Il Borgo di TRAGLIATA-La Storia di Tragliata in pillole-Franco Leggeri Fotoreportage–Al km 29 della Via Aurelia, tra Torrimpietra e Palidoro, sulla destra, in direzione delle colline, si dirama la Via del Casale Sant’Angelo, che porta verso Bracciano.Percorrendo questa strada che si snoda in aperta campagna tra i grandi poderi coltivati o lasciati a pascolo per bovini e ovini, sulla destra al km 8,5 si diparte la via di Tragliata che porta al castello omonimo per terminare dopo pochi chilometri al crocevia con la Via di Santa Maria di Galeria, Via dell’Arrone e la Via di Boccea. Il toponimo di Tragliata, riportato in antichi documenti come Talianum o Taliata, sembra derivare da “tagliata”, nome dato ai sentieri scavati nel tufo di origine etrusca. Il Castello di Tragliata-Località molto suggestiva, abitata fin dall’antichità più remota, come testimoniato da ritrovamenti etruschi e romani inglobati nelle costruzioni successive. Il castello, eretto tra il IX e il X secolo, aveva una funzione di difesa e di avvistamento ed era collegato visivamente con altre torri circostanti, come la vicina Torre del Pascolaro; trasformato successivamente in un grande casale ad uso abitativo ed agricolo, in alcuni tratti si possono notare avanzi di muratura precedente appartenenti alle opere di sostegno del fortilizio. Allo stato attuale, Tragliata si presenta come un borgo in magnifica posizione elevata, situato com’è su di una specie di rocca isolata in mezzo alla vallata del Rio Maggiore, ed è costituito da vari fabbricati che si affacciano su di un grande spazio erboso.I fianchi della collina sono scavati in più parti dalle tipiche grotte, utilizzate nel corso dei secoli come magazzini o ricovero di animali. Di proprietà privata, il castello è stato recentemente convertito in azienda agrituristica adibita a ricezione. Interessanti i grandi silos sotterranei di epoca etrusca utilizzati per la conservazione dei cereali.
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Il “PIANTO delle ZITELLE “ al Santuario della TRINITA’-
Rivista PAN n°12 -1935
STORIA DEL SANTUARIO
Le origini di questo Santuario sono ANCORA SCONOSCIUTE anche se corrono diverse ipotesi; occorre intanto riferirsi a LEGGENDE POPOLARI tramandate oralmente ed esse sono principalmente due.
UNA PRIMA LEGGENDA (sembra sia supportata anche da antichi scritti) narra di due cristiani perseguitati da Nerone i quali, fuggendo da Roma, si fermarono qui dove incontrarono gli Apostoli PIETRO E PAOLO: un provvidenziale Angelo venne subito a sfamarli e dissetarli, mentre il giorno dopo apparve loro la Santissima Trinità che benedisse il luogo come luogo santo della Terra’.
UNA SECONDA STORIA, la più diffusa, vede l’origine del culto in questo luogo nel giorno in cui un contadino, accorso dal sovrastante Monte Autore da cui aveva visto precipitare i suoi buoi con l’aratro, TROVO’ I DUE ANIMALI INGINOCCHIATI DAVANTI AD UNA IMMAGINE DELLA TRINITA’ mentre vide l’attrezzo impigliato a metà della parete rocciosa. A sostegno di questa seconda storia sta il fatto che in effetti, con un po’ di buona volontà, UN ANTICO ARATRO SOSPESO si vede ancora, sospeso in alto sullo strapiombo
Ipotesi storicamente più concrete vedrebbero la fondazione del Santuario da parte di SAN DOMENICO DI SORA (poco dopo il mille ) ovvero anche da parte di MONACI BASILIANI provenienti dall’Oriente (ipotesi plausibile, considerato lo stile rappresentativo delle tre figure venerate ed alcune peculiarità della toponomastica locale, quale il nome stesso del paese di Cappadocia). A sciogliere tutte le diatribe è molto accreditata l’ipotesi secondo cui furono i Benedettini di Subiaco a fondare qui un solitario cenobio e questa è una tesi molto condivisibile vista la vicinanza e la vocazione di quei monaci alla fondazione di luoghi di culto ‘decentrati’; ma, certo, è anche possibile che qui ci fosse già qualcosa…..
LA FESTA DELLA “SANTISSIMA”
La festa della SS. Trinità è una festa ‘mobile’ in quanto si svolge CIASCUN ANNO IN DATA DIVERSA, dal Venerdì alla Domenica dopo la Pentecoste (cioè otto settimane dopo Pasqua) in COINCIDENZA CON IL PLENILUNIO.
Il tradizionale PELLEGRINAGGIO DELLE GENTI DEL LAZIO passa da Vallepietra che vede affluire migliaia di pellegrini, in genere organizzati in ‘COMPAGNIE’ secondo i paesi di provenienza. La sosta a Vallepietra già comporta una SERIE DI RITUALI che coinvolgono anche la popolazione locale, quindi IL SABATO ALL’ALBA si sale a piedi al Santuario il quale si trova a 12 chilometri dal paese (la distanza è percorribile anche in auto con la strada asfaltata per Cappadocia, che passa a 500 m. dal Santuario). I più devoti vanno ovviamente a piedi e questo a prescindere dall’età perche I PIU’ DEBOLI VENGONO AIUTATI A SALIRE dagli altri componenti la ‘Compagnia’.
Durante il percorso, lungo il quale si trovano croci e cappelline votive, si svolge una serie di RITUALI DI PURIFICAZIONE (come lanci simbolici di pietre nel torrente oppure – e questo è comune ad altri cammini ‘liberatori’ – apportando pietre a formare piccoli cumuli).
Giunti al Santuario ci si ferma per altri riti devozionali lungo il sentiero d’accesso (costellato di croci-ricordo delle Compagnie). Nei giorni della Festa, la CODA D’ATTESA PER VARCARE LA SOGLIA DEL SANTUARIO può essere lunga in modo scoraggiante (ma questo deve essere parte obbligata del pellegrinaggio, almeno per chi è salito in auto!).
Si entra nel Santuario sfiorando la roccia con la mano e se ne esce camminando a ritroso per rispetto devozionale.
All’alba della Domenica si svolge, presso l’altare all’aperto, il tradizionale ‘PIANTO DELLE ZITELLE’: una laude del settecento (era il tempo delle Passioni di Bach) cantata da un gruppo di ragazze di Vallepietra vestite di bianco (la Madonna è vestita di nero), con effetto di grande commozione collettiva. Anche il percorso di ritorno a casa dei pellegrini segue un particolare rituale, perché i frutti di queste dure giornate non vengano vanificati.
IL SANTUARIO DELLA SANTISSIMA TRINITA’
La piccola Chiesa-Santuario RACCHIUDE UNA GROTTA (all’origine era quasi certamente un’ abitazione rupestre neolitica) sulla cui parete è una RAFFIGURAZIONE DI TIPO BIZANTINO della Trinità: tre persone identiche, sedute con un libro nella mano sinistra, nell’atto di benedire alla maniera greca (pollice unito all’anulare); altri affreschi medioevali decorano la grotta.
Una scala per l’accesso alla Chiesa ed una per uscirne risolvono il problema del fluido scorrimento delle migliaia di pellegrini dei giorni della Festa. Ai lati e attorno alla Chiesina della Santissima sorgono ALTRI LUOGHI DEVOZIONALI (tra cui la bella cappellina di Sant’Anna, incastonata nella roccia) costruiti nel rispetto della centralità e suggestione del Santuario.
Quello che stona è un’enorme pensilina, che copre un altare all’aperto, realizzata negli anni sessanta proprio davanti alla Chiesa-Santuario, che impedisce anche la completa soddisfazione dello spirito anelante a bearsi dell’immenso panorama che qui si prospetta. Altra cosa che stona è l’ormai esorbitante numero di chioschi (fortunatamente collocati in un lato abbastanza appartato) che vendono dagli oggetti devozionali ai souvenir e – non si può negare ad un bimbo stanco un giocattolino cinese – e robe di plastica varia.
Ma basta tenere lo sguardo alto (in tutti i sensi) e la suggestione immensa di questo luogo non ne resta scalfita. Unico oggetto ‘verace’ è il tradizionale FIORE DI CARTA COLORATA che una volta adornava camion, carri e biciclette con cui le genti del Lazio arrivavano da queste parti viaggiando per giorni e notti cantando ‘viva viva, sempre viva, la Santissima Trinità….’.
TRA GLI ALTRI LUOGHI DI INTERESSE non lontani da Vallepietra si trova Subiaco con i suoi Monasteri Benedettini, la Rocca dei Borgia e i Campi sciistici di Livata (a poca distanza dal Santuario si trovano diverse mete sciistiche abruzzesi, in primo luogo Camporotondo).
Per informazioni:
Vallepietra è raggiungibile con Bus Cotral da Subiaco (a sua volta raggiungibile con analoghi mezzi da Roma-Capolinea Staz.Ponte Mammolo-Metro B). Da Vallepietra al Santuario corrono 11 Km. di strada asfaltata non percorsa da mezzi pubblici (nei pellegrinaggi a piedi si percorre il sentiero montano).
Il luogo del Santuario è accessibile tutto l’anno, ma La Chiesa della SS.Trinità è aperta dal 1° Maggio al 2 Novembre.
Per info http://www.santuariovallepietra.it ovvero tel. 3351254126 (Rettore Santuario) ovvero 0774 899084 (Parrocchia Vallepietra).
Diciamo subito che il termine Polledrara di Cecanibbio, Fotoreportage di Franco Leggeri, non si riferisce ad allevamenti di polli o similari che dir si voglia, ma bensì ad un recinto per cavalli (puledri) e che la località di Cecanibbio,Museo Paleontologico Polledrara di Cecanibbio ,nonostante il nome che sembrerebbe di fantasia, esiste davvero e si trova fra la via Aurelia e la Boccea a circa sei chilometri dall’incrocio che dalla statale porta a Fregene, andando però dalla parte opposta verso l’interno e non verso il mare.
La Polledrara di Cecanibbio, la quale come luogo e nome alla maggior parte delle persone non dice assolutamente nulla essendo peraltro completamente sconosciuta ai più, gode invece di fama internazionale fra gli archeologi e i paleontologi di tutto il mondo per tutta una serie di motivi ed in particolare per alcuni che a seguire cercheremo di spiegare in maniera dignitosa. Nel Pleistocene medio- superiore (300.000 anni fa), la campagna romana si presentava come è oggi il cuore dell’Africa, ciò vuoi per motivi climatici, che per quelli ambientali con grande varietà e ricchezza di vegetazione ed una forte presenza di corsi d’acqua e di grandi zone paludose; un habitat questo che permise la sopravvivenza di una fauna estremamente varia ad iniziare dall’elefante antico (Palaeoloxodon antiquus), un gigante di circa 6 metri d’altezza con zanne di 4 metri e mezzo, per proseguire poi con rinoceronti, bufali (tanti stando ai ritrovamenti), lupi, cervi, cinghiali ed anche scimmie della specie macaco, per non dire poi di varie specie di rettili (tartarughe d’acqua e di terra incluse) e di uccelli particolarmente di specie acquatica.
Ma la Polledrara di Cecanibbio è famosa fra gli esperti soprattutto perché in una estensione di circa un chilometro quadrato si trova un grande accumulo di resti fossili degli animali succitati mantenutisi in maniera eccezionale ed ivi accumulati in un alveo torrentizio (un torrente di circa 40 metri di larghezza con una profondità di un metro e mezzo che le portò con le sue piene, una sorta quasi di Arrone ante litteram; Arrone che, attualmente, per inciso, scorre non lontano da lì) furono inglobati perfettamente nei sedimenti vulcanici ivi “sparati” dal vulcano Sabatino (ora lago di Bracciano – tutti i laghi del Lazio sono il frutto del riempimento acqueo di ex coni vulcanici) tali da conservarsi, fino ai nostri giorni, in maniera ineccepibile per la “gioia” degli specialisti di cui sopra e per la curiosità ed il piacere visivo dei visitatori di oggi.
I primi indizi di questo ampio giacimento di fauna fossile si ebbero già nel 1984 quando in una ricognizione di superficie la Soprintendenza Archeologica individuò lungo i fianchi di una collinetta un gran numero di resti, con, a seguire, delle ricerche più approfondite, fatte in loco successivamente in vari periodi.
Nel corso degli anni l’area ha restituito resti non completi di una cinquantina di elefanti antichi, tra cui – per la prima volta in Italia – sette crani di individui adulti appartenenti a questa specie. Ma anche, tramite la campagna di scavo iniziata nel 2011, un reperto assolutamente straordinario (sempre di elefante antico) di cui vale la pena di parlare visto e considerato che si tratta di una vera e propria “tragedia” animale nella quale incappò un rappresentante di tale specie.
Ecco la stupefacente storia emersa dalle ricerche effettuate. Uno di questi elefanti giganti scivolò all’interno di una grande e profonda fossa completamente piena di vischioso fango e, purtroppo per lui, cadde dentro con le zampe messe in malo modo, in particolare quelle posteriori, tanto da non poter più spingersi in alto verso la liberazione, anzi, probabilmente quei pochi movimenti che riuscì a fare complicarono ulteriormente la sua situazione avviandolo verso una bruttissima fine ed anzi esponendolo ai brutali attacchi animali ed umani che mai si sarebbero verificati se fosse stato libero di muoversi disponendo a difesa, verso qualsiasi direzione, le sue tremende zanne e la sua potente proboscide. C’è da dire che l’esemplare fossile della Polledrara di Cecanibbio con il fatto che rimase bloccato in posizione anatomica verticale ha permesso degli studi particolarmente esaustivi su questa specie e delle precise comparazioni con gli elefanti dei nostri giorni.
A proposito degli attacchi che l’elefante prigioniero subì vanno segnalati quelli che effettuò l’uomo preistorico nello specifico l’Homo Heidelbergensis (ritrovato, in prima battuta, presso Haidelberg in Germania ed antenato dell’Homo Sapiens) che stanziava anche lui nella zona, probabilmente proprio per le ampie opportunità di caccia che essa offriva. Anzi, come dimostrato dagli istrumenti rinvenuti intorno alla carcassa del grande animale, lo macellò letteralmente fratturandogli anche le ossa sia a scopo alimentare che per trarne strumenti appunto di quella natura. E di ciò vi è assoluta certezza in quanto le analisi effettuate al microscopio elettronico, pure tramite l’Università La Sapienza, hanno infatti evidenziato, su alcuni oggetti usati dall’Homo Heidelbergensis, delle sicure tracce lasciate dal taglio della pelle, della carne e dell’osso. Va anche detto che la capacità cerebrale dell’Homo Heidelbergensis è praticamente quasi uguale alla nostra per cui non si può escludere totalmente che il Palaeoloxodon antiquus fu spinto volutamente nella fangaia per poi poter infierire su di esso con il minor pericolo possibile considerando la mole la forza dell’animale che libero di muoversi sarebbe stato un avversario estremamente poderoso molto difficile da uccidere.
Fra l’altro non è da trascurare, sempre alla Polledrara di Cecanibbio, il fatto del ritrovamento dei resti fossili di bufali visto e considerato che, fino a questi rinvenimenti, mai nel Pleistocene medio – superiore tali animali erano stati, fino ad allora, documentati nell’Europa meridionale. Attualmente questo luogo, molto particolare e molto speciale, è visitabile dal pubblico sia in gruppi che singolarmente (guardare per informazioni orari e giorni su internet digitando “Polledrara di Cecanibbio”) in maniera estremamente intelligente attraverso delle funzionali passerelle aeree che evitano, in tal modo, il calpestio di questa interessantissima area preistorica. Dimenticavo di dire che dei grandi e bei pannelli illustrativi a colori fanno vedere come doveva presentarsi tutta la zona 300.000 anni fa sia in ambito botanico che animale.
Articolo scritto dal Prof.Arnaldo Gioacchini – Membro del Comitato Tecnico Scientifico dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale Unesco
Franco Leggeri Fotoreportage-Chiesa Cattedrale Diocesi di Porto e S.Rufina-
STORIA del cinquantenario della Cattedrale dei Sacri Cuori di Gesù e Maria a la Storta.
-Nel 1957 – CINQUANTA ANNI FA…-
2007-il 27 ottobre,Il servo di Dio Papa Pio XII,
Visitava la Chiesa Cattedrale dei Sacri Cuori di Gesù e Maria a la Storta.
La Diocesi Suburbicaria di Porto – Santa Rufina, per desiderio e volontà del suo Pastore, il Vescovo Mons. Gino Reali, si appresta a ricordare il 50° anniversario della visita di Papa Pio XII alla Chiesa Cattedrale Diocesi di Porto e S.Rufina, avvenuta il 27 ottobre 1957.
La visita del Pontefice fu un avvenimento – eccezionale per quel tempo – che merita di essere ricordato in modo particolare.
Il Vescovo invitando l’intera Diocesi a celebrare il 50° sottolinea l’importanza del ricordo di quell’ evento come
Occasione per rendere grazie al Signore per aver donato alla Chiesa il “Pastor Angelicus”, il Papa della modernità e del grande Magistero.
Occasione per noi che ci obbliga ad uno speciale ricordo e senso di gratitudine verso un Papa che, attraverso il ministero dell’allora Vescovo, Sua Em.za il Cardinale Eugenio Tisserant, ha dimostrato verso la nostra Diocesi paterna condiscendenza e bontà.
E’ ancora occasione per ricordare e riconoscere la figura del grande Pontefice Pio XII di cui Sua Em.za il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha detto: “Oggi, liberida pregiudizi, si può riconoscere la grandezza e la completezza della figura di Papa Pacelli, la sua umanità e rivalutare il suo magistero”.
Le celebrazioni in programma dal 23 al 28 ottobre prevedono:
-Il 23 alle ore 20.30 : Conferenza: Tavola rotonda – ( partecipano: Padre Federico Lombardi, Tornielli Andrea, Di Giacomo Filippo )
-Il 26 alle ore 20.30 : concerto polifonico in Cattedrale: “Te Deum dentro la storia della Cattedrale”, diretto d’Alvaro Vatri.
-Il 27 alle ore 20.30 : proiezione del filmato documentario: “Pio XII il Principio di Dio” di Luigi Bizzarri, presentato dello stesso autore.
-Inoltre, Domenica 28 una Solenne Concelebrazione Eucaristica, presieduta del Vescovo Mons. Gino Reali.
La visita di Papa Pio XII alla Chiesa Cattedrale di Porto – S. Rufina nel lontano 1957 venne quasi a conclusione del lungo e travagliato percorso compiuto nel dare alla Diocesi, dopo secoli, e finalmente nel suo territorio, la propria Chiesa cattedrale.
E’ bene qui ricordare le varie tappe e fasi succedutesi nella progettazione e costruzione della Cattedrale dall’inizio nel 1923 fino alla sua consacrazione nel 1950, cui seguì la visita del Papa nel 1957.
UN PO’ DI STORIA
1 – La cattedrale “ prima della Cattedrale “ (1926-1946)
a cura di Alvaro VATRI
La Cattedrale de La Storta ha le sue “radici” nel 1923, quando fu costituito il Comitato per la costruzione di un Santuario nel luogo dove S. Ignazio di Loyola aveva avuto, nel novembre 1537, la visione cosi importante per la nascita dell’Ordine dei Gesuiti e per il suo stesso nome: Compagnia di Gesù. Precedentemente c’erano stati dei tentativi di realizzare un tale progetto: “si penso dapprima ad un ampliamento della cappella attuale, e se ne fece il disegno col suo preventivo esistenti nell’Archivio della Compagnia di Gesù. Pero le strettezze del luogo non avrebbero permesso un ingrandimento sufficiente ai bisogni, e per questa ed altre ragioni il progetto fu abbandonato”. Necessità dunque di dare decoro al luogo tanto importante per il “gran Patriarca”, ma anche necessità di venire incontro ai bisogni religiosi della popolazione della Parrocchia di Isola Farnese di cui “il Santuario è il vero centro naturale. Lo stato di abbandono della popolazione, nei riguardi religiosi e sociali, ci costringe a dire che l’erezione di questo nuovo tempio è une vera necessità morale per soddisfare convenientemente ai grandi e urgenti bisogni degli abitanti”. Ecco dunque anche l’interessamento del “Sommo Pontefice Pio X che negli ultimi anni prima della guerra (la I Guerra Mondiale, n.d.r.) convocò i cappellani dell’Agro Romano per conoscerne lo stato ed i bisogni religiosi. In tale occasione gli furono esposte anche le condizioni della Storta ed il Santo Padre, informato dei bisogni urgenti di quella popolazione, promise di farvi costruire una bella chiesa, con la casa per il cappellano, stanziando a tale scopo la somma richiesta. Da parte dei proprietari fu gia allora offerto il terreno necessario per la nuova fabbrica. L’immane catastrofe della guerra e la morte del Papa fecero naufragare anche questo progetto”.
Il progetto del 1923
Nel mese di luglio del 1923 il Cardinale Antonio Vico, Vescovo di Porto e Santa Rufina, decise che si doveva mettere mano alla costruzione di una nuova chiesa a La Storta. Diede quindi incarico al Vicario Generale Monsignor Carlo Grosso di invitare gli interessati per dare concretezza al progetto. Tutti i proprietari dei territori attigui a quello de La Storta dettero il loro appoggio. “Cosi fu costituito nell’adunanza del 18 luglio 1923 il nuovo Comitato, di cui Sua Eminenza il Cardinale Vico assunse la presidenza onoraria.
Trattandosi di un antico santuario di S. Ignazio di Loyola, si volle chiamare un suo figlio alla carica di presidente effettivo e quindi a questa fu eletto il P. Leopoldo Fonck S. J., Professore del Pontificio Istituto Biblico. Gli altri componenti il Comitato sono: Mgr. Carlo Grosso, Vicario Generale; Sac. D. Francesco Guglielmi, Arciprete Parroco dell’Isola Farnese, Segretario; Sac. D. Antonio D’Antoni; Comm. Ing. Carlo Grazioli; Cav. Stanislao Grazioli; Comm. Ing. Francesco Ceribelli; Avv. Cav. Luigi Filippo Re, Cameriere d’onore di Cappa e Spada di Sua Santità, Amministratore dell’Ecc.ma Casa Salviati”.
Dopo averne informato il Papa Pio XI, che accolse la notizia con grande soddisfazione, il Comitato passò alla fase operativa. Per il progetto fu interpellato l’architetto romano Giuseppe Astori che offrì la sua collaborazione come “personale e gratuito contributo alla iniziativa del Comitato”.
Nel novembre di quello stesso anno fu effettuato un sopralluogo per decidere il luogo dove erigere la chiesa e l’esame dei materiali per la sua costruzione. Quanti ai materiali gli esperti giudicarono di ottima qualità il tufo della grande cava appartenente all’Arcipretura dell’ Isola Farnese che pertanto fu offerto gratuitamente dal Parroco. La pozzolana dell’Arcipretura fu invece giudicata meno buona e quindi poco adatta ad una grande costruzione. Ma a tale necessità venne incontro il Sig. Mattaini, proprietario di una cava di pozzolana nella Valle della Storta, che donò il materiale ritenuto di ottima qualità. Per il trasporto dei materiali e delle altre cose i padroni delle tenute attigue a La Storta assicurarono che avrebbero messo a disposizione, “in quanto lo permetterebbero le circostanze, i loro carri, birrocci e camions. Inoltre si può sperare che dai coloni dei grandi fondi vicini, nei mesi più liberi da lavori urgenti, si presterà un opportuno aiuto per la mano d’opera richiesta”.
Quanto al luogo della erigenda chiesa, già precedentemente era stata individuata la collina attigua alla Cappella di S. Ignazio, tra la via Cassia e la ferrovia, che ha una superficie di circa 80.000 metri quadrati, di proprietà della duchessa Maria Salviati, come il luogo più adatto sia per motivi contingenti (la vicinanza, 15 metri in linea d’aria al luogo della Visione), sia in prospettiva in quanto punto di riferimento per il futuro quartiere che si sarebbe sviluppato inevitabilmente date le condizioni logistiche e urbanistiche (la via Cassia, la stazione ferroviaria, l’acquedotto dell’ Acqua Paola, la luce, il telefono e le poste) che la borgata presentava. La duchessa Maria Salviati donò circa 7000 metri quadri per la nuova chiesa e mise a disposizione del Comitato altri 7000 metri quadri a un prezzo di favore, per formare il piazzale davanti alla chiesa.
Il progetto dell’architetto Astori prevedeva una chiesa di 40 m. di lunghezza, 20 di larghezza e 18 di altezza. Egli stesso ne descrive lo stile: “La chiesa ha il tipo caratteristico del tardo Rinascimento italiano, quello che in Germania viene definito come “stilo gesuitico” (Jesuitenstil). Presenta perciò una sola navata con cappelle laterali, abside al fondo e copertura a volta… le esigenze della località hanno indotto ad aggiungere davanti all’ingresso un portico, perché l’entrata venga meglio difesa dalle intemperie… Nell’interno lasciano in evidenza grandi superficie piane, giacché intento dei promotori è di profittare nel modo più largo degli insegnamenti che la decorazione pittorica può fornire al pubblico semplice delle campagne”.Il Comitato prevedeva la dotazione anche di opere annesse: la casa del parroco con un bel giardino, alcune sale “per i circoli cattolici, un ricreatorio per i giovani, una grande sala per le conferenze popolari, un piccolo ufficio d’informazione per la gente di campagna, una sala per la biblioteca circolante… e inoltre alcuni locali da mettere, di comune accordo, a disposizione dell’Amministrazione comunale e del Comitato per le scuole dei contadini”. Conclude P. Fonck : “Ecco dunque ciò che vuol essere il Santuario di S. Ignazio alla Storta. Vuol soddisfare ad un duplice santo dovere. A gloria di Dio che accordò al Santo un così insigne favore nella povera cappella della Storta vuol degnamente onorare la memoria del gran Patriarca in un luogo che gli è rimasto sempre tanto caro e che si trova al presente in uno stato di triste abbandono. Nello spirito di Ignazio, e coi mezzi da lui suggeriti, e sotto il suo potente patrocinio celeste, vuol essere un centro benefico di attività rigeneratrice per il bene spirituale ed in un tempo pure per il progresso materiale di tutta la popolazione, della parrocchia, della diocesi, e di tutto l’Agro Romano”.Tre anni dopo la costituzione del Comitato, il 31 luglio 1926, fu posata la prima pietra della nuova chiesa, della quale nel frattempo era cambiato il progetto. La nuova costruzione fu progettata dall’Architetto Comm. Filippo Sneider. “L’architetto Sneider ha lavorato molto per il Vaticano al momento della Conciliazione. Contemporaneamente ai lavori a La Storta ha costruito sulla via Appia la Chiesa di Ognissanti, per don Orione, e c’è una grande somiglianza tra le due chiese, anche se quella è a croce latina, mentre la Cattedrale è a croce greca. Ma soprattutto c’è un elemento “stilistico” assolutamente identico: le finestre, che sono tre, inserite in un arco grande”.Ma poco dopo difficoltà di vario genere e mancanza di fondi dispersero il Comitato e costrinsero ad interrompere i lavori lasciando la costruzione allo stato di rudere, e in tale stato la trovò, nel 1946, il Cardinale Eugenio Tisserant divenuto vescovo della Diocesi[1].
2 – La nuova Cattedrale (1946-1957) – La visita di Papa Pio XII
a cura di don Adriano FURGONI
Ora è lo steso Cardinale Eugenio Tisserant che a più riprese racconta nelle sue lettere pastorali alla Diocesi (sono in tutto 20 lettere scritte dal 1946 al 1966) l’origine e la costruzione della nuova chiesa Cattedrale di Porto-S. Rufina dedicata ai SS. Cuori di Gesù e Maria.
Da S. Ippolito nell’Isola Sacra a La Storta sulla Via Cassia – Francigena
Nella quarta lettera pastorale del 22 agosto 1947 cosi scrive:
“Mancanza di una chiesa cattedrale.
Non è tutto : nella Diocesi di Porto e Santa Rufina non vi è soltanto insufficienza o scarsezza di chiese parrocchiali: essa difetta pure di quella Chiesa che dovrebbe essere il centro della vita diocesana: voglio dire la Cattedrale.
La Cattedrale nostra che era dedicata a S. Ippolito nell’Isola Sacra, fu distrutta, a quanto pare, nella prima metà del secolo XI e non fu mai ricostruita. In quel tempo la vita si ritirava dal litorale, troppo spesso disturbato dalle scorrerie di corsari mussulmani , venuti dai porti barbareschi, mentre la malaria rendeva una larga zona inabitabile, cosicché il nome di Porto si trasferì nel Medio Evo a Castelnuovo di Porto, vicino al Tevere, ben lungi dal porto di Traiano, che era il luogo suo originale, ed all’altra estremità della Diocesi Suburbicaria, che era stata formata con la riunione della Diocesi di Porto con quella di Santa Rufina – Selva Candida.
Ora mentre sarebbe poco ragionevole tentare la costruzione della Cattedrale in un luogo così eccentrico com’è l’Isola Sacra soggetto ad alluvioni e dove il getto delle fondamenta sarebbe oltremodo costoso, la Provvidenza sembra averci preparato la possibilità di avere una Cattedrale nel centro geometrico della Diocesi con spese relativamente limitate, qualora vogliamo terminare la Chiesa cominciata nel 1926 in località detta “La Storta”, al Km. 17 sulla via Cassia. Tale Chiesa, la cui ubicazione fu scelta in relazione con un episodio della vita di S. Ignazio di Loyola, che ebbe colà una importante visione, si trova in un luogo bene elevato, a 170 m. sul livello del mare e in una posizione tale che si può scorgere da quasi tutti i punti della Diocesi. Il Tempio della Storta è stato lasciato in abbandono per più di 20 anni ma i muri sono in ottimo stato di conservazione ed i lavori recentemente eseguiti per rettificare il tracciato della via Cassia sono stati fatti in modo tale che la Chiesa vi ha guadagnato in grandiosità, perché resa accessibile a mezzo di un maestoso scalone. La Chiesa ed il terreno sul quale essa è fabbricata, sono proprietà della Diocesi. Mentre dunque mi sforzerò di ottenere aiuti anche fuori della Diocesi, vi domando di incoraggiarmi nel compito che son disposto ad assumermi, di dotare cioè la Diocesi di Porto e Santa Rufina della degna Cattedrale”
Con il patrocinio di Maria Pellegrina (Peregrinatio Mariae – 1950)
La nuova Cattedrale sulla via dei pellegrini
E’ ancora il Cardinale Tisserant che, nella sua settima lettera Pastorale del 1950 manifesta alla diocesi il suo canto di lode e di ringraziamento al Signore per il dono della nuova Cattedrale spiegando il doppio titolo della sua dedicazione:
“Il programma della nostra Peregrinatio Mariae è stato combinato in modo che si termini nel giorno dell’Annunziata. Principiata l’8 dicembre, quando la Chiesa commemora la creazione dell’anima purissima di Maria, preservata nella sua Concezione dalla macchia del peccato originale, la visita della Madonna alle parrocchie e cappelle della Diocesi si concluderà nel giorno in cui si celebra la venuta nel suo seno del Figlio di Dio. Quel giorno, a Dio piacendo, avrà luogo la consacrazione della chiesa della Storta, completata per diventare la Cattedrale della diocesi suburbicaria di Porto e Santa Rufina, e, alla sera, Maria vi farà il suo ingresso solenne, affinché il suo simulacro vi dimori esposto alla venerazione di tutti.
Vi rammento brevemente la storia della nostra futura Cattedrale. Quando i pellegrini di Roma, che procedevano dal Nord attraverso il Viterbese arrivavano a quel tratto della Via Cassia, che per lasua sagoma diede alla località il nome di “Storta”,usavano salire sul monticello che dominava la strada ad occidente. Di là scorgevano a sinistra di Monte Mario la pianura di Roma e dal 1588 in poi, a destra dello stesso monte, la parte superiore della cupola di San Pietro. Potete immaginare la gioia di coloro che dopo giorni e giorni di penoso viaggio,
in carri, a cavallo o a piedi, vedevano finalmente a poche miglia la mèta della foro fatiche. Un canto di ringraziamento,un tripudio di lodi prorompeva dai loro petti: Te Deum, Benedictus, Magnificat, e ringraziavano con una preghiera ardente il Signore e la Sua Beata Madre, che li avevano protetti in mezzo a tanti pericoli su strade non sempre sicure, e conservati in salute. Una cappella era stata eretta sul cucuzzolo della collinetta, che non servendo per il ministero abituale dei pochissimi abitanti della zona era divenuto presto fatiscente.Verso la fine di novembre 1537 alla Storta passava s. Ignazio di Loyola, che procedeva verso Roma accompagnato da Pietro Fabro e da Giacomo Lainez; passava alla Storta e vi riceveva da Dio promesse per l’avvenire della sua Società.
La memoria della visione di S. Ignazio è rimasta fissata nella cappella che sorge sull’orlo della Via Cassia, ma tale cappellina sembrò insufficiente ad un Gesuita tedesco, il compianto P. Leopoldo Fonck, che, professore a Roma, amava far frequenti camminate attraverso l’Agro Romano e volentieri si raccoglieva alla Storta nel ricordo del suo beato Padre. Egli era devotissimo del Sacro Cuore e della Suora Visitandina che ricevette nel 1673 il Suo messaggio, S. Margherita Maria Alacoque, la cui canonizzazione era vicina quando il Padre tornò a Roma alla fine della prima guerra mondiale. P. Fonck sogno allora di fabbricare alla Storta, pensando anche alla cura pastorale dei contadini dell’Agro Romano, la prima chiesa che sarebbe stata dedicata alla Santa prediletta del S. Cuore di Gesù dopo la sua canonizzazione e cominciò a raccogliere fondi. Ma il suo piano era troppo grandioso e nel 1926 dovette abbandonare la costruzione senza poterla terminare, morendo poi nel 1930, fuori Roma.
Oggi, parecchie chiese sono state dedicate nel mondo a S. Margherita Maria e lo scopo che si era prefisso P. Fonck è caduto da sé. Siccome poi le somme spese dal 1946 a tutto’oggi superano assai quelle raccolte dal P. Fonck, ho deciso di dedicare la nostra nuova cattedrale al Redentore ed alla Sua amata Madre, sotto il doppiotitolo che manifesta tanto bene il loro amore per l’umanità, dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria. La nostra Madonna Pellegrina vi ha mostrato durante le ultime settimane le ricchezze del suo Cuore, tanto graziosamente additato dal Bambinello sorretto dal suo braccio sinistro: per il simulacro di Maria disporremo perciò un degno trono e vi ringrazio fin d’ora di quanto avete offerto per la decorazione della cappellina in cui sarà eretto”.
Le fatiche sopportate per la costruzione del nuovo Tempio
Dopo dieci anni di episcopato, nella 13 lettera pastorale del 15 aprile del 1956, il Cardinale Tisserant apre ancora il suo cuore di padre e pastore per raccontare alla sua chiesa diocesana le cure prestate nella costruzione della nuova Cattedrale, del campanile e del complesso sant’Eugenio:
“Quando, ancora prima di optare in Concistoro,mi ero informato sulla situazione della Diocesi, mi ero posto subito il quesito: come intensificare la vita religiosa, senza una Cattedrale ed un centro diocesano? Il titolo di cattedrale era attribuito allora alla cappella dell’antica residenza dei Vescovi, vicina al Porto di Traiano; ma quella cappella era di cosi modeste dimensioni che non si prestava, né alla maestà delle cerimonie pontificali, né alla convocazione di adunanze numerose. Per di più, la stessa residenza aveva cessato di essere proprietà diocesana, da quanto il mio predecessore, il Cardinal Baggiani, l’aveva ceduta all’Istituto dei Figli di S; Maria Immacolata.
Ora accade che, proprio nei primi mesi del 1946 ricevetti l’invito di recarmi l’anno seguente negli Stati Uniti d’America in occasione del secondo centenario della fondazione di una Università, con la quale avevo avuto relazioni come addetto al governo della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il Santo Padre mi autorizzò ad assentarmi anche per un lungo periodo e cominciai a sognare che quell’invito poteva fornirmi l’occasione di risorse, con cui attuare la costruzione di una cattedrale. C’era a La Storta il rudere di una grande chiesa cominciata nel
1926 ed abbandonata da venti anni. La Storta si trovava al centro geometrico della Diocesi, almeno come questa si presentava prima dello smembramento delle due parrocchie di Grotta Rossa e Prima Porta. L’ubicazione del santuario sulla sommità di un cucuzzolo isolato e alto, conveniva ad una chiesa, destinata a diventare il centro spirituale di una vasta zona, dominata fino ai suoi primi margini dall’altura in questione.
Perciò quando, pochi giorni dopo la mia presa di possesso, fui autorizzato dal Santo Padre a cedere al Governo italiano una striscia di terreno, che doveva servire a rettificare il tracciato della Via Cassia, potei porre come condizione che il muro di sostegno avesse carattere monumentale, cosi come la scala di accesso alla futura cattedrale. Non ho domandato alla Diocesi nessun contributo per la costruzione della Cattedrale, consacrata il 25 marzo 1950, né per quella del campanile, terminato soltanto nel 1955, non per mancanza di fiducia nel vostro senso di collaborazione, ma perché sapevo che in molte parrocchie, se non in tutte, sarebbe stato necessario mettere in programma costruzioni di chiese o cappelle,rese indispensabili dal continuo aumento della popolazione dal 1900 a questa parte, e volevo lasciare integre le possibilità di concorsi finanziari locali.
Alcune circostanze provvidenziali mi hanno permesso di raccogliere i fondi per edificare la cattedrale, il suo campanile e la prima parte del Collegio Seminario, sviluppato poi, dall’Opera del Cenacolo nell’Istituto S. Eugenio; ho potuto, anche per altre costruzioni, interessare benefattori estranei alla Diocesi, la cui generosità merita la nostra viva riconoscenza”.
Il grande evento della visita di Papa Pio XII alla Cattedrale
Proprio 50 anni fa, il 27 ottobre del 1957 il Papa Pio XII compie il suo viaggio più lungo fuori delle mura Vaticane e da Castel Gondolfo.Ma lasciamo che sia ancora il Cardinale Tisserant nella sua 15 lettera pastorale del 1958 a raccontarci la straordinarietà e il significato di quella visita: “Si compiono in questi giorni dodici anni, da quando ho preso la responsabilità del governo della Diocesi di Porto e S. Rufina. In questo ultimo anno, oltre la solenne celebrazione del Sinodo diocesano, molto altro lavoro è stato compiuto. Sono fatti ed opere importanti, ma c’è stato quest’anno un avvenimento, che merita di essere ricordato in modo particolare, ed è la venuta del Sommo Pontefice a S. Maria di Galeria, per l’inaugurazione del nuovo centro radiofonico della Santa Sede, con la Sua visita alla Cattedrale della Diocesi di Porto e S. Rufina. Non potremo mai essere abbastanza riconoscenti a Pio XII, per quell’atto di sovrana condiscendenza. La bontà del papa per la Diocesi, manifestatasi già tante volte ed in tanti modi, ci obbliga ad uno speciale senso di gratitudine e spero che la vostra riconoscenza si manifesterà con una maggiore, affettuosa deferenza per l’augusta persona di Sua Santità ed una più perfetta ubbidienza a tutte le direttive, date dal Papa stesso o dalle autorità della Curia Romana, che sono interpreti del Suo volere. Soprattu pregherete per il Santo Padre, perché Iddio lo conservi in buona salute e Lo protegga contro tutti i pericoli, per il maggior bene della nostra Santa Chiesa.Affinché i nostri posteri rimangano edotti dal favore, che ricevemmo il 27 ottobre 1957, una lapide sarà inaugurata fra poco nella Cattedrale de La Storta, con un’iscrizione latina, che vi diamo qui in traduzione.“In questo tempio Cattedrale della diocesi di Porto e S. Rufina, cominciato nel 1926 dal P. Fonck S.J. e nel 1950 condotto a termine e consacrato dal Card. Eugenio Tisserant, Decano del S. Collegio e Vescovo della stessa diocesi, il 27 ottobre 1957 sosto molto volentieri il Sommo Pontefice Pio XII, diretto alla non lontana Galeria; il Quale volle cosi, con la Sua stessa augusta presenza, testimoniare all’Eminentissimo Cardinale, quanta compiacenza e quale benevolenza nutrisse verso di lui, sia per la costruzione del sacro tempio, si, e molto più per l’ammirabile zelo spiegato nel governo dei suoi fedeli.
Dall’ Osservatore Romano
L’ Osservatore Romano del 28-29 ottobre 1957 titolava in prima pagina, corredata da grandi foto dell’evento: Il Sommo Pontefice benedice ed inaugura con un suo messaggio al mondo il nuovo Centro della Radio Vaticana in Santa Maria di Galeria.
Fu proprio nel viaggio da Catelgandolfo a Santa Maria di Galeria, il viaggio più lungo fatto dal Pontefice, che il Papa, transitando per la via Cassia, si fermò a la Storta e visitò la Cattedrale ancora non del tutto ultimata.
Nella seconda pagina del giornale, nella cronaca del viaggio papale leggiamo il racconto della Visita: “Sua Santità partiva da Castelgandolfo verso le ore 9.00 in forma strettamente privata…il Santo Padre è stato acclamato lungo il percorso, dalla popolazione di Castelgandolfo e da numerosi gruppi di fedeli che attendevano sull’Appia, l’Appia Pignatelli, Ponte Garibaldi, il Lungotevere fino a Piazza della Rovere ,il Ponte Duca d’Aosta, Piazza Pasquale Paoli, il Lungotevere fino all’altezza di Valle Giulia, Ponte Flaminio, la Via Cassia Nuova e la Cassia Vecchia e la Braccianese. Particolarmente entusiastico il saluto dei malati di Villa San Pietro all’ingresso della clinica dei Fatebenefratelli. A la Storta, che fa parte della Diocesi Suburbicaria di Porto e Santa Rufina, Sua Santità è giunto alle ore 9.50 ed ha compiuto una breve sosta, salutato da una folla plaudente. Sulla porta della Cattedrale, consacrata il 25 marzo 1950, e dedicata ai Sacri Cuori di Gesù e Maria, attendeva l’Emm.mo Cardinale Decano del Sacro Collegio, Eugenio Tisserant, Vescovo di Porto e Santa Rufina. Erano con l’Emm.mo Cardinale il suo Vescovo Ausiliare, S. E. Mons. Pietro Villa e il Capitolo Cattedrale. Presente all’ingresso, S. E. Rev.ma Mons. Angelo Dell’Acqua., Sostituto della Segretaria di Stato. Il Cardinale porgeva l’acqua benedetta al Sommo Pontefice che, segnatosi, aspergeva la folla ed entrava nella Cattedrale,tra le filiali acclamazioni del popolo, recandosi ad adorare i Santissimo. Sua Emm.za Rev.ma il Cardinale Tisserant, illustrava quindi succintamente il tempio all’Augusto Pontefice, il Quale si soffermava pure esprimendo il Suo paterno compiacimento, dinanzi alle artistiche stazioni della Via Crucis,eseguite dal nipote del cardinale Prof. Albert Serrure, il quale ha riprodotto fedelmente il paesaggio e le varie località dei Luoghi Santi. Uscito dalla Cattedrale il Supremo Pastore, mentre le Associazioni di Azione Cattolica e la popolazione Gli rinnovano con entusiastica manifestazione l’attestato del loro filiale devotissimo affetto, dopo avere percorso in vettura parte del perimetro esterno della chiesa, proseguiva per Santa Maria di Galeria , ove giungeva alle ore 10.20”.
Una memorabile “ottobrata” romana :Racconto di un testimone
Tra i testimoni di quella Visita il Parroco di allora, Mons. Garlo Bessonnet che, nonostante la
sua veneranda età – quest’anno ha celebrato il 60° anniversario di ordinazione sacerdotale –
ricorda benissimo, in tutti i particolari, la visita del papa alla Cattedrale. Gli abbiamo chiesto di
raccontarla. La racconta come una “ Memorabile ottobrata romana”.
“Tante sono le chiese e i luoghi visitati dagli ultimi papi a partire da Giovanni XXIII che difficilmente si possono contare. Prima di papa Roncalli non era così; per quasi un secolo, dal 1870 fino agli anni 1960, i Sommi Pontefici sono stati molto sedentari.
In fondo alla nostra chiesa cattedrale, a destra del portone centrale, una lapide , scritta in latino, riporta l’evento.
L’avvenimento aveva allora un carattere singolare, eccezionale.
L’anno 1957 fu molto importante per la nostra Cattedrale.
Nei primi giorni di agosto, in coincidenza con il 50° anniversario dell’ordinazione sacerdotale del Cardinale Vescovo Eugenio Tisserant, vi si tenne il Sinodo diocesano: per tre giorni consecutivi tutto il clero è stato impegnato in un lavoro intenso di celebrazioni, discussioni, votazioni, ecc. portato avanti con slancio malgrado il gran caldo.
Nel cuore dell’estate giunse la notizia che il Santo Padre Pio XII, nel recarsi dalla sua residenza estiva di Castel Gandolfo a Santa Maria di Galeria per inaugurare il nuovo Centro trasmittente della Radio Vaticana, avrebbe fatto una sosta alla Storta.
Siccome allora, come l’abbiamo detto sopra, i Papi uscivano poco l’annuncio suscitò molto entusiasmo: La Storta sarebbe stata una tappa del più lungo viaggio effettuato da Papa Pacelli durante i quasi venti anni del suo pontificato! Fu deciso di addobbare sfarzosamente con tappeti e drappeggi la cappella del SS.mo Sacramento davanti al quale il Papa doveva fermarsi in adorazione. Le forze di sicurezza vennero per un sopralluogo minuzioso. Lo spazio destinato ai fedeli fu limitato al transetto destro della chiesa; molti parrocchiani della Storta dovettero accontentarsi di stare lungo la Via Cassia per vedere passare il Papa in macchina.
La domenica 27 ottobre fu una splendida giornata di sole. Nel cuore della mattinata, al suono delle campane inaugurate da poco, la macchina targata “SCV 1” si fermò davanti al portone centrale. Ossequiato dal Cardinale Eugenio Tisserant e accompagnato da Mons. Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato, Sua Santità Pio XII fece il suo ingresso dirigendosi poi a sinistra verso l’altare del SS.mo. Tutti si inginocchiarono; dall’altare maggiore sul quale era stato aperto il messale, in qualità di parroco io ebbi l’onore di cantare in latino l’orazione “pro Papa”. Dopo un momento di adorazione in silenzio, il Santo Padre impartì la Benedizione Apostolica, poi si fermò ad ascoltare con compiacimento alcune spiegazioni che gli diede il Cardinale prima di presentargli il suo vescovo ausiliare Mons. Pietro Villa, il cancelliere vescovile Mons. Tito Mancini e i membri del Capitolo Cattedrale, intervenuti al completo.
La visita durò poco più di un quarto d’ora.
Nel vedere l’aspetto fisico del Papa, che stava nel suo ottantunesimo anno di età, nessuno poteva prevedere che meno di un anno dopo, il 9 ottobre 1958, doveva morire.
Abituati come siamo ora, a partire dalla seconda metà del 20° secolo, allo stile pastorale delle visite dei papi possiamo rimanere sorpresi dal carattere protocollare della sosta di Pio XII. Tale gesto era comunque un segno di alto riconoscimento per lo zelo e la generosità del Cardinale Decano del Sacro Collegio a favore della Diocesi Portuense e fu al contempo un valido incentivo ed incoraggiamento per i sacerdoti e gli operatori pastorali di allora. Il Papa fece dono alla Cattedrale di un bel calice.
Per molto tempo in Cattedrale nelle sante messe dell’ultima domenica di ottobre, suffragando la sua anima, si fece memoria del “Pastor Angelicus” Eugenio Pacelli nel ricordo del suo ultimo viaggio, una bella e indimenticabile ottobrata romana”.
[1] Tutte le citazioni da Leopoldo Fonck S.J “La Storta” Un antico santuario di S. Ignazio di Loyola alle porte di Roma. Roma, 1924.
FOTO GALLERY-Le Foto originali sono di Franco Leggeri
FOTO GALLERY-Le Foto originali sono di Franco Leggeri
ROMA-Castel di Guido-Scavi Archeologici nella Villa Romana delle Colonnacce
CASTEL DI GUIDO-Roma Municipio 13- Villa Romana delle Colonnacce .
I Volontari del Gruppo Archeologico Romano (GAR) nel Fotoreportage di Franco Leggeri nella Villa Romana delle Colonnacce.I Volontari capitanati dall’Arch. VALERIA GASPARI hanno ripreso, a pieno ritmo, gli scavi nella Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido. La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale. La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono, catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Contessa di Bertinoro dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “. Ricordiamo il recente, superbo, lavoro della Dott.ssa Daniela Rossi nel quartiere Massimina sulla via Aurelia. La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela.Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .
Note a margine dell’articolo-
Oggi erano presenti, tra gli altri, il mitico Archeologo VINCENZO ARNESE, ATTILIO PASSERINI in rappresentanza del CRSA –SOTTERRANEI di ROMA- il simpaticissimo NICOLA CURCIO e alla sua prima uscita sul campo la Dott.ssa ALESSIA NATALE-Oggi è venuto a visitare gli scavi anche il Dott. STEVE BASLEY famoso ornitologo inglese.
Si consiglia anche la visita all’Oasi Lipu di Castel di Guido, adiacente alla Villa romana, la Direttrice dell’Oasi è la Dott.ssa Alessia de Lorenzis-
Contatti -Tel.328 55 69123-e.mail:. oasi.casteldiguido@lipu.it
Articolo e Foto di FRANCO LEGGERI per Associazione CORNELIA ANTIQUA
AGRICOLTURA-L’aratro pesante invenzione che cambiò il mondo dell’agricoltura medievale-
AGRICOLTURA-L’aratro pesante-La grande invenzione che cambiò radicalmente il mondo dell’agricoltura medievale fu quella dell’aratro pesante. In epoca antica e durante l’alto medioevo era ben noto il cosiddetto aratro semplice, uno strumento a vomere (la parte che taglia la terra) simmetrico e in legno che riusciva a malapena a scalfire superficialmente le zolle del terreno e quindi non rimescolava granché la terra, garantendo raccolti di scarsa rilevanza.
Inoltre erano strumenti molto fragili, che poco si adattavano al duro terreno del nord Europa, che in effetti neppure i romani avevano mai coltivato in maniera seria e continuativa (per non parlare dei barbari, che spesso non ci provavano neppure).
Dal nord della Francia al resto d’Europa
Attorno all’undicesimo secolo, però, nel nord della Francia fece la sua comparsa un nuovo tipo di aratro, chiamato presto aratro pesante, in cui il vomere era asimmetrico, mentre lo strumento in generale era dotato di ruote e, dato che non doveva più essere per forza spinto da un uomo e poteva essere quindi appesantito per farlo entrare più in profondità, necessitava di essere attaccato a buoi o cavalli.
Fu una rivoluzione: l’aratro pesante, come il nome lascia intendere, penetrava più profondamente nel terreno, rimestando completamente le zolle e garantendo una produttività maggiore dei campi. Questo favorì, nel giro di pochi decenni, un poderoso aumento demografico che solo la venuta della peste avrebbe interrotto; inoltre, buoi e cavalli trovarono ampio impiego, anche grazie alle successive invenzioni del giogo frontale per i primi e del collare da spalla per i secondi, portando anche a una sempre più netta distinzione tra contadini ricchi – che potevano permettersi il nuovo aratro, già di per sé costoso, e gli animali che servivano a metterlo in funzione – e contadini poveri.
Le innovazioni agricole nel basso Medioevo
Nel basso Medioevo, a partire dall’anno Mille, l’aumento della produzione agricola porta ad una crescita demografica che favorisce la nascita di nuovi borghi. I maggiori raccolti non solo soltanto favoriti da un miglioramento del clima ma anche dall’introduzione di alcune innovazioni.
La produttività del suolo è in rapporto strettissimo con la quantità e la qualità delle arature. I progressi più significativi sono almeno quattro: l’aratro pesante, il collare da spalla, il ferro da cavallo e il mulino.
L’aratro pesante
L’invenzione dell’aratro pesante aumenta la qualità dell’aratura.
Nei secoli prima del Mille, i contadini utilizzano l’aratro semplice con il vomere in legno temperato che finisce a punta di freccia e si limita a scalfire superficialmente la terra, non rovescia le zolle e richiede un massiccio lavoro manuale con la vanga per completare l’opera. Per il contadino, quindi, la fatica è maggiore.
Tra il XI e il XII secolo, invece, fu inventato un aratro a vomere asimmetrico e versoio di ferro, dotato di avantreno mobile e di ruote. Questo aratro pesante penetrava in profondità e. per mezzo del versoio, ribaltava la zolla.
Nel XII secolo, si iniziò anche ad arare quattro volte all’anno consentendo alla terra di ossigenarsi maggiormente aumentando così la sua fertilità.
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
Autore dell’Articolo-Avv. Paolo Amoroso.
Pozzaglia in Sabina -2 novembre 2015-Santa Maria in Valle è stato un monastero rurale benedettino oggi in rovina che si trova nel comune di Pozzaglia in Sabina sul limitare dell’esteso altopiano che costituisce il fondovalle del torrente Muzia, un insignificante ma perenne corso d’acqua tributario del Fosso Corese. Fondato probabilmente nel corso del X secolo, rimaneggiato ed ingrandito prima nel XIII secolo ed ancora nel trecento, quindi abbandonato all’inizio dell’ottocento ed infine utilizzato come cimitero fino al parziale restauro risalente alla metà del novecento, conserva i ruderi della chiesa conventuale dalla facciata a capanna risalente al secolo XI, torre campanaria ed abside duecenteschi.
La valle del torrente Muzia ben si prestava all’insediamento umano malgrado la sua altitudine – circa 700 metri sul livello del mare – sia già montana. Il fondovalle del torrente infatti è composto da un esteso altopiano solcato da ruscelli e punteggiato da collinette dai fianchi poco acclivi lungo i quali era semplice praticare l’agricoltura. Il terreno era ovunque morbido ed ubertoso, le vicine montagne offrivano abbondanti pascoli estivi nonché molto legname, l’altitudine proteggeva dalla malaria ed anche l’acqua era abbondante per tutto l’anno.
Anche se né l’ulivo né la vite riescono a crescere ad un’altitudine così elevata, i terreni pianeggianti del fondovalle potevano comunque essere utilizzati indifferentemente come pascoli invernali, impiego per il quale erano molto versati, oppure per la coltivazione di legumi, cereali minori e forse anche del grano mentre i poderi adiacenti al greto del torrente potevano essere adibiti ad orti senza particolari difficoltà e con buone rese. Tutte queste risorse garantivano con poco sforzo una produzione alimentare largamente superiore alle necessità di una piccola comunità monastica, ragione della prosperità dell’abbazia.
Altro vantaggio della Valle del Muzia era l’isolamento, che proteggeva chi ci viveva dai pericoli esterni, conseguenza dell’orografia molto accidentata della porzione orientale dei Monti Lucretili che la rende ancora oggi la loro parte meno popolata. Quando i monaci giunsero in quella contrada, in un momento per noi insondabile nel corso del X secolo, si stabilirono sulla cima di una collinetta bassa ma dai fianchi abbastanza ripidi, prossima al corso d’acqua, in un posto protetto dal vento e dai ladri, vicino all’acqua e non distante dai campi. Non sembra che temessero granché per la loro incolumità perché non risulta che abbiano fortificato, neppure debolmente, il luogo dove pure vivevano, circostanza che lascia supporre che i dintorni fossero al tempo completamente spopolati.
Appena qualche decennio dopo la sua fondazione e comunque non molto dopo l’anno mille, il cenobio raggiunse un livello di prosperità tale da potersi permettere il lusso di una grande chiesa conventuale in pietra ad una sola navata e con la facciata decorata in stile a capanna, che era quello in voga al tempo. Per tutto il XI secolo costruire edifici in pietra nelle campagne era un’impresa non banale: bisognava trovare personale capace di edificarli in un’epoca in cui i lavori edilizi erano infrequenti, convincerlo ad andare a lavorare in un posto comunque sperduto e disagevole, dargli da mangiare ed un riparo per i diversi anni necessari al completamento dell’opera quindi occorreva in qualche modo remunerare chi la costruiva.
La lavorazione della pietra coinvolgeva tante professionalità diverse: c’era il cavatore che estraeva il blocco dalla cava, lo scalpellino che rendeva i blocchi di dimensioni regolari, il facchino che li trasportava fino al cantiere, l’addetto alla fabbricazione della calce, che comunque doveva avvenire nei dintorni, ed il mastro che costruiva il muro pietra dopo pietra. Gli interni dovevano poi essere abbelliti e ciò richiedeva l’impiego di altri artigiani che dovevano essere anche loro trovati, convinti ad occuparsene quindi retribuiti.
Della chiesa edificata nel XI secolo altro non si è conservato che la facciata e non è chiaro se il suo perimetro ricalcasse quello dell’edificio duecentesco oggi visibile. Le dimensioni di ciò che ne resta, però, lasciano intendere che fosse una chiesa molto grande per gli standard del tempo, sicuramente molto più delle necessità della relativamente piccola comunità monastica che gli viveva intorno. Come sempre nel medioevo, la chiesa conventuale serviva ad ostentare la ricchezza del monastero molto più che come luogo di preghiera anche perché, così grande e non riscaldata, doveva essere anche molto fredda specie in inverno. In ogni caso, già nel XI secolo l’abbazia – che era indipendente da quella di Farfa con cui confinava – possedeva la quasi totalità dei terreni intorno e parecchi castelli nei dintorni, sintomo del suo non modesto benessere.
Il XIII secolo sembra sia stato il periodo d’oro del monastero anche se le fonti scritte sono scarse e lacunose. Nel 1219 un certo abate Lanfranco commissionò estesi lavori di restauro della chiesa conventuale che la portarono ad assomigliare a ciò che ne resta al giorno d’oggi. A questo periodo risale il campanile a pianta quadrata, il reperto di maggior pregio e meglio conservato del complesso. La torre, alta circa venti metri, si presenta divisa in due zone separate da una sottile cornice: quella inferiore priva di aperture ed una superiore con quattro ordini di finestre secondo la successione di monofore, bifore e di due piani di trifore.
Malgrado sia stata più volte danneggiata dai fulmini si presenta in discreto stato di conservazione e quasi intatta ad eccezione del tetto, mal ricostruito negli anni ’50. Sempre al duecento sembra risalga l’abside sopraelevato della chiesa che pure si è ben conservato. Costruito in pietra del luogo e rivestito di lastre regolari di buona fattura su cui era probabilmente steso l’intonaco poi affrescato, venne in seguito chiuso da un muro ben conservatosi, fornito di una porta e di una finestra dipinta probabilmente per puntellarne la struttura vistosamente pericolante.
Nulla resta del sottostante altare. L’unica navata era separata dall’abside da un largo transetto, quasi certamente duecentesco, che collegava la chiesa al retrostante convento, il cui tetto era sorretto da quattro grandi archi a sesto leggermente ribassato con ghiera a conci squadrati poggiati su tozze semicolonne dai capitelli di forme diverse, probabilmente materiale di spoglio. Sotto l’altare doveva essere presente una cripta, costruita in epoca ignota ed adibita fino alla metà dell’ottocento ad ossario, di cui resta un buco nel pavimento del transetto in corrispondenza del luogo in cui doveva trovarsi l’altare maggiore.
La chiesa subì ulteriori rimaneggiamenti nel corso del XIV secolo come testimoniano gli archi a sesto acuto che costituiscono gli architravi delle porte oggi murate ma ancora visibili lungo il suo perimetro. Il trecento, del resto, sembra sia stato un periodo ancora di prosperità per il monastero che è citato in due missive risalenti all’epoca del pontificato di Papa Giovanni XXII, inviate rispettivamente nel 1330 e nel 1333, tramite le quali all’abate di Santa Maria vengono affidati incarichi nel territorio della Sabina. Nel 1343 una visita apostolica elenca beni e proprietà dell’Abbazia e ne evidenzia la prospera situazione amministrativa.
Trenta anni dopo, nel 1373,
incarica da Avignone l’abate di San Lorenzo fuori le mura, di riportare all’ordine una serie di monasteri tra i quali spicca proprio l’Abbazia di Santa Maria del Piano. A partire dalla metà del quattrocento, la prosperità dell’abbazia si ridusse fortemente anche se non sono ben chiare le ragioni economiche di questo declino. Comunque, seppur lontano dai fasti del passato, il convento continuò ad essere abitato fino al tardo settecento, quando ancora vi viveva ancora un singolo eremita, e venne infine soppresso nel 1809 quando gli edifici che lo componevano erano ancora in buono stato di conservazione.
Nel 1855 Orvinio venne colpito da un’epidemia di colera ed in mancanza di un cimitero in cui inumare i morti si pensò di utilizzare a questo scopo il monastero ormai in abbandono. Per trasformarlo in un camposanto la struttura venne stravolta: furono infatti scardinate le porte, scoperchiato il tetto, divelto il mattonato e murato l’ingresso principale. Inoltre si procedette ad uno scavo continuato al di sotto del pavimento ed in tutta l’area del Monastero al fine di ricavare i loculi entro cui inumare i cadaveri.
Un secolo dopo, nel 1952, quando ormai l’abbazia era completamente in rovina, la chiesa di Santa Maria, unico edificio di cui si fosse conservato qualcosa, venne restaurata dalla sovrintendenza ai ben culturali con grandi spese per riportarla allo stato originario. In questa occasione furono anche disseppelliti i morti collocati dentro il monastero un secolo prima a cui venne data migliore sepoltura nel cimitero di Orvinio. Tuttavia, alla fine dei lavori il complesso venne di nuovo abbandonato senza nessuna sorveglianza né alcun tentativo di valorizzazione turistica peraltro difficile perché il luogo in cui si trova Santa Maria del Piano è indubbiamente molto sperduto.
Così, nel corso degli anni ’70, i ruderi dell’abbazia furono depredati di qualunque oggetto artistico potesse essere rimosso senza pregiudicare la stabilità dei muri superstiti fra cui il rosone duecentesco rubato nel 1979. Del monastero al giorno d’oggi resta poco o nulla, tranne forse alcuni muri di difficile lettura sul lato della chiesa sul quale si affaccia il campanile. Della chiesa si sono ben conservati i muri perimetrali, la facciata e l’abside mentre del transetto resta abbastanza poco. Peraltro, sono in corso lavori di restauro volti ad arrestare il degrado della struttura che vengono compiuti però con poca attenzione alla conservazione delle murature originali e con gusto artistico a volte molto discutibile.
L’autore dell’articolo è Paolo Amoroso, soprannominato Aioe fin da ragazzo, di professione Avvocato penalista, con la passione per l’aria aperta, la storia medievale e l’informatica.
La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
-Pillole di storia a cura di Franco Leggeri-
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
Pozzaglia Sabina–Santa Maria del Piano-Bolla papale del XIII sec. Biblioteca DEA SABINA
Archivio di Stato di Rieti
UNA BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLO NEL PATRIMONIO DEL NOSTRO ARCHIVIO
Il patrimonio dell’Archivio di Stato di Rieti
si arricchisce di un importante e antico documento. Si tratta di una bolla papale, una “lettera graziosa”, di Onorio III indirizzata all’abate di Santa Maria del Piano a Pozzaglia Sabina e risalente al 1218.
L’acquisizione al patrimonio dell’Archivio reatino è stata possibile grazie all’impegno congiunto della Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio e della Direzione generale archivi del Ministero della Cultura.
Tra alcuni giorni, dopo le necessarie fasi di catalogazione, il documento sarà disponibile per la consultazione al pubblico.
Da sottolineare, inoltre, la particolare importanza di questa bolla poiché coeva al periodo di massimo splendore dell’abbazia e che ci fornisce nuovi e utili dati sul medioevo nel territorio reatino.
Franco Leggeri Fotoreportage -L’Alba nella Campagna Romana
La Campagna Romana-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma. Il paesaggio
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne. Territorio
Dal libro: Fotoreportage per raccontare Roma e la sua Campagna Romana
di Franco Leggeri.
La bellezza, la poesia e la “bioarchitettura” del Viale dei pini nella Campagna Romana. V.le del sito Archeologico Torre della BOTTACCIA-Brano e Fotoreportage tratto dalla Monografia “Torri Segnaletiche-Saracene della Campagna Romana “di Franco Leggeri.
L’ecologia è un concetto che fa parte della coscienza universale, di cui dobbiamo essere ogni giorno sempre più consapevoli. Il grande scienziato della natura e poeta Goethe riassume tale consapevolezza con queste parole: “Nulla si impara a conoscere, se non ciò che si ama, e più forte è l’amore tanto maggiore sarà la conoscenza”. Imparare a “godere” dello spazio naturale che ci circonda è uno strumento di straordinario valore per diffondere e sedimentare nell’agire una vera e propria cultura della sostenibilità. In tal senso, probabilmente la più spontanea e potente istanza pedagogica è proprio il paesaggio, capace di impartire una sua prima e fondamentale educazione implicita: il paesaggio è infatti come scrive , molto bene, nel suo saggio ”Paesaggio Educatore” il Regni R. “ maestro di una cultura dell’ascolto dell’armonia dell’uomo e del cosmo, propria di un ambiente come realtà da condividere e non solo come qualcosa a cui badare”(Ed.Armando -2009). L’ammirazione per lo splendore della natura è il motore che genera e, conseguentemente, moltiplica in ognuno di noi , sin dalla più giovane età, i sentimenti di affezione , rispetto e curiosità verso il patrimonio ambientale che ci circonda. D’altra parte tale affezione e desiderio di cura tutela non può che scaturire dalla conoscenza e dalla relazione . Ci è istintivamente estraneo ciò che non conosciamo, con cui non possiamo dialogare per assenza di codici condivisi e a cui non siamo socializzati . L’estraneità si supera a mio avviso, solo attraverso un flusso comunicativo e relazionare che deve essere continuamente alimentato e che dà luogo ad una empatia prodromica a comportamenti di cura , tutela e di salvaguardia . Per recuperare i “codici” che ci consentono , nell’ascolto, di comprendere il linguaggio della natura bisogna , infatti, conoscere quest’ultima, perché solo coltivando una conoscenza profonda e radicata , ma anche istintiva, di qualcosa possiamo affezionarci ad essa, amarla e far crescere in noi il desiderio spontaneo di difenderla e preservarla.
Campagna romana
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Campagna Romana. Comune di Fiumicino-Torre di Maccarese nota come Torre Primavera
foto originali(2019) di Franco Leggeri per REDREPORT.
La torre “Primavera” si trova nel Comune di Fiumicino nei pressi di Fregene in fondo a viale Clementino nord-ovest. Fu fatta edificare sui resti di un’antica villa di Ciriaco Mattei in località “Primavera” alla foce dell’Arrone. Il nome “Primavera”, che riguarda l’intera area circostante la torre, deriva dal microclima particolarmente favorevole a cui la zona è soggetta. E’ qui che viveva la mandria di bufale degli antichi proprietari della zona, i Rospigliosi.
Oltrepassato il caseggiato ci appare la massiccia mole della torre Primavera, alta 15 metri e a pianta quadrata. La torre possiede 4 piani e ogni piano ha un salone e due stanzette e per salire in cima c’è una scala. All’interno della torre c’è una botola che conduce ad un passaggio sotterraneo, che passa sotto l’Arrone. E’ molto profondo e lungo circa un kilometro e porta fino al Castello di Maccarese. La torre subì nel’ 500 un restauro che modificò la parte inferiore rendendola a sperone e rinforzò gli angoli con l’inserimento di blocchi di travertino. Fu voluta come molte altre torri di avvistamento, da Pio IV per sventare il pericolo delle incursioni Saracene che affliggevano frequentemente le popolazioni costiere.
L’ambiente naturale è purtroppo oggi deturpato dalla presenza del depuratore di Fregene. Fu comunque in occasione dei lavori di installazione di questo impianto, che fu ritrovata una barca romana che localizzerebbe in quest’area l’antico porto di Fregene. L’architetto Maurizio Silenzi nel suo libro “Il Porto di Roma” sostiene una suggestiva tesi che afferma la localizzazione di un porto sul fiume Arrone e la presenza di un faro allineato con quello più noto del porto di Claudio di Fiumicino. La torre Primavera sarebbe stata ubicata e costruita proprio sopra i resti del faro di Claudio. Silenzi porta a prova di ciò anche alcuni rilievi topografici e un’analisi approfondita del materiale esistente sotto l’intonaco più recente della torre che presenta l’inserimento di numerose pezzature marmoree bianche reperibili solo in siti dove sono presenti manufatti del periodo romano. L’Architetto afferma che la torre è stata costruita ristrutturando, in parte, murature esistenti con mattoni di fornace più recenti e mescolando materiali marmorei recuperati che facevano parte di un’antica costruzione riferibile al faro sull’Arrone.
Sulla torre Primavera c’è anche un’altra curiosità da riferire: forse le torri erano due! Infatti alcuni archeologi hanno individuato i resti di una costruzione antica anche sulla sponda di ponente dell’ Arrone. C’era un tempo dunque in cui le costruzioni erano due, ipotesi suggestiva ma probabilmente i resti sono di una villa della famiglia dei Cesi da cui prende il nome la zona Cesolina.
FIUMICINO-Torre di Maccarese nota come Torre Primavera
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