Riserva Naturale Regionale Tevere Farfa, ed è possibile pensarla come modello equilibrato di espressione della biodiversità, paradigma di convivenza tra specie e popolazioni differenti, luogo di pace. NO alle armi, al profitto sui beni comuni e ai paradisi fiscali SI alla cultura, alla tutela ambientale e ai paradisi naturali!
ROMA Municipio XIII-Restauro della statua Vergine Lauretana –
Chiesa della Madonna di Loreto di via Boccea ,
il restauro della statua raffigurante la Vergine Lauretana
Articolo e foto di Tatiana Concas
ROMA- 16 ottobre 2023-Lungo la via Boccea, all’altezza del numero civico 1417, immersa nel paesaggio della campagna romana, si trova la chiesa della Madonna di Loreto.
Questa piccola accogliente chiesa, rappresenta un luogo di silenzio e di preghiera, un rifugio spirituale, per tutti coloro che sentono il bisogno di avvicinarsi a Dio, seguendo l’esempio di umiltà della Santissima Vergine Maria.
La chiesa di Santa Maria di Loreto, è stata recentemente trasformata da parrocchia a rettoria e il sacerdote al quale il Vescovo ha affidato la cura della rettoria è don Biagio Calasso.
Nella comunità della chiesa si percepisce un forte clima di unione e condivisione, incoraggiato anche dall’esempio di don Biagio, che esercita con grande ardore il suo ministero di preghiera, a sostegno di tutte le persone che stanno attraversando un periodo di sofferenza spirituale.
I fedeli partecipano con gioia, anche alla cura della Chiesa, mettendo a disposizione il loro tempo e le loro abilità.
Un esempio è fornito da una coppia di sposi che, chiedendo di restare anonimi, si sono offerti volontari, a titolo gratuito, per restaurare alcune opere scultoree presenti all’interno della rettoria.
Tra le opere da loro restaurate, merita particolare attenzione la statua della Madonna di Loreto, a cui sono stati restituiti luce e colore, riportandola allo splendore iniziale.
La statua raffigurante la Madonna di Loreto, si trova racchiusa in una nicchia dietro l’altare ed è rappresentata con il caratteristico manto ingioiellato detto Dalmatica.
Essa è ispirata alla Vergine Lauretana ed appare quindi, di colore nero, perché secondo le cronache dell’poca, la scultura della Vergine venerata nella Santa Casa, era scolpita in Ebano, un legno dal colore notoriamente scuro.
Il volto della Madonna però, a differenza della statua originale, è sorridente e con il braccio destro, nascosto sotto la dalmatica, sorregge Gesù Bambino.
Il braccio sinistro della Vergine Maria invece, fuoriesce dal mantello e tiene nella mano una sfera, simbolo del Mondo.
Il bambino infine, mostra tra le dita della mano destra, una pietra di colore chiaro, che rappresenta probabilmente, la pietra della casa di Nazaret.
La statua della Madonna di Loreto ci ricorda il mistero dell’incarnazione di Gesù, che si è fatto carne ed è venuto al mondo per salvare l’umanità.
Ringraziamo pertanto, la coppia di sposi anonimi, volontari, che guidati dalla fede, hanno restaurato con maestria questa bellissima statua raffigurante la Vergine Maria, nella cui maternità, come dice Papa Francesco, “vediamo la maternità della chiesa che riceve tutti, buoni e cattivi”.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino-
Pro Loco di Soriano
“Un tuffo nella fiaba”
“Splendida la faggeta di Soriano, alterna alberi secolari a pietre che determinano una ricca varietà di paesaggio. Servito da decine di sentieri ben segnati, ci immerge in una pace di altri tempi. Da visitare assolutamente”.
Monte Cimino si trova in un territorio profondamente plasmato dall’intensa attività vulcanica esplosiva, avvenuta migliaia di anni fa nella provincia di Viterbo. Più precisamente, l’affascinante geologia dei Monti Cimini ha un’età antica compresa tra 1,35 milioni e 800.000 anni fa. Durante questo intervallo di tempo, la risalita di magmi viscosi acidi lungo la frattura ha originato più di 50 rilievi collinari intorno al rilievo principale, ovvero il Monte Cimino (1.053 m).
Nell’area sono presenti anche altri rilievi, tra cui il Monte Montalto (786 m), il Monte Roccaltia (712 m), il Monte Turello (626 m) e il Monte S. Antonio (617 m), tutti caratterizzati da una morfologia a domi, ovvero ammassi di magma molto viscoso che si presentano come piccole alture con grossi massi tondeggianti sulla cima.
L’altitudine dell’intero complesso varia da 373 a 1.053 m, con un’altezza media di 548 m. La testimonianza dell’intensa attività vulcanica di questa zona si scorge, inoltre, osservando la presenza in tutto il territorio di formazioni rocciose, blocchi sparsi che possono raggiungere volumi di decine di metri cubi che caratterizzano il paesaggio, ricordando la straordinaria geologia di questi monti, oltre che l’enorme portata e la forza del Cimino durante le sue eruzioni. In particolare, sulla vetta del Monte Cimino l’attenzione di molti visitatori è attirata da un grande masso di circa 250 tonnellate, anche conosciuto come sasso “menicante” o sasso “naticarello”, già noto al tempo dei Romani, il cui nome è legato alla sua particolare posizione, sospeso in equilibrio su una sporgenza del terreno.
Il comprensorio del Monte Cimino, identificato con il nome “Monte Cimino (versante nord)”, è stato riconosciuto come Zona Speciale di Conservazione (ZSC) e Zona di Protezione Speciale (ZPS), compresi nella rete ecologica europea di siti di interesse comunitario denominata “Rete Natura 2000”, con il fine di proteggere il biotopo di notevole interesse fitogeografico, naturalistico e storico-monumentale presente in quest’area.
Foreste, sorgenti e torrenti caratterizzano l’ambiente dei Monti Cimini estendendosi per circa 975 ettari nel territorio dei Comuni di Soriano nel Cimino, Vitorchiano e Viterbo. È interessante notare come queste aree siano quasi totalmente coperte da formazioni forestali di latifoglie che, nei settori meno disturbati dall’azione dell’uomo, si articolano seguendo una sequenza altitudinale: ai querceti e leccete succedono boschi misti mesofili con una presenza diffusa di castagneti e, infine, una fustaia vetusta di faggi sulla sommità del Monte Cimino.
La principale valenza naturalistica che ha motivato la costituzione della ZSC è legata alla presenza di due habitat forestali di interesse comunitario, che presentano elementi faunistici di particolare interesse, tra cui insetti, crostacei e anfibi, e di una significativa popolazione di gambero di fiume. La designazione come ZPS è motivata dalla segnalazione di alcune specie minacciate o vulnerabili di rapaci forestali e rupicoli, di diversi passeriformi e del succiacapre, uccello protetto dalle abitudini notturne che frequenta ambienti aperti.
Il tipo forestale più diffuso nell’area è senza dubbio rappresentato dai castagneti, sia cedui che da frutto, che si estendono in un intervallo altitudinale tra i 550 e i 950 m, presentando spesso delle compenetrazioni con i querceti alle quote inferiori. La grande diffusione del castagno è stata certamente favorita dall’opera selettiva che l’uomo ha compiuto nei secoli passati, a fini produttivi, e dal substrato vulcanico acido, che risultano fattori fondamentali per la diffusione di questa specie.
Per la bellezza del paesaggio, per la biodiversità degli ambienti rinvenibili e per la particolarità floristica, l’area è stata nel tempo oggetto di numerosi studi riguardanti flora e vegetazione, molti focalizzati proprio sulla faggeta del Monte Cimino.
Foresta
La natura dei suoli di origine vulcanica del Monte Cimino, tra i più fertili di tutta l’Italia centrale, permette ai faggi di crescere rigogliosi sino al raggiungimento di imponenti dimensioni, oltre 50 metri. La faggeta pura si sviluppa per circa 60 ettari, con un’altitudine che varia dai 1.054 m della cima a una quota di circa 800-850 m.
Il faggio, però, si spinge anche a quote inferiori, isolato o a piccoli gruppi, penetrando all’interno dei cedui misti e dei cedui di castagno – dove si presentano condizioni favorevoli di umidità –, nelle sacche di terreno più profondo e negli impluvi. Nel contesto di tale habitat si inserisce il castagno, specie che è stata favorita dall’uomo per la buona qualità del legname e del frutto, e che ha esteso il proprio l’orizzonte fino a dove avrebbe dovuto insediarsi il faggio. Ne consegue che il settore meglio conservato è il settore nord-orientale del Monte Cimino, proprio lungo i valloni dove scorrono i corsi d’acqua, dove i castagneti non sono riusciti a insediarsi. Il faggio è inoltre presente anche in prossimità delle piccole lacune createsi nella copertura dei cedui.
La faggeta vetusta è caratterizzata dalla presenza di numerosi alberi di grandi dimensioni, con fusto per una buona parte sgombero da rami e la chioma inserita in alto. La faggeta oggi è relegata alla sommità del Monte, al di sopra dei 900 m di quota, ed è uno degli ultimi frammenti relitti di un’antica ed estesa foresta, che Tito Livio descrisse come impenetrabile e spaventosa: la Selva Cimina. È caratterizzata da un popolamento puro con età dei grandi alberi che si aggira mediamente intorno ai 150 anni, con alcuni individui che superano i due secoli di età. A questo proposito è interessante osservare come gli individui più vecchi presentino una chioma espansa con grossi rami inseriti anche nella parte basale del fusto: questo particolare portamento testimonia che il loro sviluppo è avvenuto in un ambiente più aperto di quello attuale, per esempio in pascoli arborati dove venivano allevati i maiali allo stato brado.
La struttura del bosco del Monte Cimino nel complesso è ancora in prevalenza di tipo coetaneiforme, ovvero presenta numerosi grandi alberi di età simile. A seguito dell’abbandono colturale, degli schianti verificatisi nel corso degli anni e quindi del successivo processo di rinnovazione, il bosco inizia tuttavia a presentare caratteri di maggiore complessità. Infatti, secondo studi effettuati in quest’area, all’interno del popolamento è possibile riconoscere tre diversi gruppi di piante con una differente età media: piante giovani di età convenzionale attorno ai 30-50 anni con diametri compresi tra 5 e 30 cm, piante adulte di età convenzionale di 135 anni con diametri compresi tra 25 e 90 cm, e piante vetuste con età superiore ai 200 anni con diametro maggiore di 80 cm. La riscontrata coesistenza di gruppi di piante di diversa età dimostra quindi un principio di evoluzione naturale orientato verso un aumento della complessità della foresta. La faggeta, quindi, attraversa attualmente lo stadio denominato di transizione demografica, durante il quale il bosco coetaneo si trasforma gradualmente in una foresta vetusta a elevatabiocomplessità.
La faggeta rappresenta uno dei rari lembi di foresta vetusta di grandi dimensioni presenti in Europa: per questo, uno dei principali obiettivi è garantirne il mantenimento dell’estensione favorendone, se possibile, l’ampliamento e la conservazione.
Sentieri
Monte Cimino con i suoi 1050 m di altezza rappresenta la cima più alta della catena montuosa laziale dei Monti Cimini. La sua superficie è quasi interamente ricoperta da foreste, tra cui la faggeta vetusta oggi inserita della World Heritage List dall’UNESCO.
La faggeta è tutelata da una Zona Speciale di Conservazione la cui gestione è affidata all’Ente di gestione della vicina Riserva Naturale del Lago di Vico, ma il luogo ideale da cui partire per una sua visita è il borgo di Soriano nel Cimino. Qui di seguito viene descritto un semplice anello, scelto tra i numerosi sentieri mantenuti dalla Sezione del CAI di Viterbo, utile per visitare la faggeta e scoprire le sue caratteristiche e peculiarità.
La faggeta vetusta di Monte Cimino
Camminare tra i faggi più alti d’Europa
Lunghezza 2 km
Dislivello in salita 100 m
Tempo complessivo 1 ora circa
Difficoltà bassa per l’assenza di dislivello e la brevità del percorso
Per la visita al sito Unesco è possibile raggiungere il parcheggio della faggeta nei pressi della “Rupe Tremante”, distante circa 15 minuti in auto, seguendo le indicazioni per la frazione Canepina e quindi, appena usciti da Soriano, per la faggeta.
Il percorso si snoda lungo sentieri CAI e consente di attraversare con un breve anello i secolari boschi di faggio, accompagnati lungo il percorso dai famosi massi geologici che derivano dall’attività eruttiva del Monte Cimino. Una breve deviazione consente di raggiungere la cima di Monte Cimino, in cui troviamo una suggestiva torre e alcune testimonianze di antichi insediamenti dell’età del bronzo. Questo percorso, arricchito dalle numerose bacheche sulla fauna, la flora e le caratteristiche del luogo, rappresenta l’alternativa più semplice e suggestiva per visitare il cuore di questa antica faggeta.
Attività
La Tuscia Viterbese è un territorio incantevole e dai paesaggi vari e di notevole interesse, nonostante sia ancora poco conosciuta. Troviamo in quest’area due catene montuose, i Monti Cimini e i Monti Volsini, e due laghi vulcanici, il Lago di Vico e il Lago di Bolsena, sorgenti di acque termali, che convivono con foreste a perdita d’occhio e faggete collinari, oltre che con la Maremma Laziale e una costa che giunge quasi fino all’Argentario. Numerosi sono i borghi e luoghi storici che meritano una visita, tra cui la stessa Soriano nel Cimino, la storica Villa Lante di Bagnaia, primo esempio di giardino formale che si raccorda con una lecceta vetusta nel barco, e la famosa Civita di Bagnoregio, “la città che muore”. Questa porzione di Lazio è inoltre conosciuta per Bomarzo e per il Parco dei Mostri; per le città etrusche di Tarquinia e Tuscania; per le antiche ville e palazzi d’arte come il Palazzo Farnese di Caprarola, oltre che per la stessa Viterbo, per oltre vent’anni sede pontificia, che conserva ancora il soprannome di “antica città dei Papi”. Tra i numerosi eventi culturali merita una menzione la Sagra delle Castagne, una delle più belle e suggestive manifestazioni storico-rievocative d’Italia, che si svolge nel primo e secondo fine settimana di ottobre a Soriano nel Cimino.
Un viaggio nella Tuscia non può prescindere da un’immersione nella faggeta vetusta di Monte Cimino: percorrendo i numerosi sentieri che si sviluppano nel bosco, la sensazione è quella di entrare in un’altra dimensione, riscoprendo i suoni e il silenzio che solo questo ambiente unico nel suo genere sa regalare, come isolato in un contesto circostante alquanto diverso come naturalità dei paesaggi. La faggeta raggiunge il suo massimo splendore nei periodi primaverili e autunnali dove i vari colori, dovuti al naturale ciclo di vita delle piante, generano variazioni cromatiche irrinunciabili per tutti gli appassionati di fotografia.
Nei numerosi sentieri che circondano e scendono a valle dalla faggeta vengono praticati molti sport tra cui escursionismo, trekking, corsa e mountain bike. I principali punti d’interesse della faggeta sono la torre e i siti proto-storici presenti sulla vetta del Monte Cimino, testimonianze di antichi insediamenti del bronzo nell’area; i massitrachitici sparsi per l’intera faggeta e creati dall’attività vulcanica di lave quarzo-latitiche oltre un milione di anni fa; la rupe tremante o “sasso menicante”.
La vera attrattiva sono, tuttavia, i maestosi faggi secolari arrivati fino ai giorni nostri, grazie a una scelta autonoma pre-ambientalista della comunità locale legata alla bellezza straordinaria dell’ambiente: isolati, sulla cima di Monte Cimino, sono i veri protagonisti indiscussi di questa preziosa foresta.
Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna
Palazzo Vigiani, via Guido Brocchi, 7
52015 – Pratovecchio (Ar)
P. IVA 01488410513 info@parcoforestecasentinesi.it
Castel di Guido- 19 giugno 2016-Un bilancio provvisorio. Continua il lavoro di ricerca “archeologia di biblioteca”. Ho iniziato questa ricerca, come ho sempre detto, per curiosità e per attività di “conoscenza”, ma quando ci si trova “sul campo”, con i faldoni e cartelle a portata di mano, la realtà ti prende e ti porta alla “storia successiva”. Quando sei tra gli scaffali di una biblioteca o in un archivio ,non sai mai cosa riserva il faldone polveroso che stai per aprire. Come descrivere la sensazione che si prova quando vai con un’antica carta topografica nella zona, descritta in documento, a verificare “le pietre” o “trovare tracce” di fatti avvenuti secoli addietro.
Delusioni? Tantissime, ma anche piacevoli “scoperte” con “riscontri” di ciò che il manoscritto(fotocopia) che stai leggendo narra. La documentazione archivistica che sto esaminando, con ricerche in varie biblioteche e archivi di Roma e non solo, è molto vasta e si presenta, in molteplici forme, come singoli o gruppi di documenti o da archivi ,più o meno, poderosi con documenti connessi da reciproche relazioni. Sono rimasto colpito nello scoprire la grande varietà degli “ATTI” ,prodotti nei secoli passati, relativi alla Campagna Romana . Ho rivisitato e mi sono soffermato sul significato della definizione di “ARCHIVIO” che molti storici così ne hanno illustrato il significato:” L’archivio rappresenta lo specchio della società che riflette, in realtà, da un archivio concepito e inteso esclusivamente come tesoro del principe si arriva pian piano all’archivio recepito come prodotto dell’attività di un Ente o persona che raccoglie e conserva nel suo archivio i documenti per le proprie finalità pratiche e per la certificazione di diritti o, con il passare del tempo, per la ricerca storica.”
Concludo augurandomi che in futuro prossimo , a breve, un sempre maggior numero di persone possa avvicinarsi e contribuire allo sviluppo della storia locale di Castel di Guido, poiché la storia non è stata scritta solo dai “vincitori”, ma spesso da persone umili che nel corso dei secoli hanno cercato di costruire un futuro migliore.
Nazzano-Vale la pena lasciare la Capitale per dirigersi a Nazzano per il suo centro storico che si sviluppa su un’unica strada che porta dritti al castello del XIII secolo. Ancora oggi è possibile ammirare le due torri situate agli angoli opposti, da un lato il Mastio con controllo della Rocca Savelli, dal lato opposto la torre che un tempo serviva a controllare la Valle del Tevere.
Da non perdere a Nazzano la chiesa di Santa Maria Consolatrice, il complesso di San Francesco e la chiesa di Sant’Antimo (appena fuori dal centro abitato). Anche se temporaneamente chiuso per il Covid, a Nazzano è presente il Museo del fiume che racconta la storia del Tevere attraverso varie sale che ne illustrano la geologia, la boanica, la zoologia e le attività antropiche.
La Riserva di Nazzano Tevere-Farfa è sicuramente una delle più interessanti aree protette regionali del Lazio e tutela una zona umida molto estesa, chiamata “lago di Nazzano”, formatasi in seguito alla realizzazione di una dica sul Tevere. La riserva è tra i luoghi più belli d’Italia per il birdwatching e l’osservazione del mondo affascinante e poco conosciuto della palude. Qui si possono percorrere sentieri natura alla scoperta della riserva e del suo fiume.
Poeta pastore di PIEDELPOGGIO frazione di LEONESSA (Rieti)
“…In questa villa deliziosa e amena
che sembra in tutto l’isola cumana
vidi del dì la luce alma e serena….”
Come documenti di quell’antica rustica musa, trascriviamo alcune ottave di Angelo Felice Maccheroni, di Piedelpoggio (1801-1882) e due lettere in ottave scritte agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso da un pastore della frazione di Villa Massi.
Dalla “Pastoral Siringa” del Maccheroni:
Quando poi giunge di Settembre il fine, Che ogni giorno dal ciel la pioggia viene, Vedendo nevicar per le colline, Dice il pastor: Quà non si stà più bene; D’uopo è fuggir dalle pendici alpine, Ed in Maremma ritornar conviene; Per cui Paolo, Francesco e Giovannone, L’uno e l’altro a partir già si dispone.
Secondo l’antica tradizione, la partenza e il ritorno dalla transumanza avvenivano in concomitanza con le due feste di S. Michele Arcangelo la prima delle quali era celebrata il 29 settembre, giorno che commemora la dedicazione della prima chiesa dedicatagli a Roma, nell’anno 530, da papa Bonifacio II. La seconda, l’otto di maggio, celebrava l’apparizione avvenuta, nel 663, alla vigilia della battaglia di Siponto combattuta dai Longobardi del ducato di Benevento contro i Saraceni. In quel giorno l’Arcangelo annunciò all’esercito cristiano la vittoria. Per quanto riguarda Leonessa, forse per le condizioni climatiche, il ritorno ‒ fin dove giunge la memoria degli ex-pastori ‒ avveniva in prossimità della festa di S. Giovanni Battista, da cui il detto: «sangiovanni: ‘rriano li panni» riferito ai panni sporchi di quanti, dopo giorni di cammino, tornavano a casa. La coincidenza delle date della transumanza con le due feste dell’Arcangelo – ancora vigente in alcune regioni d’Italia, come ad esempio in Valle d’Aosta ‒ è dovuta al ruolo di protettore attribuito all’Arcangelo. Il medesimo ruolo, nell’antichità, spettava a Ercole come dimostra il culto dedicato al semidio nel tempio italico-romano di San Silvestro, sul cammino delle transumanze che dall’altopiano leonessano raggiungevano Norcia e l’imbocco dell’antica via diretta a Spoleto, e viceversa in estate. Il lungo cammino attraversava luoghi inospiti infestati da potenziali nemici visibili e invisibili. Il suo protettore non poteva non essere un eroe distruttore di mostri, come Ercole ‒ che tra un’eroica impresa e l’altra allevava bovini ‒ o un Arcangelo guerriero capace di tenere a bada l’angelo ribelle da cui ogni male, disgrazia, incidente e malattia provengono.
Quando poi di partir prossima è l’ora Giovanni mette il basto alla somara, Pietro dice alla figlia: Addio, Leonora, Vòlto alla sposa: Addio, consorte cara; Ed ella, ch’il partir di lui l’accora Di accompagnarlo non si mostra avara, Nel distaccarsi poi gli fa premura Che le scriva sovente, e si abbia cura.
Lu colle sparticore
Uno dei luoghi deputati agli addii era un colle poco lontano dalla frazione di Albaneto, che aveva meritato il nome di “Sparticore”: dove il cuore “se spartisce”, si spezza. Dalla cima del colle, nel trapestio delle greggi e il concitato abbaiare dei cani, spose, figli e parenti salutavano i loro cari che avrebbero rivisto dopo otto mesi quando sui monti indugiano gli ultimi lembi di neve e nei boschi già canta il cuculo. Tornati a casa dopo l’addio, per giorni, fino a quando la transumanza non fosse giunta a destinazione, si evitava con cura di spazzar casa, altrimenti i cari assenti non avrebbero fatto ritorno, o ritardi e disgrazie lo avrebbero reso penoso. Dalla sera della partenza, i nomi dei congiunti lontani sarebbero stati ricordati nel rosario quotidiano, intonato dal più anziano della famiglia riunita attorno al focolare. Un autorevole studioso, George Dumézil, ha formulato l’ipotesi che la sabina Vacuna, la Madre Terra vacua ormai di frutti ‒ cui dopo gli ultimi raccolti erano dedicati i rituali fuochi d’autunno (“uacunales foci”) e tavole imbandite ‒ fosse anche protettrice degli assenti durante la loro vacanza e ne propiziasse il ritorno.
Da quei villaggi, in questo tempo ogni anno Parte col padre il figlio, il zio col nonno, Restano appena quei che più non hanno Lena e vigor qual pria, per cui non ponno; Costoro in guardia delle donne stanno, Gli altri, conforme i lor bisogni vonno, Uomini adulti e giovani di senno, Vanno per quella via ch’ora vi accenno.
Il cammino seguito dalle greggi che si recavano nella campagna romana, da Leonessa, percorrendo la Vallonina, attraversata Valpagana, valicava il Monte Corno scendendo verso Poggio Bustone e Cantalice. Attraversata la pianura reatina, percorrendo la Salaria, le transumanze si dirigevano a Nerola. Da lì, passando per Monterotondo, raggiungevano la campagna romana. Un percorso alternativo, seguendo il corso del Rio Fuscello che nasce ai piedi del Monte Tilia, raggiungeva Polino attraverso l’antica via che univa il borgo medievale fortificato del Fuscello al castello di Polino.
Secondo un’antica tradizione abruzzese (Leonessa rimase aquilana fino al 1928) il bordone che accompagnava i transumanti doveva essere di nocciolo, legno dotato del potere di mettere in fuga i serpenti. Il greco Dioscoride raccomandava di portare nocciole nella cintura per allontanare gli scorpioni e una leggenda germanica raccolta dai fratelli Grimm narra che la Vergine, assalita da una vipera mentre era intenta a coglier fragole per il suo Bambino, trovò rifugio tra i rami di un nocciolo. Riconoscente, benedì l’umile alberello che, da allora, fu dotato del potere di tener lontane le serpi.
Su gli aridi finocchi ove ha già spasa Doppia pelle, il pastor dorme e riposa, E con la mente di pensieri invasa Sogna la prole sua, sogna la sposa; Si desta e pensa serio alla sua casa, Che lasciolla del tutto bisognosa, E quest’è quel che il cor gli affligge in guisa Che pargli aver da sen l’alma divisa.
Il giaciglio dei pastori ‒ la “rapazzola” ‒ era composto da un graticcio di rami poggiato su “forcine” di legno infisse nel terreno. Sul pagliericcio di fieno o erbe silvestri, qui preparato con rami di finocchio selvatico, venivano stese (“spase”) pelli di pecora. A volte, il pensiero della famiglia lontana impegnata nella quotidiana impresa del sopravvivere, interrompeva il meritato sonno del pastore e questi, a lume di candela o nelle brevi pause concesse dal lavoro, affidava alle lettere i suoi pensieri:
Dar notizia di me ti posso intanto; Sino al presente dì bene mi sento Solo mercè del Nume unico e santo, Che adorno fè di stelle il firmamento; Ma rivolgendo il piè per ogni canto Passo li giorni miei, fra pena e stento, E quel che mi rende il cor consunto, La nostra dura lontananza appunto.
Il lavoro diventa più faticoso se il cuore è oppresso dalla pena: nel caso del pastore, dalla nostalgia del borgo natale, dal vuoto creato dalla lontananza dei cari. Per quanto riguarda gli stenti, l’alimentazione del personale di servizio, oltre alla razione giornaliera di pane e ricotta, pasta, sale, legumi, comprendeva un po’ di carne nei giorni di festa, o quando un capo di bestiame moriva, secondo il detto: «Acquacotta, ricotta e pecora morta». “Acquacotta” dichiara che il principale ingrediente del pasto serale era l’acqua calda con l’aggiunta di qualche erba di campo, versata sul pane raffermo e condita (nelle versioni di lusso) con una spolverata di cacio pecorino. «Quannu lu bufurghittu fa baldoria, / bròdu de remolaccia e de cicoria». Il ramolaccio è il Raphanus raphanistrum L.; la cicoria è il tarassaco, o dente di leone. In ogni caso, per via della quantità di pane ammollo, la frugale zuppa riempiva la pancia: «Acquacotta, pane spreca e trippa abbotta».
Se vuoi disacerbar, diletta sposa Quella pena crudel ch’ho in petto chiusa, Alla lettera mia rispondi in prosa Senza punto indugiar conforme si usa, Dammi nuova di te se qualche cosa Ti occorre mai, non dei restar confusa, Al tuo consorte il tuo voler palesa, Che non guarda per te veruna spesa.
Il pastore chiede alla sposa di rispondere alla sua lettera, non in ottave, certo, ma nella prosa stentata di chi appena sa scrivere. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, spose e fidanzate chiedevano al “vetturale” incaricato di consegnare la corrispondenza, o al parroco, di trasformare la loro voce in segni. Il compenso consisteva, in genere, in quattro uova e un timido “grazie” balbettato con la vergogna d’essere ignoranti e di aver dovuto affidare a terzi i propri sentimenti e le questioni di famiglia. D’altro canto, neanche i pastori compositori di ottave, spesso, sapevano scrivere ed erano costretti a dettare i loro versi a qualcuno che sapesse tenere in mano la penna. Le ariosteggianti ottave di Angelo Felice Maccheroni furono dettate a un “vergaro” che, verso per verso, le trascrisse. Un’impietosa, vecchia strofetta, si burlava della verve letteraria dei pastori: «Lu pecoraru quanno va ‘n maremma / se crede d’esse’ giudice e notaru: / la cóva (coda) de la pecora è la penna, / lu sicchiu de lu latte è ‘l calamaru», o, in modo più diretto: «la groppa de la pecora è la carta, / ce scrive ‘n accidenti che lu spacca».
Rispetta i cenni miei, vivi lontana Dai Proci, qual Penelope in persona Guardati conversar con gente strana Ancorché avesse in mano la corona, Per la casa propensa, ai figli umana Mostrati ognor, qual madre ottima e buona, Vivi i giorni così di gioja piena, Di me non ti pigliar veruna pena.
Dei saluti del prete ti ringrazio, Meglio sarìa non me ne dessi indizio, Non ci parlar neppur per breve spazio Che potrebbe recarti un pregiudizio; il prete, moglie mia lo scrive Orazio Dice addrizzar gli affari a Cajo, a Tizio; Va nelle case altrui quando stà in ozio Per addrizzare il proprio suo negozio.
Nel caso si fosse lasciata a casa una moglie giovane o una fidanzata, tra le pene suscitate dalla lontananza vi era la gelosia che pungeva più delle pulci sotto i rustici panni. Se l’antico detto «Lontano dagli occhi, lontano dal cuore» rispondeva a verità, otto mesi di forzata separazione avrebbero offerto ai malintenzionati una ghiotta opportunità, e obbligato l’amante o lo sposo lontano a percorrere un lungo sentiero irto di rovi. Devoto cristiano, ma imbevuto di anticlericalismo garibaldino, Maccheroni punta i suoi strali contro il prete del villaggio. Ma il poeta-pastore non è l’unico: un antico “dispetto” cantato dai mietitori ‒ molti provenienti dalle Marche ‒ recitava: «Mo ch’è vinuta l’ora de lu mète / povera bella mia, chi sse la gode? / e se lla gode quel boia de lu prete», a volte con la chiusa «oppuramente quarghe sbirru o frate».
Ai crucci del marito, la moglie risponde lamentando la scarsezza di grano per il pane e la pasta; la mancanza di farro e lenticchie; la penuria di legna: ormai è primavera, nei campi il grano germoglia ma i monti sono ancora coperti di neve. E fa freddo. Ma ciò non fa meraviglia, del clima locale si diceva: «Leonessa: undici mesi de friddu e unu de friscu». Tra le buone notizie: il peso del porcello, il parto della pecora e l’inizio d’una nuova gestazione della sposa fedele. Il maiale, nel lungo periodo invernale, offriva preziose proteine animali. Si usava dire: «Nengua, nengua s’ha da ninguà, so ‘ccisu lu pórcu, so fattu lu pa’, Nevichi pure, se deve nevicare, ho ucciso il maiale e ho fatto il pane». Il gregge domestico, composto da qualche pecora e un paio di capre, d’inverno rimaneva nella stalla, a primavera ruzzava sui prati. Non c’era bisogno di portarlo a svernare nella campagna romana, o in maremma, come bisognava fare con le sterminate greggi dei Torlonia, dei Massimo, o di altre famiglie della nobiltà romana d’antico blasone. Per quanto riguarda l’arrivo d’un nascituro, la notizia in sé era lieta ‒ in campagna c’è sempre bisogno di braccia ‒ ma con l’incognita del sesso: se fosse nato un maschietto, l’evento sarebbe stato celebrato con suonatori d’organetto e poeti a braccio, vino, pane e prosciutto offerti ai passanti fuori dell’uscio di casa. Se fosse nata una femmina, il prosciutto sarebbe stato sostituito da una “spalletta” di minor pregio, senza suonatori né poeti. Nelle famiglie dedite alla pastorizia, i figli nascevano in maggior parte tra marzo e maggio: prima di giugno non c’era modo di fare l’amore e, appena tornati a casa, l’amore era la prima cosa che si faceva. Un detto recita: «Chi nasce de gennaru / n’è fiju a ‘n pecoraru».
Coi figli insieme anch’io vivo contenta, Mercè l’alta Bontà Divina e Santa, Solo il continuo freddo mi tormenta, Che di neve ogni colle ancor si ammanta; A germogliar comincia la sementa; il porchetto pesò libre quaranta, La pecora ha figliato, io sono incinta Sol per opera tua, che non son finta.
Devi saper di più che la provista Del grano, altri due mesi non mi basta, Se un altro rubbio* o due, non se ne acquista Non avrò certo con che far la pasta; Ho terminato il farro, e ciò mi attrista, Son di lenticchie ancor priva rimasta, Li figli senza scarpe, io sono vesta**, E l’esattor sovente mi molesta.
Dunque marito mio sia tua la cura Di provveder la tua famiglia cara, Intanto io ti saluto, e son sicura Che non avrai per me la voglia avara, Ti salutano i figli, e con premura La tua Benedizion chieggono a gara E ti saluta il buon curato ancora; Addio, che altro da dir non ho per ora.
Dal generale naufragio della rustica musa d’un tempo, quando nell’amore la cortesia era d’obbligo e la ricerca di bellezza spingeva a imitare i grandi poeti con versi a volte maldestri scritti negli stazzi o nelle capannucce fumose, si è salvato molto poco o nulla. Da parte nostra, abbiamo avuto la sorte di salvare dall’oblio due lettere in ottave conservate nella memoria di un vecchio pastore di Villa Massi (Ca’ Massu) una frazione di Leonessa. Un tempo erano scritte a matita in un quaderno, assieme alle minute di altre lettere inviate dalla campagna romana a una ragazza del borgo con la quale il pastore pensava di costruire un onesto futuro. Le cose andarono diversamente e il nostro finì con lo sposare un’altra donna. Quel quaderno, conservato tra i ricordi personali, finì nel fuoco. Così la consorte intese distruggere il ricordo d’una donna colpevole d’aver fatto cantare il cuore del suo uomo prima che lei entrasse nella sua vita. Rammento che l’anziano pastore, mentre attendevo con ansia che i led del registratore iniziassero a palpitare, chiuse gli occhi. Un’espressione di sofferenza gli si dipinse sul viso. Iniziò a balbettare frammenti di versi. «No me llu recordo!… No me lli recordu!…». Poi, il volto si distese e i versi proruppero, uno dietro l’altro, formando le ottave tra qualche lacrima serena.
1. Signorina, vi giuro, il mio pensiero il mio ideale è sempre fisso a lei, certo, mi creda, quel ch’io dico è vero io non riposo più solo per lei. La tua persona mi tormenta e credo che vivere più a lungo non potrei se la tua persona impertinente del mio gran male non si sente niente.
Io lo prego quel Dio, l’Onnipotente, che possa restaurar la vita mia, quello che porge aiuto a ogni dolente quel che fa nascer tanta simpatia. Il mio cuor l’ha fatto prepotente e va cercando la persona tua credi ragazza che ti pongo il cuore: la mia vita ha bisogno del tuo amore.
Se sei una donna che sai ripensare al mio voler non devi contraddire ché giorno e notte sempre sto a pensare dal gran pensiero mi sento morire. Perciò ho voluto questo a lei svelare: se la fortuna non mi vuol mentire io vorrei mischiar la nostra razza, vorrei sposare a te, bella ragazza.
Io nel mondo ne vidi abbastanza belle ragazze e di tanta delizia ma no’ la vidi con quella tal grazia la quale è lei e di tanta mestizia. Lei sola è la persona che mi sazia lei sola è la gran donna di letizia lei sola è la più bella tra le belle somiglia alla maggiore delle stelle.
Scrivo ‘sto foglio con una speranza d’essere al mondo il più felice nato se contraria la trovo ora, ragazza, credi sarei il più sventurato più con ragazze non farei alleanza con altre donne non sarei sposato soltanto lei, dolce leggiadria, farà felice la persona mia.
Voi siete al mondo la gran donna pia che fece nascer Dio sol per amare amerai dunque la persona mia perché io ti amo con perfetto amore. Per te sento il mio cuore scappar via dentro il mio petto più non vuole stare soltanto per il tuo viso tanto bello ch’è tanto tempo che io penso a quello.
Per te sento il mio cuore meschinello e vincere non posso il grave affanno attendo sempre quel mesetto bello di rivederti già mi par mill’anno. Io son nato tra gli altri poverello per questo riconosco il grave danno ché la tua persona e leggiadria attende uno d’alta signoria.
Quella sarebbe la rovina mia come ti ho scritto nel foglio passato se sei contraria alla domanda mia meglio sarebbe che io non fossi nato. Or la saluto perché conveniva, il suo diletto uomo innamorato s’affida a lei e il nome ora le dice si chiama, certo, Antonio De Felice.
2. Son tanti mesi che io lontano vivo con la speranza di dimenticarti ma sappi, bella, che quando di te son privo somiglio a un giocatore senza carte e se col gioco si rimane privo delle grandi ricchezze e dei miliardi un vero giocator che al gioco tiene privo di carte vive in aspre pene.
Così succede a me che ti vuol bene tutta la mia passion verso di tene la volsi quando ti conobbi bene ché mi accendesti il sangue nelle vene ma visto che il tuo cuore non contiene altro che crudeltà verso di mene io me ne allontanai contro mia voglia e ancora vivo fra tormenti e doglia.
Ancora il mio cuore trema come foglia da quando ti lasciai, o Maddalena, sento che si consuma e mi fa noia saperti bella e mi volti la schiena. Spero che l’hai cambiata la tua voglia che ora mi accetti con faccia serena perciò ti mando questa letterina per dirti la mia idea, o signorina.
A li miei occhi sei la più carina che in tutto il mondo non ha paragone ti vorrei assomigliare a una regina soltanto che ci manca il seggiolone*. Di altri ornamenti la tua personcina è già dotata da nostro Signore ora io penso che ci vuol marito perciò mi offro per tuo amante fido.
In questo mondo mi trovo smarrito e cerco una persona in compagnia che mi vuol bene e che mi porge aiuto che mi accompagni in una retta via. Perciò da quando io ti ho conosciuto ho scelto te come persona pia che possa soddisfare la mia voglia: rispondi presto e levami ‘sta noia.
Vedo ogni pianta rinnovar la foglia così rinnoverai il tuo pensiero se prima il mio parlar ti facea noia ora spero mi accetti volentieri spero che non sei dura come soglia altrimenti mi mandi al cimitero perché a ‘sto mondo do’ c’è forza e pace nulla gli manca a chi il lavoro piace.
Io già mi sento di essere capace di provvedere tutto il necessario, se la fortuna poi sarà fallace Iddio comanda il condottier per mare. Ora ti dico fai come ti piace e ti saluto perché è necessario or chi ti ama il nome qui ti dice si chiama certo Antonio De Felice.
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*seggiolone: il trono
Franco Leggeri Fotoreportage -” IL PALIO DEI FONTANILI ” 2018
Borgo Testa di Lepre-AMARCORD-” IL PALIO DEI FONTANILI “–
Articolo e foto di Franco Leggeri
Il Borgo TESTA di LEPRE a settembre avrà il “suo” Palio. E’ in fase avanzata la realizzazione della prima edizione del “Palio dei Fontanili del Borgo di Testa di Lepre” da parte della Proloco.
Testa di Lepre- 11 luglio 2018-Quella che sta nascendo a Testa di Lepre è una manifestazione ,sempre più concreta, con il fine di far rivivere e far conoscere , con giochi e manifestazioni varie, una battaglia che avvenne nell’846 d.C. nella Valle dell’Arrone, zona Fontanile di Mezza Luna, quando la Milizia Contadina, condotta e guidata ad una vittoria storica dal Duca Guido da Spoleto, sconfisse i saraceni che stavano per invadere Roma.
Il Consiglio Direttivo della Proloco ha suddiviso in quattro il territorio del Borgo e saranno , appunto, quattro gli stemmi che rappresenteranno, al Palio, le Contrade di Testa di Lepre. Tutti gli abitanti del Borgo, con spirito cavalleresco, saranno uniti nelle competizioni che si svolgeranno a settembre durante il Palio.
Ci dice Luca Calderoni il Presidente della Proloco:” Questa prima edizione del Palio sarà puramente ludico-sportivo, ma con lo scopo di esaltare i valori della nostra Campagna Romana. Quello di Testa di Lepre sarà un Palio per le famiglie, persone, ragazzi di ogni età che vorranno riprendere una storia ormai quasi dimenticata per ricominciare a “scriverla” di proprio pugno.” Prosegue Luca Calderoni “Da un’idea, una semplice idea e intuizione passare alla fase realizzativa è ,e sarà, una bella sfida che , speriamo, dal bilancio partecipativo di scoprire una realtà che riempirà di colori e calore umano il Borgo di Testa di Lepre, nel suo intero, con: musica, balli,cucina campagnola, stendardi, foulard, sorrisi e vera amicizia. Questo è il mio augurio e la mia speranza che ripongo in questa iniziativa” Conclude infine così il suo colloquio con me Luca Calderoni” voglio ringraziare tutto il Comitato Direttivo e i Soci della Proloco per il FATTIVO e concreto sostegno OPERATIVO che stanno mettendo al fine di vedere il trionfo della manifestazione del Palio dei Fontanili. “
Aggiungo che tutto il Palio sarà un’opera Corale a più voci , auguro agli organizzatori che dal Borgo si possa udire un “INNO ALLA GIOIA” da tutta Campagna Romana.
Seguiranno, da parte di noi di Campagna Romana, altri report sulla fase organizzativa del Palio dei Fontanili con interviste e foto a tutti i membri del Comitato Direttivo della Proloco, ai partecipanti e ai Capitani delle Contrade. Cercheremo di scrivere, raccontare, con approfondimenti storici , i fatti relativi alla battaglia dell’846 d.C. e la storica vittoria della Milizia di Campagna sui saraceni. Andremo a fotografare i Fontanili e l’area della famosa Battaglia. Racconteremo la vita di questi eroi della Campagna Romana che formarono l’esercito , MILIZIA CONTADINA, del famoso Condottiero il Duca Guido da Spoleto.
Articolo di Franco Leggeri
N.B.Foto di Franco Leggeri- Le foto sono a disposizione di TUTTI e libere .
Altre foto sono su Facebook-CAMPAGNA ROMANA BENE COMUNE
ROMA-Santa Passera, la chiesa che ispirò “Uccellacci e uccellini” di Pier Paolo Pasolini-Santa Passera, chiesetta graziosa ma in cattivo stato – fra il Tevere e via della Magliana. Costruita nel V secolo nel luogo in cui le spoglie i santi alessandrini Giovanni e Ciro, in basso a destra, approdarono a Roma, la chiesa fu in seguito intitolata a Santa Passera, santa che non è mai esistita.
FIUMICINO-Borgo PALIDORO-Torre Perla sarà il museo Salvo d’Acquisto
Torre Perla di Palidoroospiterà il museo dedicato a Salvo d’Acquisto. Lo ha deciso la Regione Lazio approvando una specifica richiesta avanzata i primi di ottobre dal comune di Fiumicino.
“Siamo davvero felici, ha detto ieri il Sindaco di Fiumicino, Esterino Montino che la Giunta Regionale abbia approvato la delibera con cui autorizza la concessione della Torre di Palidoro, a favore di questa Amministrazione. Il 7 ottobre 2015 avevo scritto all’assessore regionale alle Politiche del Bilancio e Patrimonio, Alessandra Sartore, chiedendo la concessione della Torre, dell’area circostante e dei fabbricati prospicienti. Con il provvedimento firmato oggi il Comune di Fiumicino, d’intesa con il Comando generale dei Carabinieri, porrà le basi per la costituzione di un museo dedicato al vicebrigadiere Salvo d’Acquisto, medaglia d’oro al valor militare e figura che il nostro territorio vuole celebrare come merita”.
Salvo d’Acquisto:«Se muoio per altri cento, rinasco altre cento volte: Dio è con me e io non ho paura!»
La Torre-
La torre, a pianta quadrata e alta circa 20 metri, risale al periodo delle invasioni saracene e serviva, insieme a diverse altre torri costiere, tutte erette tra l’VIII e il IX secolo, ad avvistare l’avvicinarsi delle navi nemiche. La torre di Palidoro, nota anche come torre Perla, è una fortificazione costiera di avvistamento realizzata tra l’VIII ed il IX secolo a difesa del territorio dell’Agro romano dalle scorribande saracene che a partire dall’VIII secolo d.C. flagellarono le coste del Tirreno fino a giungere a minacciare Roma. Proprio davanti alla torre il 23 settembre 1943, il vicebrigadiere dei Carabinieri Salvo d’Acquisto, comandante della stazione locale sacrificò la propria vita per salvare 22 persone rastrellate dopo un attentato contro le truppe tedesche e per questo destinate alla fucilazione.
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