-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
NANCY CUNARD, la poetessa dalla vita intensa e spericolata….
LA POETESSA PIÙ BELLA DEL MONDO NANCY CUNARD,EREDITIERA, MUSA DI HUXLEY E MAN RAY, AMANTE DI POUND, ELIOT E ARAGON, VIAGGIATRICE E PASIONARIA, FU LA PRIMA A PUBBLICARE BECKETT CON LA SUA CASA EDITRICE – IMITATISSIMO IL SUO STILE: CILINDRO, ABITI D’ARGENTO, BRACCIALI E CAPELLI CORTI – NON SPOSATA, RIBELLE, FUMAVA, BEVEVA E AMAVA IL SESSO-Articolo scritto da Eleonora Barbieri per “il Giornale”
Quando nel 1925 scrive Parallax, Nancy Cunard ha in mente due uomini: T.S. Eliot e Ezra Pound. Il primo perché, due anni prima, aveva scritto La terra desolata, che è il modello per il poema lungo della Cunard; le due opere sono pubblicate dalla stessa casa editrice, la piccola e prestigiosa Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf.
Il secondo perché era stato proprio Pound, dopo avere letto le poesie della raccolta Outlaws del 1921, a spingere la Cunard a continuare a scrivere, spiegandole, in una lunga lettera, che doveva riuscire a «rendere il discorso della poesia perfino più vivido di quello della prosa» e ricordandole che «l’arte è lunga».
In quella lettera, Pound le diceva anche quanto desiderasse che Nancy tornasse a Parigi. La loro storia d’amore, lunga cinque anni, era già cominciata. In realtà anche Eliot era stato amante di Nancy Cunard, pur se per una notte soltanto, nell’estate del ’22: anche se la disapprovava, e la considerava una tentatrice (in seguito l’aveva perfino dipinta come una prostituta, sotto le spoglie di Fresca, in una parte della Terra desolata che Pound lo convinse a tagliare), nemmeno lui era riuscito a resisterle, come lei stessa raccontò in una Lettera in versi scritta dopo la morte del poeta nel gennaio del 1965 (lei morì due mesi dopo), e pubblicata ora nei Selected Poems, una raccolta di poesie, in parte inedite, a cura di Sandeep Parmar (Fyfield Books).
Del resto era difficile, quasi impossibile resistere a Nancy Cunard. Nata nel 1896 a Nevill Holt, nel Leicestershire, in una residenza immensa (il salone da solo era più grande della New York Public Library), erede di un impero di costruttori navali baronetti dai tempi della Regina Vittoria, discendente di Benjamin Franklin, figlia di un padre, Bache, interessato soltanto alla caccia e alla campagna inglese e di una madre americana ricchissima, Maud, arrivata in Europa per ottenere un titolo e entrare nell’alta società politica, aristocratica e letteraria di Londra (e Lady Cunard ne fu una regina), Nancy si abitua subito ad alcune cose poco comuni, specialmente per l’epoca: i suoi genitori vivono vite separate;
la madre ha decine di amanti, e non li nasconde affatto; il suo primo amico a quattro anni non è una bambina, bensì il romanziere irlandese George Moore, amante della madre, a cui resta legata per tutta la vita e che le fa da padre insieme a Norman Douglas; viaggia e viene istruita per tutta Europa; ai balli e ai tè organizzati da Lady Cunard arrivano Somerset Maugham, i Balfour, gli Asquits, Pound (che chiede soldi per sostenere James Joyce mentre scrive l’Ulisse), Eliot…
Ereditiera, poetessa, editrice per tre anni, come racconta nel libro, ricchissimo di aneddoti, These were the Hours – Memories of My Hours Press, scrittrice, giornalista in prima fila durante la guerra di Spagna, pasionaria quasi ossessiva per le cause della repubblica in Spagna e per la difesa della cultura e dei diritti dei neri in America (sua è la raccolta Negro, una antologia che è la prima nel suo genere, e che nel ’34, quando esce, è accolta con derisione perfino dalla stampa di sinistra), collezionista di arte «primitiva» dall’Africa all’Oceania e, in particolare, di vistosissimi braccialetti d’avorio che portava a decine fino al gomito, amante di artisti, poeti, scrittori e musicisti celebri, fra cui T.S. Eliot, Samuel Beckett e Pablo Neruda (tutti anni prima del Nobel…) e poi Ezra Pound, Louis Aragon, Tristan Tzara e Aldous Huxley, Nancy Cunard era una donna bellissima e magnetica.
Gli occhi enormi e blu, la figura esile, la voce dolce e acuta insieme, la falcata leggendaria. E poi lo stile, imitatissimo per il resto del secolo, dal cilindro agli abiti d’argento, dai quattrocento bracciali ai capelli corti, una giovane donna non sposata (lo fu per pochissimi anni, con un soldato australiano), ribelle, che fumava e beveva e non si negava nulla.
Così racconta Anthony Thorne nel volume Nancy Cunard. Brave Poet, Indomitable Rebel (1968, a cura di Hugh Ford) che raccoglie i ricordi di amici e ammiratori: «Un giorno una ragazza mi ha detto: Entro in una stanza e in fondo c’è la donna più bella che abbia mai visto. Poi mi avvicino e mi rendo conto che è Nancy Cunard».
Thorne incontra Nancy per la prima volta a Venezia, dove lei versa una flûte di champagne nel Canal Grande in nome di un suo vecchio amore, il jazzista di colore Henry Crowder; poi, dopo una notte insieme, lasciano il palazzo a bordo di una gondola. Undici anni dopo, di nuovo a Venezia, Thorne ritrova lo stesso gondoliere che ricorda esattamente Nancy.
Anche quando è ormai anziana, zoppicante, rovinata dall’alcol, dalle malattie respiratorie e dalla magrezza eccessiva, se entra in un locale, o si presenta a teatro, tutti gli occhi si volgono immediatamente verso di lei, e nel silenzio che si crea si sente solo il tintinnio dei suoi bracciali. Questa è Nancy Cunard, «un corpo come una scultura» a detta di Langston Hughes, che collaborò a Negro.
Non soltanto una avventuriera: lo è stata, nel sesso (si dice che si sia fatta asportare l’utero per avere libertà totale), nelle abitudini quotidiane, nei viaggi per mezzo mondo, nelle cause sposate spesso d’istinto.
Ma è stata una figura letteraria, e non soltanto come musa, anche se ha ispirato Huxley (innamorato perso, l’ha riprodotta in varie sue eroine), il bestseller degli anni Venti Green Hat di Michael Arlen, Aragon (che fu quasi sul punto di sposare), Tzara, Evelyn Waugh, Pound e Neruda, e poi pittori come Oskar Kokoschka e Alvaro Chile Guevara, fotografi come Man Ray e Cecil Beaton, lo scultore Brancusi. Williams Carlos Williams, che giocava a tennis con lei e Hemingway, la definì «uno dei più grandi fenomeni di quel mondo», gli anni Venti.
La prova della sua sensibilità letteraria, oltre che nelle opere di poesia, è soprattutto nella sua attività di editrice e curatrice di raccolte. L’avventura della sua Hours Press comincia nel 1928 e finisce nel 1931. Nasce in Normandia, a Réanville, in una casa di campagna acquistata e arredata da Nancy con grande amore (sua madre riteneva che «solo i banali hanno bisogno di una casa»); poi si sposta a Parigi, in rue Guenégaud, a due passi dalla Galleria Surrealista.
Londra non era la città giusta per Nancy, anche se si era creata una sua «Corrupt Coterie», cenava con Keynes e Lytton Strachey, frequentava i Woolf (poco, perché Virginia era gelosa…). È a Parigi, nei primi anni Venti, che trova il suo mondo: fra i Surrealisti e i Dada, tutti suoi amici e spesso amanti, ospiti fissi nel suo appartamento all’Île Saint-Louis, che era appartenuto a Modigliani.
In nemmeno quattro anni la Hours Press pubblica 23 libri di pregio, con copertine firmate da artisti come Man Ray, John Banting, Yves Tanguy: in catalogo vanta George Moore, l’amico che le garantisce un esordio da «tutto esaurito»; Louis Aragon che traduce l’«intraducibile» Caccia allo Snark di Lewis Carroll; due titoli di Norman Douglas; Mes Souvenirs, saggi scritti apposta per lei da Arthur Symons, il critico letterario che «esportò» Verlaine e i simbolisti Oltremanica; le poesie di Robert Graves e Laura Riding; i versi di Richard Aldington (suo è il bestseller della casa editrice, Last Straws); This Chaos di Harold Acton, per il quale Nancy è stata «la Gioconda degli anni Venti»; i primi trenta Cantos di Pound (A Draft of XXX Cantos); una raccolta di poesie di John Rodker, editore di Eliot e della «più bella edizione dei Cantos» di Pound, secondo la stessa Cunard. Le promette «qualcosa» James Joyce, «il mio visitatore più famoso in rue Guenégaud», dove si reca con insistenza in cerca di una raccomandazione per un suo amico, un cantante irlandese.
Non se ne fa nulla, né per la raccomandazione, né per l’opera da pubblicare. Ma la sua vera «scoperta» è Samuel Beckett. Nel senso che è la prima a pubblicarlo. In These were the Hours (pubblicato postumo nel ’69) la Cunard spiega il suo obiettivo di editrice: «Fare soprattutto poesia contemporanea di genere sperimentale – sempre cose molto moderne, pezzi brevi di grande qualità che, per loro natura, possono avere difficoltà a trovare editori commerciali». Così, a caccia di talenti nuovi, lancia un concorso: dieci sterline in premio all’autore della migliore poesia sul tempo, cento righe al massimo. Fino all’ultimo, Nancy e l’amico Aldington si trovano a leggere roba impubblicabile; ma, la notte della scadenza…
Qualcuno ha lasciato una poesia, si intitola Whoroscope; l’autore è sconosciuto, si chiama Samuel Beckett, è nato a Dublino e già questo lo rende simpatico alla Cunard che ha antenati illustri e ribelli anche in Irlanda, e comunque le basta scorrere i versi per capire che il vincitore del concorso è proprio lui.
E che felicità prova venticinque anni dopo, quando Aspettando Godot va in scena a Parigi e il mondo si accorge del merito che spetta al suo autore. Beckett le rimane sempre amico e affezionato; nel 1956 le scrive: «Ho ancora Negro comodo nella mia libreria, a differenza della maggior parte di ciò che avevo… E perfino qualche Whoroscope».
Le chiede di spedirgli una copia di Parallax, perché vorrebbe rileggerlo. Per l’antologia black Beckett ha tradotto diciotto saggi, fra cui un Manifesto dei Surrealisti francesi e un articolo su Louis Armstrong e il jazz; ha firmato per Henry-Music, versi dedicati alla musica di Henry Crowder, uno dei volumi di maggior pregio della Hours Press. Il loro legame dura per tutta la vita, anche se Beckett la trova sempre più esile e troppo «ossessionata» dalla questione spagnola.
Eppure, anche in questo caso, la Cunard dimostra il suo talento. Nel 1937 rimette in funzione la vecchia pressa Mathieu di Réanville per pubblicare sei pamphlet, o plaquettes, che finiscono sotto il titolo The Poets of the World Defend the Spanish people!. A stampare accanto a lei c’è Pablo Neruda, i versi, in inglese, spagnolo e francese sono di Tzara, Aragon, Hughes, García Lorca e W.H. Auden, di cui appare la controversa Spain.
Dopo le plaquettes è la volta di un questionario agli scrittori, un’idea nuova all’epoca: Nancy spedisce a tutti quelli che conosce (e non) delle domande sulla guerra, per capire da che parte stiano. Il volume che raccoglie le 148 risposte si intitola Authors Take Sides on the Spanish War: non pubblicata quella indimenticabile di George Orwell, che la prega di non scocciarlo più. Lui, in Spagna, si è appena preso una pallottola.
Dopo la guerra, la vita per Nancy non è più la stessa. La sua casa di Réanville è distrutta dai nazisti, il suo mondo è in pezzi. La madre l’ha diseredata da un decennio, al grido di: «Davvero mia figlia conosce un Negro?». Ha ancora degli amanti, sempre più giovani; continua a viaggiare, a bere troppo e a scrivere: nel ’54 e nel ’56 pubblica due biografie di George Moore e Norman Douglas, molto elogiate dalla critica. Rifiuta ogni proposta di scrivere la sua autobiografia (perciò bisogna accontentarsi di due biografie, comunque ricche di dettagli, una del ’79 di Anne Chisholm e una del 2007 di Lois Gordon).
Paga, più che mai, l’esclusione da un mondo per il quale lei è troppo diversa. E che l’ha punita, a modo suo: non potendole impedire la libertà di dire, scrivere e fare, per lo più ha tentato di negarle la patente della serietà intellettuale.
Descrivendo Lucy, l’anti-eroina di Punto contro punto, Huxley parla così (indirettamente) di Nancy: «Era tutto ciò che le persone, per invidia o per disapprovazione, dicevano di lei, eppure era la più squisita e meravigliosa delle creature». Muore sola, a Parigi, pochi giorni dopo avere compiuto 69 anni. Le sue ceneri sono al Père-Lachaise, il cimitero degli immortali.
Fonte Articolo scritto da Eleonora Barbieri per “il Giornale”
La vie n’est qu’une ombre qui passe, un pauvre acteur
Qui s’agite et parade une heure, sur la scène,
Puis on ne l’entend plus. C’est un récit
Plein de bruit, de fureur, qu’un idiot raconte
Et qui n’a pas de sens.
MACBETH
La vita è solo un ombra che passa, un povero attore
Chi si alza e sfila per un’ora, sul palco,
Poi non si sente più. È una narrazione
Pieno di rumore e furia che racconta un idiota
E chi non ha senso.
William Shakespeare-(1564 – 1616)— The Tragedy of Macbeth (1623); traduction de Yves Bonnefo, éditions Folio, coll. « Folio classique », 1995 Littérature et Poésie
Source Image : Open Library
Macbeth (titolo completo The Tragedy of Macbeth) è una fra le più note e citate tragedieshakespeariane.
Essa drammatizza i catastrofici effetti fisici e psicologici della ricerca del potere per il proprio interesse personale: l’esito di tale condotta è un gorgo inesorabile di errori e orrori.
Fu pubblicato nel Folio del 1623, probabilmente da un copione teatrale. Frequentemente rappresentata e riadattata nel corso dei secoli, Macbeth è divenuta l’archetipo per eccellenza della brama di potere sfrenata e dei suoi pericoli, definizione che è stata tuttavia spesso giudicata estremamente restrittiva, se non addirittura erronea[1], date le ampie ripercussioni di natura filosofica sui temi del destino, dell’azione e della volontà e le molte ombre e misteri che ancora aleggiano attorno alla vicenda della coppia Macbeth/Lady Macbeth, la cui vicenda personale è arricchita da un non-detto pregno di ambiguità.
Costituita da cinque atti, è la più breve tragedia di Shakespeare[2] ed è spesso stata indicata dalla critica come il suo lavoro più complesso e sfaccettato.[3][4]
La tragedia si apre in una cupa Scozia medievale, in un’atmosfera di lampi e tuoni; tre Streghe (Le Sorelle Fatali, ispirate certamente alle Norne del mito norreno e alle Parche/Moire della tradizione greco-romana) decidono che il loro prossimo incontro dovrà avvenire in presenza di Macbeth.
Nella scena seguente, un sergente ferito riferisce al re Duncan di Scozia che i suoi generali, Macbeth e Banco, hanno appena sconfitto le forze congiunte di Norvegia e Irlanda, guidate dal ribelle Macdonwald. Macbeth, congiunto del re, è lodato per il suo coraggio e prodezza in battaglia.
La scena cambia: Macbeth e Banco appaiono sulla scena, di ritorno ai loro castelli, facendo considerazioni sulla vittoria appena conseguita e sul tempo “brutto e bello insieme”, che caratterizza la natura ambigua e carica di soprannaturale della brughiera desolata e pervasa di nebbia che stanno attraversando. Le tre streghe, che li stavano aspettando, compaiono e pronunciano profezie. Anche se Banco per primo le sfida, si rivolgono a Macbeth: la prima lo saluta come “Macbeth, sire di Glamis”, titolo che Macbeth già possiede, la seconda come “Macbeth, sire di Cawdor”, titolo che non possiede ancora, e la terza “Macbeth, il Re”. Macbeth è stupefatto e silenzioso, così Banco ancora una volta tenta di fronteggiarle, intimorito dall’aspetto delle Sorelle Fatali e dalle condizioni particolari e misteriose del momento: le streghe dunque informano anche Banco sull’essere capostipite di una dinastia di re e svaniscono, lasciando nel dubbio Macbeth e Banco sulla reale natura di quella strana apparizione.
Sopraggiunge dunque il re, che annuncia a Macbeth la concessione a suo favore del titolo di sire di Cawdor: la prima profezia è così realizzata e immediatamente Macbeth incomincia a nutrire l’ambizione di diventare re.
Macbeth scrive alla moglie (Lady Macbeth) riguardo alle profezie delle tre streghe. Quando Duncan decide di soggiornare al castello di Macbeth a Inverness, Lady Macbeth escogita un piano per ucciderlo e assicurare il trono di Scozia al marito, e anche se Macbeth mostra tentennamenti, volendo ritornare sui propri passi e smentendo le ambizioni manifestate nella lettera inviata alla moglie, quest’ultima infine lo convince.
Nella notte della visita, Lady Macbeth ubriaca le guardie del re, facendole cadere in un pesante sonno. Macbeth, con un noto soliloquio che lo porta a vedere di fronte a sé l’allucinazione di un pugnale insanguinato che lo guida verso l’omicidio del suo stesso re e cugino, s’introduce nelle stanze di Duncan e lo pugnala a morte. Sconvolto dall’atto, si rifugia da Lady Macbeth, che invece non si perde d’animo e recupera la situazione lasciando le due armi usate per l’assassinio presso i corpi addormentati delle guardie, imbrattando i loro volti, le mani e le vesti col sangue del re.
Al mattino, poco dopo l’arrivo di MacDuff, nobile scozzese venuto a recare omaggio al sovrano, viene scoperto l’omicidio. In un simulato attacco di rabbia, Macbeth uccide le guardie prima che queste possano rivendicare la loro innocenza.
Atto secondo
MacDuff è subito dubbioso riguardo alla condotta di Macbeth, ma non rivela i propri sospetti pubblicamente. Temendo per la propria vita, il figlio di Duncan, Malcolm, scappa in Inghilterra. Su questi presupposti, Macbeth, per la sua parentela con Duncan, sale al trono di Scozia.
A dispetto del suo successo, Macbeth non è a suo agio circa la profezia per cui Banco sarebbe diventato il capostipite di una dinastia di re, temendo di essere a sua volta scalzato. Così lo invita a un banchetto reale e viene a sapere che Banco e il giovane figlio, Fleance, usciranno per una cavalcata quella sera stessa. Macbeth ingaggia due sicari per uccidere Banco e Fleance (un terzo sicario compare misteriosamente nel parco prima dell’omicidio: secondo una parte della critica potrebbe essere immagine e personificazione stessa dello spirito dell’Assassinio). Banco viene dunque massacrato brutalmente, ma Fleance riesce a fuggire. Al banchetto, che dovrebbe celebrare il trionfo del re, Macbeth è convinto di vedere il fantasma di Banco che siede al suo posto, mentre gli astanti e la stessa Lady Macbeth non vedono nulla. Il resto dei convitati è spaventato dalla furia di Macbeth verso un seggio vuoto, finché una disperata Lady Macbeth ordina a tutti di andare via.
Atto terzo
Macbeth, che cammina ormai a cavallo fra mondo del reale e mondo soprannaturale, si reca dalle streghe in cerca di certezze. Interrogate, chiamano a rispondere degli spiriti: una testa armata dice a Macbeth “temi MacDuff”, un bambino insanguinato gli dice “nessun nato di donna può nuocerti”, un bambino incoronato gli dice “Macbeth non sarà sconfitto fino a che la foresta di Birnam non muova verso Dunsinane”; infine appare un corteo di otto spiriti a simboleggiare i discendenti di Banco, alla cui vista Macbeth si dispera.
Si avvia una stagione di sanguinaria persecuzione ai danni di tutti i lord di Scozia che il sovrano ritiene sospetti, e in particolare contro MacDuff. Un gruppo di sicari viene inviato al suo castello per ucciderlo, ma una volta lì i mercenari non lo trovano, essendo questi recatosi in Inghilterra per cercare aiuto militare contro Macbeth e avviare una rivolta. Gli assassini, a ogni modo, trucidano la moglie e i figli di MacDuff, in una scena piena di patetismo e crudeltà.
Atto quarto
In Inghilterra, MacDuff e Malcolm pianificano l’invasione della Scozia. Macbeth, adesso identificato come un tiranno, vede che molti baroni disertano dal suo fianco. Malcolm guida un esercito con MacDuff e Seyward, conte di Northumbria, contro il castello di Dunsinane, fortezza associata al trono di Scozia dove Macbeth risiede. Ai soldati, accampati nel bosco di Birnam, viene ordinato di tagliare i rami degli alberi per mascherare il loro numero. Con ciò si realizza la terza profezia delle streghe: tenendo alti i rami degli alberi, innumerevoli soldati rassomigliano al bosco di Birnam che avanza verso Dunsinane.
Atto quinto
Lady Macbeth, intimamente gravata di un crescente fardello morale, non regge più il peso dei suoi delitti e comincia a essere tormentata da visioni e incubi che sconvolgono il suo sonno: una sua dama racconta e mostra a un medico episodi di sonnambulismo, che sfociano in crisi disperate in cui la regina tenta di ripulire le mani da macchie di sangue incancellabili, confondendo passato e presente e rivelando tutti gli omicidi commessi per conquistare e mantenere il trono. Alla notizia della morte della moglie e di fronte all’avanzata dell’esercito ribelle, Macbeth pronuncia il famoso soliloquio (“Domani e domani e domani”), sul senso vacuo della vita e di tutte le azioni che la costellano, vani atti insignificanti che puntano al raggiungimento di obiettivi che non hanno alcun reale valore.
Richiede poi che gli siano portate armi e armatura, pronto a vendere cara la pelle in quello che già sente essere il suo atto finale.
La battaglia infuria sotto le mura di Dunsinane, e il giovane Seyward, alleato di MacDuff, muore per mano del tiranno, che poi affronta MacDuff. Macbeth ritiene di non avere alcun motivo di temere il lord ribelle, perché non può essere ferito o ucciso da “nessuno nato da donna”, secondo la profezia delle streghe. MacDuff però dichiara di “essere stato strappato prima del tempo dal ventre di sua madre”, e che quindi non era propriamente “nato” da donna. Macbeth tuttavia, nella furia della battaglia, accetta tale destino e non dimostra neanche un momento di cedimento nella sua lucida follia. I due combattono e MacDuff decapita Macbeth, realizzando così l’ultima delle profezie.
Anche se Malcolm, e non Fleance, salì al trono, la profezia delle streghe riguardante Banco fu ritenuta veritiera dal pubblico di Shakespeare, che riteneva che re Giacomo I fosse diretto discendente di Banco.
Si tratta di una tragedia fosca, cruenta, i cui personaggi sono ambigui e immersi in un’atmosfera a tratti apocalittica. Infatti, mentre in Re Lear il mondo naturale resta totalmente indifferente nei confronti delle vicende umane, Shakespeare sceglie di introdurre in Macbeth l’elemento sovrannaturale funesto che contribuisce a far crollare il regno del protagonista e a provocarne quindi la tragica morte. Il tema fondamentale della tragedia è la natura malvagia dell’uomo, o comunque la pulsione distruttrice che alberga all’interno del suo cuore. Lady Macbeth, personificazione del male, è animata da grande ambizione e sete di potere: è lei a convincere il marito, spesso indeciso, a commettere il regicidio (atto I), ma non riuscirà poi a sopportare la deriva di violenza dello stesso consorte, arrivando alla follia e, forse, al suicidio, mentre Macbeth andrà incontro a una lenta disumanizzazione di se stesso, accompagnata dalla perdita di contatto con la realtà, incluse le sue azioni più efferate.
Macbeth presenta una certa ambiguità: la sua sete di potere lo induce al delitto, ma ne prova anche rimorso, essendo incapace di pentimento.
Il soprannaturale è presente con apparizioni di spettri e fantasmi che rappresentano le colpe e le angosce dell’animo umano, nonché dalla presenza, forse reale o forse solo immaginata, delle tre streghe, quali emissarie di un Fato incombente e ineffabile, giustificazione e al tempo stesso ineluttabile sovrano delle sorti degli uomini.
Nella follia sanguinaria, Macbeth ha un solo conforto attraverso il contatto col soprannaturale e, all’inizio del IV atto, si reca nuovamente dalle streghe per conoscere il proprio destino. Il responso è solo in apparenza rassicurante, in realtà molto enigmatico, eppure Macbeth vi si appiglia con convinzione e affronta i nemici (V atto) fino al momento in cui scopre il vero significato di quelle oscure profezie.
Il tema del potere è sviluppato anche da altri personaggi, come il giovane figlio di Duncan, Malcolm, che si sente in qualche modo indegno del titolo regale: il nobile scozzese MacDuff, quindi, spiega quale sia la vera essenza del potere e quale differenza intercorra tra il regno, anche quello di una persona ambiziosa e corrotta, e la tirannide.
Interessante poi è la riflessione esistenziale (atto V, scena V) con una famosa definizione della vita umana, dominata da precarietà e incertezza, temi dominanti nel Barocco, età in cui Shakespeare visse: “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”.
The Scottish Play
Nell’ambiente teatrale anglo-sassone, il Macbeth è considerato di malaugurio: la curiosa superstizione, che porta a non citarlo esplicitamente, ma a usare perifrasi come « la tragedia scozzese», è ricordata fra gli altri da Ronald Harwood nel suo dramma Il servo di scena[6], quindi nell’omonimo film che ne fu tratto.
Gli adattamenti cinematografici del Macbeth sono numerosi. In alcuni casi è stato mantenuto il testo originale, in altri casi sono stati aggiunti elementi nuovi per arricchire la trama. Il fascino del Macbeth ha portato molti registi a trapiantare i personaggi e le vicende narrate in luoghi e tempi assai diversi dall’originale (contesto mafioso, Giappone feudale, epoca moderna).[7]
Un seguito per “Lo straniero” di Albert Camus-Kamel Daoud-Articolo di Alberto Corsani-Uno scrittore algerino immagina il contraltare del celebre romanzo,Un arabo uccide un francese, apparentemente senza motivo, pochi giorni o poche settimane dopo l’indipendenza ottenuta dagli algerini nei confronti della Francia. È il ribaltamento della situazione che innescava, nel 1942, Lo straniero di Albert Camus, dove, nelle prime pagine, un francese d’Algeria sparava a un arabo sulla spiaggia, apparentemente senza motivo. Ma il libro iniziava in maniera inattesa, secca, brutale: «Oggi la mamma è morta…». E la madre è assolutamente centrale, sia pure in termini diversi, anche nel romanzo, ora uscito anche in Italia, dello scrittore-giornalista Kamel Daoud*, che davvero prosegue, rovesciandola, l’«inchiesta» legata allo Straniero e al suo protagonista Meursault(Meursault: contre-enquête è il titolo originale).
La vicenda dello Straniero è stata conosciuta da molti anche sui banchi di scuola: forse Meursault, abbacinato dal sole, ha visto l’arabo avvicinarsi minaccioso, forse era comparsa la lama di un coltello. Dunque, il delitto. E poi tutto quel che ne segue: il protagonista-assassino (che è anche il narratore) non si difende, anzi il suo comportamento sarà alla base della sua condanna a morte. Era defunta la madre, in un ospizio, e lui non se ne era occupato, anzi era andato con una donna. Tutto gli sembrava assurdo, Meursault si «lascia vivere addosso»: non gli resta che farsi condannare, sperando che tanta gente assista, odiandolo, alla sua esecuzione.
Daoud rifiuta questa impostazione, perché essa non rende giustizia alla vittima: vestendo i panni del fratellino dell’arabo ucciso, l’autore lamenta che nel romanzo di Camus la vittima esca di scena senza neppure aver avuto la dignità di un nome. Poteva essere stato ucciso chiunque altro, ciò che interessa lo scrittore francese è solo il disagio interiore, il rovello metafisico, il mal de vivre del sig. Meursault. Un lusso (il disagio esistenziale) che i poveracci non si possono permettere, dovendosi piuttosto arrabattare per tirare avanti e crescere nei vicoli andando a scuola quando capita.
Sembrerebbe una polemica rivendicativa e dettata dall’identità di un popolo liberatosi dal dominio coloniale, che ora volesse liberarsi anche della cappa culturale impostagli dalla Francia. Ma ci sono anche elementi più sottili. Intanto il romanzo di Daoud è tutto pervaso dai libri di Camus, di cui l’autore dimostra una grande conoscenza. Non solo per alcune frasi che ricalcano Lo straniero (per analogia o per via contraria, quasi parodistica). Se nello Straniero il protagonista tiene un atteggiamento di totale insensibilità nei confronti del suo delitto e della sua vittima, qui è tutta la società che assolve l’assassino-narratore: il suo crimine viene considerato un colpo di coda della guerra anticoloniale.
Ma poi c’è anche lo stile – altra operazione interessante: Daoud non si limita a usare frasi brevi ed essenziali come Camus, il suo tono quasi dimesso e una certa brevità del racconto; in un buon terzo del libro scrive rivolgendosi direttamente a un interlocutore, con stile oratorio e dimostrativo, che riecheggia quello di una successiva, complessa opera di Camus come è La caduta. Chi si addentra a questi livelli nello stile del predecessore non può che averlo ammirato.
Inoltre è centrale e molto evocativa la figura della madre. Camus parlò sempre di sua madre come di un modello (povera, di scarsissima istruzione, ma maestra di umanità); per il giovane protagonista invece la mamma è tutto (è già orfano di padre quando gli viene ucciso il fratello), ma è anche una cappa che gli impedisce di crescere, finché l’incontro con una ragazza alle prese con una tesi di laurea sul delitto non lo farà svincolare dalle sue ali protettive.
Un’opera complessa, dunque, che rimanda inevitabilmente all’opera complessiva di Camus, al suo umanesimo che non fu toccato direttamente dalla grazia della fede, ma che ne fu intrigato. Durante la guerra mondiale, nella Francia occupata, lo scrittore entrò in contatto con il mondo protestante. La morte in un incidente d’auto (assurdo, questo sì), quindici anni dopo, ha impedito questo ulteriore, eventuale sviluppo di una vita e carriera dedicate a promuovere la causa dell’umanità: contro ogni oppressione, contro la povertà, la pena di morte, contro la solitudine, e anche contro l’arroganza umana che pretende di creare autonomamente l’uomo nuovo.
*K. Daoud, Il caso Meursault, Milano, Bompiani, 2015, pp. 130, euro 16,00.
Successo a Roma della II Edizione di CORTI DA MARE-
Successo a Roma della II Edizione di CORTI DA MARE – International Short Film Festival – Si è svolta a Roma, Ostia Lido, Acilia e Tolfa la II Edizione di CORTI DA MARE – International Short Film Festival, prodotto dalla CINEMART S.r.l. in collaborazione con Barrett International Group e Associazione ART GLOBAL, e con il sostegno di “LAZIO TERRA DI CINEMA – REGIONE LAZIO”. Direzione Artistica del dott.Franco Mariotti (Direttore di numerosi Festival di Cinema Nazionali ed Internazionali e già Ufficio Stampa di Cinecittà Holding). Ospite d’eccezione, Relatore e Giurato Sezione Videoclip il M° Vince Tempera (Compositore e Direttore d’Orchestra di fama Internazionale).In gara Short Film, Documentari, Interviste e Videoclip provenienti da tutto il mondo.
Il nutrito programma del Festival si è sviluppato nei seguenti appuntamenti:
TAVOLA ROTONDA SUL MARE E SU TEMATICHE AMBIENTALI – Roma (Casa del Cinema – Sala Gian Maria Volontè)
Relatori d’eccezione: Franco Mariotti in qualità di Direttore Artistico del Festival; Vince Tempera in qualità di Giuriato della Sezione Videoclip. Il Maestro ha commentato lo Short Film “Earth” e il Videoclip “I sensi del mare”, proiettati durante la serata, parlando dell’importanza della Colonna Sonora nelle Opere cinematografiche. Maurizio Chirri (Geologo e Docente Uniroma3 e Università “La Sapienza” di Roma) che ha incuriosito il pubblico presente con l’intervento “Il mare e i cicli della terra”, fornendo informazioni preziose sui cambiamenti climatici nei secoli. Numerose le domande fatte dal pubblico presente – Gianlorenzo Battaglia (Autore della Fotografia e operatore subacqueo con all’attivo circa 100 film realizzati, documentari e il programma per RAI 2 “Azzurro quotidiano” che documentavano la cultura, l’archeologia e le tecniche di pesca, viste anche sott’acqua, di vari Paesi del Mediterraneo) che ha raccontato numerosi aneddoti legati ai film per i quali ha realizzato riprese sott’acqua e dei quali ha commentato alcune foto proiettate in Sala – Eleonora Vallone (Attrice e Presidente Aqua Film Festival) che ha raccontato il suo rapporto speciale con l’Acqua e il Mare. Angelo Bassi (Produttore e Distributore MEDITERRANEA PRODUCTION) in qualità di Presidente Giuria Short Film e Documentari; alcuni Finalisti del Festival giunti da tutta Italia : Joseph Lu (Pianista e Compositore di Modica – RG, che ha ricevuto diverse Nomination in numerosi Premi Internazionali tra i quali l’Hollywood Independent Music Awards); Paolo Robino Cuddle (Pianista e Compositore Internazionale) che ha affascinato tutti i presenti con il suo videoclip “I Sensi del mare”; Caterina Novak (Mezzosoprano e Scrittrice) autrice di un VideoArt in cui immagini della terra e del mare si mescolano con i versi di una sua Poesia. Ha moderato Virginia Barrett.
INTERNATIONAL AWARDS CEREMONY- Roma(ANICA – Sala Proiezioni). Dopo il rituale Red Carpet con Foto all’arrivo degli ospiti, sono stati proiettati gli Short Film e i Videoclip Finalisti, e il Trailer del Documentario vincitore, già visionato dalla Giuria di Esperti composta da: Franco Mariotti,Angelo Bassi, Vince Tempera, Gianna Menetti (Direttrice CINEMART), Gianlorenzo Battaglia e Riccardo Antinori (Direttore di VIVIROMA.IT). La Giuria Popolare eracostituita dal dott. Alex Di Giorgio (Presidente Associazione “Arcobaleno dell’Arte”), dott.ssa Luisa Bischetti (già Ispettrice della Polizia di Stato), Claudio Caputo (Responsabile Sicurezza del Teatro dell’Opera di Roma), prof.ssa e dott.ssa Luisa Gorlani Gambino (Docente, Psicologa, Scrittrice), Alessia Sabelli (Giovane Attrice), Ludovica Blasi (Fotomodella). Sul Palco della Sala sono state esposte opere del M° Angiolina Marchese, Presidente dell’Associazione “ARTGLOBAL” e autrice delle preziose litografie delle sue Opere dedicate al mare donate ai Vincitori, agli Ospiti e ai Giurati. Ospiti della serata : Eleonora Vallone, alla quale è stato consegnato un riconoscimento per l’impegno profuso nella diffusione della Cultura dell’Acqua, del Mare e della sua tutela; la dott.ssa Raffaella Zannetti, membro della Comunicazione diUNICEF Fondazione ETS, che ha presentato uno Spot dedicato ai bambini vittime di tutte le guerre. Nello Spot, alcuni bambini di Gaza sognano di ritornare a scuola con gli amici, ma nel frattempo si accontentano di pescare pesci in mare, luogo di serenità e Pace, dunque “PACE IN MARE, PACE IN CIELO, PACE IN TERRA, OVUNQUE PER OGNI BAMBINO”. Ad UNICEF è stato consegnato un riconoscimento per l’impegno costante profuso nella cura di bambini in stato di disagio; Cristiana Bini Leoni, che ha presentato un Video ricordo del marito Roberto Leoni, noto Regista e Sceneggiatore scomparso di recente. Al termine delle proiezioni le Giurie hanno consegnato le votazioni alla dott.ssa Luisa Bischetti che ha stilato la classifica dei Vincitori insieme alla Produttrice del Festival Gianna Menetti e a Claudio Caputo.
SEZIONE SHORT FILM : 1° PREMIO e PREMIO MIGLIOR FOTOGRAFIA “AL DI LA’ DEL MARE” di Massimo Ivan Falsetta. I Premi sono stati consegnati da Angelo Bassi e Gianlorenzo Battaglia. 2° PREMIO : “MARTINA SA NUOTARE” di Giorgio Molteni. 3° PREMIO : “LUISA E’ AL MARE” di Giuseppe Caponio. PREMIO SPECIALE : “EARTH” di Joseph Lu. Il Premio è stato consegnato da Gianna Menetti.
MENZIONE SPECIALE “LUCI SPARSE” Videoart di Poesia e Immagini di Caterina Novak. Il Premio è stato consegnato dal M° Angiolina Marchese.
SEZIONE DOCUMENTARI : 1° PREMIO ASSOLUTO “ERA SCRITTO SUL MARE” di Giuliana Gamba. Il Premio è stato consegnato dal dott. Franco Mariotti.
PREMIO DELLA CRITICA : “IL MAESTRO DEL MARE” Documentario scritto da Kyrahm e Julia Pietrangeli anche Regista dell’Opera. Il Premio è stato consegnato dal dott. Riccardo Antinori, Direttore di VIVIROMA e Presidente Giuria Stampa.
SEZIONE VIDEOCLIP : 1° PREMIO “I SENSI DEL MARE” di Paolo Robino Cuddle – Il Premio è stato consegnato dal M° Vince Tempera; 2° PREMIO “IL LAMENTO DEL MARE” di Tiziana Scimone; 3° PREMIO EX AEQUO a “FLIGHT OVER THE OCEAN” di Fausto Bizzarri (Videoclip Musica Strumentale) e “ZUCCHERO, ZUCCHERO” di Flora Vona (Videoclip).
PREMIO MIGLIOR COLONNA SONORA DA FILM al M° Gabriele Saro, autore del brano “VENICE” per l’omonimo Videoclip, al quale è stato conferito anche il Premio della Giuria Popolare che ha molto apprezzato l’idea dell’Opera con una panoramica su Venezia vista dagli occhi del noto Fotografo Diego Cinello. Ha condotto l’Evento Virginia Barrett (Attrice, Regista, Musicista). A seguire si è svolto un momento conviviale con Cocktail di fine Evento.
La mattinata è stata aperta dall’Intervento di Fulvio Volpi, Comandante del natante della APS SOTTO AL MARE , definito “Astronauta dell’acqua”. Durante l’Evento sono state premiate le migliori Interviste ad over 60 su ricordi di vita legati al Mare, realizzate ad Acilia, Ostia Lido e Tolfa da una Troupe della CINEMART. Le Interviste, già visionate dalla Giuria di Esperti, sono state anche valutate dalla Giuria Popolare presente in Sala. Tutti concordi per i Premi da assegnare: 1° PREMIO a Fernanda Sergio di Donnamasa; 2° PREMIO a Franco Capitanelli; 3° PREMIO ad Ambra Sax. Inoltre sono stati assegnati Diplomi d’Onore ai tre CSA partecipanti : Centro Anziani di Piazza dei Sicani (Acilia) Presidente Vincenzo Basso – Centro di Promozione Sociale “La Rocca”(Tolfa) Presidente Daniela Cedrani – CSAQ Piazza Ronca 22 (Ostia Lido) Presidente Veronica Vincenza Volpi. E’ intervenuto Mimmo Barbuto, Coordinatore dei dieci CSAQ del X Municipio di Roma. L’Attrice e Regista Virginia Barrett, conduttrice del Matinée, ha letto in modo appassionato alcuni Racconti dal Libro “Balene salvateci! – I Cetacei visti da un’altra prospettiva” (Casa Editrice MURSIA)di Maddalena Jahoda (Biologa e Divulgatrice Scientifica), accompagnata dalle calde note della chitarra classica del M° Angelo Cacciato (Compositore e Polistrumentista) e dalla voce recitante, con ironica inflessione veneta, di Barbara Braghin (Attrice eGiornalista). LaPoetessa e Scrittrice Melina Mignemi ha emozionato il pubblico con la lettura delle sue Poesie “Siculo profumo di mare” e “Cascata d’acqua”, dedicate al mare della sua Sicilia e tratte dal Libro “La penna dell’anima” (Edizioni Nuova Impronta).
Ospiti : il prof. Gennaro Ruggiero Direttore del Festival “Corti al Tevere”e la dott.ssa Angelica Loredana Anton Presidente della Fondazione AREA CULTURA di Roma che ha consegnato il Premio “ATHENA d’ORO” a Virginia Barrett, eccellenza nel settore della Cultura. A chiusura dell’Evento sono state proiettate alcune delle Opere dei Vincitori delle Sezioni del Festival.
Tutti gli Eventi si sono svolti ad ingresso libero e gratuito.
Franco Leggeri Fotoreportage-Roma Gianicolo-La quercia del Tasso –
Articolo di Marco Fulvio Barozzi –Fotoreportage di di Franco Leggeri per REDREPORT-Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa.
Anche a quei tempi la chiamavano così.
Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.
Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi.
Un caso.
Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.
Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri.
Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “E’ il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”.
Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?”
“Della quercia del Tasso.”
E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”.
Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.
Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.
Viveva.
E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”.
Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”.
Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”.
Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso.
Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.
Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.
Articolo Pubblicato da Marco Fulvio Barozzi sul sito web Popinga –
venerdì 3 maggio 2013-Scienza e letteratura: terribilis est locus iste-
Ilaria Giovinazzo nasce a Roma nel 1979. Laureata in Lettere. Nel 1999 vince il premio Segnalazione speciale della Giuria al concorso europeo di poesia e narrativa “Massimo Grillandi”. Ha pubblicato i seguenti romanzi “Anime perdute (Effedue, 2001), “Non posso lasciarti andar via” (Prospettiva, 2005), “Donne del destino” (Besa, 2007) e le raccolte poetiche “Come un fiore di loto” (Ensemble, 2020), “La simmetria dei corpi” (Ensemble, 2021). Sue poesie sono state pubblicate su riviste specializzate e blog (De sur a sur, Atelier, Metaphorica, Transiti Poetici, La Bottega della Poesia de giornale La Repubblica, Centro cultural Tina Modotti). Con Fuorilinea nel 2022 pubblica il libro illustrato per bambini “Life. 10 cose importanti” e nel 2023 cura la plaquette, edita da Ensemble, dell’evento “Sinfonie Poetiche. Concerto per corde e fiati” da lei concepito e diretto. Attualmente vive e lavora tra le colline sabine.
Appartenere alle nuvole,
porsi come girasole alla luce,
libera ghianda in evoluzione di destino.
Sciogliersi e sorridere
come il ghiaccio innamorato del sole,
senza dolore.
Essere. Essere. Essere.
Senza convincimento di peccato.
*
Lo senti questo logorio continuo
delle corde intorno all’argano?
L’incontro perfetto del corpo
che aderisce all’ombra?
Sei nelle armonie improvvise
a cui accedo negli attimi illuminati
delle mie giornate.
Sotto il peso delle cose
questo muscolo idiota schianta.
Dimmi solo che la vita non tradisce
Dimmelo ancora. Menti.
*
Sono le illuminazioni del vento,
il canto ripetuto del cuculo
sul ramo di magnolia
a darmi la consistenza del seme,
l’efflorescenza del respiro,
a dirmi: taci.
La dea Tara sorride al Caos
mentre prego le cime innevate
del mio Himalaya personale.
Inspira. Espira.
Tutto sta lì a dirmi: taci.
*
Ho tentato di ricomporre
le ossa della bambina spezzata,
quella che nessuno vede
nascosta dentro i vestiti
incisa nella carne
che sorride a tutti
senza trovare la via di casa.
*
Sono composta di silenzi
e ubriacature d’anima
che non riesco a nascondere
e fede in orizzonti lontanissimi.
Paio vivere di poco
ma l’infinito abita
dentro le mie cellule.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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-Glauco NATOLI-Il Cinquantenario della morte di VICTOR HUGO –
–Rivista PAN n°9 del 1935-
Victor Hugo-Scrittore francese (Besançon 1802 – Parigi 1885), figlio di Joseph-Léopold-Sigisbert (v.), che egli seguì da bambino nei suoi spostamenti (Corsica, Calabria, Spagna). Già nel 1818 e nel 1819 fu premiato nei “giochi floreali” di Tolosa: alla poesia si dedicò fin dalla prima adolescenza, durante gli studî al liceo Louis-le-Grand, imitando i classici, ma dichiarandosi soprattutto discepolo di Chateaubriand, poi di Lamartine, e fervente difensore del trono e dell’altare.
Victor Hugo-Scrittore francese (Besançon 1802 – Parigi 1885), figlio di Joseph-Léopold-Sigisbert (v.), che egli seguì da bambino nei suoi spostamenti (Corsica, Calabria, Spagna). Già nel 1818 e nel 1819 fu premiato nei “giochi floreali” di Tolosa: alla poesia si dedicò fin dalla prima adolescenza, durante gli studî al liceo Louis-le-Grand, imitando i classici, ma dichiarandosi soprattutto discepolo di Chateaubriand, poi di Lamartine, e fervente difensore del trono e dell’altare. Nel 1819-21 diresse con il fratello Abel il giornale Le conservateur littéraire; quindi si affermò come poeta con le Odes et poésies diverses nel 1822 (l’anno in cui sposò una sua amica d’infanzia, Adèle Foucher), cui seguirono: Nouvelles odes (1824) e Odes et ballades (1826; raccolta complessiva, con lo stesso titolo, 1828). Frattanto si era accostato al cenacolo romantico e aveva collaborato alla nuova rivistaLa Muse française (1823-24); ma la lunga prefazione al suo dramma Cromwell (1827), poi considerato il vero “manifesto” del romanticismo francese, fece di lui addirittura il capo acclamato e riconosciuto della nuova scuola, specie dopo il successo delle Orientales, un’altra raccolta di poesie (1829), che si distinguono per la vivacità del ritmo e della fantasia, e per un esotismo un po’ convenzionale, oltre che per il culto della libertà e di Napoleone. Nel clima che precedeva la rivoluzione di luglio, e dopo la censura del suo nuovo dramma Marion Delorme (1829), la prima rappresentazione del dramma Hernani (25 febbraio 1830), che rompe apertamente con la tradizione delle regole classiche, suscitò la violenta reazione dei classicisti e il delirante entusiasmo dei romantici. Fu per questi ultimi una “battaglia” vinta: l’avvenimento fece epoca e per molti storici successivi segnò l’inizio del vero e proprio movimento romantico in Francia. In seguito l’attività di H. non conobbe soste; continuò la serie delle sue raccolte poetiche: Les feuilles d’automne (1831), Les chants du crépuscule (1837), Les voix intérieures (1838), Les rayons et les ombres (1840), in cui l’ispirazione intimistica, religiosa e filosofica si alterna con quella politica e sociale, di poeta “vate”, interprete del suo tempo e profeta dell’avvenire. Una vera tribuna, del resto, egli fece spesso dei suoi drammi: nel 1831 fece rappresentare Marion Delorme, poi Le Roi s’amuse (1832), Lucrèce Borgia (1833), Marie Tudor (1833), Angelo tyran de Padoue (1835), questi ultimi tre in prosa, e quindi ancora Ruy Blas (1840), forse la sua migliore opera di teatro, e infine Les Burgraves, che invece cadde clamorosamente (1843). Intanto anche il romanzo lo aveva attirato: dopo i primi tentativi giovanili nel gusto del romanzo “nero” allora di moda, Han d’Islande (1823) e Bug Jargal (1825), pubblicò una delle sue opere più celebri, Notre-Dame de Paris (1831), colorita, grottesca evocazione della Parigi medievale e tipico romanzo “romantico”, interessandosi di problemi sociali e morali in Le dernier jour d’un condamné (1829) e in Claude Gueux (1834). In questo primo periodo della sua attività, H. svolse pienamente il programma del romanticismo francese: nella poesia, prevalenza e libertà dell’ispirazione lirica rispetto a tutte le regole codificate dal classicismo; concezione di una drammatica sciolta dai vincoli delle unità pseudo-aristoteliche; sia nel teatro, sia nel romanzo, una visione fantastica e passionale della vita, in un alternarsi e confondersi di elementi ora tragici, ora grotteschi. Questo rovesciamento della poetica classica tradizionale fu, in lui, troppo spesso programmatico: il che nocque non di rado alla sua opera, specie al teatro, in cui oggi è agevole riconoscere una struttura artificiosa, a spese della consistenza dei personaggi. Ma già prima dei Burgraves, la sua attività letteraria cominciava a cedere all’interesse per la vita politica, in un susseguirsi di passioni travolgenti, di onori, di lutti (amori per Juliette Drouet, per Mme Biard; elezione all’Académie française, 1841; tragica morte della figlia Léopoldine, 1843; nomina alla Camera dei Pari, 1845). La rivoluzione del 1848 lo orientò verso la democrazia: eletto deputato, partecipò con passione ai lavori dell’Assemblea legislativa, finché il colpo di stato del 2 dicembre 1851 non lo costrinse all’esilio, prima in Belgio, poi nelle Isole Normanne (Jersey e Guernesey), dove rimase per tutta la durata del Secondo Impero, riprendendo la sua attività letteraria. Pubblicò altre quattro raccolte poetiche: Les châtiments (1853), violenta satira contro Napoleone III e la sua corte; Les contemplations (1856), che segna un ritorno, con accenti più puri e drammatici, alla poesia intimistica, ed è, forse, fra le sue opere poetiche migliori con La légende des siècles (1859), grandiosa visione epica, per episodî, della storia dell’umanità; Les chansons des rues et des bois, infine (1865), poesie leggere e agili, d’un gusto quasi parnassiano. E dopo altre opere di satira politica in prosa, (Napoléon le petit, 1852 e l’Histoire d’un crime, 1877), tornò al romanzo con l’ampia epopea dei Misérables (1862), in cui gli intenti umanitarî si fondono con le rievocazioni storiche e i ricordi autobiografici, e poi con Les travailleurs de la mer (1866) e L’homme qui rit (1869). Tornato in patria dopo il 1870, fu di nuovo eletto all’Assemblea nazionale, da cui si dimise per protesta contro l’accoglienza ostile riservata dalla destra a Garibaldi, eletto deputato in quattro dipartimenti. Nel 1876 fu nominato senatore, ma ormai si dedicava quasi esclusivamente alla sua infaticabile attività letteraria. La produzione di questi ultimi anni è abbondantissima: il romanzo storico Quatre-vingt-treize (1873), altre due serie de La légende des siècles (1877 e 1883), Torquemada (1882), suo ultimo dramma, e numerose raccolte di poesie: L’année terrible (1872); L’art d’être grand-père (1877); Le Pape (1878); La pitié suprême (1879); L’âne (1880); Religions et religion (1880); Les quatre vents de l’esprit (1881); infine una serie di scritti politici, Actes et paroles (4 voll., 1875-85). Fra le numerose opere postume si ricordano il Théâtre en liberté (1886), la Fin de Satan (1886), Toute la lyre (1888) e Choses vues (1887 e 1900; ultima ed. accresciuta, 1913), notazioni e ricordi personali d’una grande efficacia e di vivo interesse. Se le opere scritte dopo l’esilio sono viziate dall’enfasi verbale cui il poeta indulgeva ormai senza freno, lo stesso carattere, seppure in misura minore, è diffuso in tutta la sua opera che peraltro rivela vena copiosa e ricca fantasia. Rimase perciò, salvo rari momenti, lontano da quella perfezione che divenne l’ideale dei parnassiani. Ma la vastità molteplice della sua opera, la grandiosità di talune sue concezioni, l’impeto del sentimento da cui è spesso animato fanno di lui una delle figure maggiori dell’Ottocento letterario europeo.
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
Castelnuovo di Farfa – La riva sinistra del Farfa-
Brani e Poesie dal libro di Franco Leggeri-MURALES CASTELNUOVESI-
Castelnuovo di Farfa -Brani e Poesie dal libro di Franco Leggeri– la riva sinistra del Farfa-MURALES CASTELNUOVESI– ………..Al termine della salita che porta dalla campagna al borgo di Castelnuovo , si trova un vecchio edificio ricoperto di edera, muschi e arbusti vari che crescono sul muro , ma vi è anche l’immancabile pianta di fico. All’interno delle vecchie mura , frammenti di mura, cresce spontaneo un giardino incolto che alimenta la fantasia di architetture fantastiche , scenografia di storie medievali in quel che resta del manufatto. Eppure questo rudere assume, nella fantasia del visitatore attento e non superficiale, una valenza magica ch’è l’unione tra realtà e immaginario letterario. Chissà se il rudere la sera si veste di colori bluastri, scala del “bleu gotico” l’ora amica dei fotografi e dei pittori, oppure ha lo stesso colore del vecchio insediativo storico racchiuso nelle mura di cinta costruite in pietrame a difesa dell’antico borgo di Castelnuovo. Rudere che potrebbe essere un eremo solitario posto ai confini del mondo, ma anche luogo dove si consuma da secoli l’instancabile opera dell’uomo per conquistare e domare la natura del colle dove sorge il Borgo di Castelnuovo di Farfa………….
-Castelnuovo, gli speroni della Luna.
La luna, i suoi speroni, ha ferito la notte castelnuovese. Il tempo, l’insulto del tempo si è smarrito nella ruggine dei ricordi. Occasioni uccise da barbari affamati di euro . Ora incidere la memoria su lastre di pietra. Il verde, la verde Valle del Farfa era un invito alla contemplazione .La colpa , se colpa è l’aver creduto di possedere la luna nell’età dei sogni. La colpa è nell’aver camminato nei sentieri dell’erica. La Valle , il mito , la sua Storia è qui nel mio cuore che colora di rosso gli spini delle siepi. Se il sogno si disperde lascio le mie parole sulla pietra. La stagione del gelo uccide le gemme della speranza , il tragitto segnato dal forte profumo, tragitto senza bandiere, del fieno falciato dai ricordi e illuminato dalla luna che uccide l’ombra dei cespugli. Ho rigirato tra le mie mani le parole, contato i sospiri come si contano le monete, ho cercato di scrivere l’ombra della sera , i ricordi degli anni giovani e l’altalena delle spinte infinite, le stagioni senza croci e le mani legate. Se la morte mi resta come l’ultimo sogno , l’ultima arma prima che anche le parole scritte siano morte per sempre. Cerchi un lapis , un foglio , una sedia per ricomporre, con calma, i fili, i fumi delle illusioni, le nuvole che portano la pioggia carica di poesia. Le vecchie porte dei fienili, il cigolio dei cardini vecchi, le note delle passate avventure prima che i fuochi si spengano . I ricordi, come le rondini, tornano sempre a scandire la forte stagione della follia mente negli uliveti la brezza accarezza le foglie , la brezza intrisa di fumo , di fieno, e sono i fuochi del bivacco del tempo immutato scolpito nell’attesa di un’alba rossa che trasformano i vicoli del Borgo nel labirinto di Dedalo e ad ogni incrocio trovi una epigrafe , un ricordo e un nuovo inizio.
I tetti di Castelnuovo di Farfa, il mio Dedalo.
Scoprire, o riscoprire Castelnuovo, cercando di aver gli occhi disincantati, mi permette comunque di vederne l’anima del mio Dedalo la più popolare, la più vissuta dalla gente comune. Scopro e riscopro, nuovo punto di vista, dopo tanti anni i vicoli del mio “Borgo Dedalo”, dove ho trascorso l’infanzia e la mia giovinezza che, nell’età dell’incoscienza, appare eterna. Se da adulti, in modo crudo, ci rendiamo conto che la vita passa in fretta, ci consola il pensiero che l’eterno rimane non nella materia, ma nelle vibrazioni, nelle sensazioni che aleggiano intorno a noi e che percepiamo secondo la nostra sensibilità e i nostri stati d’animo. Ora, osservando i tetti , vale la pena ricordare e raccontare e magari riflettere su queste nuove sensazioni che danno i tetti di Castelnuovo. Quante cose sono cambiate in queste vie , tante persone ,attori nella mia fanciullezza, non esistono più, altre sono invecchiate e altre ancora sono lontano altrove a cercare una vita diversa . E’ strano cercare dai tetti, di aprirli, e vedere, nei ricordi, le persone che abitavano la casa, scoprire l’atmosfera, rivivere gli stati d’animo con occhi diversi, con esperienza ,“lunga esperienza della vita”, reinventare ed animare anche i più piccoli dettagli del quotidiano la vita semplice e minimalista di una volta.
Vedo le vie di Dedalo là dove diventano più ripide, più stette , gli incroci e giù per i vicoli e scalette e ancora piccoli cortili e scale buie, soprattutto d’inverno. Nel mio paese, nel mio Dedalo ora sono cambiate molte, moltissime cose forse troppe .Sono cambiate le persone, le case, anche le storie non sono più le stesse. Ma non il “Borgo Dedalo” , il mio Castelnuovo , quello carico di storie scritte su di epigrafi marmoree “inchiodate” nella mia anima. Queste storie, immutabili e solide, che parlano e raccontano alla mia memoria, come una canzone poetica infinita ,di un Castelnuovo tramontato per sempre. Il mio paese, Castelnuovo, il mio Dedalo è un posto così sconosciuto alla “nuova gente” che ora lo abita e lo “consuma” e che ne distrugge il verde e la sua storia. La “nuova gente” che non ha l’abitudine di menzionarne il nome del mio Dedalo. La “nuova gente” non può ricordare la musica , dolci suoni, che uscivano da ogni porta , non può godere il trionfo e la purezza dei sogni che nascondono i cuori carichi di emozioni che creano le case del “mio paese” .
Castelnuovo, via Roma Est
Avete mai aspettato e visto il sole
che dona il primo bacio a Castelnuovo?
E se una mattina anche tu cerchi tra il sillogismo e il controesempio
di questo nostro dialetto, si di questo “sporco latino”
di cui adoro il categorico del disadorno,
ma essenziale canto invisibile che emerge da tracce nascoste .
Tracce, si quelle arate nella terra Sabina, che fermentano nel decasillabo armonioso che varia al ritmo dei versi sciolti e che , poi, li ricompone
nell’armonia del canto che allontana il “genio crudele”
che ha violentato la notte castelnuovese
e che , ora, aspetta il coagulo del sangue al sole
che ne rallenta la fecondità del passato fervore.
Castelnuovo,
ho negli occhi la quotidiana immagine, se pur superficiale,
del puntuale equilibrio e solo allora , se sarò libero, cercherò
di narrare la meraviglia dei racconti nascosti
che, da sempre ,dormono senza avere risposta,
ma era luce assoluta e felicità degli antichi castelnuovesi.
Rivisitare Castelnuovo, il suo profondo contraddittorio sillogismo filosofico
che , da sempre, cerco nella spiritualità
che diventa fulcro del mio soggettivismo
così relativo al mio pensiero pendolare.
Cerco la chiarezza nella mia anima ch’è tela
pronta per caratteri del libro che mai ho consultato.
Mi chiedo se troverò a Castelnuovo
il controesempio del sillogismo aristotelico?
A Castelnuovo, a volte , le risposte le trovi nascoste ,
ma esse sono sempre testimoni di dolci sere e serene albe,
lente, pallide e timide promesse future
che puoi trovare soltanto quando Castelnuovo diventa attico
e dialoga , dopo le stelle, con il primo raggio del sole.
Si potrebbe ascoltare, dai colli, forse anche la dolce,
filosofica voce dei castelnuovesi che si avviano ,
incontro al sole, camminando lungo via Roma Est.
Ed è allora che il sole riaccende, per il giorno,
i giochi linguistici dei fiori di campo.
Ecco, dunque, che, adesso, io ridivento una decomposizione
di sogni e illusioni in cerca di approdo,
una salvezza tra le ombre acute,
ma pronte a scomparire in un futuro senza storia e senza epoca.
“Se le pietre,
il cuore delle pietre,
l’acqua,
è la sua carezza che traccia l’ombra dei sogni,
sono e diventano
allora
l’inizio dei ricordi.
L’arido cuore delle pietre è (si fa) prigioniero nella mia anima.
Solo ora, adesso
La bassa marea tra i vicoli di Dedalo travolge il ragazzo
Che si accende nel nuovo giorno al sole
che entra solenne dalla via Roma est”.
Franco Leggeri, castelnuovese-
Poesia-Castelnuovo, via Roma Est
Dalla raccolta Murales Castelnuovesi
AMARCORD – Castelnuovo nel cuore.
Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo raccolti con i padroni è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia . Anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi. Il vecchio e il giovane nella storia , Castelnuovo per sempre. Castelnuovo nel cuore.
dal libro – “MURALES CASTELNUOVESI”
di Franco Leggeri , Castelnuovese
Castelnuovo, il racconto scritto col chiodo forgiato.
(alla scoperta di vecchi casali, ruderi castelnuovesi)
Ho trovato,
nell’angolo estremo,
in alto, in quella vecchia trave le sagome tracciate dal chiodo forgiato,
segni del tempo di guerra.
E’ lo stupore e la finezza del racconto disegnato,
lasciato da questa donna castelnuovese
che ha distrutto la legge di gravità.
E questo disegno,
così neanche in bianco e nero, ma solo legno,
solo un fossile e scena del passato
riverberi onirici dell’immaginazione.
Traccia di armonia del creato,
traccia segnata solo per alcuni riti passeggeri, ma solenni.
Nella trave è disegnata e immaginata
l’esplosione della luce
mentre si espande l’azzurro infuocato
immaginazione della sfrenata insoddisfazione
nella ricerca di un cielo sereno.
Ora sono tracce di parole e gridi inascoltati,
ora che sono “fossili” testimoni che narrano una tragedia,
tutta castelnuovese, ma ancora inascoltata
e nascosta in questa trave “intonsa” .
“Castelnuovo il chiodo forgiato
all’ombra della polvere.
Castelnuovo, c’è sempre la luna pronta per la nuova notte
carica di illusioni e inattesi veleni,
pensieri segreti depositati
, frettolosamente,
all’interno di nuvole di fumo.
Ed ecco che, ora, l’anima si commuove
e partorisce una luna piena,
la preghiera gemella che brucia l’amore,
quella che viene respinta nella via segreta,
che si illumina alla luce,
distratta , della luna nuova”.
Castelnuovo, il sogno e l’UTOPIA CONSUMATA.
Sono nato a Castelnuovo in una casa senza libri, ma , poi, la vita , i fatti tristi della vita mi fecero sconfinare nella Poesia. Io divenni un castelnuovese clandestino, emigrante all’interno di una biblioteca, e ,quindi, iniziai a navigare in un “OCEANO DI LIBRI”. Ogni libro era ed è un’isola su cui mi è stato possibile vivere libero .
La Poesia e la scrittura sono il giusto modo , forse, per ripagare il mio Borgo. Ripagare Castelnuovo, con moneta giusta per avermi accolto, per avermi regalato i sogni scritti sui muri, suoni e profumi , la sua bella storia , e le piccole storie che, assieme, sono diventate il mio Castello di Kafka e forse l’isola per un nuovo “naufrago castelnuovese”.
Sono nato castelnuovese , da genitori castelnuovesi e da nonni castelnuovesi , ma ho vissuto anche altrove una parte della mia vita. A Castelnuovo ho trascorso anni importanti, quelli che danno “l’impronta” alla formazione umana. Sono castelnuovese “dentro” e incatenato a Castelnuovo da sentimenti contrastanti come : Ammirazione per le sue straordinarie risorse , ma anche, ahimè, frustrazione per il modo in cui, quotidianamente, esse vengono sprecate da incapaci, si quelli della “Dittatura della Maggioranza”.
Come castelnuovese, orgoglio castelnuovese, sono parte di quella pattuglia che pensa che fare qualcosa , anche poco, sia meglio che non fare nulla ed abbandonare il Borgo, l’amato Castelnuovo, al suo triste destino di :”colonia della sottocultura Sabina”. Troppi castelnuovesi, senza altra colpa se non quella di essere nati a Castelnuovo, meritano di avere una chance , cioè quella di valorizzare le loro straordinarie qualità nascoste che spesso non sanno nemmeno di possedere. Credo , fortemente, che la politica dei piccoli passi, in un Borgo come Castelnuovo, sia quella da percorrere, quindi, piccoli passi e non spese faraoniche , soldi pubblici mal spesi per passerelle pre-elettorali, che diventano solo un pallido ricordo “snocciolati e bevuti” nei discorsi del bar.
Spero che altri “castelnuovesi dentro”, anche se residenti altrove, vogliano unire le loro idee e le loro voci in un progetto di Rinascimento culturale castelnuovese.
Piccola riflessione di un castelnuovese
Castelnuovo, La Notte.
Si adagia la notte su Castelnuovo
Ne assume, diligentemente, le forme,
essa si fa architettura, ridisegna le vie e i vicoli.
La notte castelnuovese , la mia notte,
quella che raccoglie le ombre depositate dal giorno
e che il vento sa disperdere e nascondere
dietro gli scricchiolii della vecchie porte
così solenni al gioco dei lampioni che ne esaltano i colori.
E’ la notte la sentinella del riposo,
dei pianti e dei sorrisi.
E’ la notte che fa volare l’ultimo , esile, fumo dei camini
custodi di nudezze e specchio di grazie nascoste
e di profili di cose semplici.
E’ la notte castelnuovese
che scrive, solitaria, storie dettate da folletti senza nome.
Il mio Castelnuovo è tazza e culla
del latte che versano le nuvole
che troviamo al risveglio del giorno.
Notte castelnuovese dimora amica delle stelle
e delle rose alle finestre dolci come i sorrisi delle mamme.
Notte castelnuovese gemella della solitudine e della quiete,
resoconto di lunghi intervalli tra il fuoco e la tristezza ,
ma così immobile nella solitudine del buio.
Notte che, infine, libera il sole sui cumuli
di speranze respinte dal filo irto della realtà.
Ed io, allora, ridivento pastore
del mio gregge di delusioni che ritornano,
rientrano dagli spiragli delle finestre.
Castelnuovo, è la notte la mia prigione
Ben costruita e cucita alla mia anima senza ali.
E ora, finalmente, senza una benedizione mi addormento.
“ Si può trattenere la notte?
Si può simulare il niente?
Vestiti di crudo realismo
Siamo al centro del niente,
mentre fugge la notte
nostro riparo dalle voci
delle finestre vicine.”
Castelnuovo, storie ai suoi margini.
Castelnuovo se diventa il margine e recinto
di una notte senza perché,
allora raccontiamoci storie
sussurrate tra le sbarre di cancelli inopportuni e indesiderati.
Ora ci ritroviamo qui a contare , a catalogare
le costellazioni disperse in lontane dimensioni
fuori dai confini bisbigliati
e scritti sui nostri pezzi di carta silenziosa.
Pensieri scritti con le gocce d’acqua
che ci regala, sempre, la notte castelnuovese.
E’ questa corteccia così ostinatamente
aggrappata ai fuggitivi e ribelli pensieri,
veri dominus di questa oscurità
ch’è spazio dove si espande
il profumo antico degli indugi
dei nostri silenziosi dibattiti, alcune volte inconsistenti,
che si evolvono nel brevissimo tempo a noi concesso dalle emozioni.
Ed ecco che la notte,
se pur essa superficiale e a volte emozionata
e dispersa nel circolo delle nostre mani
si fa ora luce lieve, vicina alla volontà
che si coniuga con l’irruenza nascosta in un desiderio impreparato.
Si ,la notte ,ora, diventa anarchia e poesia
Che evade oltre le fragili braccia,
esse imprudenti guardiane di una libertà
che si eclissa dietro la luce delle stelle
che diventano così sensuali
in questa melodia che incornicia la nostra notte castelnuovese.
I campi arati
Così come il sangue delle parole
Si posa sopra le note
Che nascono dalle pietre
Che difendono i campi arati
E la fatica lenta e severa dei buoi
Hanno profanato,
Hanno invaso
Hanno calpestato
Hanno deriso
La nostra sacra terra e la nostra valle
Hanno ucciso gli ulivi
E le spighe del grano maturo,
Hanno tagliato i riflessi dell’acqua
con il ferro e il rumore dell’argano
Hanno disperso nel vuoto
il profumo della nostra pace.
Ora il pane viene impastato con il cemento
e l’acqua è sepolta nelle rocce delle Gole del Farfa.
Nessuno di noi sentirà il grido
e la speranza della vittoria dispersa
nella nebbia che disegna questa notte nemica delle stelle.
I campi arati- Murales castelnuovesi di Franco Leggeri.
Citazione:“Ci sono domande a cui le risposte si hanno solo se si riesce a dare del tu a Dio “
Castelnuovo ,le sue Colline.
Castelnuovo ha le colline
Come cupole coperte di ulivi
Dove l’erba si lascia cullare
Dall’alito del Farfa
Mentre nasce l’attimo di Pace
Che si abbandona al riposo dei pensieri.
L’erba, come Castelnuovo,rinasce come fosse immortale
E risorge dalla meravigliosa terra
Per donarsi alla dolcezza del giorno
Come coperta e cuscino
Dove poter sognare melodie
Che addolciscono gli anni passati
Mentre scrivo del tempo che ancora mi accompagna
Mentre sogno su questo foglio bianco.
Ricordo che Fu Euripide la mia prima fuga dall’adolescenza,
mentre la neve rubava il mio sguardo
che tratteggia la soglia ,
il confine, del mio sentimento che fu strutturato e descritto
in una liturgia che esautorò le orditure ,
i simboli di struggenti antitesi.
Fu anche il blu che ,seminato nel silenzio della notte,
accese il dubbio e la paura.
Ora anche il vento si ripara dalla notte castelnuovese,
notte innamorata di Euripide e della luna.
Luna che trafigge il silenzio dell’anima,
dispersa tra le pietre dei giovani sogni.
Sogni che nascono così disadorni in questo novembre
che li ha rinchiusi tra le siepi di bosso.
Castelnuovo, Come la Pioggia.
Cadono le ore dalla torre
così come cadono le gocce di pioggia
infinite e ritmiche
come le note di jazz.
Le gocce e le note
così dolci e misteriose
come se , assieme, fossero
da poco arrivate da Nashville.
E’ la pioggia
che danza in questa nebbia,
mantello dell’autunno castelnuovese,
che diventa collezione romantica di perle
che, come gocce infinite,
si disperdono nei vicoli e vie di Castelnuovo.
Con la pioggia, gli angoli castelnuovesi
travolti e disegnati sulla nebbia,
sono le quinte e scenografia
del palcoscenico per rappresentare
e immaginare, le metafore,
le analogie di inediti racconti
che ,come gli occhi delle donne castelnuovesi ,
sono sempre in attesa del sole,
mentre, nell’angolo ,si trovano
angeli che ascoltano racconti che cercano mani
annegate nel vento del nulla.
Dalla torre cadono le ore
avvolte nei sogni all’interno di bolle di sapone
sogni in cerca di occhi
che mi accompagnano verso
il crudo cibo della realtà
del gelo freddo castelnuovese.
P.S.
Racconti in cerca di occhi
che come le mie mani cercano, sempre, le tue.
Castelnuovo, lo scantinato del chiacchiericcio .
L’orgia delle chiacchiere castelnuovesi
ha partorito il libro dei rancori ,
album così caro a voi che affilate le parole
e lo sguardo per colpire in silenzio,
un silenzio che riempie il vuoto del vostro scantinato
dove vivete ,galleggiando, sulle acque nere del vostro odio.
Voi vi nutrite del male, avete fame del male .
Voi siete il buio che vestite con la nebbia dei vostri occhi,
la vostra voce è come il sibilo della serpe.
Al vostro richiamo rispondono solo i latrati, lontani, dei cani randagi.
L’umido, insopportabile, del vostro respiro
è un virus letale che infetta il mio Castelnuovo.
Castelnuovo, i colori e l’ideologia.
Questa mattina i colori di Castelnuovo
si disperdono come stelle filanti.
Colori profumati, impercettibili, e nascosti
tra il linguaggio degli ulivi.
E’ questa una mia visione interiorizzata,
ma sempre in cerca di un approdo sicuro.
Si, Castelnuovo non può essere un racconto sommario
ma, come le sequenze chimiche , deve espandersi
in una litania nell’immenso cielo.
Castelnuovo diventa una litania senza amen,
e senza consistenza, un oggetto fantasma
all’interno di una storia inaccessibile
che si frantuma come stelle filanti
nell’intimità di esperienze sofferte e malate
che diventano , esse stesse, oggetti appesi alle pareti del mio io.
Castelnuovo mi tenta ancora al peccato dell’illuminismo,
e così l’ideologia diventa il mio luogo del “niente”,
l’elemento misterioso di una poesia forgiata con i colori della pietra.
Colori castelnuovesi e tristezza ideologica
che sono come i dubbi di Amleto
in cerca di Ofelia che disperde, così tremante, i colori
della sua fragile innocenza.
Piange Castelnuovo in cerca dei colori,
sepolti trai vecchi tronchi deposti a terra ,
terra scura come i sogni svaniti all’alba
di questa poesia, ora diventata logora e affaticata
mentre rincorre il colore di questo giorno
sempre uguale agli altri.
”Novembre castelnuovese.”(1976)
Sono debole ed è allarme fragilità.
Il dolore cronico di un’opera senza citazioni,
ma, per fortuna, sono gli zuccheri
a indicarmi la luna .
Ma è l’Ulysses di James Joyce che insiste e logora la mia fragilità.
Percorsi, postumi, per correre nella bellezza dell’acqua piovana
Non più incubi illustrati,
ma solo semplici foto di una luce debole,
Fragile.
Debole come il probabile ,ammirando, di viziati ritratti,
ora
è sempre più fragile dipingere il desiderio in modo godibile
nel “mentre”, gli affreschi dei miei sogni non hanno illustrazioni patinate.
Castelnuovo è la mia, orrenda, poesia per odiarmi,
è tutto inutile so già che il foglio bianco
è di un nero brillante .
Castelnuovo , a volte aristocratico e dominante
È una nave pregiata , visibile e bella, che naviga in formazione
Dentro la flotta dei Borghi sabini.
Castelnuovo non prenderà il largo
In quell’oceano del futuro,
Castelnuovo
Un colore diverso della schizofrenia tracciata da un sismografo impazzito.
Castelnuovo il borgo delle decapitazioni delle idee e tomba dei sogni.
Le illusioni di un sabato castelnuovese
È una comicità tragica di un copione senza parole.
Ombre,
si ,ombre cinesi
sono adagiate sul mio foglio bianco
e
dal nero volano gialle farfalle
esse
“PARLANO PAROLE DENTRO LE BOLLE DI SAPONE”
Raccontano , elevandosi in un vortice,
di un Castelnuovo disperso all’interno di mura ciclopiche.
E’ forse l’ora
Che torni alla montagna,
Alla roccia,
Alla neve,
Alla nebbia di questo sabato di novembre
Ho ora l’inchiostro nelle mie mani
Per dipingere cerchi senza misura,
e senza diametro.
Come sono lontani dal mare questi sabati castelnuovesi.
P.S. Ogni libro intorno a me ha un’anima, ma non riesco a trovarla essa corre e si nasconde per le vie di Dedalo.
Come disse James: “non so in che ordine vanno le parole”.
Allora che senso ha scolpire in forma dedalica una pagina bianca?
Certamente Castelnuovo non è una scultura greca, ma ha , possiede, un’anima : “ossessiva, assordante.”
Castelnuovo, il mio Castelnuovo, è un libro raro per pochi eletti.
Castelnuovo di Farfa le tracce del Razzismo- (Archivio 1986)
Brividi, incubi
Appesi a una catenella, come l’odio “Cara Poesia”.
Non può essere la cultura della nostalgia.
Così
Le ragazze che abitano a Nord, nel buio
Leggono le lapidi con le dita della mano
Non hanno lo sguardo per nuovi fantasmi
La loro lentezza , come nelle onoranze funebri
Sottolinea il desiderabile
Esalta
“l’estetica della fatica”
Castelnuovo , il razzismo è scritto in cifre
Nei conti correnti del cemento.
Castelnuovo mostri usciti da un thriller
Delle follie umane,
si
l’altra faccia di Castelnuovo:
L’altra parte della barricata;
Castelnuovo, l’alcool
E il pezzo della bassa manovalanza.
Castelnuovo: Dare voce alla volontà di esistere
Oltre le follie ,
i sorrisi e i racconti da osteria.
La lavanderia degli anni non cancella
Il seme dell’odio
RANCORE AVVELENATO:
“i feroci anni castelnuovesi”
sono sulla sponda avversa.
Ora posso vedere, ho catturato
L’impressione di una Rivoluzione.
“NON UN LAMENTO ESCE DALLE FERITE”.
Sulle sponde del Farfa-
Dove ho lasciato a riposare il sole
carnefice inchiodato al cielo
e la luna che aspetta l’ora silenziosa
di una solitaria speranza
scritta sui muri bianchi
e come i pensieri riflessi nei torrenti
che cercano la luce degli occhi.
Si
Io getto i miei pensieri nell’acqua
e rintraccio i miei occhi.
Apro i silenzi ,come riti al crepuscolo,
quando il vento fa crollare
le foglie
e la mia angoscia mi fa vivere il nulla.
Ora è il tempo del silenzio
ho già spento le grida
di schegge taglienti.
Il docile germoglio
di lotte essenziali
sono gocce di opaco sole
che annodano il sangue
e rincorrono gli echi
nascosti nell’ombra
di una cascata di acqua
e tu, assassino feroce,
hai distrutto il sogno,
scritto sul pentagramma,
mentre lo recitavo a braccia nude tra i profumi dell’erba
sulla riva del Farfa.
I vecchi libri
I vecchi libri sono come sculture
di una vita del dopo,
sono ritagli di tempo
e risultati di calcoli per una rotta tracciata
alla ricerca di sentieri che segnano l’anima.
Sentieri solitari e sospesi sulle emozioni
che si anellano all’interno di un cerchio
di passione e scrittura.
Ed è così, mentre i gatti si addormentano
sull’autobiografica di un’oscura psicologa analista,
che mi interrogo sui Dialoghi, ormai scheletri, di Platone,
si, proprio quelli
che ho sepolto
nei miei appunti tra i libri e nascosti in alto sugli scaffali.
L’Estate castelnuovese (1978)
Dai campi si leva
un coro serrato di cicale .
Il rosso , taciturno, dei papaveri
veglia il riposo delle poche parole
di desiderio silenzio.
Poi, la sera ,lo sguardo abbraccia fosforescenti geometrie
che nascono dall’immobilità della stanchezza.
Ascolto note di avventure eccessive, affogate in follie singolari.
I miei occhi (pallidi) sono sguardi (stanchi) ai margini dei campi.
Ora, del giorno, che corre al tramonto, ne dimentico l’alba.
Se Castelnuovo (Archivio 1981)
Castelnuovo,parole meravigliose, se le saprò vestire e dipingere, con le foglie degli ulivi , nella dolcezza della sera.
Castelnuovo, se saprò descrivere, scrivere e incidere, il fascino raffinato dei colori, così come sono tradotti e vissuti nella spiritualità dell’anima.
Non ho un teschio in mano, non ho i dubbi di Amleto, non scriverò i tormenti,la nebbia dei miei dubbi, non sono Shakespeare.
Non trovo statico il legittimo dubbio che vaga , da sempre, nel labirinto di Dedalo.
Castelnuovo, non è il Castello di Elsinore o quello di Dracula. Castelnuovo è, a volte ,un inquieto schema di vie dove si rincorrono i pensieri partoriti da uno spirito notturno per un progetto del bello.
Castelnuovo è un pensiero filtrato,
Castelnuovo è potenzialità: non idea, ma sostanza.
Il fuori posto della mia poesia ,Castelnuovo se lo chiami “musica” o “poesia”,
( neanche Cartesio mi aiuta ad uscire dai meandri del nozionismo).
Le ferite aperte sono il suono di una domanda antica, la pericolosa,( gesuitica?), insoddisfazione.
Eppure la notte si adagia , sempre, sui tetti e il “genio maligno” fugge, finalmente , dalla mia esistenza.
Conosco la luce di Castelnuovo, Castelnuovo non è la mia “provincia oscura”.
Castelnuovo è una divinità ed io ai suoi piedi ho lasciato i miei sogni, i miei sguardi, i miei pensieri, i miei versi.
Castelnuovo: ora non confondo più il buio con la tenebra. Oggi, ora, non ho più paura della notte.
MURALES CASTELNUOVESE- libro di Franco Leggeri
….e la lancia dell’ultimo sole
squarciò il sipario della notte alla luna castelnuovese…
Ho iniziato a scrivere MURALES CASTELNUOVESE , non perché ci fosse bisogno di altra carta stampa, ma perché volevo viaggiare, con la fantasia, in un Borgo solidale e pacifico di un tempo e questo era il mio Castelnuovo e questo è il mio modo di raccontarlo.
Ho trovato semplicemente delizioso, un po’ come aprire un barattolo di marmellata, quando appassionatamente rivivo in forma di Poesia questo mondo e l’emozione di scrivere esperienze incise sui volti dipinti nei miei Murales.
Mi emoziono a ogni pagina… sento sempre più forte il desiderio di partire e di terminare il viaggio . Caro Castelnuovo, ti ho conosciuto, in profondità, poco per volta devo dire che ho trovato , l’intuizione, l’alfabeto, e le parole da scrivere ad ogni tuo angolo ad ogni tua via. Confesso che mi emoziono , rileggendo gli scritti “ammassati “sulla scrivania. Devo lavorare sulle citazioni, ma ormai , forse, sono in dirittura di arrivo. Il mio lungo MURALES CASTELNUOVESE me lo sto gustando…lo rileggo poco per volta, e lo gusto come un vecchio whisky . Il fascino incredibile di questa avventura letteraria tutti i volti, i soggetti bè sono anche “metropolitanizzati” e per questo i miei “editor”, si ho due “editor”, i miei nipoti Flavio e Flaminia Leggeri. Flaminia mi corregge i passi successivi e i viaggi fantasiosi mentre Flavio , ahimè, i “congiuntivi” e l’architettura della pagina.
Sono felice di aver avuto l’opportunità di scrivere, devo terminarlo, per poi condividere questa esperienza con altri , forse, pochissimi Castelnuovesi.
Sto controllando che ogni parola abbia la sua giusta collocazione, per questo leggo senza fretta, cercando di comprendere bene il significato di ogni frase che mi trasmette l’energia di chi riesce a vivere veramente il cammino e realizza il sogno di trasferirlo agli altri attraverso le parole, così da rendere la “strada dei Murales ” infinita, nella speranza di passeggiarvi nuovamente.
E’ solo una parentesi
E’ un’ora di riflessione e mi approprio
di metafore e strumenti.
Ora il mio lirismo è prigioniero
in un cerchio di rose
rosse come infuocate armate
e avanzano petali di parole,
regimenti di sogni,
che sono pronte a combattere contro
la repressione della libertà.
Ho il lusso della fantasia
per correre dietro le nuvole
cariche d’ideali.
A volte ,
solo certe volte,
quantifico le emozioni che sono voci e gridi
così
come l’eterogeneo collettivo
delle note che occupano gli spazi e le righe
in assemblea permanente
nel pentagramma della mia anima.
A volte, le invertebrate note
si nascondono nei colori della mia terra
e le parole e l’immagine
del vecchio neorealismo
offusca l’esordio di questa strana parentesi
inserita e , forse, inopportuna
nel discorso di un vecchio castelnuovese.
Castelnuovo, Noi i ragazzi di via Coronari.
Amici miei, siamo quelli che abbiamo intrecciato i nostri sogni
come i vimini di un canestro
e, poi, li abbiamo riposti, nascosti
così lontano dalla vita vera.
Erano le inutili verità
rifiutate da noi adolescenti
che sapevamo annegare nel pane
i fiori del nostro sorriso.
Ora siamo diventati realtà dei sogni dei nostri padri
e artisti nel raccontarci una vita dispersa
nelle difficoltà di un percorso asfaltato da incognite.
Amici miei ora il sorriso
e il sospiro (soddisfatto?) di essere arrivati nell’oasi dei ricordi
quelli da noi sussurrati e nascosti tra sassi di via Coronari.
Ricordate?
Allora ci è stato impossibile
Far volare i nostri aquiloni che, oggi, ritroviamo
Se un Castelnuovese abita a Roma, ve ne sono moltissimi, nei fine settimana o per qualsiasi altro motivo decide di lasciarsi alle spalle rumori, stress e cemento dove andare se non in Sabina . E’ innegabile che la mente e il corpo si distendono immergendosi nel “morbido” paesaggio collinare , ma come descrivere , trovare le parole, il piacere di “affogare” gli occhi e l’anima tra gli uliveti . Tornando in Sabina , a Castelnuovo, ritrovi sepolti sotto una strato spesso di fogli polverosi, migliaia di immagini archiviate nella memoria. Questi fogli si sono stratificati e appiccicati l’uno all’altro, ma è ancora leggibile lo scritto. Qui a Castelnuovo ritrovi i volti del passato vedendo i giovani che corrono per la piazza. Certo a Castelnuovo , tappa intermedia tra passato e futuro, scopri che puoi ancora incontrare un sorriso e chi crede ancora nella stretta di mano. Si , qui a Castelnuovo puoi incontrare ancora un sorriso che si allarga e ti viene incontro per una stretta di mano per dimostrare , a me, che esistono ancora ricordi e voci che hanno segnato , inciso, le notti castelnuovesi senza lampioni. Disperdi l’ansia quotidiana, ma ricordi e rivivi l’ansia di guadagnarsi il futuro , proprio qui dove hai costruito il timbro della rabbia e lo slancio per la lotta.E’ qui che mi chiedevo cosa ci fosse oltre l’orizzonte, ma non è questo il giorno, oggi, per essere l’archeologo del ricordo.Ormai, forse, solo la Poesia ha un effetto tellurico e carnale che sa trasformare il mio tempo. Il “tempo differente” in tempo di Poesia; di salvezza e di recupero di tutto ciò che l’uomo perde nel suo allontanarsi dall’infanzia, beata età dell’innocenza, che nella memoria poetica diventa un luogo di simboliche appartenenze. Qui a Castelnuovo, le fragili figure dei sogni rivivono , sono ferite, le più insanabili ferite, fatte di carne e di sangue. Ferite, sogni feriti che incontro nei vicoli di Dedalo (Castelnuovo) con un destino , un tragico destino di dolore, ma forse questa è una storia di ordinaria follia dove il pathos si genera in stigmatiche narrazioni che, poi, riesco sempre a diluirsi nella “retorica dei sentimenti”. Ai primi segni di pioggia va in frantumi, nel mio ricordo, il mondo arcadico, bucolico, ma fragile come un presepe di cartapesta. Ora a Castelnuovo regna la stirpe della “razza carnefici”, a Castelnuovo sono escluso, sono l’intellettuale-poeta, con la testa tra le nuvole e nel cuore i versi di una poesia. Si, è vero riesco ancora a sentire tra i vicoli di Dedalo le canzoni ingenue e sentimentali dell’anteguerra. E’ ora di andare ,ma resterò sempre col cuore castelnuovese. E ora lancio lo sguardo verso questo cielo carico di nubi e di spazi azzurri , sembra un cielo di Raffaello, dove le leggi della natura mescolano la vita e morte anche nel misto colore di un pomeriggio qualunque passato qui a Castelnuovo.
Castelnuovo, noi che siamo andati via.
Noi castelnuovesi che abbiamo viaggiato dietro la polvere
alzata dagli zoccoli dei cavalli del padrone.
Noi che abbiamo bevuto l’acqua del nostro fiume Farfa
e mangiato il pesce pescato in quelle Gole
maestre del nostro nuoto .
Castelnuovo , siamo andati via
seguendo la luna del mattino
tra gli sguardi nascosti dietro le finestre.
Siamo andati via cercando il sole,
il suo nascondiglio dietro Fara.
Siamo andati via , non ricordo, o non voglio ricordare la stagione
dei silenzi, madre dei nostri mille perché.
Siamo andati via noi che conoscevamo
il suono della cedra solo dal racconto dei vecchi castelnuovesi
guerrieri reduci di assurde e folli guerre in terre lontane.
Siamo andati via , noi poveri tra i poveri,
accolti da Pasolini e da Mamma Roma.
Siamo stati neorealismo e protagonisti
di pellicole in bianco e nero.
Castelnuovo, noi torniamo con le nostre cicatrici e i nostri racconti.
Noi castelnuovesi abbiamo nostalgia
dei vecchi sorrisi , dei volti amici,
siamo tornati con lo zaino ancora pieno di perché.
Siamo tornati alla ricerca dei suoni e voci antiche,
quelle conservate in angoli chiusi e bui.
Siamo tornati per rileggere lapidi a noi care.
Castelnuovo, siamo tornati ora
tra sguardi estranei alle nostre cicatrici.
Eppure, Castelnuovo
noi non siamo mai andati via
perché abbiamo nelle nostre vene il tuo sangue.
Torniamo a prenderci e testimoniare quel che nessuno
potrà mai riscrivere o certificare: la nostra Storia.
La Storia quella che abbiamo lasciato
chiusa dietro le nostre vecchie porte.
Castelnuovo, si quelle porte dove aspettavamo
di uscire dietro i passi certi da seguire.
Castelnuovo, siamo tornati forti con il coraggio di terminare
l’inverno e l’amara stagione dei rancori e dell’odio.
Castelnuovo, siamo tornati per testimoniare,
per essere humus della nostra Storia .
Castelnuovo, riportiamo il tuo sangue
per nutrire il sogno vecchio e nuovo
di un Castelnuovo futuro.
Il volto senza titolo
È l’astratto segno in una cornice oscura
Divisa da un’introspezione psicologica
E dal suono primitivo del battere le mani
In mille riflessi
Si
Ho dimorato nell’inconscio
Dove
Il suono e l’armonia
Sono una narrazione di ombre rubate
Ai sogni di geometrie e geografie
Di scarabocchiati ritratti
Su di uno scarto di pensiero
Di trame d’amore
Affogo nel piacermi agitato
Mentre resto
Annoiato nel nulla
Ora sono entrato in un meccanismo ,perverso, di un’evoluzione continua.
SERA CASTELNUOVESE
La dignità è un fiore
che torna la sera.
La sera castelnuovese,
è come un evento letterario
vi sono i frammenti dei sorrisi,
luce di paradossi,
baci e fiori di campo
e la mia trasgressione
di un materialismo infinito.
Così la sera estiva è consumata,
mentre emerge la notte con le sue regole silenziose.
Ecco ora s’è spenta
anche l’ultima luce, dolce e supplichevole
come una voce umana.
Troppo umana tutta
questa sera castelnuovese.
Adesso nell’aria, c’è un vellutato riposo
di palpebre abbassate.
Castelnuovo, lo ami sempre di più…..
Finche non si arrende.
Ed ora nel buio io mi trovo ,come Telemaco, in un godimento dissipativo in riva al mare.
P.S. nota a piè pagina .
“Quale è il più grande peccato dell’uomo? E’ dormire di notte, quando l’universo è disposto a lasciarsi guardare.”(Lilaschon)
Castelnuovo,la nostalgia leggendo Cechov
Si , per avere nostalgia
Devi avere, possedere , una casa,
ma, ora, i miei ricordi sono di un rosso sbiadito
e io mi lascio cadere addosso la sera
mia compagna fedele, essenziale madre dei sogni.
La mia anima
ora è
Simile al vetro della finestra
che raccoglie le gocce di pioggia.
Nostalgia è il mio veleno Lucifero
È lui il padrone del foglio bianco
Che io cerco inutilmente di incidere con la penna rossa.
Proverò, ancora una volta, a disegnare Cechov
E “La signora con il cagnolino”
All’interno della mappa arancione
Inchiodata alla mia anima.
Ora lascio Cechov in un mare tropicale
Mentre io torno a creare un nuovo sogno
Per una casa castelnuovese inesistente.
Luna Castelnuovese. (1978)
Si muovono lentamente le foglie
come timide onde al soffio della brezza
mentre la luna, la sua faccia bianca
trafigge la fragilità dei pensieri.
Le (romantiche ) case di Castelnuovo
producono sogni, incompiuti
lontani, non al passo del tempo veloce.
Castelnuovo,
se il silenzio diventa una melodia per l’anima,
e mi segue per le vie di Dedalo, sempre uguale,
vado a contare i sogni e le lacrime
in questa notte senza un sussulto
mentre cerco i tuoi occhi dispersi nel corteo delle stelle che seguono la luna.
E pur mi associo a un sogno collettivo per il nulla ,
per, poi, ritornare nella certezza delle tue vie ,
e tu
Dedalo ,
sempre uguale, che mi segui nei miei ricordi
per godere
mentre annego nella faccia bianca della luna castelnuovese.
Né surreale , né metafisico
Portate i “fallacciani” al padrone
Castelnuovo, l’uomo servizievole che, camminando, aspetta di mangiare i “FALLACCIANI” del padrone.
Il “Vero sindaco”, quello ombra, merita l’omaggio:” E il servo devoto gli rifornisce la tavola con deliziose primizie.”
E’ questa l’immagine di una quieta giornata castelnuovese senza tempo. La resa, quasi pittorica, del gesto servile, minuziosa nei dettagli e sapiente nei colori dell’offerta dei “fallacciani” . Quadretto che appare in perfetto equilibrio con l’idea struggente della vita che, in continuo divenire, anima e illumina di senso, contenuti e spessore, la realtà del nostro piccolo Borgo.
E se anche una bugia
Può essere una verità
Sarà come parlare
Della dialettica di Platone
Con uno sconcertante
Essere
la mente e destino da retrovie,
Appunto,
è navigare le bugie per trasformarle in verità …apparenti.
Il servo che guarda sgomento il “ cesto pieno di fallacciani” che , ahimè, sfuggitogli di mano è il simbolo di un tempo che evidenzia e sottolinea la ,triste, verità.
È lui il” tuo padrone”: rendigli omaggio.
E ,in fine, il servo con la cravatta ha gridato :
”PORTATE I FALLACCIANI AL PADRONE”.
Mentre uno stormo di uccelli volteggia attorno al campanile e l’aria della sera si fa umida e profumata. Ora sembra avverarsi, quasi vicino, il sogno del servo fedele . Sogno che, da molto tempo già assapora il servo e che, forse, un giorno anche lui assaggerà , finalmente,
il“ FALLACCIANO ” del padrone.
I BASTIONI di Castelnuovo.
Le distese arate
Erano come seni
Della madre che offre la vita
Alle labbra del bambino.
L’anima lasciata sui bastioni di Castelnuovo,
mi allontana dalla giovinezza.
Lascio i libri , e coagulo l’attimo
del “prima” e del “poi”.
La lotta e la clemenza infinita
Sono la traccia per il dialogo con me stesso.
Ora uscirò illeso da poesie sconosciute.
I GRAFFITI di CASTELNUOVO
Ho contemplato le facciate di Castelnuovo
Ho memorizzato, cercato, ogni dettaglio
Ho inciso tutto nella mia memoria
Ho registrato i suoni, grida, i pianti, i singhiozzi e i gemiti
Ho evidenziato i colori del giorno e della notte
Ho scritto Castelnuovo nel mio muro degli appunti.
Ecco, ora i sogni stanno fuggendo dalle mie mani.
P.S.
Castelnuovo, i suoi bastioni
Dall’umile casa della mia semplice giovinezza, ricordo le scale buie, le stanze piccole e basse, dove si respirava la dignitosa povertà. Non vi erano tende di seta blu con risvolti cremisi, non si serviva il caffè agli ospiti in visita. Era questa la mia casa, la casa dell’infanzia, la mia infanzia . I libri furono i miei canali satellitari e Montale, Ossi di Seppia, la mia navicella spaziale. La semplicità dei rapporti , il rapporto sociale, era una condizione , inconsapevole, ma fondamentale di una vita serena .
Possiedo ancora Ossi di Seppia, la III ristampa del 1954 Ed. Mondadori.
dal libro di Franco Leggeri-“Castelnuovo, la riva sinistra del Farfa”
Insieme per le donne IL LIBRO FEMMINISTA CHE FECE CADERE LA DITTATURA IN PORTOGALLO Può un libro, un libro femminista, contribuire alla caduta di una dittatura? Sì, un libro femminista può anche questo!
– Rizzoli Editore-
Nel 1972, nel Portogallo che vive una dittatura ormai quarantennale, viene pubblicato un libro: “Le nuove lettere portoghesi” di Maria Isabel Barreno, Maria Teresa Horta e Maria Velho da Costa, tre autrici il cui impegno femminista è già noto alle autorità, che di fatto le controlla.
Le Tre Marie, come verranno chiamate da questo momento in poi, descrivono nero su bianco che cosa sia la dittatura portoghese: attraverso un’opera epistolare collettiva scritta a sei mani, le autrici tratteggiano una società patriarcale, sessista e misogina, fortemente razzista nei confronti delle colonie.
Il testo affronta temi quali la riappropriazione e l’autodeterminazione del corpo femminile, il diritto al piacere, nominando nell’opera parole quali “vagina” e “clitoride”, il diritto all’aborto e all’occupazione di spazi pubblici da parte delle donne.
L’opera viene immediatamente censurata “per incompatibilità con la morale pubblica” e Le Tre Marie interrogate: le autrici non riveleranno mai chi avesse scritto cosa.
La storia delle “nuove lettere portoghesi” varca i confini nazionali arrivando in Francia all’attenzione delle più grandi femministe dell’epoca, tra cui Simone de Beauvoir.
Ne consegue una vastissima mobilitazione internazionale a sostegno delle Tre Marie, la cui opera ha di fatto contribuito a screditare l’immagine della dittatura portoghese a livello mondiale, il cui processo si tiene il 25 ottobre del 1973.
Il regime pretende che le autrici ritrattino pubblicamente affermando di non aver avuto intenzione di “offendere il governo, né il buon nome del Portogallo”.
Per il timore di grossi disordini la lettura della sentenza viene rinviata al successivo 25 aprile 1974, lo stesso giorno in cui la dittatura viene rovesciata con il colpo di stato conosciuto come la Rivoluzione dei Garofani.
Alcune settimane dopo, le Tre Marie vengono assolte da tutte le accuse.
Il giudice Acácio Lopes Cardoso emette la sentenza: “Il libro non è pornografico né immorale. Al contrario: è un’opera d’arte, di alto livello, come gli altri che le stesse autrici avevano scritto in precedenza”.
Dafne Malvasi
Per approfondire:
Maria Isabel Barreno, Maria Teresa Horta, Maria Velho da Costa, “Le Nuove Lettere Portoghesi”, Ed. Rizzoli, 1977.
https://www.ilpost.it/…/portogallo-femminismo-tre…/
Immagine tratta da: https://espresso.repubblica.it/…/libro_erotismo…/
#letremarie #nuovelettereportoghesi #Portogallo #donnecontroladittatura #librifemministi #insiemeperledonne
“Scrivere le Nuove lettere portoghesi è stata una delle cose più importanti della mia vita”
[intervista apparsa sul portale portoghese di informazione alternativa Esquerda.net il 25 ottobre 2020 a cura di Mariana Carneiro – traduzione e note a cura di Alice Girotto]
Il 25 ottobre 1973 ebbe inizio il processo alle “Tre Marie”, autrici del libro Nuove lettere portoghesi. In quest’intervista concessa a Esquerda.net, Maria Teresa Horta parla del processo di creazione letteraria, della persecuzione che subirono e del movimento di solidarietà che intimorì il regime fascista.
Nel maggio del 1971 Maria Teresa Horta, Maria Isabel Barreno e Maria Velho da Costa iniziarono a scrivere, a sei mani, le Novas Cartas Portuguesas (‘Nuove lettere portoghesi’). Per la scrittura collettiva, si accordarono di partire dalle lettere d’amore indirizzate a un ufficiale francese da Mariana Alcoforado, pubblicate in Portogallo in edizione bilingue dall’editore Assírio & Alvim con il titolo Cartas Portuguesas (‘Lettere portoghesi’) e tradotte da Eugénio de Andrade.[1]
In Nuove lettere portoghesi Maria Teresa Horta, Maria Isabel Barreno e Maria Velho da Costa sfidano la dittatura, l’ordine patriarcale e le convenzioni sociali del paese. Nell’opera vengono denunciate le diverse oppressioni subite dalle donne, il sistema giudiziario che perseguitava le donne scrittrici, così come la guerra coloniale e la violenza fascista. Esattamente 47 anni fa, il 25 ottobre 1973, ebbe inizio il processo alle “Tre Marie”. In occasione di questa data, Esquerda.net ha intervistato Maria Teresa Horta, che ringraziamo per la disponibilità e la gentilezza.
Come conobbe Maria Isabel Barreno e Maria Velho da Costa, le altre due “Marie” con cui avrebbe scritto le Nuove lettere portoghesi?
Io ero giornalista al quotidiano A Capital, dove coordinavo il supplemento letterario “Literatura e Arte”, e un giorno intervistai Maria Isabel Barreno. Da quel momento diventammo amiche. Nel frattempo, Fátima [Maria Velho da Costa] pubblicò Maina Mendes. Quando lo lessi, parlai con Isabel, che mi disse che lei e Fátima erano molto amiche e lavoravano insieme all’Istituto nazionale di ricerche industriali. Mi diede subito il contatto di Fátima per poter organizzare un’intervista. Chiacchierammo per sei ore, uscì da casa mia alle sette di sera passate. Dopo quest’incontro iniziammo, tutte e tre, a incontrarci tutte le settimane. Sentivamo che avevamo molte cose da dirci. Avevamo molto in comune. Isabel veniva in macchina con Fátima e venivano a prendermi al giornale. Pranzavamo sempre al Treze, nel Bairro Alto a Lisbona, dove, all’epoca, si incontravano i giornalisti. Durante i nostri incontri, parlammo varie volte di scrivere qualcosa insieme. Era un progetto che continuavamo a rimandare. Con la pubblicazione del mio libro Minha Senhora de Mim (‘Mia padrona di me’) tutto cambiò. Smettemmo di essere solo le amiche che si incontravano per parlare di letteratura, della dittatura e della situazione delle donne e iniziammo a scrivere un libro insieme: le Nuove lettere portoghesi. Era il maggio del 1971.
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Il libro Minha Senhora de Mim fu ritirato immediatamente dalla polizia politica (PIDE) e le valse, oltretutto, un pestaggio. Può parlarmi un po’ della persecuzione che subì?
Le Nuove lettere portoghesi non esisterebbero se non esistesse il libro Minha Senhora de Mim. La mia vita cambiò radicalmente quando lo pubblicai. La PIDE lo ritirò otto giorni dopo e Snu Abecassis, fondatrice della casa editrice Dom Quixote, fu chiamata dal direttore del Segretariato nazionale di informazione. Moreira Baptista le proibì di tornare a pubblicare una mia opera. “Qualsiasi libro?”, gli chiese Snu, al che lui rispose: “Se il libro si intitola La storia del piccolo maggiolino ed è firmato da Maria Teresa Horta, le faccio chiudere la casa editrice”. A quell’epoca, Moreira Baptista già mi odiava. Ero l’unica donna direttrice di un circolo cinematografico e i circoli erano centri di grande resistenza politica. Un giorno andammo al Palácio Foz, sede del Segretariato, a protestare perché Moreira Baptista aveva proibito un ciclo di film di Visconti che stavamo organizzando. Quando mi vide, chiese cos’è che stava facendo lì quella ragazzina. Gli spiegarono che non ero una ragazzina, ero una scrittrice, sposata, e direttrice dell’ABC. Mi guardò e disse: “Povero paese il nostro, in cui ci sono già donne direttrici di cineforum”. A partire da quel momento diventò il mio peggior nemico.
Dopo il ritiro di Minha Senhora de Mim, divenni bersaglio di una persecuzione feroce. Fu un processo di umiliazione pura, una cosa vergognosa, offensiva. Dovetti cambiare l’utenza telefonica di casa e metterla a nome di mio marito Luís [de Barros]. All’epoca, era rarissimo che l’utenza telefonica fosse a nome di una donna. Chiamavano alle cinque, alle quattro, alle tre del mattino per insultarmi e minacciarmi. Era inconcepibile. Dicevano cose come “Dovrebbero violentarti per vedere se ti piace”. Quando telefonavano di mattina o di pomeriggio, a volte, era mio figlio Luís Jorge che rispondeva e doveva sentire tutte quelle ingiurie su sua madre. Era di una violenza atroce. Oppure rispondeva mio marito, al quale dicevano che doveva “mettere la moglie al suo posto”. In redazione, le centraliniste dovettero istituire il triage delle telefonate, tale era il numero di persone che chiamavano e mi cercavano.
Una sera uscii di casa, nel quartiere popolare di Arco do Cego, per incontrarmi con Luís. Iniziai a salire in direzione della statua di António José de Almeida per prendere un taxi. Era un percorso abbastanza solitario. Improvvisamente, un’auto accese i fanali, iniziò a muoversi verso di me e salì sul marciapiede dove stavo camminando. Dall’auto uscirono due uomini, mentre un terzo rimase al volante. Mi gettarono a terra e iniziarono a picchiarmi. “È per imparare a non scrivere come scrivi”, dissero. Allora capii che non si trattava di una rapina, erano fascisti. Apparve un signore che abitava lì nel quartiere, padre di una mia amica. Chiese “Cosa sta succedendo?”, mentre correva verso di me. Gli uomini entrarono nell’auto e sparirono. Il signore mi portò all’ospedale e sua moglie chiamò alla redazione del Diário de Notícias. Qualcuno doveva avvisare mio marito di quello che era successo. Venne da me subito profondamente turbato. Mi medicarono e mi diedero i punti.
Tutto questo per un libro! E un libro bello, che non è neppure il più erotico che ho scritto e in qualche punto è quasi ingenuo.
È in seguito allo scandalo provocato da Minha Senhora de Mim e alla persecuzione da lei subita che decideste di sfidare il regime fascista e scrivere, a sei mani, le Nuove lettere portoghesi. Come nacque quest’idea?
Circa una settimana dopo l’aggressione, andai a pranzo con Isabel e Fátima. Incontrai per prima Fátima. Quando mi vide, rimase indignatissima per il mio stato, per quello che mi avevano fatto. Di fronte al subbuglio provocato dal libro, allo scandalo che si generò e per il fatto di essere stata inseguita, minacciata e picchiata, Fátima lanciò la sfida: “Se una donna da sola provoca tutta questa confusione, questo subbuglio, questo scandalo, cosa succederebbe se fossimo in tre?”. L’idea mi piacque subito. Nel frattempo, arrivammo al Treze, dove Isabel stava scrivendo su un foglio. Le parlammo dell’idea di scrivere un libro insieme, molto entusiaste. La sua reazione fu: “Che rompiscatole, ne inventate sempre una. Proprio adesso che sto scrivendo A Morte daMãe (‘La morte della madre’)…” (un libro magnifico). La settimana dopo, quando ci incontrammo di nuovo, Isabel aveva già un primo testo, la prima lettera. Fu così che nacquero le Nuove lettere portoghesi.
Conosciamo la “maternità” solo di questo stesso testo. Del resto, vi siete reciprocamente promesse che non avreste mai rivelato chi aveva scritto che cosa. Com’è stato questo processo letterario collettivo?
Oltre al nostro pranzo settimanale al Treze, decidemmo di incontrarci una volta alla settimana in casa di una di noi. L’idea era di alternare di volta in volta il luogo, solo che la stragrande maggioranza delle volte finimmo per riunirci a casa mia. Definimmo diverse regole. Ognuna di noi doveva dare alle altre una copia, battuta a macchina, di quello che avevamo scritto. Durante i nostri incontri non discutevamo solo della costruzione letteraria del libro, parlavamo anche di altre questioni che sorgevano man mano nel corso del processo. Sostanzialmente, discutevamo di tutto. Dovevamo leggere il nostro testo a voce alta alle altre e qualsiasi testo poteva essere rifiutato. Non era affatto il caso di “Io scrivo e voi sopportate”. Poi avevamo dei rituali scherzosi. All’inizio e alla fine dicevamo sempre determinate parole, come se fossero password. Era una specie di gioco. La nostra generazione lo faceva spesso, usavamo parole di cui solo noi sapevamo il significato.
Qualcuno dei testi è mai stato rifiutato?
Neanche uno.
E modificavate i testi le une delle altre?
No, mai, né volevamo farlo. Se non eravamo d’accordo, ne discutevamo lì. Cercavamo di convincere l’autrice del testo a cambiarlo. Chiaramente potevamo rifiutare il testo nella sua interezza, ma di fatto non lo facemmo mai, né mai nessuna di noi disse che non le piaceva il testo di una delle altre due. E tutto questo era la verità. Discutevamo molto dei testi e dello sviluppo della storia. Era dai testi che stavamo discutendo in un dato giorno che partivamo per nuovi testi. Spesso avevamo visioni diverse e scrivevamo testi che andavano in direzione contraria a quella che un’altra stava seguendo, ma lo facevamo in modo letterario, non in modo critico.
Era una vera sfida…
Assolutamente sì! Stavamo lì a discutere ore e ore. Ognuna parlava del testo delle altre e ognuna di noi difendeva il proprio testo. Fu molto intenso.
Ricordo di averla sentita dire che scrivere quest’opera è stata una delle cose più divertenti e avvincenti che ha fatto nella vita. Mi può spiegare perché?
È stata davvero una delle cose più importanti e divertenti che ho fatto nella vita. Ridevamo così tanto! Eravamo tutte molto scherzose. Il libro è pieno di umorismo. Quando affrontiamo il discorso della mascolinità, non c’è niente di più devastante che usare l’umorismo per far arrabbiare quelle creature.
Era una battaglia politica che stavate ingaggiando…
Era fortemente politica e fu un processo politico, anche se i fascisti hanno sempre tentato di far credere che era una questione di morale e buoni costumi. Molte persone sapevano già che stavamo scrivendo il libro e lo consideravano come una specie di vendetta. Non contro gli uomini, ma contro chi ci chiamava in tribunale e ci proibiva di scrivere, come già era successo con Natália Correia.[2] E questo è uno dei motivi che spinse così tante persone a offrirsi successivamente come testimoni della difesa.
Quanto tempo impiegaste per scrivere il libro?
Nove mesi, dal 1° marzo al 25 novembre del 1971. Ce ne rendemmo conto solo quando stavamo preparando le copie del libro da consegnare alle case editrici. Eravamo a casa mia. Natália Correia della Estúdios Cor, Leão de Castro della Europa-América e Pedro Tamen della Moraes Editores rimasero nel salottino al piano di sotto, aspettando le copie del libro per prenderne una e decidere se volevano pubblicarlo. Mentre preparavamo i mucchietti chiesi quanto tempo ci avevamo messo per scrivere le Nuove lettere portoghesi. Arrivammo quindi a questa conclusione: nove mesi, il tempo di una gravidanza. È impossibile che sia un caso. Quale fu la reazione degli editori al libro?
Leão de Castro, proprietario della casa editrice Europa-América, mi telefonò per spiegarmi che non poteva pubblicarlo perché gli avrebbero fatto chiudere e non sarebbe riuscito a pagare i tipografi. I proprietari della casa editrice di Pedro Tamen non accettarono di pubblicare le Nuove lettere portoghesi. Natália disse invece che, se non le avessero avallato la pubblicazione, si sarebbe licenziata. I proprietari della Estúdios Cor, che più tardi furono sentiti durante il processo e rifiutarono qualsiasi responsabilità, diedero comunque indicazioni a Natália di tagliare alcune parti, ma lei chiese a uno dei tipografi di pubblicare l’opera integralmente. Natália fu la prima persona a essere interrogata durante il processo. Volle assumersi tutta la responsabilità, affermando che, se esisteva qualcuno a cui attribuire la colpa per quel libro magnifico, era lei. Noi lo avevamo scritto, ma era stata lei a pubblicarlo. Se non fosse stato per lei, il libro non sarebbe mai stato pubblicato. Tutte le case editrici si sarebbero rifiutate di farlo. “L’unica responsabile del fatto che il libro sia finito nelle librerie per essere venduto sono io”, sottolineò Natália. Facemmo subito molto rumore in tribunale per cercare di dire che non era vero e ci fu ordinato di tacere.
Era una donna coraggiosa…
Natália era una donna straordinaria. La persona più coraggiosa che ho conosciuto. Una persona intelligente, solidale, che scriveva bellissima poesia. Era davvero una gran donna.
I fascisti considerarono il contenuto delle Nuove lettere portoghesi “irrimediabilmente pornografico e attentatore della morale pubblica” e minacciarono una pena fra i sei mesi e i due anni di carcere. Eravate già consapevoli delle conseguenze che avreste affrontato con la pubblicazione del libro? Pensavate che la persecuzione si sarebbe spinta fino a quel punto?
Eravamo curiose. Credo che sia la parola adatta. Non siamo mai state donne paurose, men che meno di scrivere. Fu, questo sì, una grossa sfida. Del resto, il libro parte dalla sfida di Maria Velho da Costa: “Se una donna da sola provoca tutta questa confusione, questo subbuglio, questo scandalo, cosa succederebbe se fossimo in tre?”. Non ci eravamo mai proposte di scrivere un libretto con tutte le attenzioni.
Stavamo sfidando il regime fascista ed eravamo assolutamente consapevoli del pericolo che stavamo affrontando. All’epoca, tutto era considerato sovversivo. Tutti noi, di sinistra, vivevamo in pericolo. Gli agenti della PIDE potevano fare quello che volevano, come arrivare alle sei della mattina a casa mia, entrare e prendermi per il collo, con il volto addossato contro la parete. Uno dei compiti di quei signori era andare a casa della gente a quell’ora. Faceva parte dell’intimidazione e del terrore permanente. Ognuno di noi aveva un “signor agente” che ascoltava le nostre chiamate. Mi ricordo di una telefonata con [José] Cardoso Pires[3] in cui mi disse “Bene, adesso parliamo al signor agente che ci sta ascoltando”. [ride] Oltre al fatto che, prima di noi, Natália Correia era già finita in tribunale ed era stata condannata per aver scritto la Antologia de Poesia Erótica e Satírica (‘Antologia di poesia erotica e satirica’).
Quello che non ci aspettavamo era tutta quella violenza, tutto l’apparato. Sentimmo cose incredibili e spaventose, anche durante le sessioni in tribunale. Già mentre stavamo scrivendo il libro Isabel e Fátima si separarono dai mariti. E non fu una coincidenza, è tutto legato alle Nuove lettere portoghesi. In questo periodo così breve le nostre vite ne risentirono, anche prima della PIDE, della polizia e del processo. Le nostre vite cambiarono completamente anche per altri aspetti: conoscemmo persone impensabili, come la Duras o Simone [de Beauvoir], uscimmo dal Portogallo…
Ci fu un tentativo implacabile di umiliarvi e intimidirvi e di fingere che non si trattava di un processo politico. Foste addirittura interrogate dalla polizia del buon costume, come le prostitute. Questo tentativo fu esplicito durante il vostro processo?
Vollero proprio umiliarci, schiacciarci. Fu sinistro. Dovemmo presentarci alla polizia del buon costume. Non ammisero mai che era un processo politico, dissero che ciò che era in causa era un attentato alla morale pubblica. Ci trattarono come delle svergognate. Tutto questo è molto importante per capire che le Nuove lettere portoghesi furono considerate gravissime per essere state scritte da donne. E le donne dovevano essere umiliate.
Quando arrivammo alla polizia del buon costume ci ordinarono di sederci, noi e i nostri avvocati, in una stanza dove c’erano delle signore. Poco dopo una di loro, la più vecchia, si alzò e venne a parlare con noi. “Voi, ragazze, siete qui a far che?”, chiese. Il mio avvocato, Francisco Rebelo, le spiegò che eravamo lì perché avevamo scritto le Nuove lettere portoghesi. Rimase molto ammirata. Ci disse che quella stanza non era per le scrittrici, era la stanza delle prostitute, e che non dovevamo stare lì: “Uscite e andate in un’altra stanza, ce ne sono varie disponibili”.
Girò il dito nella piaga. Vollero metterci nella stanza delle prostitute per cercare di umiliarci ed erano convinti che avremmo parlato, che una di noi alla fine avrebbe parlato. Prima ci sentirono insieme, poi ci chiamarono una alla volta, con il rispettivo avvocato. Quando sentirono me, mi dissero che dovevo vergognarmi, che sapevano che ero stata io a scrivere il libro. Non credevano alla storia di un libro scritto in tre, non esisteva. Fu a quel punto che Francisco Rebelo se ne uscì con quella battuta infelice: “È una specie di cadavre exquis”.
Durante l’intero processo non prendeste mai in considerazione la possibilità di smettere di scrivere o, più tardi, di ritrattare?
No! Scrivere questo libro è stata una delle cose migliori delle nostre vite. Com’era possibile? Quel processo letterario fu inedito nel nostro paese, né trovammo niente di identico in altri paesi. Stavamo facendo una cosa unica: tre donne, tre scrittrici, tre amiche che si riuniscono per parlare e scrivere di quello che volevano in un paese fascista. Il fatto che non avevamo paura fu una delle cose che più li fece infuriare. Pensavano che, essendo donne, eravamo esseri fragili e che ci avrebbero terrorizzato. Ma non ci riuscirono. Quando andammo in tribunale non eravamo piene di paura. Eravamo decise.
Il vostro atteggiamento durante le sessioni in tribunale era una delizia, con un’aria convinta, padrone di voi stesse…
Elegantissime, sempre. Ma dovevamo sistemare Isabel prima delle sessioni, perché a lei queste cose non interessavano. [ride] E arrivava in ritardo. Il giudice doveva aspettarla. Le facemmo promettere che l’ultimo giorno sarebbe stata splendida e, infatti, fu così.
E non era solo il fatto di essere elegantissime, ostentavate anche un sorriso in viso.
Nonostante tutta la violenza che subimmo, di fatto non lasciammo mai trasparire intimidazione. E molto di ciò che ci circondava risultava addirittura comico: dall’assistente che trascriveva tutto quello che veniva detto, perché non veniva registrato niente, e interrompeva costantemente per chiedere se “sutura” si scriveva con –s o con –ç, al procuratore che sembrava essersi provato gli interventi prima di andare in tribunale… Tutto questo ci faceva ridere. [ride] Non ricordo di aver avuto paura nemmeno una volta, neppure quando uscii di casa per andare in tribunale pensando che il giudice avrebbe letto la sentenza.
La prima volta che siete comparse davanti al giudice avete avuto il privilegio di assistere a situazioni piuttosto ridicole. Può parlarmi di quel momento?
La prima sessione si svolse al primo piano del tribunale della Boa Hora, nel luglio del 1973. Il giorno dopo iniziavano le ferie giudiziarie, perciò per tre mesi non tornammo in tribunale. L’inizio ufficiale del processo venne fissato per il 25 ottobre, con un giudice e un procuratore diversi. Esattamente il giorno prima di questa prima sessione rimasi senza avvocato. Alla fine fu Duarte Vidal, avvocato di Isabel, a rappresentarmi. Il procuratore si entusiasmò a tal punto che iniziò a parlare senza fermarsi e sempre più forte, per spiegare perché eravamo in tribunale e quanto quel libro fosse orribile e nefasto. Tutto avveniva a porte chiuse, senza pubblico, perciò non so bene a chi stava cercando di spiegarlo. Sembrava che avesse provato il suo intervento a casa con la moglie, per confermare che gli veniva bene. Il giudice teneva già le mani in fronte, quasi a dimostrare di essere già stanco di ascoltarlo. A un certo punto, il procuratore, vestito con quella tunica nera, prese un esemplare delle Nuove lettere portoghesi e lesse un passo. Ne approfittò per dire che non eravamo delle signore, perché una signora non avrebbe scritto una cosa come quella. Pensava che ci stava offendendo tantissimo. Il passo che scelse fu il seguente:
Fragili sono gli uomini di questo paese di nostalgie identiche e paure e avvilimenti. Fragilità camuffata in vari tentativi: sfidando tori in piazze pubbliche, per esempio, corse di macchine e lotte corpo a corpo. O mio Portogallo di maschi che ingannano l’impotenza, animali da monta, stalloni, pessimi amanti, così frettolosi a letto, attenti solo a mostrare il cazzo.
Fu la ridarella totale. Gli avvocati scoppiarono a ridere, anche noi scoppiammo a ridere. Il giudice tentò di dissimulare la risata mettendosi la mano davanti alla bocca. Fu una cosa ridicola. La sessione finì lì, anche perché, non appena terminò la sua rappresentazione teatrale, il procuratore uscì dalla porta. Isabel, con quell’aria tranquilla che aveva sempre, ci chiese di coprirla mentre raccoglieva il libro dal pavimento. La guardammo, con i suoi due metri di altezza, e le spiegammo “solo se una di noi si mette a cavalcioni dell’altra”, ma non sapevamo fare queste acrobazie. [ride] Alla fine trovammo un altro modo. Quando arrivammo accanto al libro ci fermammo, Isabel si abbassò e lo prese mentre la coprivamo. Il giudice vide, è impossibile che non abbia visto, ma non disse nulla. Siccome Isabel non aveva neppure la borsa, uscì dal tribunale con il libro in mano. Questo esemplare adesso si trova a casa di suo figlio, al quale ho raccontato questa storia.
Durante l’intero processo godeste di appoggi molto importanti, com’è il caso di Maria Lamas. In che modo venne coinvolta nel processo?
Quando Marcelo Caetano autorizzò Maria Lamas[4] a tornare in Portogallo, per dimostrare che era molto benevolo, il processo delle Nuove lettere portoghesi era all’inizio. Lei insistette per essere fra i miei testimoni. All’epoca non capii perché, solo in seguito venni a sapere che Maria Lamas era una delle donne che partecipava alle riunioni a cui andava la mia nonna Camila e alle quali mi portava quando ero piccola. Visto che avevamo già molti testimoni e c’era un numero massimo consentito, Paulo e Carmo si rese disponibile a cedere il suo posto a Maria Lamas. C’è un episodio molto bello durante il processo. Siccome era molto sorda, il giudice ordinò di mettere una sedia accanto al suo banco e fu lui a farle le domande. A un certo punto le disse: “Allora, la signora pensa che le donne sono oppresse?”. Lei rispose: “Se io sono oppressa? Ah, molto, dottore, dalle mie figlie”. Penso che sia la cosa più stupefacente. Naturalmente scoppiò una risata generale. [ride]
A un certo punto lei, Isabel e Fátima decideste di inviare all’estero tre libri delle Nuove lettere portoghesi, accompagnati da tre lettere: a Simone de Beauvoir, a Marguerite Duras e a Christiane Rochefort. Perché queste tre figure?
Sì, decidemmo di inviare i libri quando la situazione era già abbastanza pericolosa. Non appena il libro venne proibito, Duarte Vilar, che era già amico di Isabel e fu il suo avvocato, le disse che dovevamo divulgare quello che stava succedendo e le chiese se aveva conoscenze fuori del paese. Lei rispose di no, ma che le avevo io, in particolare di gruppi che lavoravano con Simone de Beauvoir. Un amico di Isabel si offrì di portare tre libri e tre lettere nel suo viaggio a Parigi. Fu molto coraggioso, sapendo del pericolo che correva. All’epoca, quando andavamo all’estero, i nostri bagagli erano perquisiti da cima a fondo. Se la PIDE avesse visto una cosa del genere l’amico di Isabel sarebbe stato arrestato immediatamente.
Quando parlammo delle femministe alle quali avremmo inviato i libri, c’erano due figure che emersero subito. Una di loro era Simone. Chi meglio di Simone de Beauvoir? Assolutamente nessuno! Era la donna e la grande scrittrice più conosciuta un po’ in tutto il mondo e un’indiscutibile femminista. Sapevamo anche che c’erano diversi gruppi di donne che lavoravano con lei, di cui uno latino-americano, che poteva tradurre le Nuove lettere portoghesi. Marguerite Duras era, e continua a essere, la mia passione. È un punto di riferimento per la mia vita. Una donna molto difficile e favolosa. Simone era già molto meno irriguardosa. Christiane Rochefort scriveva molto sulle donne. Ma, di fatto, le due donne che fecero di più per il libro furono Duras e Simone.
Il libro Nuove lettere portoghesi non è pornografico né immorale. Al contrario, è un’opera d’arte di elevato livello, che segue altre opere d’arte che le autrici hanno già prodotto.
È impressionante come le cose cambino…
[1] In Italia, l’edizione più diffusa delle Lettre portugaises, testo anonimo francese del 1669, è quella curata da Brunella Schisa per Marsilio con il titolo Lettere di una monaca portoghese.
[2] Natália Correia (1923-1993) fu una scrittrice di poesia, di prosa e di teatro, oltre che giornalista, programmatrice televisiva e attivista politica, sia prima che dopo la caduta dell’Estado Novo; una donna carismatica, figura di riferimento per la cultura portoghese del Novecento. In italiano è possibile leggere la raccolta di poesie Comunicação (tradotta da Maria da Graça Gomes de Pina e pubblicata da Carocci nel 2015).
[3] José Cardoso Pires (1925-1998), romanziere, saggista e drammaturgo, è stato uno dei maggiori scrittori portoghesi contemporanei. Fra le più recenti traduzioni in italiano di sue opere vi sono Dinosauro eccellentissimo (Vertigo, 2007), Gli scarafaggi (Le nubi, 2006) e De profundis: valzer lento (Feltrinelli, 2002).
[4] Maria da Conceição Vassalo e Silva da Cunha Lamas (1893-1983) fu una scrittrice, traduttrice, giornalista e famosa attivista politica femminista. La sua opera più importante è As mulheres do meu país (‘Le donne del mio paese’), la prima inchiesta mai realizzata sulle condizioni di vita delle donne portoghesi.
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