’opportunità di tracciare il profilo culturale dell’insediamento sabino, cioè Eretum.
Qual è stato il momento più emozionante per lei?
Chi ha trafugato la tomba ha trovato il carro intatto, evento raro in questo ambito, ma a causa degli scavi fatti con la ruspa sono stati riportati diversi danni. Io scientificamente ho potuto scavare i lacerti, i quali erano soprattutto frammenti d’oro. Ed è proprio questo il dettaglio che mi ha particolarmente colpito, cioè scoprire che i materiali d’oro rinvenuti si possono collegare alla veste di una principessa sepolta nella tomba. Si tratta di elementi decorativi provenienti dal Lazio e dall’interno della penisola e questo fa supporre che tutto il corredo sia appartenuto a una delle famiglie più emergenti di Eretum.
Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina:Intervista alla Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Davvero affascinante. E secondo lei che impatto ha avuto l’arrivo del Carro per il museo e per tutta la comunità?
Io penso rappresenti un valore aggiunto per il museo e per la città, infatti il Comune di Fara in Sabina ci tiene tanto. Bisogna continuare a tutelare questo importantissimo patrimonio. D’altronde, il museo di Fara ha il vanto di avere i due poli principali della Sabina Tiberina Meridionale nominati dalle fonti e scavati scientificamente, uno dalla Soprintendenza e uno dal CNR.
Dottoressa, ha altri progetti in cantiere?
A noi rimane tanto materiale da studiare riguardo alla storia di Eretum. Al momento abbiamo documentato graficamente tutti i reperti e ora stiamo lavorando alla pubblicazione di un libro dedicato alla storia della Tomba XI, che mi auguro
diventi una pietra miliare della storia dei Sabini del Tevere. Magari, il 29 marzo de prossimo anno, potremo finalmente presentarlo.
Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina, sito nel borgo antico di Fara in Sabina, celebra un anniversario importante: lo scorso 16 marzo 2024, infatti, è stata inaugurata la sala che ospita il prezioso corredo della Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, testimone di una delle pagine più travagliate e avventurose della storia dell’archeologia, insieme al suo reperto più celebre: il Carro del Principe di Eretum. Il recupero, il restauro, la fruizione e la valorizzazione del ritrovamento sono stati resi possibili dal lavoro sinergico del Comune di Fara in Sabina e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti.
Per omaggiare questo primo anniversario, il museo ha organizzato un evento speciale previsto per sabato 29 marzo 2025, al quale saranno presenti diverse figure di rilievo tra cui l’archeologa dott.ssa Paola Santoro, dirigente emerito del Consiglio Nazionale delle Ricerche ed ex dirigente dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico a Montelibretti. È stata allieva del grande etruscologo Massimo Pallottino e attualmente ricopre il ruolo di direttrice del Museo Civico Archeologico di Magliano Sabina.
Dottoressa Santoro, lei ha diretto e promosso ricerche topografiche e scavi nella Sabina Tiberina, che hanno avuto come risultato l’identificazione di alcune città con le necropoli, tra cui quella di Colle del Forno: può parlarcene?
Sì, dirigevo le ricerche sui Sabini del Tevere. È stato abbastanza complicato perché i primi scavi, avvenuti negli anni Settanta, sembravano una sorta di libro di cui sono state ritrovate solo alcune pagine sparse. Noi abbiamo cercato di collegarle tra loro, ma ovviamente i buchi restano. Per fortuna siamo stati ricompensati perché nella seconda serie di campagne di scavo, iniziate negli anni 2000, abbiamo trovato la tomba 36, conosciuta come Tomba del Trono, conservata anch’essa al museo di Fara in Sabina.
Cosa avete scoperto durante gli scavi?
Nel ‘73 è stata allestita una prima esposizione al Consiglio Nazionale delle Ricerche per mostrare che la Sabina non è una zona grigia dell’archeologia, come diceva l’archeologo Pallottino, ma appare con un profilo archeologico ben definito. Da quel momento,coadiuvati dalla Soprintendenza, abbiamo ripreso a studiare tutti i Sabini del Tevere confermando la presenza di due fari nella Sabina Tiberina: uno è la città di Tito Tazio e Numa Pompilio, ossia Cures, e l’altro è la necropoli che ci ha dato l’opportunità di tracciare il profilo culturale dell’insediamento sabino, cioè Eretum.
Qual è stato il momento più emozionante per lei?
Chi ha trafugato la tomba ha trovato il carro intatto, evento raro in questo ambito, ma a causa degli scavi fatti con la ruspa sono stati riportati diversi danni. Io scientificamente ho potuto scavare i lacerti, i quali erano soprattutto frammenti d’oro. Ed è proprio questo il dettaglio che mi ha particolarmente colpito, cioè scoprire che i materiali d’oro rinvenuti si possono collegare alla veste di una principessa sepolta nella tomba. Si tratta di elementi decorativi provenienti dal Lazio e dall’interno della penisola e questo fa supporre che tutto il corredo sia appartenuto a una delle famiglie più emergenti di Eretum.
Davvero affascinante. E secondo lei che impatto ha avuto l’arrivo del Carro per il museo e per tutta la comunità?
Io penso rappresenti un valore aggiunto per il museo e per la città, infatti il Comune di Fara in Sabina ci tiene tanto. Bisogna continuare a tutelare questo importantissimo patrimonio. D’altronde, il museo di Fara ha il vanto di avere i due poli principali della Sabina Tiberina Meridionale nominati dalle fonti e scavati scientificamente, uno dalla Soprintendenza e uno dal CNR.
Dottoressa, ha altri progetti in cantiere?
A noi rimane tanto materiale da studiare riguardo alla storia di Eretum. Al momento
abbiamo documentato graficamente tutti i reperti e ora stiamo lavorando alla
pubblicazione di un libro dedicato alla storia della Tomba XI, che mi auguro
diventi una pietra miliare della storia dei Sabini del Tevere. Magari, il 29 marzo del
A Velletri la prima Giornata di Studi Internazionale al Museo-
Musei Civici di Velletri-Il 28 marzo, a partire dalle ore 9.30 e per l’intera giornata, la Sala Tersicore, situata al primo piano del Palazzo Comunale di Velletri, ospiterà la 1^ Giornata di Studi Internazionale del Museo Archeologico “O. Nardini”. L’evento, organizzato dalla direttrice dei Musei Civici di Velletri, Raffaella Silvestri, si propone come il primo di una serie di incontri dedicati all’approfondimento e alla valorizzazione della storia del territorio. Il tema scelto per questa prima edizione, “Coriolano, i Volsci e i Romani”, rappresenta un argomento di particolare rilevanza per la città di Velletri e per l’intero territorio dei Castelli Romani, ponendo l’accento su alcuni dei protagonisti storici che ne hanno segnato le vicende. Al convegno parteciperanno illustri studiosi e ricercatori del settore, tra cui Filippo Coarelli, Luigi Capogrossi Colognesi, Emanuele Di Fazio, Giuseppina Ghini, Francesca Diosono, Marco Nocca, Elena Foddai e molti altri esperti, i quali offriranno un contributo scientifico di alto livello attraverso le loro relazioni e discussioni. L’iniziativa rappresenta un’importante occasione per studiosi, appassionati e cittadini interessati a conoscere più da vicino la storia e l’archeologia del territorio. L’ingresso è libero e aperto a tutti. L’iniziativa è aperta alla partecipazione delle scuole, come opportunità per coinvolgere studenti e insegnanti.
Per l’occasione, i Musei Civici di Velletri saranno aperti con i seguenti orari: dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00.
Info e prenotazioni:
06 96158268 – museicivicivelletri@gmail.com
Il Museo è collocato nell’ala sud-est del Palazzo Comunale, condivide con il museo archeologico “O. Nardini” l’ampio e luminoso ingresso, la biglietteria e la sala accoglienza. Il percorso è articolato su due livelli (per una superficie di circa cinquecento metri quadrati) e in cinque sezioni attraverso cui è possibile seguire i principali eventi che hanno caratterizzato la storia più remota del territorio dei Colli Albani, le trasformazioni che il paesaggio, il mondo animale e vegetale hanno subito per arrivare a come oggi noi li osserviamo e li viviamo. Rivolto ad un pubblico eterogeneo, diverso per età, lingua, formazione e cultura, questo museo utilizza vari strumenti comunicativi, affiancando ai materiali esposti e ai classici pannelli descrittivi italiano/inglese ricostruzioni, exhibits, “pannelli cassettonati”, filmati e scenografiche ambientazioni. Il Museo vuole favorire nel visitatore l’uso combinato di tutti i sensi percettivi: egli può vedere, ascoltare, e toccare, coinvolto e soprattutto incuriosito da un’ esperienza da ricordare e raccontare, che si spera susciti in lui interessi più profondi da coltivare poi in altre sedi. Si predilige in verità il senso tattile, sia per dar modo anche ai visitatori non vedenti di effettuare un viaggio attraverso le origini del territorio, sia per lasciare a ciascuno il ricordo di un museo “sperimentato” e non “subìto”. In un allestimento marcatamente didattico come quello proposto, che ove possibile favorisce l’interattività con il visitatore, argomenti molto complessi sono spiegati con la presentazione dei materiali paleontologici e archeologici, con un apparato esplicativo-fotografico particolarmente ricco che illustra le varie attività sul campo (ricognizioni, analisi degli affioramenti geologici, scavi archeologici e illustrazioni delle analisi di laboratorio) e con l’ausilio di uno speciale strumento didattico, l’Itinerario Bimbi, un percorso illustrato per i visitatori più giovani.
Il racconto della nascita dei Colli Albani ha inizio nella sezione dedicata alla Geologia, nell’atmosfera irreale creata dai supporti audiovisivi, con l’espediente scenico del “condotto di fuoco” che catapulta il visitatore oltre cinquecentomila anni indietro, nel bel mezzo di un’eruzione vulcanica. Prosegue attraverso un affascinante ed articolato percorso contraddistinto da “pannelli cassettonati”, dal plastico della piattaforma carbonatica (ricostruzione del territorio laziale di oltre 140 milioni di anni fa) e da quello del Vulcano Laziale.
La fossilizzazione, invece, è il primo tema affrontato nella sezione di Paleontologia, il punto di partenza per indagare più a fondo la vita del passato attraverso una ricca raccolta di fossili, un plastico con i dinosauri, i calchi delle loro impronte ed un filmato sulla nascita e l’evoluzione della vita nel territorio prima della comparsa dell’uomo.
La successiva sezione di Antropologia esamina le spinte biologiche e ambientali che hanno portato alla comparsa dell’uomo e le tappe principali della sua evoluzione. Di grande impatto per immediatezza e forza espressiva risulta l’installazione artistica che con sei sagome in legno dipinte a mano, di grandezza naturale, illustra la variazione delle forme, della postura, e della mole del corpo, dai primati a Homo sapiens nel corso di 3 milioni di anni.
I cambiamenti che hanno caratterizzato il lungo cammino dell’uomo, dal Paleolitico inferiore al Neolitico sono rappresentati nella sezione di Preistoria, attraverso numerose testimonianze di vita quotidiana (strumenti in pietra e materiali ceramici), diversi diorami e la scenografica ricostruzione di una grotta in cui il visitatore può entrare a contatto diretto con l’ambiente e le abitudini dell’uomo del Paleolitico.
La sezione di Protostoria illustra infine, i diversi tipi di organizzazione sociale ed economica in atto nell’area dei Colli Albani, nel periodo dal Bronzo antico all’età del Ferro, presentando testimonianze materiali, la ricostruzione di un rogo funebre e l’interno di una capanna in cui è possibile entrare, interagire con i materiali esposti e assistere a brevi filmati sull’argomento.
Ad ospitare il Museo è l’imponente Palazzo Comunale alle cui vicende sono in un certo senso collegate quelle del Museo stesso. Iniziato nel 1575 da Giacomo della Porta su disegno del Vignola ed impostato sui resti di un edificio romano, il Palazzo ha sempre presentato in corso d’opera numerosi problemi, mai risolti del tutto, che hanno comportato restauri e consolidamenti della struttura sia prima che venisse completato, ad opera dell’architetto Filippo Barigioni nel 1720, sia dopo. Colpito dai bombardamenti dell’ultima guerra, il Palazzo fu ricostruito secondo l’originario progetto del Vignola. Eretto su pianta rettangolare senza cortile, presenta caratteristiche architettoniche sobrie ed eleganti ed un impianto planimetrico molto semplice; due grandi scaloni ne organizzano la suddivisione spaziale a partire dal piano rialzato, per tre piani, mentre il piano seminterrato è indipendente, con accesso dall’esterno sulla facciata retrostante. A partire dal Dicembre 2003 sono stati annessi al Museo gli spazi adiacenti dell’ala Sud-Est del seminterrato del Palazzo Comunale: alla collezione archeologica, che occupa l’ala Sud-Ovest, si è aggiunto così nella nuova ala il secondo Museo Civico dedicato alla Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani. Il Palazzo Comunale assieme a quello dei Conservatori e al Tempietto del Sangue delimita la piazza civica, anticamente detta” Piazza di Corte”, di impronta rinascimentale.
Storia della Collezione
Una serie di ricognizioni sistematiche svolte da ricercatori dell’Università di “Tor Vergata” e recenti ritrovamenti della Soprintendenza Archeologica per il Lazio hanno aiutato a comprendere nuovi elementi del passato del territorio dei Colli Albani fino ad oggi poco rappresentati al pubblico. Tali aspetti (la formazione del Vulcano Laziale, i giacimenti fossiliferi, i cambiamenti climatici, la presenza umana nel Paleolitico medio, la nascita della complessità sociale e la formazione della città in epoca protostorica) non erano di certo sconosciuti, ma mancavano molti documenti materiali (oggetti, strutture, studi scientifici) e un’organica recensione che li comprendesse complessivamente. L’assegnazione al Museo di nuovi locali, insieme alle recenti acquisizioni paleontologiche e archeologiche, nonché a una cospicua donazione di fossili lo hanno consentito determinando nel 2005 la creazione di un nuovo percorso museale. Senza interferire con l’adiacente museo archeologico esso si muove su aspetti del sapere più problematici e lontani di quelli legati alla cultura classica, secondo due principi ispiratori: da una parte il rigore scientifico nella raccolta e nello studio dei materiali, dall’altra lo spirito didattico sempre più presente in una struttura preposta alla formazione e allo stimolo delle menti. Oggi i Musei Civici sono costituiti da due distinti itinerari: quello archeologico nell’ala ovest che accoglie l’antica raccolta, quello di geopalentologia e preistoria nell’ala est che espone nuovi materiali e importanti raccolte della Soprintendenza Archeologica per il Lazio.
Nelle prime sezioni al piano terra sono esposti diversi minerali e la raccolta di fossili; la sezione di Preistoria accoglie invece i più recenti ritrovamenti provenienti dal versante esterno sud-occidentale della caldera del Vulcano Laziale (Genzano – Velletri), da cui provengono pietre lavorate e abbandonate dai gruppi di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico che si spostavano nel territorio in cerca di selvaggina, acqua e di ogni altra fonte possibile di sostentamento. Una grande vetrina espone anche punte, raschiatoi e coltelli a dorso che dimostrano l’elevata abilità dell’uomo di Neanderthal, e l’industria litica di Homo sapiens.
La sezione di Protostoria espone infine materiali provenienti da alcuni insediamenti dell’età del Bronzo e, soprattutto, diversi corredi provenienti da ampie necropoli recentemente ritrovate intorno agli antichi centri che nell’età del Ferro sorgevano nell’area dei Colli Albani. Urne a capanna, oggetti legati alla cerimonia del banchetto funebre, alla distribuzione del vino (anfore, brocche, coppe, tripodi) e alla ripartizione della carne (coltelli, spiedi, ciotole), nonché oggetti di ornamento e gioielli sono i diversi reperti delle importanti raccolte della Soprintendenza.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Tristano e Isotta(Tristan und Isolde) è un dramma musicale di Richard Wagner, su libretto dello stesso compositore. Costituisce il capolavoro del Romanticismo tedesco e, allo stesso tempo, è uno dei pilastri della musica moderna, soprattutto per il modo in cui si allontana dall’uso tradizionale dell’armonia tonale.
Richard Wagner-
La trama è basata sul poemaTristan di Gottfried von Straßburg, a sua volta ispirato dalla storia di Tristano raccontata in lingua francese da Tommaso di Bretagna nel XII secolo. Wagner condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi completamente dalla storia originale e caricandola di allusioni filosofiche di stampo schopenhaueriano.
Decisivo per la stesura dell’opera fu l’amore intercorso tra il musicista e Mathilde Wesendonck (moglie del suo migliore amico), destinato a restare inappagato. Wagner era ospite dei Wesendonck a Zurigo, dove ogni giorno Mathilde poteva ammirare pagina per pagina l’evolvere della composizione. Trasferitosi a Venezia per fuggire lo scandalo, Wagner si ispirò alle notturne atmosfere della città lagunare, dove scrisse il secondo atto e dove attinse l’idea per il preludio del terzo. Scrisse Wagner nella sua autobiografia:
«In una notte d’insonnia, affacciatomi al balcone verso le tre del mattino, sentii per la prima volta il canto antico dei gondolieri. Mi pareva che il richiamo, rauco e lamentoso, venisse da Rialto. Una melopea analoga rispose da più lontano ancora, e quel dialogo straordinario continuò così a intervalli spesso assai lunghi. Queste impressioni restarono in me fino al completamento del secondo atto del Tristano, e forse mi suggerirono i suoni strascicati del corno inglese al principio del terz’atto.»
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Terminato a Lucerna nel 1859, Tristano venne inizialmente proposto al teatro di Vienna, dove però fu respinto in quanto giudicato ineseguibile. Dovettero trascorrere ben sei anni prima che il dramma potesse essere rappresentato per la prima volta al Koenigliches Hof- und National- Theater (Opera di Stato della Baviera) di Monaco di Baviera il 10 giugno 1865, diretta da Hans von Bülow con Ludwig e Malwina Schnorr von Carolsfeld nelle parti dei due protagonisti, e con il concreto sostegno del re Ludwig II.
La critica dell’epoca si divise tra coloro che videro in quest’opera un capolavoro assoluto e quelli che la considerarono una composizione incomprensibile. Tra questi ultimi figura il critico austriaco Eduard Hanslick, noto per le sue posizioni conservatrici in ambito musicale. Fu proprio l’atteggiamento di Hanslick a fornire a Wagner l’idea per il personaggio di Sixtus Beckmesser ne I maestri cantori di Norimberga.Il cosiddetto “accordo del Tristano“, che apre la partitura.Una copia del manoscritto originale . Finale.
Al Teatro alla Scala di Milano, il 29 dicembre 1900, andò in scena nella traduzione italiana di Boito ed Angelo Zanardini con la direzione di Arturo Toscanini. Nel 1902 avvenne la prima rappresentazione in concerto nel Théâtre du Château-d’Eau di Parigi di “Tristan et Isotte” nella traduzione francese di Alfred Ernst.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Musica
Nella musica del Tristano si è voluta vedere un’anticipazione del futuro.[1] Servendosi dell’uso ossessivo del cromatismo e della tecnica della sospensione armonica, Wagner ottiene un effetto di suspense che dura per tutto il corso dell’azione. Le cadenze incomplete del preludio non vengono risolte fino alla fine del dramma, che si chiude col canto di amore e morte di Isotta (Liebestod). Come dice il critico Rubens Tedeschi, il linguaggio musicale del Tristano deve farsi infinitamente duttile per dipingere – oltre il pochissimo che accade – il moltissimo che viene alluso. Il Leitmotiv deve quindi smussare la propria nettezza melodica a favore della massima incertezza. In questo sbiadire dei contorni melodici si insinua l’allentamento dei rapporti armonici, come l’ombra notturna dei due amanti contribuisce all’ambiguità dei significati. È una sorta di ondeggiamento perpetuo simile al movimento del mare. Hanslick stroncò il valore della partitura affermando che “contiene della musica ma non è musica” e denunciando “il fumo dell’oppio suonato e cantato”. Lo stesso Wagner, in una lettera a Mathilde Wesendonck, definì il proprio lavoro “qualcosa di terribile, capace di rendere pazzi gli ascoltatori”.
Particolarmente impressionanti per la loro modernità – al limite della dodecafonia – sono le variazioni del tema del Filtro d’amore e della Canzone mesta del pastore, a metà del terzo atto, che accompagnano il protagonista nella sua delirante allucinazione. Il cromatismo e il prevalere dell’armonia sulla melodia appaiono già evidenti fin dalle prime battute del preludio (tema del Desiderio). Carl Dahlhaus definisce queste battute come una serie informe e insignificante di intervalli se non fosse per gli accordi che sorreggono e determinano la condotta melodica. La condotta armonica del tema del Desiderio (ossia il famoso “accordo del Tristano”) acquista carattere motivico in proprio. Allo stesso modo, il motivo del Destino deve la sua inconfondibile fisionomia non tanto alla condotta melodica quanto al collegamento con una successione di accordi che ha l’evidenza inquietante dell’enigma. In altre parole, la condotta armonica (che se ascoltata autonomamente non avrebbe senso) scaturisce nel rapporto che intercorre tra il motivo melodico del tema del Destino e un contrappunto cromatico a suo modo integrato nel motivo stesso: affiora l’idea paradossale di un “motivo polifonico”.[2]
La prima rappresentazione del Tristano nel 1865 ebbe un effetto non indifferente sul pubblico dell’epoca. Rubens Tedeschi segnala che l’estetica del decadentismo europeo nacque in quel momento, sebbene all’interno di un processo che sarebbe accaduto anche senza il diretto intervento di Wagner. La “valanga intellettuale” investì letterati, pittori e musicisti preparando la ribellione della avanguardie novecentesche. Valgono tra tutte le parole di Giulio Confalonieri:
«Tristano non ha soltanto soddisfatto una sete e placato una febbre ormai brucianti nell’umanità intera, ma altresì infettato la musica di un bacillo che nulla, nemmeno le più moderne penicilline, sono ancor riuscite ad eliminare del tutto.»
Interpretazione
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Wagner all’epoca del Tristano.
Si dice spesso che nel Tristano Wagner abbia voluto mettere in scena la filosofia di Schopenhauer. In effetti, in una lettera spedita a Franz Liszt nel dicembre del 1854, Wagner scrisse che l’incontro col grande filosofo gli aveva rivelato un “accorato e sincero desiderio di morte, la piena incoscienza, la totale inesistenza, la scomparsa di tutti i sogni, unica e definitiva redenzione”. Ma (come nota il critico Petrucci nel suo Manuale wagneriano), se così fosse, Tristano e Isotta avrebbero saputo dominare la loro passione. Schopenhauer insegna che per raggiungere la serenità occorre accettare la sofferenza e rassegnarsi alla concezione pessimistica dell’impossibilità del desiderio. Tristano è invece letteralmente divorato dal desiderio. L’esaltazione della notte – cantata per tutto il secondo atto come brama irrisolta di fuggire la luce del giorno e con essa la vacuità del reale – trova nella morte la sua naturale conseguenza in quanto liberazione. Una liberazione, dunque, non pessimistica rinuncia ma simbolo (per metà ascetico, per altra metà panteistico) di unione cosmica. Per questo motivo, Tristano era addirittura venerato dal filosofo Nietzsche, anche in virtù delle sue ideologie dell’ateismo: “Vorrei immaginare un uomo capace di ascoltare il terzo atto del Tristano senza il supporto del canto, come una gigantesca sinfonia, senza che la sua anima esali l’ultimo respiro in un doloroso spasimo”.
Schopenhauer e la filosofia della pace dei sensi saranno piuttosto trattati nel mistico Parsifal, che decretò l’allontanamento di Nietzsche dalla concezione wagneriana. A proposito del presunto ateismo del Tristano, vale la pena di segnalare un’osservazione di Antonio Bruers: “A chi giudicasse esagerato l’uso della parola ateo, dobbiamo rilevare un fatto che non si discute: in tutto il Tristano non è mai nominato Dio.”
Un altro dubbio circa il legame con Schopenhauer arriva da Thomas Mann: “Tristano si rivela profondamente legato al pensiero del Romanticismo e non avrebbe avuto bisogno di Schopenhauer come padrino. La notte è il regno di ogni romanticismo; scoprendola esso ha sempre identificato in lei la verità, in contrasto con la vaga illusione del giorno, il regno del sentimento in antitesi a quello della ragione”.
In effetti Tristano racchiude in sé la percezione di un mondo misterioso e fantastico in cui esprimere la propria “eterna eccezionalità”; racchiude l’inconsapevole ricordo di eventi passati e fondamentali; racchiude l’individuo che per comprendersi si isola dalla società. Cos’altro simboleggiano, per esempio, i favolosi castelli che Ludwig II eresse tra i monti della Baviera? Lo stesso Ludwig che, un’ora dopo aver assistito alla prima rappresentazione, decise di ritirarsi da solo nella notte, cavalcando nel bosco in preda ad una fortissima emozione. Allo stesso modo farà Zarathustra di Nietzsche, che per ritrovare se stesso si ritira sulla cima di una montagna. Siamo già molto lontani dall’eroe medievale del soggetto originale. L’eroe è stato trasferito dalla dimensione dell’amore cortese alla tenebrosa atmosfera degli Inni alla notte di Novalis.
Del resto, come sempre capita in Wagner, non è possibile non rintracciare alcune latenti allusioni politiche che tanto fecero discutere in seno alla Tetralogia. Già il poeta Hölderlin aveva decantato la “grande missione” della Germania, situata al centro dell’Europa e considerata come il “cuore sacro dei popoli”. In questa direzione, Tristano e Isotta potrebbero forse simboleggiare la verità intima che la forza del filtro magico ha saputo rivelare contrapponendola al resto del mondo, all’apparenza delle convenzioni sociali. Tali allegorie (che in futuro avrebbero contagiato pericolosamente la politica intesa come purezza dello spirito tedesco) si associano però al costante desiderio di annullamento nutrito dai protagonisti. Il loro desiderio non è deputato a risolversi nell’opulenza della vita materiale ma in un’altra dimensione, simbolo metafisico della vita più autentica e segreta. Questo è il vero dramma dei due amanti: l’impossibile conciliazione della dicotomia in cui sono costretti a vivere, divisi come sono tra anima e corpo, tra essenza e apparenza, come rivela il tormento allucinato di Tristano nel terzo atto, mirabilmente reso nell’incisione discografica di Wilhelm Furtwängler.
Tristano e Isotta non vivono un amore normale ostacolato dalle avversità come accade in Romeo e Giulietta, bensì inappagabile per sua stessa natura, condannato a vivere nel finito e soddisfabile solo nella morte. È la verità più profonda che gli amanti avrebbero taciuto reprimendola nel subcosciente. Non c’è da stupirsi, quindi (anche se per altri comprensibili motivi) che Cosima Wagner ironizzò riguardo l’amore intercorso tanti anni prima tra suo marito e Mathilde Wesendonck. Nel suo libro La mia vita a Bayreuth, Cosima scrisse: “Poverina, si spaventerebbe se sapesse cosa c’è nel Tristano!”
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Trama
Antefatto
Per liberare la Cornovaglia da un ingiusto tributo imposto dagli irlandesi, Tristano ha ucciso il cavaliere Morold, patriota irlandese e fidanzato della principesse Isotta, figlia del re d’Irlanda. Ferito durante il combattimento, viene amorevolmente curato dalla stessa Isotta, la quale non conosce la sua identità. Soltanto il ritrovamento di un frammento della spada le fa capire di trovarsi davanti all’assassino del suo uomo; allora lo risparmia, facendosi promettere di sparire per sempre dalla sua vita. In seguito, Tristano infrange il giuramento e ritorna per portarla in sposa al Re di Cornovaglia, come pegno di riconciliazione tra i due paesi.
Atto I
Scena 1ª
La voce di un giovane marinaio si alza dal ponte di un vascello:
“Verso levante muove la nave, soffia il vento verso il nostro paese: e tu, bimba irlandese, dove rimani?…”
In rotta verso l’Inghilterra, Isotta sfoga la sua rabbia contro il giovane Tristano, cui la lega un confuso sentimento di amore e di odio. Lo fa chiamare affinché la venga a trovare ma Tristano, turbato, risponde di non poter abbandonare il timone della nave.
Scena 2ª
Isotta ricorda il passato, racconta alla sua ancella Brangania di essersi affezionata a un misterioso guerriero di nome Tantris, il giovane rimasto ferito nella battaglia, che lei raccolse curandone le ferite. In realtà, Tantris era Tristano, che presentandosi sotto falso nome era riuscito a scampare alla vendetta di Isotta grazie al suo sguardo supplicante.
“Con lucida spada mi presentai davanti a lui, per vendicare la morte di Morold. Dal suo giaciglio egli mi guardò: non sulla lama, non sulla mano, ma sui miei occhi egli alzò lo sguardo. Con mille giuramenti mi promise lealtà eterna ed ebbi pietà per la sua pena. Ma ben altro sfoggio fece Tristano di ciò che in me celavo. Colei che tacendo gli ridava la vita, colei che tacendo lo salvava dall’odio, tutto egli ha messo in mostra! Borioso del successo, mi ha additata quale preda di conquista. Sii maledetto, infame!…”
Reprimendo l’amore che li unisce, Isotta vorrebbe uccidersi con lui per cancellare l’affronto.
Scena 3ª
Tristano arriva e, in un impeto di rabbia, accetta di sacrificarsi con onore.
“La signora del silenzio, silenzio a me impone. Se comprendo ciò che ha taciuto, taccio ciò che non comprende.”
Entrambi credono di bere un potente veleno ma Brangania ha sostituito il veleno con un filtro d’amore. Nell’orchestra, ricompaiono i temi del Desiderio e dello Sguardo, che erano già apparsi nel preludio strumentale. Il loro sentimento si rivela con forza alla realtà, ogni incomprensione svanisce e il mondo circostante non ha più alcun significato. Quando lo scudiero di Tristano, Kurwenald, giunge ad avvertire dell’imminente incontro col Re, Tristano risponde: “Quale re?” ormai del tutto ignaro di ciò che sta avvenendo. Nel momento in cui la nave approda nel porto, Tristano e Isotta si gettano l’uno nelle braccia dell’altro.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Atto II
Scena 1ª
Nel giardino del castello di re Marke, durante la notte, Isotta attende l’arrivo di Tristano. Brangania la avverte del pericolo che stanno correndo, sapendo che Melot, amico di Tristano, ma innamorato segretamente di Isotta, potrebbe rivelare al Re l’amore clandestino della coppia. Isotta non le crede. Tristano si precipita in scena con un abbraccio travolgente.
Scena 2ª
Incomincia la lunga notte dei due innamorati che è la vera protagonista del dramma, è l’oscurità che circonda i due amanti e li riassorbe in un’originaria, individuale armonia. Dice Isotta:
“Chi là segretamente celai, come mi parve malvagio quando, nello splendore del giorno, l’unico fedelmente amato sparve agli sguardi d’amore, e quale nemico s’erse dinnanzi a me! Trascinarti voglio laggiù, con me nella notte, dove il mio cuore mi promette la fine dell’errore, dove svanisce la follia del presentito inganno.”
Dice Tristano:
“Su noi discendi, notte arcana! Spargi l’oblio della vita!… Quel che là nella notte vegliava cupamente richiuso, quel che, senza sapere e pensarci, oscuramente concepii – l’immagine che i miei occhi non osavano osservare, ferita dalla luce del giorno – mi si rivelò scintillante.”
”Gloria al filtro e alla sua forza! Mi dischiuse le vaste porte dove solo in sogno ho soggiornato. Dalla visione celata nel segreto scrigno del cuore, esso cacciò lo splendore ingannevole del giorno, sì che il mio orecchio, penetrando la notte, potesse vederla davvero.
“Chi amoroso osserva la notte della morte, a chi essa confida il suo profondo mistero: la menzogna del giorno, fama e onore, forza e ricchezza, come vana polvere di stelleinnanzi a lui svanisce!…Fuor dal mondo, fuor del giorno, senza angosce, dolce ebbrezza, senza assenza, mai divisi, soli, avvinti, sempre sempre, nell’immenso spazio!..”
Ma nel momento più impetuoso della passione, quando le voci e la musica vengono sospinte dal motivo della Felicità, improvvisamente l’incanto si spezza. Arrivano il Re, Melot e i cortigiani del castello, che circondano inorriditi la coppia degli amanti. Il tema musicale del Giorno avverso invade la scena. Sorge l’alba.
Scena 3ª
Melot, tradendo Tristano, presenta al Re la sua vittima. Il magnanimo re Marke si perde allora in un lungo monologo cantato sul tema del Cordoglio, addolorato per il comportamento di Tristano e rievocando le vicende che li unirono in passato.
“A me, questo? Perché? Chi mi è fedele, se il mio Tristano mi tradì?… Se non c’è redenzione, chi può spiegare al mondo tale cupo immenso abisso?…”
Ma Tristano, come trasognato, non può fornire alcuna spiegazione. “Ciò che tu domandi non potrai mai comprendere”, e si volge quindi verso l’amata:
“Dove ora Tristano s’avvia, vuoi tu seguirlo, Isotta? È terra buia, muta, da cui mia madre m’inviò, quando mi partorì dal regno della morte…”
Mentre Isotta lo bacia, Melot incita il Re a reagire. Tristano sfida l’amico a duello e si lascia cadere sulla sua spada. Cade ferito tra le braccia di Kurwenald.
Atto III
Scena 1ª
Il castello di Tristano nel terzo atto.
Tra le rovine del suo castello, accudito dal fedele Kurwenald, Tristano riprende lentamente conoscenza. Ferito nel corpo e nell’anima, egli ha delle allucinazioni. Ciò che desidera gli è negato e il pensiero di Isotta, simbolo di quel desiderio, lo travolge. Immobile sul letto la cerca, in preda al delirio la invoca:
“Kurwenald, non la vedi?!”
Ma l’orizzonte del mare è completamente vuoto. Tristano, allora, maledice il filtro magico che gli rivelò l’amore e la verità:
“Il terribile filtro, che m’ha votato al tormento, io stesso l’ho distillato! Nell’affanno del padre, nel dolore della madre, nel riso e nel pianto, ho trovato i veleni del filtro!”…
Sono pagine molto drammatiche, dove la musica rompe definitivamente con la tonalità tradizionale anticipando per la prima volta il sistema dodecafonico. Ma intanto la nave di Isotta è apparsa davvero all’orizzonte, salutata da un’allegra cantilena del corno inglese. Tristano è fuori di sé dalla gioia. Egli segue l’arrivo del veliero e manda Kurwenald a ricevere l’amata. Rimasto solo, si strappa le bende della ferita e si alza in piedi sanguinante:
“O sangue mio, scorri giulivo!… Lei, che un dì mi guarì le ferite, a me s’avvicina per salvarmi!… Possa il mondo perir, dinnanzi alla mia esultante fretta!”…
Isotta entra in scena. Sulle grandi note del tema del Giorno avverso, i due amanti si abbracciano. Sul tema dello Sguardo, Tristano esala l’ultimo respiro.
Scena 2ª
Mentre Isotta piange la morte di Tristano, un’altra nave approda al castello. Si tratta di re Marke che, venuto a conoscenza del filtro magico e dell’inevitabile verità, è accorso con Melot a chiedere perdono. Ma Kurwenald, furibondo per la morte del suo padrone, si scaglia contro di lui. Appena Melot arriva lo uccide in un colpo; resta ferito a sua volta e muore egli stesso accanto al corpo di Tristano. Il Re, addolorato, cerca di spiegarsi con Isotta ma lei, ormai, non lo ascolta più. Nel suo canto supremo, Isotta invoca la celebre Liebestod, la “morte d’amore” che riunirà i due amanti:
“Son forse onde di teneri zeffiri? Son forse onde di voluttuosi vapori? Nel flusso ondeggiante, nell’armonia risonante, nello spirante universo del respiro del mondo, annegare, inabissarmi, senza coscienza, suprema voluttà!”
Sulle note della Felicità, Isotta cade trasfigurata sul corpo di Tristano. Il Re benedice i cadaveri. Si chiude lentamente il sipario.
Viterbo- Teatro dell’Unione va in scena White Out uno spettacolo di danza
Il Comune di Viterbo e ATCL presentano Al Teatro dell’Unione “ White Out” uno spettacolo di danza-Circuito multidisciplinare del Lazio sostenuto da MIC – Ministero della Cultura e Regione Lazio, al Teatro dell’Unione domenica 23 marzo, alle ore 18,00, White Out, uno spettacolo tra danza, circo e alpinismo, con Javier Varela Carrera, Luca Torrenzieri e Piergiorgio Milano, creazione, direzione e coreografia di Piergiorgio Milano. White Out offre un vocabolario coreografico specifico, risultato di una fusione tra danza e circo contemporaneo che riesce a restituire la spettacolarità di uno sport estremo come l’alpinismo. Segue la storia di una piccola comunità che segue un viaggio iniziatico. Parla della natura umana affrontando i temi della morte, della separazione, dell’ambizione personale, dei rapporti all’interno di un gruppo. La montagna è la metafora, la lente di ingrandimento all’interno di un gruppo che permette di osservare la natura umana da vicino. Moschettoni, funi e imbraghi vengono sradicati dal loro utilizzo reale per dare vita a nuove possibilità coreografiche ed espressive. Gli sci diventano un oggetto dall’equilibrio instabile, originando una forma di movimento in perfetto equilibrio tra danza contemporanea e arte circense, che offre allo spettatore un’esperienza visiva intensa e originale. Nel rappresentare l’universo legato alla montagna, la fisicità è spinta al suo limite. Non c’è raffigurazione, né pantomima. Sono veri i pesi negli zaini, così come le difficoltà di ancorare i rinvii, lo sforzo di sostenere il peso in sospensione, quello degli altri corpi e di conseguenza la fatica e l’autenticità della presenza in scena.
Design luci Bruno Teusch, sound design Federico Dal Pozzo, soundtrack Piergiorgio Milano, costumi Raphaël Lamy, Simona Randazzo, Piergiorgio Milano, scenografia Piergiorgio Milano, con l’indispensabile aiuto di Florent Hamon, Claudio Stellato e un grazie speciale a Francesco Sgro, Matias Kruger.
Viterbo al Teatro Unione ,White Out uno spettacolo di danza
Viterbo al Teatro Unione ,White Out uno spettacolo di danza
Viterbo al Teatro Unione ,White Out uno spettacolo di danza
Biglietti:
Platea intero: € 15,00 + € 1,50 prev.
Ridotto: € 12,00 + € 1,00 prev.
Ridotto per le scuole di danza e per gli abbonati: € 10,00
La biglietteria del Teatro è aperta dal martedì al sabato con orario 10.00 – 13.00 e 15.00 – 19.00.
Aperto anche di domenica, con gli stessi orari, solo in caso di spettacoli o altre attività.
Chiuso il lunedì.
Articolo di Loredana Menghi – Dal 6 marzo nelle sale il film di Riccardo Cremona e Matteo Keffer, con le ragioni e le testimonianze di un movimento che si batte per fermare il collasso eco-climatico
Fontana di Trevi imbrattata con del liquido nero (in realtà polvere di carbone) al grido di “Noi non paghiamo il vostro Fossile”, da un gruppo di attivisti trascinati via tra gli insulti di locali e turisti. La teca della “Nascita di Venere” del Botticelli tappezzata con le foto dell’alluvione di Campi Bisenzio. E poi i blocchi stradali, gli arresti, sit-in sotto carceri e tribunali. Sono solo alcune delle azioni eclatanti di “Ultima Generazione”, raccontate dai registi Riccardo Cremona e Matteo Keffer nel film “Come se non ci fosse un domani” (2024), dal 6 marzo nelle sale cinematografiche. La pellicola, presentata in anteprima al Festival del Cinema di Roma lo scorso ottobre (pochi giorni prima che l’alluvione di Valencia provocasse in Spagna oltre 200 morti), traccia l’anatomia del movimento ambientalista che dal 2021, attraverso pratiche di disobbedienza civile nonviolenta, si mobilita per sollevare un dibattito sugli effetti del riscaldamento globale.
L’obiettivo? “Ottenere impegni concreti per uscire dall’era dei combustibili fossili e limitare le emissioni inquinanti – spiegano gli eco-attivisti nel documentario – Chiediamo di non trivellare per il gas, di non usare i soldi pubblici per finanziare la nostra morte, ma per creare posti di lavoro nell’economia circolare e nell’energia rinnovabile. E nell’istituzione di un Fondo di Riparazione destinato a risarcire le vittime degli eventi meteorologici estremi”.
Fra i blitz più clamorosi filmati dai registi, che per due anni hanno seguito i militanti in giro per l’Italia, quello all’ingresso del Senato a Roma, quando due manifestanti hanno cosparso il proprio corpo e la facciata di Palazzo Madama col fango prodotto dalle esondazioni in Emilia-Romagna. E poi i blocchi stradali: al traforo del Monte Bianco, dove gli attivisti incatenati sotto la neve hanno paralizzato il traffico transfrontaliero o quelli sul G.R.A. dell’Urbe, rischiando il “linciaggio”. Iniziative che hanno suscitato l’indignazione di stampa, opinione pubblica, politici e Istituzioni, che li hanno definiti mitomani, eco-terroristi, eco-teppisti. E un’ondata repressiva che ha colpito alcuni con oltre 70 denunce. È il caso di Simone Ficicchia, per il quale è stata richiesta dalla Questura di Pavia la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, di norma applicata ai criminali mafiosi. Classe 2002, è lui uno dei protagonisti di “Come se non ci fosse un domani”, insieme a Chloe Bertini, Beatrice Pepe, Michele Giuli e Tommaso Juhasz.
“Studenti universitari- ha dichiarato Riccardo Cremona all’Hot Corn del Festival del Cinema di Roma – che hanno scelto di abbandonare i loro percorsi, i loro destini professionali, mettendosi a disposizione di qualcosa che ci riguarda tutti. Perché la crisi climatica è forse il primo vero problema universale che riguarda tutti indistintamente”. C’è l’universitario che accantona il sogno di insegnare Storia. La danzatrice che rinuncia a un tour in Inghilterra. Il religioso che lotta per salvare gli ulivi da stress idrico e ondate di calore. La studentessa che, nel disappunto della famiglia, ai vestiti, al cinema o alla discoteca preferisce la causa ambientale, perché conscia – come gli altri – che la sua potrebbe essere l’ultima generazione in grado di fermare il global warming. Esistenze che si snodano fra le immagini dell’uragano a Jesolo, della siccità in Sicilia e in Umbria e dei disastri in Emilia-Romagna e Toscana, dopo i quali i giovani hanno spalato le strade dai detriti al fianco della popolazione.
Un film corale, che svela i retroscena delle mobilitazioni, sviscerando incertezze, contraddizioni e l’ansia da cambiamenti climatici, che colpisce principalmente le giovani generazioni, preoccupate per il loro futuro. Timori che diventano rabbia e urgenza di agire, come teorizzato dal sociologo Roger Hallam, co-fondatore nel 2018 a Bristol di Extinction Rebellion, da cui si è formata l’ala radicale di Ultima Generazione, che oggi “raccoglie in Italia circa 150 affiliati, con diverse sedi in Italia – aggiunge Cremona. “Abbiamo raccontato un’intelligenza collettiva – ricorda Matteo Keffer – Un gruppo di persone che senza nessun tipo di esperienza politica si è organizzato per sensibilizzare il più possibile, scontrandosi con le difficoltà del caso”.
Non ultime le misure varate per fermare le proteste: dal ddl “eco-vandali” al decreto 1660 passato alla Camera lo scorso settembre (in attesa di approvazione al Senato) contenente la cosiddetta “norma anti- Gandhi”, ossia il carcere fino a due anni se si blocca in gruppo una strada o una ferrovia. Provvedimento che “esprime la volontà di colpire ogni forma di dissenso e più duramente i movimenti che si battono contro le grandi opere”, ribadisce Ultima Generazione in una nota, deciso ad andare avanti. “Il nostro mondo sta cadendo a pezzi – ammonisce Chloe Bertini, una delle protagoniste – E fra 10 anni, quando i bambini di oggi ci chiederanno: – Tu cosa hai fatto? Noi vogliamo poter dire: – Ho fatto tutto il possibile”.
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Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie-
Velletri-Sabato 22 e domenica 23 marzo si svolgerà a Velletri la 29° Festa delle Camelie e per l’occasione i Musei Civici di Velletri: Museo Archeologico O.Nardini, Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani e Area Archeologica delle SS. Stimmate, apriranno entrambi i giorni dalle ore 10.00 alle ore 19.00.
La giornata di sabato 22 inizierà alle ore 1o.30 con il laboratorio dedicato ai bambini dai 3 ai 5 anni Fiori tra i capelli, in cui i piccoli dopo una lettura animata sul tema dell’amicizia e dell’inclusione, creeranno un copricapo di fiori di carta da indossare durante la festa. Lo stesso si ripeterà domenica 23 alle ore 15.00 per bambini dai 6 anni in su.
Alle 12.00 sia di sabato 22 che di domenica 23 partirà una visita guidata all’Area Archeologica delle SS. Stimmate, mentre domenica 23 alle 18.00 accompagneremo i visitatori al Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani alla scoperta di fossili e di altre testimonianze ritrovate nel nostro territorioper raccontare la Preistoria; sabato 22 alle 15.00 ripeteremo un’esperienza che ha già avuto grande successo: In Con-Tatto con la Preistoria, una visita guidata tattile in cui i partecipanti grandi e piccoli, tutti bendati, potranno toccare fossili, rocce e altri oggetti risalenti a migliaia di anni fa.
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
I fiori raccontano sarà un itinerario nel Centro storico tra chiese, strade e musei che avrà come tappa sabato 22 la Chiesa di Santa Lucia V.M. mentre domenica 23 si fermerà alla Chiesa di Sant’Antonio Abate per cercare in entrambi gli itinerari i fiori nascosti negli angoli di Velletri.
Sabato 22 alle ore 16.00 il percorso partirà da Piazza Martiri di Pratolungo, dove si trova il Giardino delle camelie mentre domenica 23, per lo stesso orario, l’appuntamento sarà davanti alla fontana di Piazza Mazzini. La direttrice museale, Raffaella Silvestri, accoglierà i visitatori sia sabato che domenica alle ore 17.00 nell’iniziativa Il tè delle camelie. Tra le Metamorfosi di Ovidio e le rappresentazioni nell’arte per scoprire come i reperti esposti nel Museo Archeologico parlino di mitologia ancora oggi tra letteratura e arte.
Sabato 22 alle ore 18.00 all’Area archeologica delle SS.Stimmate verrà presentato il libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque, in presenza dell’autore Manlio Lilli e del Prof. Marco Nocca.
Domenica 23 alle 10.30 al Museo di Geopaleontologia e Preistoria e nella Sala Conferenze dei musei il pubblico adulto potrà imparare a preparare degli oleoliti con piante officinali spontanee che si trovano nelle aree naturali dei dintorni, sotto la guida di una biologa con specializzazione in botanica e abilitazione professionale. I prodotti realizzati saranno destinati ad un utilizzo ad uso topico per migliorare il benessere della pelle, dei capelli o come olio da massaggio. Tutto il materiale necessario verrà fornito insieme ad un taccuino per le ricette.
Alle ore 15.00 di domenica 23 partirà da Piazza Mazzini la Riproposizione della festa romana delle Floralia a cura del Gruppo Archeologico Veliterno A.p.s. E di Il Flauto Magico A.p.s. che si concluderà di fronte all’Area archeologica delle SS. Stimmate.
In occasione della Festa delle Camelie il biglietto di ingresso ai Musei sarà ridotto
(3,00 € per l’ingresso a un museo; 5,00 € per l’ingresso nei due musei; 1,00 € per l’ingresso all’Area archeologica).
Visite guidate e In Con-Tatto con la Preistoria
Durata: un’ora circa.
€ 4,00 a partecipante
Prenotazione consigliata
Itinerario I fiori raccontano
Durata: un’ora e mezza circa.
gratuito
Prenotazione obbligatoria.
Laboratorio Fiori tra I capelli
Durata: un’ora e mezza circa.
€ 3,00 a partecipante.
Prenotazione obbligatoria.
Il tè delle camelie
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Prenotazione consigliata
Preparazione di oleoliti e guida al riconoscimento di piante officinali
Durata: due ore circa.
€ 25,00: 1 persona; € 40,00: 2 persone
Itinerario Riproposizione della festa romana delle Floralia
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Presentazione del libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque
Durata: un’ora circa
Gratuito
Per informazioni e prenotazioni:
06 9615 8268 – 3441547465 – museicivicivelletri@gmail.com
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
PIAF di Federico Malvaldi in scena domenica 23 marzo all’Altrove Teatro Studio-Roma-
Veronica Rivolta-Attrice
Roma-Domenica 23 marzo l’Altrove Teatro Studio accoglie PIAF di Federico Malvaldi, un viaggio nella vita della cantante de’ La Vie En Rose, con Veronica Rivolta. Una storia tormentata che inizia su un marciapiede di Parigi, davanti al numero 72 di rue Belville: meno di due chilometri dalla tomba del Père Lachaise dove adesso riposa in un trionfo di fiori.
Una donna troppo piccola, per una voce così grande. Questo dicevano di lei. E da questo aneddoto si sviluppa un racconto fatto di musica, amore, autodistruzione, disperazione e momenti di intensissima felicità.
Al centro di tutto, oltre alla vita, ci sono le sue canzoni più celebri – Je Ne Regrette Rien, Padam Padam, Hymne A L’Amour – e soprattutto la sua voce vibrante e potente, capace di raggiungere picchi di intensità così alti da dimenticare che il corpo che la contiene sta lentamente morendo a causa di un’esistenza sregolata. Un’esistenza che solo i più grandi e i più disperati si possono permettere di vivere.
PIAF non vuole essere uno spettacolo autobiografico, ma il tentativo di far continuare a vivere la grandezza di una donna e della sua voce, icona di Francia e del mondo intero: perché ancora oggi, in qualunque angolo del mondo ti trovi, quando senti gracchiare da un vecchio disco La Vie En Rose ti vedi apparire davanti le strade, i quartieri, le luci, i caffè di Parigi, e pensi che non si possa vivere altrove.
PIAF
di Federico Malvaldi
con Veronica Rivolta
regia Rivolta/Malvaldi
Domenica 23 marzo ore 17
Altrove Teatro Studio – Via Giorgio Scalia, 53 Roma
Biglietti: Intero 15€_ Ridotto 10€
Altrove Teatro Studio – Via Giorgio Scalia 53, Roma
Per informazioni e prenotazioni: telefono 3518700413, email ipensieridellaltrove@gmail.com
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Roma, al Teatro di Villa Lazzaroni, il 21 marzo, ISABEL con Caroline Loiseau-
Approda a Roma, al Teatro di Villa Lazzaroni, il 21 marzo, ISABEL tratto da una storia vera, spettacolo di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo.“Isabel – tratto da una storia vera” è uno spettacolo che si muove tra teatro, danza, e narrazione; lo spettacolo racconta la vita di una donna e della sua famiglia, attraversando le vicende sociali e politiche dell’Argentina tra il 1963 ed il 2022. Isabel è una donna, molte donne, è figlia, sorella e madre. Isabel è la forza dell’essere umano, il sorriso sulle labbra di una ragazzina felice per un raggio di sole. Isabel è la costante ricerca della normalità e della quotidianità perduta, è la speranza che fatica a soccombere, Isabel è la forza di adattarsi ai cambiamenti. Isabel è una donna semplice e come lei ce ne sono tante. Questa storia è come tante altre storie, solo che questa è la storia di Isabel e per questo è speciale e unica.
Teatro di Villa Lazzaroni, ISABEL con Caroline Loiseau-
Lo spettacolo e i fatti raccontati all’interno sono ispirati alla storia vera di Victoria Donda: prima figlia di “desaparecidos” ad essere eletta alla Camera dei deputati argentina.“Ero stato mandato a Buenos Aires, in Argentina, dal mio capo redattore nel dicembre 2022. Dovevo documentare l’entusiasmo del popolo argentino dopo la vittoria del mondiale. Ero molto felice, era tutta la vita che volevo andarci… Gli argentini non avevano ancora smesso di festeggiare. Ogni quartiere, ogni Barrio di Buenos Aires aveva la sua gigantografia, il suo santo calcistico preferito. In uno trovavi Lionel Messi, poi Angel di Maria, e poi in quasi tutte c’era Diego Armando Maradona… Ho continuato a camminare e alla fine mi sono ritrovato davanti Plaza de Mayo, una piazza che non è facile da raccontare… È dispersiva, non si capisce dove inizi e dove finisca… c’è un muro, un vecchio muro. Li sopra ci sono foto, manifesti, cartelloni, testimonianze delle Madri di Plaza de Mayo, testimonianze dei desaparecidos argentini. Su quel muro ci sono i segni della storia moderna dell’Argentina. È lì che ho incontrato Isabel. Stava seduta su una panchina. Fissava un punto della piazza e sorrideva. Poi si è girata, mi ha visto, mi ha sorriso. Si è alzata e mi è venuta incontro. Io non so come sia successo, ma in quel momento ho capito che non ero in Argentina per la “fiesta del mondial”, ero lì per un altro motivo, per ascoltare la sua storia. La storia di una famiglia qualsiasi. Una storia racchiusa in 50 anni di Argentina. Ecco… di questo parla quest’intervista, di Isabel, di sua madre Corita, di suo padre Paulo e di suo zio Raul… E pensare che io ero lì per documentare la festa dei mondiali.”
Teatro di Villa Lazzaroni, ISABEL con Caroline Loiseau-
Isabel,tratto da una storia vera
Di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo
Con Caroline Loiseau
Musica dal vivo Marco Memetaj
Produzione Anonima Teatri / Twain Centro Produzione Danza
In residenza presso Teatro Il Rivellino, Spazio Fani, Supercinema – Tuscania, Teatro “LaBottega” – Carloforte
Con il sostegno di Tersicorea / progetto RIZOMI – Residenza “Artisti nei Territori”
Carloforte/Isola di San Pietro/Teatro “La Bottega”
Con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Lazio, Fondazione Carivit, Comune di Tuscania
Vincitore Premio Presente Futuro 2024 – Teatro Libero PalermoVincitore Premio Zero in condotta – Cobas
21 MARZO ORE 21:00
TEATRO DI VILLA LAZZARONI- ROMA
Teatro di Villa Lazzaroni _ Via Appia Nuova 522/Via Tommaso Fortifocca 71
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