Testi selezionati da Tutte le poesie –Editore Mondadori-
Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes) nasce a Firenze da padre ebreo il 10 settembre 1917. Qui compie gli studi, laureandosi dapprima in Giurisprudenza e poi in Lettere (Storia dell’arte). Battezzato valdese nel 1939, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fugge in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Finita la guerra si stabilisce a Milano, che diventa sua città d’adozione, e unisce all’insegnamento un’intensa attività di collaborazione a riviste politiche e culturali.
Fare e disfare
La foglia tornava all’albero e la nuvola al ramo.
Il ricordo coronava le vecchie case.
Il sangue abbandonato faceva piangere.
Si muravano nuove case, altre opere.
Leggi dolorose guidavano la città.
Nel museo brilla la fiala delle tombe e la cenere
che il vento agita agli acrotèri
è delle guerre spente ma è già seme.
Si mutano invisibili i pensieri,
storia e speranza insieme è quanto fu attimo e pianto,
dall’incertezza nasce la determinazione,
ma dalla volontà buona la voglia di non essere
e dal piacere di morte la tenera foglia.
Tutto sopporta tutto.
E si vorrebbe
cedere, uscire, non essere più.
Ma ancora dieci passi prima della scarpata
prima del piombo in cuore
ancora dieci attimi prima della corsa ultima
nella luce del fosforo
ancora dieci anni per chiedere la pietà.
Ma anche per rivivere e lavorare
e disperare per rivivere
morire per lavorare
disperare per morire
lavorare per rivivere.
Traducendo Brecht
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
I destini generali
È vero che sono stanco:
questo scendere scale e salire
deride, finché uccide, gli stanchi.
Avere negli occhi pomeriggi interi
soli agri, irrazionali realtà!
Se nemmeno l’augurio mi dà gioia
allora sparire diviene necessario.
Se la gioia non mi vince
rovinando sulle querce
lavando le scogliere
invadendo la fronte
il rancore dell’inganno
e danno e pianto divorato e spento
anche distrutte queste labbra
e sciolti in creta gli occhi tanto ansiosi
veleno saranno e vergogna
nelle vene degli altri
e mai lasceranno le menti!
Secolo di calce e fluoro, bava
di aniline e corpi come lava
di visceri: ecco i cordiali aperitivi
con gli assassini e la valutazione
obiettiva del niente… Se non trionfo
dureranno eterni,
saranno in uno che è me stesso, me
sempre sopravvissuto.
Immortale io nei destini generali
che gli interessi infiniti misurano
del passato e dell’avvenire, io pretendo
che il registro non si chiuda
che si cerchi ragione, che si vinca
anche per me che ora voce mozza vo,
che volo via confuso
in un polverio già sparito
di guerre sovrapposte, di giornali,
baci, ira, strida…
Ragione degli anni
Si può ancora disperdersi, schiarite
dei mesi incerti, soli obliqui.
Si può ancora volare per la vostra
polvere tenera, schiarite.
Di rado il profondo su querce e vasche d’iride
Eliso azzurro meditando posa
e un chiù persuade il viale roseo
che l’affanno può sparire.
Ma gioventù ci aspetta in una sera
di calme stille dai rami e di passi
incerti. Una leggera chiara sera
avremo ragione degli anni.
La partenza
Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire,
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.
Il presente
Guardo le acque e le canne
di un braccio di fiume e il sole
dentro l’acqua.
Guardavo, ero ma sono.
La melma si asciuga fra le radici.
Il mio verbo è al presente.
Questo mondo residuo d’incendi
vuole esistere.
Insetti tendono
trappole lunghe millenni.
Le effimere sfumano. Si sfanno
impresse nel dolce vento d’Arcadia.
Attraversa il fiume una barca.
È un servo del vescovo Baudo.
Va tra la paglia d’una capanna
sfogliata sotto molte lune.
Detto la mia legge ironica
alle foglie che ronzano, al trasvolo
nervoso del drago-cervo.
Confido alle canne false eterne
la grande strategia da Yenan allo Hopei.
Seguo il segno che una mano armata incide
sulla scorza del pino
e prepara il fuoco dell’ambra dove starò visibile.
***
Era la guerra, la notte tremavano
nelle credenze i cristalli al ronzio
delle ondate da ovest ad oriente
o a sud, verso l’Italia. Chi ero io
e tu chi eri? Cominciò così.
Lungo e grigio era il lago di Zurigo
e i tram celesti nell’aria di neve.
Une tache de sang intellectuel
Una macchia di sangue intellettuale
che il sole non asciuga mai. «Oh, che cosa vuoi fare!»
mi gridano i compagni coraggiosi
alti tra le bandiere e le sostanze reali
della festa di corpi naturali
di lotta e di amor vero.
«Voglio esistere e voi perdonatelo»
rispondo io, di quaggiù, dalla segreta.
«Anche come il viscere della bestia stracciata
anche come il sangue rappreso nella polvere.
Anche il cieco nato può in sé vedere il lampo
e parlarne con gesti imperfetti
e il suo discorso in catene
può atterrire e può dissuggellare.
E chi sempre ha negata l’avventura
può non lontano dalle nostre case
disvelare una terra di miracolo.»
«Oh, cosa aspetti» mi gridano i viventi
impetuosi ancora tra le vendemmie.
«Passa il tuo giorno» gridano, bocche al sole.
«Nessun orgoglio» rispondo «amici miei cari!
E mi sarebbe dolce essere anch’io
dove voi siete. Ma a ognuno le sue armi.
A voi il fuoco felice e il vino fraterno
a me la speranza acuta dentro la notte.»
Forse il tempo del sangue
Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
Parabola
Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliare
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.
Breve biografia di Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes) nasce a Firenze da padre ebreo il 10 settembre 1917. Qui compie gli studi, laureandosi dapprima in Giurisprudenza e poi in Lettere (Storia dell’arte). Battezzato valdese nel 1939, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fugge in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Finita la guerra si stabilisce a Milano, che diventa sua città d’adozione, e unisce all’insegnamento un’intensa attività di collaborazione a riviste politiche e culturali. Dopo il 1957, anno in cui lascia le file del Partito Socialista, continua la sua partecipazione alla vita politica italiana da posizioni della sinistra non ufficiale. Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo: Foglio di via e altri versi (1946), Poesia ed errore (1959), Questo muro (1973), Paesaggio con serpente (1984). Muore nel capoluogo lombardo il 28 novembre 1994.
Fonte –AVAMPOSTO- Rivista di Poesia- Reggio Calabria
Contatti-Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Ritanna Armeni -Di questo amore non si deve sapere. La storia di Inessa e Lenin
Editore- Ponte Alle Grazie
DESCRIZIONE
Donna attraente e appassionata, magnetica e vitale, pianista eccellente, poliglotta, rivoluzionaria, impegnata nella lotta per i diritti delle donne, sostenitrice del libero amore, madre di cinque figli e moglie di un ricchissimo industriale russo: è Inessa Armand, votata anima e corpo alla causa bolscevica. Anche se per molto tempo il regime sovietico ha fatto di tutto per tenerlo segreto, fu il grande amore di Lenin, oltre che la sua più fidata collaboratrice. Si conobbero a Parigi nel 1909, in un caffè dove si incontravano i rivoluzionari russi in esilio: il loro legame si nutriva dell’ardore politico, dell’ebbrezza di ideare e partecipare a un cambiamento storico epocale, ma anche di fascinazione, attrazione e tenerezza. Inessa è sepolta per volere di Lenin davanti alle mura del Cremlino vicino a John Reed, ma è stata cancellata dai libri di Storia. Il capo della Rivoluzione non poteva essere macchiato dalla meschinità di un adulterio borghese. Ritanna Armeni, che ha seguito le sue tracce nelle poche testimonianze e biografie esistenti e ha ripercorso i suoi passi in Europa, ci restituisce il ritratto fremente, dolce e indomabile di una donna che più che al passato sembra appartenere al nostro futuro: inquieta e non catalogabile, piena di contraddizioni eppure integra nelle sue passioni, capace di amare perché libera, rivoluzionaria nel privato e nel politico.
L’AUTORE
Ritanna Armeni è giornalista e scrittrice. Ha lavorato come caporedattrice al periodico «Noi donne», poi a «il manifesto» e nella redazione di «l’Unità», a «Rinascita» e, ancora, opinionista sul quotidiano «Il Riformista». Nel 1998 è diventata portavoce dell’allora segretario di Rifondazione Comunista ed ex Presidente della Camera dei Deputati, Fausto Bertinotti, del quale ha curato, con Rina Gagliardi, il volume Devi augurarti che la strada sia lunga (Ponte alle Grazie 2009). È stata per tre anni conduttrice di “Otto e mezzo” insieme a Giuliano Ferrara. Ha pubblicato Di questo amore non si deve sapere (Ponte alle Grazie 2015), vincitore del Premio Comisso. Tra gli altri suoi titoli usciti sempre con Ponte alle Grazie: La colpa delle donne (2006), Prime donne. Perché in politica non c’è spazio per il secondo sesso (2008), Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte (2018). Mara. Una donna del Novecento (2020).
casa editrice Ponte alle Grazie
La casa editrice Ponte alle Grazie è stata fondata a Firenze alla fine degli anni Ottanta. Negli anni il catalogo si è arricchito di autori affermati a livello internazionale e giovani promesse apprezzate da pubblico e critica. Tra i nomi più rappresentativi della narrativa spiccano autori dalla forte identità letteraria come Margaret Atwood, Philippe Claudel, Sarah Waters e Aldo Buzzi. Nel fortunato filone della letteratura di viaggio emergono i reportage di Colin Thubron. La produzione di saggistica continua la sua storica vocazione economica e politica orientandola verso temi ambientalisti e di critica sociale. Sempre più spazio trova la divulgazione, soprattutto quella filosofica, psicologica e delle neuroscienze. Il professor Giorgio Nardone dirige i “Saggi di terapia breve”, manuali di psicologia che fanno riferimento alla scuola di problem-solving iniziata a Palo Alto da Paul Watzlawick. Allan Bay dirige invece la collana “Il lettore goloso” che si propone di introdurre i lettori a una vera cultura della cucina pubblicando libri originali, molto lontani dai tradizionali volumi di ricette.
ROMA-Mausoleo di Augusto-Nuovo importante ritrovamento a Piazza Augusto Imperatore
Roma, 06 luglio 2023 – “Riqualificazione del Mausoleo di Augusto e piazza Augusto Imperatore”-Dichiarazione del Sovrintendente Capitolino Claudio Parisi Presicce“Grazie al lavoro attento degli archeologi e delle archeologhe della Sovrintendenza, siamo in grado di approfondire la conoscenza di un quadrante della città che stupisce per la ricchezza della sua storia millenaria.
La testa appena ritrovata, di elegante fattura, scolpita in marmo greco, appartiene probabilmente a una statua di divinità femminile, forse Afrodite, di dimensioni naturali. Mostra una raffinata acconciatura di capelli raccolti sul retro grazie ad una “tenia”, un nastro annodato sulla sommità del capo.
Il reperto è stato rinvenuto nella fondazione di un muro tardoantico ma si conserva integro; riutilizzato come materiale da costruzione giaceva con il viso rivolto verso il basso, protetto da un banco d’argilla sul quale poggia la fondazione del muro. Il riuso di opere scultoree, anche di importante valore, era una pratica molto comune in epoca tardo medioevale, che ha consentito, come in questo caso, la fortunata preservazione di importanti opere d’arte.
La testa è al momento affidata ai restauratori per la pulizia, e agli archeologi per una corretta identificazione e una prima proposta di datazione, che appare ancorata all’epoca augustea.”
La scoperta è avvenuta nel corso dei lavori per la “Riqualificazione del Mausoleo di Augusto e piazza Augusto Imperatore”, sul lato orientale dell’area in corso di intervento.
Mausoleo di Augusto
Di ritorno dalla campagna militare in Egitto, conclusasi con la vittoria di Azio del 31 a.C. e la sottomissione di Cleopatra e Marco Antonio, nel 28 a.C. Ottaviano Augusto diede inizio alla costruzione del Mausoleo nell’area settentrionale del Campo Marzio all’epoca non ancora urbanizzato.
Già in precedenza occupato dai sepolcri di alcuni uomini illustri, lo storico greco Strabone descrisse il monumento come “un grande tumulo presso il fiume su alta base di pietra bianca, coperto sino alla sommità di alberi sempreverdi; sul vertice è il simulacro bronzeo di Augusto e sotto il tumulo sono le sepolture di lui, dei parenti, dietro vi è un grande bosco con mirabili passeggi”.
Il Mausoleo con il suo diametro di 300 piedi romani (circa m 87) è il più grande sepolcro circolare che si conosca. Il monumento si componeva di un corpo cilindrico rivestito in blocchi di travertino, al centro del quale si apriva a sud una porta preceduta da una breve scalinata; in prossimità dell’ingresso, forse su pilastri, erano collocate le tavole bronzee con incise le Res Gestae, ovvero l’autobiografia dell’imperatore, il cui testo è trascritto sul muro del vicino Museo dell’Ara Pacis.
Nell’area antistante erano collocati due obelischi di granito, poi riutilizzati uno in piazza dell’Esquilino, alle spalle di S. Maria Maggiore (1587), l’altro nella fontana dei Dioscuri in piazza del Quirinale (1783).
Varie ipotesi di ricostruzione del monumento sono state proposte sulla base dei resti conservati e dei disegni realizzati nel XVI secolo da Baldassarre Peruzzi. Su di un basamento alto circa m 12 si elevava, impostato su una delle murature anulari più interne, un secondo ordine architettonico coronato da una trabeazione dorica, di cui vari elementi sono stati rinvenuti nell’area del monumento. Su questa altissima struttura svettava, a 100 piedi romani di altezza (circa 30 metri), la statua di Augusto in bronzo dorato, probabilmente l’originale bronzeo della statua in marmo rinvenuta nella villa di Livia a Prima Porta.
Attraverso un lungo corridoio d’accesso, il dromos, si giungeva alla cella sepolcrale, di forma circolare, con tre nicchie rettangolari ove erano collocate le urne. La nicchia di sinistra, ospitava le ceneri di Ottavia, sorella dell’imperatore e di suo figlio Marcello, successore designato di Augusto prematuramente morto nel 23 a.C. Augusto fu forse sepolto nell’ambiente ricavato all’interno del nucleo cilindrico centrale. All’interno del sepolcro vennero deposte le ceneri dei membri della famiglia imperiale: il generale Marco Agrippa, secondo marito di Giulia figlia di Augusto, Druso Maggiore, i due bimbi Lucio e Gaio Cesare figli di Giulia, Druso Minore, Germanico, Livia, seconda moglie di Augusto, Tiberio, Agrippina, Caligola, Britannico, Claudio, e Poppea, moglie di Nerone; quest’ultimo fu invece escluso dal Mausoleo per indegnità, come già Giulia, la figlia di Augusto. Per breve tempo il Mausoleo ospitò le ceneri di Vespasiano e infine di Nerva e dopo oltre un secolo dall’ultima deposizione si riaprì per ospitare le ceneri di Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo.
Roma- Galleria Borghese apertura straordinaria per la Mostra: “La Favola di Atalanta. Guido Reni e i poeti”
Roma-Lunedi 13 gennaio la Galleria Borghese propone un’apertura straordinaria dalle 16 alle 19.00 (ultimo ingresso alle ore 17.00) per visitare la mostra attualmente in corso: Poesia e pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la meravigliosa passione. In questa occasione sarà possibile per il pubblico partecipare all’incontro dal titolo “La Favola di Atalanta. Guido Reni e i poeti”, in cui verrà presentata la mostra in corso presso la Pinacoteca di Bologna fino al 16 febbraio 2025, dall’omonimo titolo.
La mostra, a cura di Giulia Iseppi, Raffaella Morselli e Maria Luisa Pacelli, indaga i rapporti tra artisti e letterati nel ricco contesto culturale della Bologna di primo Seicento, dove pittori come Guido Reni, Artemisia Gentileschi, Ludovico e Agostino Carracci intessono relazioni con molti poeti fra cui Giovan Battista Marino, a cui la Galleria Borghese sta dedicando la mostra in corso. Le poesie, alcune delle quali oggetto di ritrovamenti documentari inediti, diventano la chiave di lettura delle opere d’arte esposte, a partire da una delle coppie memorabili di Reni, le due Atalanta e Ippomene, celebri eppure poco documentate, per le quali si avanza una nuova proposta di genesi in seno alle accademie romane e bolognesi frequentate dal pittore.
Intervengono Costantino D’Orazio, Dirigente delegato ai Musei Nazionali di Bologna e le curatrici della mostra.
L’incontro si svolge presso la terrazza della sala Egizia, a cui si accede dalla sala VII del museo.
La partecipazione all’incontro è gratuita e la disponibilità dei posti limitata, fino ad esaurimento.
La prenotazione del biglietto è obbligatoria su questa pagina oppure chiamando lo 06 32810.
Informazioni
Galleria Borghese
Piazzale Scipione Borghese 5,
00197 Roma, Italia
Tel. +39 068413979
mail. ga-bor@cultura.gov.it
pec. ga-bor@pec.cultura.gov.it
Per acquisto biglietti: +39 06 32810
Gemma Biroli nata a Novara da genitori lombardi, e` vissuta per molti anni a Milano.Tra le sue prime raccolte di versi l’indimenticabile LA NUOVA FRONDA, segnalazione di merito Premio Fusinato 1937, a cui seguirono altri volumi di inimitabile poesia, TEMPESTA SUL MARE (1948), TERRA LONTANA (1962) e OLTRE IL TEMPO (1969), un trittico lirico di ampio respiro e di calda ispirazione che le valse il riconoscimento di critici insigni e il cordiale consenso del pubblico. Nella produzione di poesia in versi si inseriscono la raccolta di prose UNO STRANO PAESE (1950) e RINTOCCHI DELLA SERA (1972) in cui il suo spirito, uscito da una estenuante lotta con il dolore, si innalza a considerazioni e contemplazioni di drammatica intensita`, sullo sfondo di due paesaggi a lei particolarmente se pur diversamente cari, quello ligure e quello della BASSA LOMBARDA, che sono come i motivi dominanti in una appassionata e dolente musica interiore. Collaboro` a quotidiani e periodici con elzeviri, liriche e saggi di critica letteraria. Coltivo` anche la pittura, a cui fu avviata giovanissima, da un valente pittore vigevanese Ambrogio Raffaele, della scuola del grande Fontanesi. Mostro` sempre un particolare gusto per i paesaggi delle terre che amava ed espose in mostre personali e collettive a Milano e in altre citta`.
TEMPESTA SUL MARE: le liriche
LA BIMBA SU LO SCOGLIO
Io vedo vedo, là su la scogliera
che s’avanza nel mar come una frana
di ciclopici mondi, una bambina :
forse, dieci anni ; nera una treccina
su l’omero le scende,
ed il grande occhio assorto
ha una dolcezza grave
nel puro ovale del visetto smorto
sopra una personcina agile e dritta
ma tute asprezze come a marzo i pruno.
Presso la bimba ora non c’è nessuno.
Innanzi e intorno il mare :
calmo, sereno, che riflette il cielo.
E quella bimba solitaria sta,
come un’agave strana
che in alto avventa il lungo esile stelo,
sul dirupato scoglio ;
e immobilmente esplora,
fisso lo sguardo nell’immensità.
Quel ch’ella pensi, quel che sogni o senta
forse ridir non sa.
Ella è tuttor bambina,
e nera una treccina
su l’omero le scende
e il dolce viso ancora
di materne carezze si compiace
e la bocca di baci s’insapora.
Pur ella è sola, su lo scoglio infido,
sola di fronte all’infinito : e a un tratto,
come ciò avvenga ignora,
la vertigine folle
su l’orlo de l’abisso la sospinge.
Trema la bimba, ma si vince : e in cuore
forte premendo un grido,
da sua madre ritorna
come l’uccello al nido.
GOCCIA NEL MARE
Anche da bimba ella saliva un giorno
su un ermo picco in cima alla scogliera
donde mirava, nel più vasto giro
dell’orizzonte, il ciel sereno e l’acque.
Un’oscura vertigine d’un tratto
verso il baratro fondo la sospinse,
ma in tempo si ritrasse, e salva fu.
Su lo scoglio più alto di sua vita
or è giunta la donna e immota sta
come allor, solitaria, fisso l’occhio
nella remota e glauca immensità.
Non più acque, ma terra : la sua terra ;
non più l’urlo del mar ma uno stormire
di pioppi al vento e d’alte messi al sole.
Che più sogna la donna e spera e vuole ?
Strappare un canto alle sue zolle, un senso
dare alla vita, un’ala anche al dolore,
e poi tornar, goccia nel mar, perduta
nel seno immenso dell’eterno Amore.
I rintocchi della sera
dalla raccolta di prose “I rintocchi della sera” (Prefaz. di Cesare Angelini- Ed.Pan-Milano 1972)
Ampiezza di orizzonte sul mare, dominato dalla piccola chiesa eretta in cima alla scogliera. Su lei, nell’alto, placate distese di azzurro o incombenti minacce di nuvole nere nell’avvicendarsi inquieto dei giorni e delle stagioni. Sotto, ai suoi piedi, sciabordare di acque smeraldine o fragore di onde in tempesta. Una piccola chiesa, tra tanto spazio di cielo e di mare. Un punto fermo nel susseguirsi perenne delle generazioni, nel variare continuo degli eventi.
Come le ondate si accavallano per rompersi alla fine contro questi scogli e riconfondersi nel mare, così il flusso di innumeri vite umane batte alternamente a queste mura sacre per poi rifluire e disperdersi nelle oceaniche correnti dell’umanità.
Parole grandi ha la piccola chiesa: parole di eternità. un respiro più vasto di quello del mare la solleva al di sopra degli uomini e degli eventi, e dà alla sua voce una potenza che vince l’urlo del vento e il fragore delle onde in tempesta. Donde le viene tanto potere ? Un divino messaggio le fu affidato, si che essa non teme assalto di forze nemiche, nè confini di terra o di mare. Per ogni uomo di ogni generazione che passa, essa ha parole che non passeranno.
All’alba, a mezzodì, a sera parlano le campane della piccola chiesa con rintocchi gravi e imploranti che il vento porta lontano. ma il cuore in ascolto li sente vicino, li fa voce della sua voce, espressione dei suoi sentimenti. E se i rintocchi dell’alba e del mezzodì sembrano colorirsi di composta letizia, quelli della sera si fanno densi di presagio, come l’ultimo appello del giorno sulle soglie del mistero notturno.
Già il sole è sparito all’orizzonte lasciando ricordo di sè alle nubi vaganti che si arrossano del suo infocato addio. Già di viola si tinge la scogliera superba, che porta al sommo una cupa selva di pini. E una falce di luna affiora nel cielo, e qualche stella, lì accanto, ne trema di dolcezza.
Vasto il mare che sfugge lontano, dietro l’ultima carezza di luce; vasto il cielo che sopra gli incombe col suo pullulante ammiccare di costellazioni. La notte è vicina.
E il cuore in ascolto sente che non potrà affrontarla senza sgomento, e teme per quel che sarà. Ma ecco, dall’alto del campanile, quei rintocchi soavi solenni. Essi afferrano l’anima che sta per naufragare e piano, senza sussulti, la riportano a galla ancorandola ad una segreta speranza. Il giorno è finito. La notte imminente: quel che resta di vita è simile al riverbero del sole scomparso che arrossa le nubi, al suo estremo riflesso di luce sul mare.
Ma una certezza affiora dal fondo dell’anima, si accende come gli astri del cielo, prorompe in ardente preghiera coi rintocchi della piccola chiesa cui è affidata la grande promessa di un domani senza tramonto.
“Un descrivere che è un dipingere…”
dalla prefazione di Cesare Angelini
Gemme di Poesia
Destarmi, un’ alba, dopo greve sonno,
immemore di tutto: e ritrovarmi
in cuor soltanto la dolcezza strana
della stupita adolescenza
da ‘Alba’ (La Nuova Fronda)
Non me: quell’ altra tu volevi: quella
che da tant’ anni senza te rimasta
a Dio chiedeva la sua mamma. Intesi
con uno schianto il vero. E la sorella,
piccola e sola, paga fu nel cielo.
da ‘La piccola Gemma’ (La Nuova Fronda)
The early days
GEMMA BIROLI, nata a Novara a molta distanza dai fratelli, aveva appena compiuto i nove anni quando il padre morì. Tutta chiusa nella sua precoce esperienza di dolore, che ne aveva scossa profondamente la delicata sensibilità, pur dando segni di particolare amore allo studio, mal si adattava alle formalità della vita scolastica.
Da parte sua la madre non aveva nessuna intenzione di farle conseguire un diploma, convinta com’era che la più alta missione della donna fosse quella di dedicarsi alle cure della casa e della famiglia.
Intanto il primogenito alla vigilia della laurea era stato costretto a interrompere gli studi per la lunga e estenuante degenza del padre al quale aveva dovuto in qualche modo sostituirsi nel disbrigo degli affari di famiglia. Per di più allo scoppio della grande guerra il secondogenito partiva per il fronte, ove rimase per tutta la durata delle ostilità compiendo interamente il proprio dovere con entusiasmo e con elevato spirito di abnegazione.
Quegli anni trascorsi tra continue apprensioni e timori non dovevano certamente contribuire a rendere gaia e spensierata la prima giovinezza di Gemma Biroli.
Nel frattempo la famiglia si era trasferita a Vigevano ove la madre, dopo tante dolorose vicende, poteva finalmente trovare una relativa quiete nella vicinanza del suo paese natio e dei congiunti ivi rimasti. Nella ridente e industre cittadina lombarda la giovinetta frequentò i corsi magistrali presso l’Istituto S. Giuseppe saggiamente retto dalle Suore Dominicane e nel tempo stesso si dedicò anche alla pittura sotto la guida di Ambrogio Raffele, insigne paesista già allievo di Fontanesi, ormai ritiratosi nella natia Vigevano dopo lunga e feconda carriera.
Ma una più profonda e segreta passione Gemma nutriva in cuore per la poesia sulla quale doveva particolarmente influire l’elegiaca bellezza della pianura Lomellina e quella così diversa di un impervio lembo di riviera ligure ove ella di frequente soggiornava.
Nella definitiva residenza di Milano, ove la famigliola aveva raggiunto il primogenito che già vi esercitava la sua professione, la giovane scrittrice non potè fare a meno di manifestare la sua ormai meditata tendenza artistica, e per incitamento di amici e intenditori si indusse a pubblicare il volume Le Prime Liriche.
“Spalancar le finestre, a notte fonda,
su uno stellato ciel di chiaro autunno:
null’altro udir per le campagne assorte,
fuse nell’ombra, che il frusciar in sogno
d’un pioppo giovinetto e lo sciacquio
roco d’un’acqua tra celate sponde:
sentir la terra piccoletta e muta
sotto l’immensa cavità stellare
riscintillante come un mar senz’onde
nell’infinito seno: in un pio slancio
alzar la fronte e tendere il pensiero
sino a sfiorar l’eterno: e poi tornare
con umiltà sul proprio stento umano,
chiudendo in cuore un palpito di stelle.”
Valerio Bispuri- Dentro una storia. Appunti sulla fotografia
Prefazione di Marco Damilano-Editore Mimesis
Descrizione del libro di Valerio Bispuri-Prefazione di Marco Damilano:“In fondo credo che la fotografia unisca la possibilità di rimanere bambini e di essere uomini forti, coraggiosi e incoscienti, dove le emozioni si rispecchiano allo stesso tempo nella velocità dello scatto e nella lentezza di saper guardare oltre, dove l’attimo può rimanere in superficie e allo stesso tempo toccare grandi profondità e dove l’istinto funziona solo quando si muove nel recinto della ragione”. “Dentro una storia” è il viaggio di un fotoreporter all’interno delle sue immagini. Valerio Bispuri ci porta nel mondo degli ultimi, dei dimenticati e ci racconta il suo percorso fotografico e umano attraverso gli sguardi, i gesti di chi ha fotografato. Un mondo osservato o meglio scrutato con pazienza e coraggio, due parole ricorrenti nel suo lavoro. Un fotoreporter controcorrente che usa il tempo per conoscere e raccontare, che ama le storie lunghe e che riesce a unire le proprie emozioni con la realtà. Tra gli occhi di chi vive dietro le sbarre di una prigione, nel mondo della droga in Sudamerica, nell’universo di chi è sordo e nella realtà della malattia mentale, le storie di Bispuri nascono sempre osservando gli altri e la propria interiorità: “Ho sempre visto la fotografia come un guardare attraverso il mondo con la lente d’ingrandimento delle nostre emozioni. Un gesto che diventa forma, uno spazio che si interpone agli angoli remoti delle nostre linee interiori”.
Dal 2004 ha seguito un progetto decennale dedicato al mondo carcerario dell’America meridionale, con lo scopo di raccontare il continente attraverso i detenuti e la loro condizione ed i drammi da loro vissuti.[2] Durante il suo percorso, Bispuri ha visitato 74 carceri di tutti i paesi del Sudamerica. In Argentina ha ottenuto l’autorizzazione a visitare il Padiglione 5 del carcere di Mendoza, dove erano reclusi i detenuti argentini più pericolosi.[3] Il direttore della struttura gli fece firmare una liberatoria in cui si assumeva tutte le responsabilità per la sua incolumità.[3] Attraverso le foto scattate in questo padiglione ha documentato le condizioni di estremo degrado in cui i detenuti erano costretti a scontare la pena.[3]
Le fotografie, realizzate in bianco e nero, sono state oggetto di esposizione in varie mostre internazionali e sono state raccolte nel libro Encerrados, edito da Contrasto nel 2015 e sostenuto anche da Amnesty International.[4] L’impatto sociale di Encerrados è stato tale che ha contribuito alla chiusura del Padiglione 5 del carcere di Mendoza.[3][2] Nel 2013 ha vinto il Sony World Photography Award nella categoria Contemporary Issues.[5]
Con il suo foto reportagePaco ha tentato di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze dell’assunzione da parte di adolescenti e ragazzini a Buenos Aires del Paco, una droga estremamente nociva, ottenuta con gli scarti della lavorazione della cocaina, miscelati a cherosene, colla, veleno per topi o polvere di vetro.[6][7]
Per sei anni ha seguito la vita di Betania una donna trentacinquenne lesbica di Buenos Aires, ritraendola nella sfera privata, indagando lo sviluppo della vita intima e sentimentale e le aspirazioni di autonomia e riconoscimento nella società argentina, che ha approvato il matrimonio egualitario.[8][9][10]
Dopo aver ottenuto l’autorizzazione a visitare le carceri italiane da parte del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia, ha costruito un progetto di documentazione delle strutture detentive e della popolazione carceraria, realizzando un’indagine sulla condizione psichica e fisica dell’uomo privato della libertà. Il progetto ha riguardato 10 carceri: l’Ucciardone di Palermo, Poggioreale a Napoli, Regina Coeli e Rebibbia Femminile a Roma, Capanne a Perugia, Bollate e San Vittore a Milano, la Giudecca a Venezia, la Colonia penale di Isili a Cagliari e Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino. Alcune delle fotografie realizzate sono state raccolte nel volume Prigionieri pubblicato nel 2019. Prigionieri, Encerrados e Paco, formano una trilogia sulla libertà perduta.[2][11]
I suoi reportage sono stati oggetto di diverse esposizioni internazionali.
Antonella Sbuelz scrittrice e poeta:”Chiedi a ogni goccia il mare “
Antonella Sbuelz scrittrice e poeta è nata e vive a Udine. Insegna da molti anni in un Liceo Scientifico.Ha esordito in versi, ma poi ha scritto racconti lunghi “Amori minimi” (Mobydick, 1997) mentre il suo primo romanzo è “Il nome nudo” (Mobydick, 2001).Nel 2007, per Frassinelli, è uscito il secondo romanzo, “Il movimento del volo” (Premio Biblioteche di Roma, Premio Predazzo, Premio Caterina Percoto; Premi Selezione Rhegium Julii, Domenico Rea) la cui storia si snoda attraverso il corso dell’intero Novecento.
ONDE DI SUONO
Amavi ogni singola parola, ma di un amore poco corrisposto. Erano ponti minati i ponti I punti fra sillabe e suoni, fra suoni e nomi detti tutti interi. La tua voce zoppicava in mezzo ai denti spingendo fuori desideri muti, moncherini di pensieri mutilati. Però non ti arrendevi. Ritentavi. Radunavi risorse di fiato, indossavi la tua dignità in una muta dolorosa. Staccavi dalla sua buccia d’aria la polpa del senso di ogni cosa. Ma il tuo cuore ignorava la balbuzie, e la matita quando disegnava dava vita a ogni onda del suono: versi di uccelli, nitriti dei cavalli, il rombo di un’auto o un aeroplano. E personaggi dalla bocca muta. Tacevano, ma dandosi la mano.
LA PAROLA TORNARE
Ma torneremo, dicevi la parola era fragile. Tremava. E forse rivedervi te bambina: il vento si gonfiava in onde e nubi, i passi dei profughi in fila erano lenta conquista nella conquista di un domani astratto che prometteva la normalità. È facile vederti anche da qui: calzette bianche, scarpe impolverate, le dita che tormentano, una crosta sopra un ginocchio sbucciato. La sovversione dell’infanzia sta nel cucciolo che hai regalato senza volerlo regalare: il suo miagolio ti ha inseguito fino a farsi miagolio di bora e mare.
Torneremo, dicevi. Torneremo.
E finalmente ieri sei tornata. Ti abbiamo riportata di nascosto. Se non profuga, di nuovo clandestina. Sopra il tuo angolo d’Istria soffiava un vento gentile. Il golfo pungeva di luce. Sei scivolata in acqua con dolcezza: un brivido di polveri leggere dentro la sera che rabbrividiva. E si è fermata la mano che torturava il ginocchio. La fila ha ripreso a marciare verso un’idea di domani. Il tuo gatto ha ripreso a miagolare. Oltre il buio che ci scopriva nudi, si aprivano nuovi ritorni nella parola tornare.
RIMANI
Libera dall’abitudine lo sguardo, dall’usura dei giorni i tuoi pensieri. Stacca il cielo di oggi la prima nube vista da bambina, dal grigio di questa neve sfatta il candore della tua prima neve. Lascia che sotto i tuoi piedi mettano erba i prati elementari, i padri dei padri dei prati. Ritrova in questa notte di febbraio le forme del vento e del buio, le voci dei gelsi di confine. Congeda i nomi: i tanti, troppi nomi. Attraversa, e fatti attraversare. Ricorda l’innocenza e il suo tremare. Chiedi perdono alle cose. E infine r imani. Respira. Nel cuore del gelo che si spacca, riconosci il profumo delle rose.
Antonella Sbuelz scrittrice e poeta è nata e vive a Udine. Insegna da molti anni in un Liceo Scientifico.Ha esordito in versi, ma poi ha scritto racconti lunghi “Amori minimi” (Mobydick, 1997) mentre il suo primo romanzo è “Il nome nudo” (Mobydick, 2001).Nel 2007, per Frassinelli, è uscito il secondo romanzo, “Il movimento del volo” (Premio Biblioteche di Roma, Premio Predazzo, Premio Caterina Percoto; Premi Selezione Rhegium Julii, Domenico Rea) la cui storia si snoda attraverso il corso dell’intero Novecento.
Greta Vidal (Frassinelli, 2009; si concentra invece su un momento controverso del primo dopoguerra: l’occupazione di Fiume dal parte di Gabriele D’annunzio e dei suoi legionari. Nel 2013 Greta Vidal è stato pubblicato in Inghilterra ( Greta Vidal. A season in Utopia. )
E’ del 2016 “La fragilità del leone” (Universitaria Forum) , ambientato tra Venezia e laguna friulana nei sussulto finale della Repubblica Veneta.
Nel 2018 è uscito La ragazza di Chagall , imperniato su uno dei momenti più cupi del nostro passato: la promulgazione delle leggi razziali.
La ragazza di Chagall ha esaurito sette edizioni in pochi mesi e ricevuto diversi riconoscimenti ( Premio Fiuggi Storia, Rosa finalista Premio Viareggio, Segnalazione Premio Campiello, Premio Raffaele Crovi, Premio Raccontami la Storia, Premio Città di Arce.)
A fine aprile 2021 è uscito Questa notte non torno ( Feltrinelli ), romanzo di formazione che racconta la fatica di crescere, intrecciando le vite di due adolescenti diversissimi fra loro. Sullo sfondo, la rotta balcanica e i suoi drammi. Attualmente, Questa notte non torno risulta il romanzo più venduto su Amazon nel settore Letteratura per ragazzi sul tema migrazioni.
Fra le sue ultime raccolte poetiche, Transitoria (Raffaelli, 2011; premio Colline di Torino, Città di Forlì, Città di Alberona), La prima volta delle cose (Culturaglobale, 2016), La misura del vicino e del lontano ( Raffaelli, 2016; Premio Caput Gauri e Città di Moncalieri; finalista premio Acqui Terme e Raffaele Crovi; Selezione Premi Città di Como e Tirinnanzi ) e Chiedi a ogni goccia il mare (Stampa2009, 2020; Premio Camaiore).
Museo di Roma in Trastevere, torna la rassegna “Libri al Museo”-
Roma-Sabato 11 gennaio alle ore 17.30, al Museo di Roma in Trastevere (Piazza Sant’Egidio 1/b), torna la rassegna “Libri al Museo”,si terrà la presentazione dei volumi di Bruno Casini Tondelli e la musica. Colonne sonore per gli anni ’80 e Frequenze fiorentine. Firenze anni ’80. Il periodo storico protagonista dei due testi di Casini si lega a doppio filo con la mostra in corso Dino Ignani. 80’s Dark Rome. Il racconto della musica e delle culture giovanili negli anni Ottanta del secolo scorso a Firenze dialoga virtualmente, e non solo, con il ritratto fotografico della Roma ombrosa e scintillante, sotterranea e plateale della stessa epoca.
Alla presenza dell’autore ne parleranno Ilaria Miarelli Mariani (Direttrice della Direzione Musei Civici della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali), Stefano Pistolini (giornalista), Alberto Piccinini, (giornalista), Dino Ignani (fotografo), Ilaria Grasso (attivista e poeta). Servizi museali: Zètema Progetto Cultura. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.
Tondelli e la musica. Colonne sonore per gli anni ’80 (Ed. Interno 4) è un libro a più voci che indaga il rapporto tra Pier Vittorio Tondelli e la musica, tra la parola scritta e il ritmo musicale che la sostiene, un tema tanto caro allo scrittore emiliano. Tanti i contributi nel libro: dai testi inediti scritti da Pier Vittorio per gli Skiantos, e qui presentati da Freak Antoni, ai ricordi di Luciano Ligabue, che abitava nello stesso palazzo a Correggio; dalle amicizie di Giovanni Lindo Ferretti alle passeggiate fiorentine con Sandro Lombardi, e poi ancora Massimo Zamboni, Federico Fiumani, giornalisti come Alberto Piccinini, Stefano Pistolini, Luca Scarlini, PierFrancesco Pacoda, Gabriele Romagnoli, Ernesto De Pascale, Paolo De Bernardin, Giampiero Bigazzi, Roberto Incerti, Giuseppe Videtti. E ancora il geniale fotografo Derno Ricci, gli scrittori Mario Fortunato, Filippo Betto, il regista Mario Martone, la dolcissima Nicoletta Magalotti e il fondamentale supporto letterario di Fulvio Panzeri che ha seguito con passione e amore il viaggio di Tondelli per decenni e che qui scrive del rapporto tra Tondelli e la musica.
A diciannove anni dalla prima edizione ritornano le Frequenze Fiorentine Firenze anni ’80 (Ed. GoodFellas) il libro illustrato sulle culture giovanili negli anni ’80 a Firenze. Interviste, contributi, memorabilia, racconti, flash rock’n’roll, playlist, feedback letterari, poesie postmoderne, dai Giovanotti Mondani Meccanici ai Litfiba, dai Krypton ai Neon, dai Diaframma alle etichette indipendenti, dal Pitti Trend ai Magazzini Criminali, dalle T.O.K.Y.O. Productions al BananaMoon, dal Tenax all’Independent Music Meeting, dal Manila al Gay Clubbing, da Westuff Magazine a Video Music, da Controradio a Radio Cento Fiori, da Pier Vittorio Tondelli a Piero Pelù, dagli Orient Express a Nicoletta Magalotti, dalla fotografia di Derno Ricci ad Alberto Petra, dai jazz club alle cantine New Wave. Dalla nuova editoria al design underground, dalle Graffiti Night alle feste di Rockstar, da Mixo a Stefano Pistolini, dalla Rokkoteca Brighton ai Cafè Caracas, da Ghigo Renzulli ad Alexander Robotnick, da Antonio Aiazzi a Francesco Magnelli, da Ringo De Palma ad Andrea Chimenti, da Ernesto De Pascale a Gianni Maroccolo.
BIOGRAFIA
Bruno Casini si è sempre occupato di musica, scrittura, culture giovanili e clubbing. È stato il primo manager dei Litfiba negli anni Ottanta. Ha diretto la mostra Independent Music Meeting per quindici anni. È stato tra i fondatori della rivista Westuff Magazine. Ha programmato spazi della notte come Casablanca, Manila News, Tenax e del mitico Banana Moon, dove è partita la scintilla della New Wave fiorentina. Laureato in Storia del Cinema con Pio Baldelli, da molti anni si occupa di comunicazione. Ha pubblicato numerosi libri sugli anni ‘70 e ‘80 a Firenze, tra cui “Frequenze Fiorentine” (Ed. Goodfellas). Ha frequentato Pier Vittorio Tondelli nel periodo del “Rinascimento Rock” nel capoluogo toscano.
L’Orfeo (SV 318) è un’opera di Claudio Monteverdi (la prima in ordine di tempo) su libretto di Alessandro Striggio. Si compone di un prologo («Prosopopea della musica») e cinque atti.
È ascrivibile al tardo Rinascimento o all’inizio del Barocco musicale, ed è considerata il primo vero capolavoro della storia del melodramma, poiché impiega tutte le risorse fino ad allora concepite nell’arte musicale, con un uso particolarmente audace della polifonia. Basata sul mito greco di Orfeo, parla della sua discesa all’Ade, e del suo tentativo infruttuoso di riportare la sua defunta sposa Euridice alla vita terrena.
Composta nel 1607 per essere eseguita alla corte di Mantova nel periodo carnevalesco, L’Orfeo è uno dei più antichi Drammi per musica a essere tuttora rappresentati regolarmente.
Dopo l’anteprima, avvenuta all’Accademia degli Invaghiti di Mantova il 22 febbraio 1607 (con il tenore Francesco Rasi nel ruolo del titolo), la prima è stata il 24 febbraio al Palazzo Ducale di Mantova. In seguito il lavoro fu eseguito nuovamente, anche in altre città italiane, negli anni immediatamente successivi. Lo spartito venne pubblicato da Monteverdi nel 1609 e, nuovamente, nel 1615.
In seguito alla morte del compositore (1643), dopo la prima del 1647 al Palazzo del Louvre di Parigi il lavoro non venne più interpretato, e cadde nell’oblio.
Dopo la seconda guerra mondiale, le nuove versioni dell’opera iniziarono a presentare l’uso di strumenti d’epoca, per perseguire l’obiettivo di una maggiore autenticità. Vennero quindi pubblicate molte nuove registrazioni e L’Orfeo divenne via via sempre più popolare. Nel 2007 il quarto centenario della prima venne celebrato con numerose rappresentazioni in tutto il mondo. Nel 2009 va in scena alla Scala diretta da Rinaldo Alessandrini con Roberta Invernizzi, Sara Mingardo e Robert Wilson, di cui esiste un video trasmesso da Rai 5.
Nella partitura pubblicata Monteverdi elenca circa 41 strumenti da impiegare nell’esecuzione. Lo spartito include (oltre a monodie a una, due o tre voci con basso non cifrato, cori a cinque voci con basso non cifrato, ecc.) pezzi per cinque, sette o otto parti, nelle quali gli strumenti da utilizzare sono a volte citati (ad esempio: «Questo ritornello fu suonato di dentro da un clavicembalo, duoi chitarroni e duoi violini piccoli alla francese»).
Tuttavia, nonostante le indicazioni sulla partitura, ai musicisti dell’epoca era concessa una notevole libertà di improvvisare (questa permissività non si riscontra nei lavori più maturi di Monteverdi). Pertanto ogni rappresentazione dell’Orfeo è differente dalle altre, oltre che unica e irripetibile.
La passione di Vincenzo Gonzaga per il teatro musicale crebbe grazie ai suoi legami familiari con la corte di Firenze. Verso la fine del XVI secolo, infatti, i musicisti fiorentini più innovativi stavano sviluppando l’intermedio—una forma musicale stabilita da tempo come un interludio inserito tra gli atti dei drammi parlati— reideandolo in forme più innovative.[2] Guidati da Jacopo Corsi, questi successori della celebre Camerata Fiorentina[n 1] diedero vita al primo lavoro appartenente al genere melodrammatico: Dafne, composta da Corsi e Jacopo Peri, eseguita per la prima volta a Firenze nel 1598. Questo lavoro unisce in sé elementi canori madrigalistici e monodici, oltre a passi strumentali e coreografici, col fine di stabilire un unicum drammatico. Di quest’opera ci restano solo dei frammenti. Tuttavia, altri lavori fiorentini dello stesso periodo (tra cui la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, L’Euridice di Peri e quella di Giulio Caccini) sono giunti interamente fino a noi. In particolare, queste ultime due opere furono le prime dedicate al mito di Orfeo (tratto dalLe metamorfosi di Ovidio), tema che ispirerà i compositori di epoche successive fino al giorno d’oggi. In questo, furono diretti precursori de L’Orfeo di Monteverdi.[5][6]
La corte dei Gonzaga era da tempo celebre per il mecenatismo nei confronti dell’arte teatrale. Un secolo prima dell’epoca di Vincenzo Gonzaga, si rappresentò a corte il dramma lirico di Angelo PolizianoLa favola di Orfeo. Circa la metà di questo lavoro era cantata invece che parlata. In seguito, nel 1598, Monteverdi aiutò la compagnia musicale di corte a mettere in scena il dramma Il pastor fido di Giovanni Battista Guarini. Mark Ringer, storico del teatro, descrive questo come un “lavoro teatrale spartiacque” che ispirò la moda italiana del dramma pastorale.[7] Il 6 ottobre 1600, durante una visita a Firenze per il matrimonio tra Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, il duca Vincenzo assistette a una rappresentazione dell’Euridice di Peri.[6] È probabile che allo spettacolo fossero presenti anche i musicisti più importanti del duca, tra cui Monteverdi. Il duca si rese subito conto dell’originalità di questa nuova forma di intrattenimento drammatico, e del prestigio che avrebbe conferito a chi l’avesse patrocinata.[8]
Anche il giovane Striggio era un abile musicista. Nel 1589 (a 16 anni), aveva suonato la viola alla cerimonia nuziale di Ferdinando di Toscana. Assieme ai due figli più giovani del duca Vincenzo (Francesco e Fernandino), era membro dell’esclusivo circolo intellettuale mantovano: l’Accademia degli Invaghiti, che rappresentava un importante trampolino di lancio per le opere teatrali della città.[10][11]
Non si sa esattamente quando Striggio abbia iniziato la stesura del libretto, ma il lavoro era evidentemente già avviato nel gennaio del 1607.
In una lettera scritta il 5 gennaio, Francesco Gonzaga chiede a suo fratello (all’epoca vicino agli ambienti della corte fiorentina) di fargli ottenere i servigi di un abile cantante castrato (quest’ultimo impiegato nella compagnia musicale del granduca), per la rappresentazione di un dramma per musica da eseguirsi durante il carnevale mantovano.[12]
Le fonti principali impiegate da Striggio per la scrittura del libretto furono il decimo e l’undicesimo libro dalle Metamorfosi di Ovidio, e il quarto libro dalle Georgiche di Virgilio. Questi documenti gli fornirono il materiale di partenza, ma non suggerivano già la forma di un dramma completo (per esempio: i fatti narrati negli atti 1 e 2 de l’Orfeo occupano appena tredici righe nelle Metamorfosi).[13]
Il musicologo Gary Tomlinson sottolinea le numerose similarità tra i testi di Striggio e Rinuccini, evidenziando che alcuni dei discorsi contenuti ne L’Orfeo rassomigliano, come contenuto e come stile letterario, ad alcuni corrispettivi ne l’Euridice.[15]
La critica Barbara Russano Hanning fa notare come i versi di Striggio siano meno raffinati di quelli di Rinuccini, nonostante la struttura del libretto scritto da Striggio sia più interessante.[10]
Nel suo lavoro Rinuccini fu obbligato a inserire un lieto fine (il melodramma era stato pensato per le festività legate alle nozze di Maria de’ Medici). Striggio, invece, che non scriveva per una cerimonia di corte ufficiale, poté attenersi di più alla conclusione originale del mito, in cui Orfeo è ucciso e smembrato dalle Menadi (dette anche Baccanti) iraconde.[14] Scelse infatti di scrivere una versione mitigata di questo finale cruento: le Menadi minacciano di distruggere Orfeo, ma il suo vero destino, alla fine, non viene mostrato.[16]
Il libretto edito a Mantova nel 1607 (in concomitanza con la prima) presenta la conclusione ambigua ideata da Striggio. Tuttavia lo spartito monteverdiano, pubblicato a Venezia nel 1609 da Ricciardo Amadino, termina in maniera del tutto diversa, con Orfeo che ascende al cielo grazie all’intercessione di Apollo.[10]
Secondo Ringer, il finale originale di Striggio fu quasi di sicuro impiegato alla prima de l’Orfeo, ma indubbiamente (a dire del critico) Monteverdi ritenne che la nuova conclusione (quella dell’edizione dello spartito) fosse esteticamente corretta.[16]
Il musicologo Nino Pirrotta, invece, sostiene che il finale con Apollo facesse già parte della pianificazione originale della messa in scena, ma che alla prima non fosse stato messo in atto. Ciò sarebbe avvenuto, secondo la spiegazione di Pirrotta, poiché la piccola stanza che ospitò l’evento non era in grado di contenere gli ingombranti macchinari teatrali richiesti da questa conclusione. Quella delle Menadi, secondo questa teoria, non sarebbe altro che una scena sostitutiva. Le intenzioni del compositore vennero ristabilite al momento della pubblicazione dello spartito.[17] Recentemente la spiegazione di Pirrotta è stata messa in discussione: l’espressione «sopra angusta scena» che si legge nella lettera di dedica di Claudio Monteverdi non indicherebbe uno spazio piccolo per la rappresentazione, ma sarebbe da opporre al «gran teatro dell’universo», cioè al più vasto pubblico raggiungibile dal compositore dopo la pubblicazione a stampa della partitura.[18]
Quando Monteverdi scrisse la musica per L’Orfeo, possedeva già un’approfondita preparazione nell’ambito della musica per teatro. Aveva infatti lavorato alla corte dei Gonzaga per sedici anni, nel corso dei quali si era occupato di varie musiche di scena (in qualità sia di interprete sia di arrangiatore). Nel 1604, per giunta, aveva scritto il ballo Gli amori di Diana ed Endimone (per il carnevale mantovano del 1604–05).[19] Gli elementi da cui egli attinse per comporre la sua prima opera di stampo melodrammatico — l’Aria, l’Aria strofica, il recitativo, i cori, le danze, gli interludi musicali— non furono, come sottolineato dal direttore d’orchestra Nikolaus Harnoncourt, creati ex-novo da Monteverdi, ma fu lui che “amalgamò l’insieme delle vecchie e nuove possibilità, creando un unicum veramente moderno”.[20] Il musicologo Robert Donington scrive al riguardo: “Lo spartito non contiene elementi che non siano basati su altri già ideati in precedenza, ma raggiunge la completa maturità in questa forma artistica appena sviluppata… Vi si trovano parole espresse in musica come [i pionieri dell’opera] volevano fossero espresse; vi è musica che le esprime… con l’ispirazione totale del Genio”[21]
Monteverdi pone i requisiti orchestrali all’inizio della partitura pubblicata ma, in conformità con la pratica del tempo, non ne specifica l’utilizzo esatto.[20] A quell’epoca, infatti, era normale consentire a ogni interprete di fare scelte proprie, basate sulla manodopera orchestrale di cui disponeva. Quest’ultimo parametro poteva variare considerevolmente da un luogo a un altro. Inoltre, come fa notare Harnoncourt, gli strumentisti sarebbero stati tutti compositori e si sarebbero aspettati di collaborare creativamente a ogni esecuzione, piuttosto che eseguire alla lettera ciò che era scritto sullo spartito.[20] Un’altra pratica in voga era quella di permettere ai cantanti di abbellire le proprie arie. Monteverdi, di alcune arie (come “Possente spirito” da l’Orfeo), scrisse sia la versione semplice sia quella abbellita,[22] ma secondo Harnoncourt “è ovvio che dove non scrisse abbellimenti non voleva che essi venissero eseguiti”.[23]
Ogni atto dell’opera è collegato a un singolo elemento della storia, e si conclude con un coro. Nonostante la struttura in cinque atti, con due cambi di scenografia richiesti, è probabile che la rappresentazione de l’Orfeo abbia seguito la prassi in uso per gli spettacoli d’intrattenimento a corte, ovvero fu eseguito come un continuum, senza intervalli o calate di sipario tra i vari atti. Erano difatti in uso, all’epoca, i cambi di scenografia visibili agli occhi degli spettatori, e quest’abitudine si riflette nelle modifiche dell’organico strumentale, della tonalità e dello stile che si riscontrano nella partitura dell’Orfeo.[24]
Trama
La recitazione ha luogo in due posti contrastanti: i campi della Tracia (negli Atti 1, 2 e 5) e nell’Oltretomba (negli Atti 3 e 4). Una Toccata strumentale (una fioritura di trombe) precede l’entrata della Musica, rappresentante lo “spirito della musica”, che canta un prologo di cinque stanze di versi. Dopo un caloroso invito all’ascolto, La Musica dà prova delle sue abilità e talenti, dichiarando:
Detto ciò, canta un inno di lode al potere della musica, prima di introdurre il protagonista dell’opera, Orfeo, capace di incantare le belve selvatiche con la sua musica.
Atto Primo
Dopo la richiesta di silenzio dell’allegoria della Musica, il sipario si apre sul Primo Atto per rivelare una scena bucolica. Orfeo ed Euridice entrano insieme con un coro di ninfe e pastori, che recitano alla maniera del Coro greco antico, entrambi cantando a gruppi e individualmente. Un pastore annuncia che è il giorno di matrimonio della coppia; il coro risponde inizialmente con una maestosa invocazione (“Vieni, Imeneo, deh vieni”) e successivamente con una gioiosa danza (“Lasciate i monti, lasciate i fonti”). Orfeo ed Euridice cantano del loro reciproco amore prima di lasciarsi con tutto il gruppo della cerimonia matrimoniale nel tempio. Quelli rimasti sulla scena cantano un breve coro, commentando su Orfeo:
«Orfeo, di cui pur dianzi furon cibo i sospir, bevanda il pianto, oggi felice è tanto che nulla è più che da bramar gli avanzi.»
Orfeo ritorna in scena con il coro principale, elogiando le bellezze della natura. Orfeo medita poi sul suo precedente stato di infelicità, proclamando:
«Dopo ’l duol vi è più contento, Dopo ’l mal vi è più felice.»
Questa atmosfera di gioia ha termine con l’ingresso della Messaggera, che comunica che Euridice è stata colpita dal fatale morso di un serpente nell’atto di raccogliere dei fiori. Mentre la Messaggera si punisce, definendosi come colei che genera cattive situazioni, il coro esprime la sua angoscia. Orfeo, dopo avere espresso il proprio dolore e l’incredulità per quanto accaduto, comunica l’intenzione di scendere nell’Aldilà e persuadere Plutone a fare resuscitare Euridice.
Atto Terzo
Orfeo viene guidato da Speranza alle porte dell’Inferno. Dopo avere letto le iscrizioni sul cancello (“Lasciate ogni speranza, ò voi ch’entrate.”), Speranza esce di scena. Orfeo deve ora confrontarsi con il traghettatore Caronte, che si rifiuta ingiustamente di portarlo attraverso il fiume Stige. Orfeo prova dunque a convincere Caronte cantandogli invano un motivo lusinghiero. In seguito, Orfeo prende la sua lira, incantando il traghettatore Caronte, che piomba in uno stato di sonno profondo. Orfeo prende poi il controllo della barca, entrando nell’Aldilà, mentre un coro di spiriti riflette sul fatto che la natura non può difendersi dall’uomo.
Atto Quarto
Nell’Aldilà, Proserpina regina degli Inferi, viene incantata dalla voce di Orfeo, supplicando Plutone di riportare Euridice in vita. Il re dell’Ade viene convinto dalle suppliche della moglie, a condizione che Orfeo non guardi mai indietro Euridice nel ritorno sulla terraferma, cosa che la farebbe scomparire nuovamente per l’eternità. Euridice entra in scena al seguito di Orfeo, che promette che in quello stesso giorno egli giacerà sul bianco petto della moglie. Tuttavia, un dubbio comincia a sorgergli nella mente, convincendosi che Plutone, mosso dall’invidia, lo abbia ingannato. Orfeo, spinto dalla commozione, si gira distrattamente, mentre l’immagine di Euridice comincia lentamente a scomparire. Orfeo prova dunque a seguirla, ma viene attratto da una forza sconosciuta. In seguito, Orfeo spinto dalle proprie passioni a infrangere il patto con Plutone.
Atto Quinto
Tornato nei campi della Tracia, Orfeo tiene un lungo monologo in cui lamenta la sua perdita, celebra la bellezza di Euridice e decide che il suo cuore non sarà mai più trafitto dalla freccia di Cupido. Un’eco fuori scena ripete le sue frasi finali. Improvvisamente, in una nuvola, Apollo scende dal cielo e lo castiga: “Perch’a lo sdegno ed al dolor in preda così ti doni, o figlio?”. Invita Orfeo a lasciare il mondo e a unirsi a lui nei cieli, dove riconoscerà la somiglianza di Euridice nelle stelle. Orfeo risponde che sarebbe indegno non seguire il consiglio di un padre così saggio, e insieme salgono. Un coro di pastori conclude che “chi semina fra doglie, d’ogni grazia il frutto coglie”, prima che l’opera si concluda con una vigorosa moresca.
– Bino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo Soffici –Edizione Vallecchi, Firenze 1935
Articolo di Giuseppe De Robertis per la Rivista PAN diretta da Ugo Ojetti- n°4 del 1935-
Bino BINAZZI-nacque a Figline Valdarno il 12 novembre 1878 e morì a Prato il 1 maggio 1930.Emigrato a Prato da Figline Valdarno all’età di vent’anni, Binazzi non riuscì a completare gli studi universitari per le ristrettezze economiche e dovette accontentarsi, per vivere, di lavorare a lungo come istitutore in vari collegi (tra i quali il Cicognini, dove ebbe modo di insegnare greco e latino al giovane Malaparte).
Breve Biografia di Bino Binazzi
Bino BINAZZI-nacque a Figline Valdarno il 12 novembre 1878 e morì a Prato il 1 maggio 1930.Emigrato a Prato da Figline Valdarno all’età di vent’anni, Binazzi non riuscì a completare gli studi universitari per le ristrettezze economiche e dovette accontentarsi, per vivere, di lavorare a lungo come istitutore in vari collegi (tra i quali il Cicognini, dove ebbe modo di insegnare greco e latino al giovane Malaparte). Dotato di una vasta e solida cultura, tenne rubriche di critica letteraria per vari periodici e conobbe, frequentando il caffè fiorentino delle Giubbe Rosse, molti dei più bei nomi della cultura italiana: Svevo, Savinio, Marinetti, Palazzeschi, Moretti, Carrà e Morandi, Papini e Soffici, fino a Dino Campana, di cui intuì subito la grandezza, curando la prima edizione dei “Canti orfici”. Buon poeta egli stesso e acuto saggista, Binazzi, temperamento schivo, non volle mai “promuovere” troppo la sua opera, anche se da questo gliene derivò una costante amarezza, con la sensazione di essere ingiustamente marginalizzato. Fra i suoi scritti più apprezzati, Cose che paiono novelle (1913) e La via della ricchezza (1919). In un’epoca in cui la massoneria attirava ancora gli spiriti liberi – e non soltanto politici, militari, imprenditori, manager e professionisti -, Binazzi fu iniziato a Prato, nel 1906, presso la loggia “Intelligenza e lavoro”; fu anche socialista, benché l’amico Soffici lo dichiarasse, pochi anni dopo la morte, un fascista convinto (forse per guadagnare un po’ di benevolenza verso la figlioletta di lui, rimasta orfana di entrambi i genitori).
Binazzi fu legatissimo alla sua città d’adozione, pur non nominandola spesso nelle sue opere; piace allora lasciare qui la sua figura melanconica con i versi di una delle sue rare serene poesie (Ciro Rosati e Arnaldo Brioni erano due noti insegnanti della R. Scuola professionale di tessitura e tintoria di Prato, poi Istituto Tullio Buzzi):
Io, Rosati e Brioni tre alchimisti atei
o panteisti secondo le occasioni,
in un momento di nostalgia
ci s’era fatti monaci,
ma monaci di lusso
non frati da strapazzo,
in una bianca badia
detta del Buonsollazzo.
Bino Binazzi Insieme a Francesco Meriano, nel 1916 fondò una rivista: “La Brigata”, che però ebbe breve vita. In seguito fu collaboratore del “Nuovo giornale” di Firenze e redattore del “Resto del Carlino”. Già a diciannove anni cominciò a pubblicare volumi di versi che molto debbono al Carducci, al D’Annunzio, al Pascoli e ai poeti crepuscolari.
Bino Binazzi: Gli ultimi bohêmiens d’ltalia. DINO CAMPANA
da «IL RESTO DEL CARLINO» (Bologna), 12-IV-1922
È balzato fuori dalle mie valigie di nomade un libercolo, che mi è particolarmente caro. Una curiosità bibliografica ormai rara a trovarsi che assomma in se le grazie di una brochure francese, e la ingenuità grossa e casalinga del Sesto Caio Baccelli o del Barbanera.
Questo libro è un gran libro. Forse la più potente e originale raccolta di liriche, che abbia prodotto il ventiduennio di questo secolo di burrasche e di bestialità. L’autore? Dino Campana, nome ancor quasi sconosciutissimo, come ho dovuto dolorosamente accorgermi, facendo degli assaggi in certi angoli di penombra, ove ancora si raduna qualche pavido gruppo di giovani dediti alle lettere.
Egli irruppe improvvisamente come una meteora dalle miriadi di colori sotto i cieli alquanto bigi del futurismo prebellico; poi, quando ancora la ecatombe umana non era compiuta, dileguò nelle tenebre della follia. Ma il suo passaggio aveva lasciato fra lo scialbore elettrico e malato della atmosfera letteraria italiana un odor pirico di sagra e di battaglia: battaglia classica, omerica, serena, senza ferocia e senza cretineria. E ai lirizzatori dei colorini delle «mente glaciali» e dei visi flosci dei bardassa e delle veneri volgivaghe aveva insegnato la lirica degli azzurri alpini e delle vastità oceaniche e la bellezza del corpo sodo e seminudo ďun mozzo genovese o ďuna lavandara dell’Appennino, accordante, fra le nevi e fra le rocce, il ritmo del suo stornello di calandra al fiotto della sorgente che alimenta il bozzo limpido alla sua fatica di purificatrice delle umane sozzure.
Ma io non posso e nessuno potrebbe dir della poesia di Campana in modo da farne avere un benché minimo sentore a chi legga. È necessario per farsi un’idea della forza, stranezza, originalità di questa lirica elementare aver sotto gli occhi il libercolo introvabile, ormai; e che nessun editore, tra i tanti editori che vegetano lungo tutto lo stivale, pensa nè penserà mai di ripubblicare.
Intanto come il suo grande antenato Torquato Tasso, Dino Campana, in una cella di manicomio, scrive e scrive; e gli illustri psichiatri, che capiscono di poesia sempre infinitamente meno di quel che un poeta capisca di psichiatria, vietano a critici e ad artisti di esaminare le carte vergate dal pazzo sublime. Quanto più savi i custodi del manicomio di SanťAnna, che permisero almeno libertà e gloria alle liriche del gran recluso, autor della Gerusalemme!
Ma chi potrà dire adeguatamente della lirica di Campana «Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi, dove ancora in alto barbaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi ďoro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi, nell’arabesco di marmo, un mito si cova, che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea?».
Occorre aver letto. E per chi volesse cercare il volumetto raro dirò che esso porta il titolo di Canti Orfici e che fu stampato a Marradi nella tipografia F. Ravagli, l’anno 1914.
*
Fra gli ultimi bohêmiens ďltalia Dino Campana è il più tipico ed il più grande. Nessun altro ebbe una vita di miseria avventurosa da paragonarsi alla sua.
Assillato da un sogno incoercibile di vastità e di libertà, egli ha percorso nel suo trentennio il più lungo e il più doloroso di tutti i calvari. Non ci fu mai città o paese o regione che paresse bastante al respiro gigantesco dei suoi polmoni.
A Marradi, sua città natale, lo conoscono per il figlio strambo – un altro è ben diverso nelle sua modestia e mediocrità di impiegato – del signor direttore delle Scuole.
A Bologna qualcuno lo ricorda studente universitario di chimica, bisbetico ed irascibile, sognante come un alchimista e niente affatto freddo e positivo come uno scienziato. Sovversivo, anarcoide, imperialista, violento e tenero al tempo stesso; di una mobilità sentimentale che percorreva rapida come il fulmine tutta la gamma del sentimento umano: dalla mitezza più francescana alla violenza rasentante, a volte, la ferocia, egli non aveva in se alcuna possibilità di giungere a buon termine nello studio accademico intrapreso. Difatti, dopo aver lasciato dietro di sè una scia di stramberie memorabili, un bel giorno disertò le aule universitarie e il gabinetto delle soluzioni, delle miscele e delle reazioni per studiare una chimica più vasta, che avesse per materia ďesperienza il mondo intero e per gabinetto l’universo.
Anche Shelley fu un chimico mancato. La coincidenza non è fortuita. La chimica è la scienza del mistero e del miracolo. n gran fatto leggendario della Genesi può vedersi riprodotto entro le minuscole dimensioni di una fialetta di vetro o di un crogioletto di platino. Nulla è sostanzialmente più adatto ad attrarre la curiosità di un poeta cosmico; di un grande poeta.
Ma la ragione stessa, che indusse il poeta ad iniziarsi alla disciplina del chimico è quella che ne determina la più o meno sollecita evasione.
Shelley fu espulso dallo studio della scienza per ragioni indipendenti dalla sua volontà. Ma c’è dà giurare che, in ogni modo, egli sarebbe stato un infedele per amor della poesia. Campana la ruppe senz’altro di propria spontanea volontà; quantunque, a volte, nelle sue pellegrinazioni di nomade, sentisse sorgere in se la tarantola di non so quali velleità di innovatore della disciplina abbandonata.
*
Poiché Campana non aveva il módo di poter secondare il suo spleen con viaggi regolari e bene equipaggiati, dovette, con un coraggio davvero inaudito, romperla completamente cogli usi e le costumanze e convenienze della sua classe piccolo-borghese, per entrare nella vera categoria dei girovaghi, ciarlatani, suonatori ambulanti, accattoni, saltimbanchi, truccatori di ogni genere.
In verità il salto nel mondo della «leggera», per un tempera-mento facile alla suggestione come quello del nostro, era alquanto pericoloso.
Era un tuffarsi a capo fitto nei marosi ďun giorno di tempesta, senza aver prima misurato la propria vigoria di nuotatore. Tanto più meritoria ne fu l’audacia, in quanto, sia pure attraverso esperienze inenarrabili, il Campana potè, un giorno, tornare a riva recando alto fra le mani già candide, e ormai arrozzite da mestíeri, cui non erano nate, il rotolo manoscritto dei suoi Canti Orfici.
Ma l’esperienza fu troppo aspra. Di qui l’ottenebramento improvviso delle sue facoltà. Nella diuturna, disumana tensione, parve che la corda centrale della grande lira si fosse spezzata…
*
Ma intanto, nella sua opera si sente per la prima volta la vibrazione lirica dell’anima del nostro popolo migrante in cerca di pane o di fortuna. Entro un ampio periodo strofico si può saltare, attraverso vastità oceaniche, dal silenzio solitario di una estancia argentina con nenie di gauci «suadenti il lontano sonno» alla gaiezza festiva di una primavera fiorentina o all’affaccendamento lieto di un pomeriggio autunnale bolognese, quando
le torri nel tramonto accese
fra il vicendevole vento
di dietro i palazzi vegliano le imprese
gentili del serale animamento.
E risultato più grande di questa sua vita di gaucho, di carbonaio, di minatore, di poliziotto, di zingaro al seguito di una tribù di bossiaki russi, di saltímbanco, di tenitore di un tiro a bersaglio, di sonator ďorganetto e di mille altre diavolerie, fu una cultura linguistica e letteraria veramente di eccezione.
A volte, a sentirlo parlare con un mescolio di frasi appartenenti a tutte le lingue, ci si domandava come poteva fare a ritrovar tutta l’antica bellezza dell’idioma materno.
E nel suo aspetto fisico di paltoniere pareva che ogni razza avesse stampato un suo carattere peculiare. A volte, in momenti in cui i suoi occhi si gonfiavano di tenerezza e la sua faccia appariva stanca, ricordava, colla sua barba incolta, il viso pieno e il naso un po’ corto, la fotografia famosa di Verlaine seduto sotto la pergola dinanzi a un boccale di vino di borgogna; a volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi e arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace ed attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato; spesso il tipo slavo, specie in certi suoi accessi di misticismo caotico e nichilistico si accentuava in modo da farlo parere un figlio genuino della steppa. E le lingue di tutti questi popoli eran da lui si bene possedute da render via via la illusione ancora più perfetta.
*
Quando giunse – diremo così – alla ribalta della notorietà letteraria non era più giovincello. Aveva provata ogni amarezza ed ogni esaltazione umana. Aveva conosciuto il fasto multicolore di mille sagre e di mille kermesses e anche il fondo oscuro di qualche prigione e di qualche manicomio.
Si presentava come un tipo attraente e sconcertante al medesimo tempo. Parlava lento, come se l’italiano che usciva dalla sua bocca fosse la traduzione faticosa da qualche lingua straniera. Pure a certi momenti, quando le facoltà luminose del suo intelletto, accendendosi tutte, lo ponevano in istato di grazia, riusciva a dir delle cose addirittura meravigliose, anche per profondità. Sentenziava di popoli e di stirpi con acume di storico lungimirante, caratterizzava l’arte o la poesia dei vari popoli con pochi tocchi dà maestro. Ma, mentre si aspettava intenti ancora una luce dalla sua parola, la sua bocca si slargava in una sghignazzata faunesca, che aveva un suono sgangherato tutto primordiale.
Ed allora se la prendeva con Tizio o con Caio (con letterati sempre) e poteva anche offendervi e minacciarvi. Poi tornava buono, tenero, piangente. Si umiliava per esaltare altrui, mendicava affetto con disperata trepidazione. Chi sa che cosa vedeva la sua anima, lassù in quella altitudine e in quella vastità, ove egli la aveva condotta? Quali abissi dinotava lo stridulo sarcasmo della sua risata?
Egli era di natura aquilina; e, anche dal fondo dell’inferno, poteva sentirsi sicuro della forza delle sue ali e pensare che l’azzurro era ancora per lui, ogni volta che avesse dato un colpo di ascensione colle remiganti robuste.
Ma un debole, che gli fosse stato vicino in quei momenti non poteva non provare un senso di sgomento.
*
AI suo ingresso nei milieux letterari di Firenze e di Bologna egli non mutò le sue abitudini. Colla sua «nobel tasca de paltone», ove conservava, coi documenti di girovago, un giornale con un articolo del sottoscritto e uno con una nota critica di Cecchi andava di tavolino in tavolino per i caffè più noti a vendere i suoi canti.
E spesso scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva coi suo riso di bel fauno dorato (a proposito, non ho detto ancora che Campana è un bel giovanotto) strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che 1’acquirente non le avrebbe mai capite.
AI Paszkowski, a Firenze, scene gustosissime di questo genere ne successero assai. Tutto il pubblico dei frequentatori lo imparò a conoscere e a considerarlo colla più viva curiosità.
*
Egli, ogni tanto, si appartava dagli amici per leggersi in pace l’articolo mio o la nota di Cecchi. Si calcola che li abbia letti migliaia di volte. Perché era sensibilissimo alla lode; e giungeva anche a sollecitarla con ingenue adulazioni. Ma era difficile che fosse contento, quando qualcuno avesse scritto di lui. Piano piano venne nella persuasione – giusta del resto – di essere un poeta grandissimo e che nessun elogio gli fosse adeguato.
Poi cominciò una specie di mania di persecuzione.
«Son triste a morte e presto morirò, mio caro Bino. Ti mando un grande bacio per tutto il bene che non ci siamo voluti».
É l’ultimo saluto che egli mi inviò – tanto triste! – prima di varcar la soglia di Castel Pulci, succursale della Clinica Psichiatrica fiorentina.
Povero Campana! Chissà chi, fra tutti, sia il pazzo? Egli è in fondo un tradito dalla vita e dagli uomini. Troppo vasta fu la sua visione e troppo anguste le strettoie, ove la meschinità altrui lo costrinse. La sua fatica fu ultra-umana; e la sua angoscia non ha limiti.
Possa almeno la sua grande musa confortarlo qualche volta nello squallore del suo tragico asilo.
E chi sa che egli non trovi più adeguata e dolce compagnia fra il popolo sognante dei suoi compagni di ricovero che fra la bestialità zuccona e sanguinaria delle novissime generazioni, da cui egli un tempo e vanamente sperò gratitudine, plauso e gloria.
Bibliografia:
M. Bartoletti Poggi, “Bino Binazzi”, in “Poeti italiani del Novecento.La vita, le opere, la critica”, a cura di G. Luti, Roma, Nuova Italia scientifica, 1986, pp. 35-36
V. Franchini, “Bino Binazzi- Il poeta, lo scrittore, il giornalista nel quarantesimo della morte in un carteggio inedito con Giovanni Papini, Quaderni de “Lo Sprone”, Firenze, 1970.
Guida agli Archivi delle personalità della cultura in Toscana tra ‘800 e ‘900. L’area fiorentina, a cura di E. CAPANNELLI – E. INSABATO, Firenze, Olschki, 1996, pp. 97-98-
La Poesia e la Pazzia di Campana-Di Giuseppe Ravegnani
Da «La Stampa» di sabato 4 agosto 1928
Quando, sul principio del ‘14, per i rozzi tipi del Ravagli di Marradi uscirono i Canti Orfici di Dino Campana, grande e chiassosa fu l’entusiastica meraviglia, specialmente nei gruppi dei giovani dediti alle lettere. Dei critici di fama, soltanto Emilio Cecchi ne parlò, in un colonnino della Tribuna. Gli altri, silenzio e noncuranza. Così, il nome di Dino Campana, poeta antico, passò, dopo una felice giornata di gloria. Infatti, chi mai ancora oggi ricorda la sgraziata «brochure» giallina, simile più a un lunario paesano che a un libro di canti?
In quei tempi poco tranquilli, di battaglie e di ricerche sperimentali, la poesia aveva un nome solo: Arthur Rimbaud; e la fredda rarefatta luce delle Illuminations o di Une saison en enfer abbacinava la nostra gioventù letterata, guidandola verso un lirismo che fu chiamato puro e mediterraneo. Erano i giorni della Voce di De Robertis e dell’Acerba di Papini; da qualche anno Soffici aveva pubblicato il suo saggio sopra Rimbaud, che allora era sembrato un capolavoro; i volumi gialli del Mercure de France si vendevano come bibbie; e la bohème trionfava nei suoi ultimi rappresentanti.
Di Dino Campana, nato a Marradi, di famiglia agiatamente borghese, e fuggito poco più che ventenne pel mondo, già si favoleggiava. La sua vita agitata, le sue stramberie memorabili, il suo inquieto nomadismo, il suo carattere torbido ed esasperato lo imparentavano con i Varlaine, i Rimbaud, i Corbière, cioè con i tre Re Magi della poesia moderna. Lo si sapeva studente di chimica mancato come Shelley, e come Shelley bello di viso e di corpo, suonatore ambulante d’organetto e di piffero, saltimbanco, ginnasta, gaucho, minatore, zingaro in una tribù di bossiaki russi, tenitore di un tiro a bersaglio, poliziotto, prestigiatore, carbonaio, sovversivo, anarcoide, imperialista, in giro per l’Europa e per le Americhe, ora in un ospedale e ora in un manicomio, ora ricco e ora squattrinato, ribelle a leggi e a costumi, anima in pena in cerca di pane, di poesia e di gloria. Che volete di più? Tanto bastava per farne una specie di mito, una figura di “poeta, maledetto”, uno di quei spettri vaganti, di cui cantò Verlaine nel suo soggiorno a Londra, assieme al poeta del profetico Bateau.
Bino Binazzi, che con amore d’amico ha curato presso il Vallecchi la stampa dell’Opera completa di Campana, aggiungendo ai Canti Orfici le poche poesie della Voce e della Riviera Ligure (Canti Orfici ed altre liriche. Opera completa, con prefazione di Bino Binazzi. Vallecchi editore. Firenze, 1928), così ce ne parla: «E nel suo aspetto fisico di paltoniere pareva che ogni razza avesse stampato un suo carattere peculiare. A volte, in momenti in cui i suoi occhi si gonfiavano di tenerezza e la sua faccia appariva stanca, ricordava colla sua barba incolta, il viso pieno e il naso un po’ corto, la fotografia famosa di Verlaine seduto sotto la pergola dinanzi a un boccale di vino di Borgogna; a volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi e arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace ed attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato; spesso il tipo slavo specie in certi suoi accessi di misticismo caotico e nichilistico, si accentuava in modo da farlo parere un figlio genuino della steppa». Oppure: «sentenziava di popoli e di stirpi con acume di storico lungimirante, caratterizzava l’arte o la poesia dei varii popoli con pochi tocchi da maestro. Ma, mentre si aspettava, intenti ancora, una luce dalla sua parola, la sua bocca si slargava in una sghignazzata faunesca, che aveva un suono sgangherato tutto primordiale». Anche nella pagina scritta, dopo qualche periodo meravigliosamente limpido e perfetto, noi riudiremo cotesta risata, nata dalla misteriosa ombra della follìa.
Spesso, Campana girava per i caffè più in voga, a vendere i suoi canti; e allora, narra sempre Binazzi, egli scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva col suo riso di bel fauno dorato (a proposito, non ho detto ancora che Campana era un bel giovanotto) strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che l’acquirente non le avrebbe mai capite. Al Paskowski, a Firenze, scene gustosissime di questo genere ne successero assai».
Dopo pochi anni dalla pubblicazione dei Canti Orfici, Dino Campana, già tormentato da una specie di buia manìa di persecuzione, venne rinchiuso a Castel Pulci, pazzo.
***
Oggi, a quasi quindici anni di distanza, l’opera di Campana viene a mostrarsi in diversa luce: più ferma e più composta. Se allora, per i gusti dei tempi, essa apparve come la tipica e più alta espressione del modernismo lirico; e perciò applaudita e difesa proprio in quei punti dove la fiamma dell’ispirazione in tenebre crolla; oggi, invece, a chiunque la riguarda senza preconcetti, ma con l’animo di scoprirla nelle sue umili e genuine qualità, si rivela indistruttibilmente classica e antica. Perciò Dino Campana non può essere né Rimbaud né Corbière, perché poeta antico e, pur contro la sua cultura caotica e frammentaria, italico.
Basta il largo, solenne preludio dei Canti a farci avvisati: «Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso».
Classico nel tono, nella misura e sodezza della lingua, e più ancora nei temi e in quel senso vivo di storia e di mito attivi, di religiosa pacatezza, di immortale razza, di regalità invincibile, di purità serena e liliale. Ed è strano come quest’uomo, girovago di tutte le terre, affaticato in ogni duro mestiere, a ogni patria straniero e a sé stesso, che aveva imbastardito il suo con altri dieci lontani linguaggi – egli parlava «con un mescolìo di frasi appartenenti a tutte le lingue!» – rimanesse nativo, perdutamente latino, innamorato delle sue piazze, delle sue donne, delle sue marine. In ciò la fresca antichità delle sue scritture, la nobile compostezza delle sue immagini oh! quelle dame ai balconi «poggiate il puro profilo languidamente nella sera», — l’armoniosa grazia dei suoi casti paesi.
Al suo primo apparire, il senso di questa poesia fu tradito dalla vita del poeta stesso: da quella invadente esperienza romantica che la travagliò e la corrose. La poesia non giunse mai alla costruzione intatta e intera di sé stessa, ma galleggiò frammentaria sulla pagina, franta in gridi, in bagliori, in animamenti evocativi. Ed evocativa, infatti, è sempre la grande arte: quella che riallaccia in onde canore il presente al passato, l’effimero all’eterno. Ora, i Canti Orfici di Campana son fatti di questa intangibile materia lirica, che la singhiozzata esistenza non seppe del tutto velare, ma soltanto spezzare e comunicare attraverso una sintassi povera e secca e per mezzo d’un impressionismo d’intenzioni moderne.
Eppure, nonostante cotesti snaturamenti, quale ricchezza di sintesi in cotesto canto! Quale aderenza e vivezza figurativa! Il poeta, per via d’eliminazioni, giunge alla sostanza pura, all’essenza, alla purità. Talvolta, v’insiste, si ripete, segue svagato i motivi melodici e i centri ispirativi; e allora il periodo si accentra su una parola, come sopra un gorgo. «O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un dio nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno avevi rapito una melodia di carezze».
Questo strano e allucinato giuoco di ellissi, che fors’anche può dare la impressione di una impotenza del poeta a liberare la sua materia lirica da un’ansia strettamente umana, si ripeterà spesse volte, sino a emigrare in regni completamente ermetici e intricati, come nei versi fumosi e stranamente concentrici dedicati a Genova:
Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che Bianca e lieve e tremula salì…
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca…
Bianca quando nel rosso del fanale
bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì…
Chi sa quale visione rarefatta, dalla sua lucida altitudine di veggente, i suoi occhi vedevano, senza che la chiarezza del poeta potesse in qualche modo racchiuderla nei versi?
***
Forse da qui la falsa concezione di Une saison en enfer italiana. Ma, chi si fermasse a simili momenti di brancolante farneticazione, pretendendola vertice di poesia, non saprebbe godere la vera grandezza di Campana. Il quale, nonostante cotesti improvvisi velarii, spalanca compatte e immacolate chiarezze, non soltanto nei frammenti di prosa descrittiva, ma anche nei versi delle sue poche poesie. Ecco, ad esempio, una perfetta quartina: Firenze: Uffizi:
Azzurro l’arco dell’intercolonno
Trema rigato tra i palazzi eccelsi:
Candide righe nell’azzurro: persi
Voli: su bianca gioventù in colonne.
E la piena calda classicità delle Immagini del viaggio e della montagna:
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte degli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Di selve oscure il torrente
Sòrte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino… E il cuculo col più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino.
Qui, non abbiamo soltanto una poesia d’immagini, come per lo più è quella del Campana; ma s’alzano cotesti versi da una adamantina chiarezza spirituale e da schiette sensazioni che si traducono in musica e architettura. Forse, è cotesto uno dei pochi saggi maggiormente completi dei Canti Orfici: il segno d’una meta, alla quale, col tempo, Campana sarebbe giunto, purificando quell’originale materia lirica, ch’egli impastava dentro l’anima con l’affocato romanticismo delle sue esperienze. L’anelito alla verità, il tormentoso senso religioso della vita, certa stanchezza pessimistica che gli veniva da letture moderne, non gli avrebbero impedito di mettere sempre più a nudo il suo spirito italico, pieno di largo respiro, e affiorante in lui non appena il suo occhio si intratteneva con ogni cosa, che vivesse d’antica storia: le piazze delle vecchie città, i castelli turriti, i porti delle preziose repubbliche, o la fresca Italia paesana, tra colli e pianure, corse dal canto perenne dei fiumi. Ogni suo canto, infatti, è pieno di mito: «Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre all’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea».
E mito sono anche le terre, le donne, i cieli: ogni cosa che il suo istinto infallibile sente vicina al suo cuore, e ch’egli traduce in evocative pitture, da meraviglioso pittore com’egli è. Le Alpi: «mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi, congerie enormi di fede e di sogno, colle mille punte nel cielo; vidi le Alpi levarsi ancora più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infinito del sogno». Bologna: «dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le lunghe vie. Il malvagio vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio». Una donna: «ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino».
Quindi, non poesia decadente; né “poeta maledetto” il suo autore, nonostante la parte pittoresca della sua tradita esistenza. Poeta classico, invece, d’una classicità omerica, di quella classicità cioè che nei secoli si perde, luce perenne della nostra razza. In questa luce i Canti Orfici di Dino Campana bruciano, anche se, sopr’essa, spesso la follia stampa la sua bieca ombra.
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