Biblioteca DEA SABINA-Associazione CORNELIA ANTIQUA
FIUMICINO – Il Restauro del Castello di Porto
Nel 1930 l’Architetto Giuseppe Breccia Fratadocchi riceve l’incarico di restaurare il Castello di Porto presso Fiumicinoed adeguarlo alle esigenze di una nuova destinazione. La Congregazione dei Figli di Santa Maria Immacolata che lo aveva appena acquistato dalla Diocesi di Porto e Santa Rufina , Castello un tempo era la sede episcopale. L’antico Episcopio di Porto , fortificato nel XIII secolo da Papa Callisto II e nel XVI secolo da Papa Sisto IV assumendo la forma di Palazzo-Fortezza, aveva conosciuto , nel corso dei secoli, periodi di abbandono e subendo gravi danni , alternati a periodi di rinascita caratterizzati da interventi di riqualificazione e abbellimento sia nel cortile e sia nella chiesa. Al momento della vendita il Castello si presentava in grave stato di degrado e con numerosi episodici rimaneggiamenti e lavori di manutenzione provvisoria. In precedenza Papa Pio XI aveva suggerito il nome dell’Ingegner Carlo Castelli , progettista di sua fiducia, per curare il restauro. La necessità di recuperare il monumento per l’uso di un Istituto religioso a scopo educativo e con annesso appartamento riservato al Vescovo Cardinale , spinge il Cardinale Tommaso Boggiani, Vescovo della Diocesi suburbicaria di Porto, a rivolgersi al giovane allievo dell’Accademico Giovannoni. Già allora le più accreditate teorie del restauro nei casi di riuso di edifici storici auspicavano riusciti percorsi progettuali tali da garantire la vitalità stessa del monumento, in questo caso si trattava cioè di fare del Castello un “Monumento Vivente” sia pure nel rispetto di criteri fisiologici. L’Arch. Breccia segue le teorie del restauro dei monumenti già diffuse in Francia da Louis Cloquet e definite “restauri di innovazione” da Giovannoni. L’Architetto Breccia si entusiasma talmente al tema che, forte della stima del Cardinale Boggiani, costituisce una propria Impresa Edile assumendo il ruolo di progettista , Direttore dei Lavori e impresario al fine di ottenere ogni garanzia sul risultato finale . Nel novembre dello stesso anno, 1930, organizza una visita al Cantiere per il Sindacato Provinciale Fascista Ingegneri. L’esigenza di una nuova camerata proposta nel precedente studio della Diocesi con un corpo di fabbricato aggiunto ad un solo piano sul lato Sud-Ovest, ha il sapore della consueta ed estranea superfetazione la quale verrebbe a turbare l’imponente chiarezza del volume che si erige nella solitudine del paesaggio della foce del Tevere. L’Architetto Breccia opta pertanto per quella che egli considera la sola alternativa possibile: la demolizione della facciata Sud, assai modesta e di chiara fattura ottocentesca a due e tre livelli, e la ricostruzione della stessa sopraelevata di un piano ed avanzata di circa 1,8 metri dal filo della facciata precedente , cioè una soluzione in analogia con gli interventi di riallineamento ,allora frequenti, nelle riconfigurazioni urbanistiche dei centri storici . La nuova facciata, semplice, a intonaco, si caratterizza con elementi propri dell’architettura del Castello; un coronamento con merli nell’antica facciata d’origine poi nascosti dal volume ottocentesco ed il piccolo aggetto dell’ultimo piano , continuo e poggiante su mensole, elemento suggerito da un altro fronte del Castello. L’Architetto Breccia vuole evidenziare bene il nuovo volume aggiunto limitandone l’estensione e lasciando in vista , sul lato destro, il filo dell’antica facciata con una accentuata rientranza. Inoltre elimina la copertura provvisoria a due spioventi del grande torrione sulla via Portuense per sostituirla con un tetto a quattro spioventi che appoggia sulla antica merlatura ripristinata. Anche la torre mozzata dell’angolo Sud-Ovest viene liberata della copertura ad uno spiovente e e ripristinata la merlatura . Il Castello , così liberato da ogni sporadica deformazione , recupera un’immagine che si caratterizza per coerenza stilistica . Il lavoro incontrerà i più ampi consensi , ma L’Architetto Breccia dovrà rinunciare all’attività di costruttore edile , risultata troppo costosa e non compatibile con il suo carattere di appassionato Architetto. Lo stesso Cardinale Boggiani gli commissionerà poi il progetto della propria tomba da realizzarsi a Bosco Marenco (Alessandria). La Congregazione ancora nel dopoguerra si rivolgerà a lui per altri importanti lavori da eseguirsi nel palazzo romano sito in via del Mascherone.
-Castel di Guido :”Il Degrado del Sito Archeologico Casale della Bottaccia”-
Roma Municipio XIII- 19 giugno 2022-Fotoreportage dell’Associazione CORNELIA ANTIQUA-
Roma Municipio XIII- 19 giugno 2022-Franco Leggeri Fotoreportage-Gli Indiana Jones dell’Associazione Cornelia Antiqua, nella foto, Tatiana CONCAS, Mirko ANTONUCCI e Damiano FILIPPONI capitanati dal Presidente CRISTIAN NICOLETTA sono, anche oggi , entrati all’interno dei ruderi del Casale della Bottaccia . A corredo di questo articolo pubblichiamo il loro Reportage Fotografico :”Cartoline dall’inferno-Castel di Guido- Il Degrado e abbandono del Sito Archeologico del Casale della Bottaccia.
In Italia esistono luoghi, se pur carichi di storia per i Borghi dove sorgono,sono lasciati nel degrado e nella più completa rovina .Il Casale della Bottaccia di Castel di Guido non sono “pietre disperse” e senza storia , ma è sicuramente un edificio, porzione di edificio, dal passato antico che per qualche ragione sconosciuta non gode dei “diritti” di recupero e restauro come di altri luoghi simili esistenti a Roma . Il Casale è forse condannato a una fine ignobile, soffocata dai suoi stessi calcinacci?
Breve cronologia degli eventi degli ultimi anni- Storia-Ricerca Bibliografica-(Parziale e non esaustiva) cura di Franco Leggeri -le foto originali sono dell’Associazione CORNELIA ANTIQUA .
-Il Casale della Bottaccia è, risulta, in stato di abbandono già dal 1964, come documentato da una foto in possesso della soprintendenza dei BB.CC.; in tale foto si vede anche la presenza di alcuni infissi e dei tetti oggi tutti crollati e del fienile, costruito nel 1700, di cui oggi rimane solo la parte basamentale..
Nel 1992 i tetti sono mancanti in alcune parti del fabbricato come si vede dalla foto in “Elisabetta Carnabuci, Antiche Strade – Lazio- Via Aurelia, I.P.Z.S., Roma 1992”; dalla quale si nota anche come a quel tempo le aperture non fossero ancora state murate e la tettoia all’ingresso fosse ancora in piedi. Nello stesso volume si afferma che la proprietà sembra essere ancora della famiglia Pamphilj.
Nel 2018 Dopo tantissimi appelli ,anche d’ITALIA NOSTRA, e tante promesse di politici in cerca di voti, il Sito Archeologico Casale della Bottaccia era ancora in stato di abbandono , di degrado e regno incontrastato della prostituzione.
Breve Storia-Ricerca Bibliografica-(Parziale e non esaustiva) cura di Franco Leggeri –
Intorno alla metà del 1600 ,per la grande opera di Carità dell’abate Ottavio Sacco da Reggio Calabria (morto nel 1660) e per la benevolenza del Principe Camillo Pamphilj, che aveva acquistato nel 1641 la tenuta dal Card. Alessandro Peretti detto anche Cardinal Montalto, fu edificata la cappella annessa al Casale della Bottaccia . La Cappella fu dedicata a Sant’ Antonio Abate, che , da subito, diventa anche un “piccolo ospedale” per il primo soccorso degli ammalati. Si racconta che nei pressi della Cappella di Sant’Antonio era sempre pronto un carro, con cavalli attaccati, per raccogliere gli ammalati nella Campagna Romana .Gli ammalati o infortunati più gravi venivano inviati nell’Ospedale Santo Spirito di Roma.Una Cappella simile a quella del Casale della Bottaccia fu edificata , ancora esistente e visibile, a fianco del Casale Panphilj sito nel Borgo di Testa di Lepre di Sotto in via dell’Arrone.
Nei primi del ‘700 fu realizzato, probabilmente nel corpo a sud con grandi saloni ai piani superiori, un piccolo ospedale per il primo soccorso: l’Eschinardi infatti scrive: “. . omissis . . e parte del Principe Panpfilj di rub. 281 con la seguente detta della Bottaccia di rub. 333 dove si trova sempre pronta una sua carrozza per condurre a Roma gl’ammalati della campagna.” ed anche il Metalli: “Il Principe Panfili vi istituì un piccolo ospedale ed un’ambulanza pel trasporto dei malati poveri a Roma.” . Tale notizia da quanto riportato sul sito del X Dipartimento sarebbe desunta anche dai registri parrocchiali di Castel di Guido: “ . . .omissis . , l’oste assumeva un ruolo delicato: nel contratto di affitto dei locali aveva anche l’obbligo di accogliere i malati e portarli al vicino ospedale. Il Casale della Bottaccia fungeva non solo per la zona di Castel di Guido ma per tutto l’Agro Romano da ospedale. E due volte a settimana i malati più gravi si trasferivano all’Ospedale di Roma.”; questo riferimento del XVIII secolo conferma anche l’utilizzo di parte del casale come osteria, ribadito anche nella “Rubrica delle tenute e dei casali della carta Cingolana”. Quest’ultima destinazione d’uso probabilmente rimane fino al secolo scorso poiché se ne trovano ancora le tracce nel Casale, e L’ipotesi è sostenuta anche da Luigi Cherubini:”Le vecchie osterie della Campagna si danno da fare: per non restare tristemente abbandonate e inutilizzate, anche se hanno una storia, com’è successo alla “Bottaccia” di Castel di Guido e al Casale dei Francesi di Ciampino…(Omissis) per non morire” (Catasto Alessandrino 433bis/19 19 Ottobre 1661 “Sviluppo della strada che da Porta S. Pancrazio passa per Pisana e arriva a Maccarese” agrimensore Legendre Domenico; Isa Belli Barsali e M. G. Branchetti, “Ville della Campagna Romana”, ed. SISAR, Milano 1975, pag. 249-250-
Roma Capitale-Villa Borghese- Riapre al pubblico la Loggia dei Vini-
Roma Capitale-A Villa Borghese -Riapre al pubblico la Loggia dei Vini-L’apertura, ad accesso gratuito per tutti, sarà valorizzata dal progetto d’arte contemporanea LAVINIA, a cura di Salvatore Lacagnina, concepito per dialogare con lo spazio della Loggia e con tutte le fasi di rifacimento.
Il progetto, realizzato da Ghella e promosso da Roma Capitale, Assessorato della Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con la collaborazione di Zètema Progetto Cultura, è stato presentato alla presenza dell’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, della direttrice della Direzione Patrimonio artistico delle Ville storiche della Sovrintendenza Capitolina Federica Pirani, del direttore dei Rapporti Istituzionali, Comunicazione e Sostenibilità di Ghella Matteo d’Aloja e del curatore Salvatore Lacagnina.
Il nome LAVINIA è un omaggio a Lavinia Fontana, tra le prime artiste riconosciute nella storia dell’arte, presente nella collezione Borghese dai primi del Seicento. Il progetto prevede l’esposizione, fino al 26 gennaio 2025, delle opere site specific degli artisti Ross Birrell & David Harding, Monika Sosnowska, Enzo Cucchi, Gianni Politi, Piero Golia, Virginia Overton.
La Loggia dei Vini a Villa Borghese, originale ed elegante architettura a pianta ovale impreziosita da decorazioni e affreschi, edificata tra il 1609 e il 1618 per volontà del cardinale Scipione Borghese e utilizzata per riunioni e feste conviviali durante il periodo estivo. La Loggia dei Vini fa parte di un complesso architettonico che comprende anche la sottostante Grotta, destinata alla conservazione dei vini e collegata al Casino Nobile di Villa Borghese attraverso un passaggio sotterraneo. Da tempo chiusa al pubblico, dopo alcuni interventi compiuti nel corso del Novecento, la Loggia torna ora a rivivere al termine del primo dei tre lotti di restauro che ha interessato la volta interna, con le cornici in stucco e l’affresco centrale – realizzato dal pittore Archita Ricci e raffigurante Il Convito degli dei – i pilastri, danneggiati da infiltrazioni d’acqua e le scale d’accesso.
Il restauro, realizzato grazie a una donazione di Ghella, con la cura scientifica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, è effettuato da R.O.M.A. Consorzio. I prossimi due interventi saranno dedicati alla restituzione degli intonaci dei pilastri interni e della parte esterna dell’edificio, al ripristino dell’emiciclo e della sua pavimentazione in cotto.
Per dare ulteriore valore al progetto di restauro e far dialogare il pubblico con la Loggia, lo spazio sarà animato con opere, performance, letture, laboratori e attività didattiche, orchestrate secondo una narrazione unitaria.
Per questo nasce LAVINIA, un nuovo programma d’arte contemporanea concepito per dialogare con lo spazio della Loggia e con le fasi di restauro. LAVINIA aspira a entrare silenziosamente nella vita quotidiana, si rivolge a chi passeggia nel parco, evitando qualsiasi forma di «auctoritas». Mette in discussione le nozioni di arte pubblica e di tradizione, il rapporto fra arte e architettura, apre al potenziale dello storytelling.
Nella Loggia, suggestivo luogo di ricevimenti, venivano serviti, al fresco della penombra, vini pregiati e prelibati sorbetti; proprio per questo, ogni inaugurazione di LAVINIA sarà associata a un gusto di gelato ideato appositamente per l’occasione. Il primo gusto è “arancia e erba cedrina”.
INFORMAZIONI PER IL PUBBLICO
LAVINIA – LOGGIA DEI VINI A VILLA BORGHESE
Dal 19 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025
Ingresso gratuito
Orari: dal giovedì alla domenica
dalle 9:00 alle 19:00 fino al 26 ottobre 2024
dalle 9:00 alle 17:00 dal 27 ottobre 2024 al 26 gennaio 2025
Mimma Forlani-Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina
Editore CartaCanta
Descrizione Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina il nuovo libro di Mimma Forlani ricostruisce la mappa del comune sentire, pensare, parlare di un paese rurale seguendo il giro delle stagioni negli anni 1958/59. Un momento importante per la civiltà contadina che, rimasta quasi immutata dai tempi di Virgilio, inizia a morire negli anni Sessanta quando i contadini abbandonano i campi per la fabbrica. Per raccontare luoghi e persone ormai scomparsi, l’autrice inventa una lingua che rievoca le sonorità della sua infanzia. Nel suo trattato narrativo di antropologia l’autrice ritorna al dialetto, ritrovato lungo il suo percorso di scrittura, all’italiano popolare-lombardo, senza escludere il latino dei riti della Chiesa pre-conciliare e la lingua colta degli studi successivi. L’autrice fa cosi rivivere la koiné di un piccolo borgo agricolo nel quale il dato realistico non esclude il gioco dell’invenzione e lo slancio lirico sottolineato da frammenti poetici. Si narra un duplice commiato: quello dell’autrice dal mondo contadino e quello di un popolo dalla propria vita. “Il paese delle aie” è un gesto d’affetto e di memoria. La vita faticosa e povera dei contadini sembra essere stata più appagante della nostra.
Estratto del libro di Mimma Forlani- Il paese delle aie. Storia della perduta civiltà contadina
A quei tempi
Bariano era un paese di aie.
C’era la corte di Jàcom-fólega1 con cavalloni di granoturco stesi
sulla graticola dell’essiccatoio
dove i bimbi sgusciavano come ratti
sui grani caldi.
C’erano le campate dei mezzadri
Àngel de’ Amastini, Pí de’ Ghéta,2 Santo Forlà, Pepi Resmí, Àngel de’ Lansí, Luciano Milani e Peder de’ Perèch
con le pannocchie appese sotto le travi.
Jàcom-fólega, nato a Bariano il giorno di San Pietro del 1877, era stato chiamato così perché, andando a caccia con il suo schioppettino, qualche volta riusciva a portare a casa una o due folaghe. Sposato con Margherita dei Finazzi, ebbe undici figli, due morti subito e nove sopravvissuti. Il più piccolo di statura e il più furbo, Jacumí-fulighí, nato nel 1917, sposò il 14 settembre del 1946 Maria dei Mossi, figlia a sua volta di Jàcom e di Angela de’ Ferrari, dalla quale ebbe una sola figlia, Jacumína-fulighina detta semplicemente la Fulighina.
Per Pí de’ Gheta si azzarda l’ipotesi che Ghéta sia una storpiatura di Ghita, mar- gherita; quindi figlio di Margherita. Ghéta, tuttavia, è parola che ha assonanza con ghéda, grembo, che compare nell’espressione tègn i mà ‘n ghéda, per lo più riferita alle donne che, quando stavano sedute, tenevano le mani incrociate sul grembo. Quella era la posizione abituale anche di Pí, Giuseppe, padre tirannico, che, da seduto, sorvegliava e comandava a suon di cinghia i propri figli.
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Là fuori nei campi, vicino al cimitero, c’era la nuova aia de Jacumí-fulighí, settimo dei nove figli vivi di Jàcom-fólega. Poi c’erano le aie dei diavoli.
Di notte, con le zampe caprine, buttavano all’aria la pula
riempivano i sacchi con il grano maturo e scappavano scalciando
Adío Pèp3 La buona farina è finita in crusca.
M’avvio?
La prima parola pronunciata dalla bambina sbucata fuori dalle marcite marzoline fu un grido di gioia strozzato in gola, un’altale- na di gridi gettati al cielo, un fuggi fuggi di zoccoletti sull’aia.
Fu anche altro.
Sicuramente altro: rumori, suoni, guizzi di un’infanzia dispersa da oltre cinquant’anni, che all’alba di una domenica risuona dalle vecchie foto in bianco e nero. In una, di gruppo, presa sul neva- io del monte Menna nell’alta Valle Brembana c’è una bimba con le trecce che spuntano dal fazzoletto legato in testa. Nove o dieci anni? Di certo è lei, la Fulighina, figlia di Jacumí-fulighí, figlio di Jàcom-fólega. Quel soprannome, che nell’infanzia i compagni di scuola le gettavano in faccia come un insulto per l’assonanza irri- dente con Folètina, le appariva ora buffo, persino comico in quel richiamo alla folaga un po’ fola e un po’ folletto.
Incominciò così a raccogliere i ricordi che nascevano sonori nella memoria come l’acqua dai fontanili della pianura, indovinò le singole voci, lasciò emergere gli assolo, i duetti, il coro d’ac- compagnamento e li lasciò suonare sulla pagina insieme alle voci
Espressione idiomatica del paese per dire al povero Pèpo, che una mattina ave- va trovato il pollaio vuoto, di mettersi il cuore in pace; delle galline non avrebbe più visto neppure una piuma.
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degli animali domestici e delle piante campestri in un’antica lin- gua, d’improvviso ritrovata. Quella mattina, e molte altre nei mesi successivi, dalla sua casa situata nell’antica città delle alte mura, prese a ruzzolare nei campi, a sgranare sul palmo della mano de- stra i chicchi di frumento ormai maturi, li ripulì con dita amorose dalla pula, li rigirò in piena luce, li mise in bocca, e li spezzò come il padre faceva alla vigilia del raccolto. Se il chicco che sfrigolava fuori dalla spina era duro, allora Jacumí-fulighí convocava i fal- ciatori: “Domà m’ regój!”. Domani raccogliamo, diceva a Nando de’ Corvis e a Àngel de’ Lansí. L’ordine veniva dato verso sera; e loro convenivano con il capo: il tempo era arrivato. Sfilavano le ranze dalla corda appesa alla ruvida parete del portico, incomin- ciavano a battere con il martello sulla lama posata su un sòch4 di legno, messo alla giusta distanza dai treppiedi su cui si erano se- duti. Dopo l’ultima sfregata con la cut5 alle lame lucide e sibilanti, infilavano sul manico una mezzaluna di alluminio, strumento ca- pace di tenere unite le spighe tagliate, trasformando l’umile ranza in nobile falce messoria e il misero falciatore in mietitore divino. “Domani, se Dio vuole, si raccoglie”. Già il padrone della treb- biatrice, certo Vittorio detto Mezzo-culo, era stata avvisato. Lui sarebbe stato nel campo alle sei, gli altri dovevano essere a fò6 un po’ prima. Alla vigilia tutti gli umani della corte, prima di andare a dormire, scrutavano il cielo, restavano a lungo lì, sui due piedi, a osservare gli alberi che reggevano il filo dell’orizzonte. Se il sole tramontando aveva lasciato una striscia rossa tra le cime delle pla- tine e delle pioppe,7 gli animi si rinfrancavano perché anche i sassi sapevano che rosso di sera, bel tempo si spera.
Intanto la bambina dalle treccine color terra saltava alla cor- da sull’aia o scalpitava sui sentieri dei campi insieme ai cugini, qualche mese più vecchi di lei, Jàcom de’ Lansí, Jàcom de’ Corvis e Gioàn de’ Mossi che, appena finita la quinta elementare, erano
Ceppo.
5. La cote, pietra nerastra ricca di quarzo, utilizzata per molare le lame. 6. Dal latino ad foras: fuori, al lavoro nei campi.
7. In dialetto il nome degli alberi è per lo più femminile.
Mimma Forlani < Il paese delle aie
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pronti per essere avviati al lavoro. Forse uno avrebbe voluto con- tinuare gli studi, ma soldi non ce n’erano, l’altro avrebbe fatto un corso professionale; quanto a Gioàn, già i suoi libri li aveva buttati nella mangiatoia e la mucca se li era divorati fino all’ultima pagina, con suo grande sollievo.
Quella mattina scandita dal suono delle campane, la figlia di Jacumí-fulighí rivede i s-cècc, gli schietti, sedersi uno accanto all’al- tro sulle rive rosse di papaveri, alzarsi poi di scatto per inseguire le libellule della Morla, la grande roggia che serviva a decquare8 i campi.
“Mio Dio, dove sono finiti?”
Eccoli tra i filari dei moroni9 carichi di ciciotte scure, nascosti dai soffioni che raccolgono a man bassa. Poi, seduti sulla riva er- bosa del canale, soffiano dentro le bolle i pappi volatili fino a farsi scoppiare le guance. Sentili ora starnutire come puledri pizzicati da qualche incauta mosca infilatasi su per le narici.
“Adesso dove sono?”
Stanno arrampicandosi sul fienile, mettono l’uno dopo l’altro i piedi nudi sui pioli di legno e si tuffano nel fieno maggengo. Ma certo, prima del taglio del frumento a quei tempi c’era quello del maggengo che anticipava l’estate: gioiosa stagione dei raccolti. Perché tutti sapevano allora che si semina nel pianto e si raccoglie nella gioia.
“Chissà se il tempo del raccolto è arrivato…” si chiede da dietro la scrivania la figlia di Jacumí-fulighí.
“Domani m’avvio. M’avvio sulla pagina bianca”.
A passi diversi
Se solo una volta, dico una volta,
i tuoi occhi di galaverna si fossero sciolti in fiocchi di neve, i sentieri dei campi
Irrigare. 9. Gelsi.
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li avrei percorsi a passi di danza.
Ho invece vagato a passi diversi sui sentieri di ghiaccio di un lago dal gelo sigillato,
e da altro, in verità.
Come folaga dispersa
mi sono infangata tra i giunchi della riva e attendo di volare
nel vento della vita.
Mimma Forlani < Il paese delle aie
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Cenni Biografici di Mimma Forlani
Mimma Forlani, giornalista pubblicista, ha pubblicato libri e saggi quali: Ruth Domino Tassoni, 1996; Sandro Angelini e Città Alta, 1999; Elena Milesi, Città Alta e altri luoghi della sua poesia, 2004; I luoghi di Gianandrea Gavazzeni-tra musica e parola, 2006-2021; Gli Scotti, la baronessa Ninì racconta gli antenati Francesco e Gianmaria, gli amici di casa Gaetano Donizetti e mons. Roncalli, 2009; Filippo Siebaneck, Cittadino esemplare di Bergamo, 2006; Di-sperare in terra di Palestina, 2009-2013; Variazioni sull’acqua(quattro conversazioni poetico-musicali), 2010; Enrico Gonzales, avvocato, socialista, galantuomo (con Francesco Giambelluca), 2012; Storie amene sotto il berceau, I e II,2016-2017; Sulle tracce di Gianmaria Scotti, nobile patriota del Risorgimento. Inchiesta storica sulla gioventù del Quarantotto: luoghi e ideali, 2020. è protagonista di numerose iniziative culturali a Bergamo e provincia.
Via Appia. La strada che ci ha insegnato a viaggiare-
Un racconto con le straordinarie fotografie realizzate da Andrea Frazzetta-
Roma- La mostra “Via Appia la strada che ci ha insegnato viaggiare “ è aperta fino al 1° dicembre 2024 al Complesso di Capo di Bove sito al IV miglio dell’Appia antica.La mostra ospita una stanza immersiva che accompagna lo spettatore lungo un percorso unico al mondo, tra passato e presente, in un racconto per immagini di grande potenza, costruito con le straordinarie fotografie realizzate da Andrea Frazzetta nel corso del suo viaggio condotto da Roma fino a Brindisi per National Geographic.
Accompagnati in cuffia dal racconto di Giovanni Carrada (autore RAI per Superquark e Noos, esperto nella divulgazione e comunicazione del patrimonio culturale), guidati dalle voci di Francesco Prando nella versione in italiano ed Edwin Alexander Francis in quella inglese, nella proiezione immersiva su doppio schermo, realizzata con la regia di Raffaella Ottaviani, si viene travolti in un coinvolgente percorso tra archeologia, paesaggio, persone e storie. Il viaggio del fotografo diventa il nostro viaggio nella bellezza e nella storia, attraverso un territorio segnato dall’antico ma anche dalla modernità, in un percorso ricco di stimoli che attraversa quattro regioni, collega il Tirreno all’Adriatico, conduce verso Oriente.
Partendo dal basolato romano, affiancato da sepolcri monumentali e resti delle grandiose ville imperiali, si ha l’impressione di ‘entrare’ nelle fotografie di Andrea Frazzetta e di vivere con lui il viaggio lungo i 540 chilometri che separano Roma da Brindisi, tra i restauratori all’opera nella Villa dei Quintili, gli invitati di un matrimonio nella piazza di Terracina, le vivaci scolaresche che si rincorrono tra le colonne di Minturno. Lungo il tragitto ci si perde tra le gallerie dell’anfiteatro di Capua, nelle immense distese di grano della Campania Felix, tra i campi eolici, gli uliveti, le gravine. Si resta incantati dai colori e dalla luce di Taranto e ci si ritrova a ballare la pizzica a Mesagne, per arrivare infine, carichi di emozione, al porto di Brindisi dominato dall’iconica colonna che oggi segna la fine del nostro viaggio ma che apre lo sguardo alla Grecia e all’Oriente, facendoci d’un tratto comprendere tutta la forza della Regina Viarum.
Torrita Tiberina-(RM)- Fondazione Mario & Maria Pia Serpone
Parco d’Arte Contemporanea nel cuore della Sabina
La Collezione-La Fondazione Mario e Maria Pia Serpone, un parco d’arte contemporanea nel cuore della Sabina, a soli 40km da Roma. Le opere della collezione sono orientate in corrispondenza con le stelle madri della costellazione del Toro dando forma ad un’architettura invisibile che accompagna i visitatori a scoprire installazioni all’aperto di artisti come Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Bruno Munari e Luca Maria Patella, per citarne alcuni. Oltre a ciò, la Fondazione è orgogliosa di ospitare due rarità nel panorama artistico internazionale: un ‘bottle crash’ di Shozo Shimamoto, la quale opera è un work in progress oggetto di performance annuali; e la cappella Nitsch, una cappella che il fondatore dell’azionisimo viennese Hermann Nitsch ha allestito con sue opere create in loco. Un luogo d’incontro per quanti celebrano l’amore, la libertà, la pace e l’equilibrio nel rispetto reciproco di tutte le forze che governano la natura, l’istituzione ha come centro d’interesse lo studio, la riflessione e la diffusione dell’arte contemporanea. La fondazione è visitabile esclusivamente su prenotazione.
Per info e per organizzare una visita, scrivere a: info@fondazioneserpone.org.
La collezione permanente
Una fondazione dove opere d’arte contemporanea contornano il prato, ne seguono le curve, lo impreziosiscono con significati estetici e lo ridisegnano, nobilitando lo spazio con installazioni ambientali a cielo aperto, con performance e con tutto quanto possa prendere forma d’arte attraverso il linguaggio del contemporaneo, in perfetta relazione con l’ambiente.
La cappella Nitsch
Uno spazio nel bosco concepito come una piccola cappella, il cui progetto, sottoposto al parere dell’artista, ha riscontrato la sua piena approvazione. Hermann Nitsch ha dato, infatti, la sua totale disponibilità per l’allestimento e arredamento della stessa, con opere ed installazioni da realizzarsi in loco.
Hermann Nitsch, artista austriaco, massimo esponente dell’azionismo viennese, filosofo, musicista e pittore dal 1957 si dedica alla concezione del suo “Orgien Mysterien Theater”(OMT): forma di arte totale che coinvolge tutti e cinque i sensi. Per Nitsch, teatro, palcoscenico, musica, architettura e natura divengono imprescindibili l’uno dall’altro.
Nelle sue opere si evidenzia l’aspetto drammatico di una “liturgia ematica”, che ripercorre concettualmente il processo di sublimazione dolorosa del “sangue glorioso”. Il sacrificio diviene elemento centrale di un processo di identificazione-coinvolgimento, che travolge i tradizionali schemi comportamentali.
L’opera di Nitsch è riconosciuta a livello mondiale. L’Austria e precisamente Mistelbach gli ha dedicato un museo personale, così come anche la Fondazione Morra a Napoli gli ha dedicato un museo a lui intitolato, inaugurato nel 2008; inoltre le sue opere sono presenti nei più importanti musei di arte contemporanea.
Contattaci-Per organizzare una visita della Fondazione Serpone, un evento privato o per avere maggiori informazioni sui nostri progetti e collaborazioni, inviaci una mail: info@fondazioneserpone.org
Cercaci su Google Maps: Fondazione Serpone Viale Marconi, 5 (S.P. Tiberina 15a, Km. 37,100) 00060 Torrita Tiberina, Roma
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
L’Abruzzo ha un volto molto antico: quello dei suoi tratturi, bracci, tratturelli che ne segnano il territorio, là dove sono stati conservati e tutelati . Le antiche cartine d’Abruzzo mostrano una sorta di sistema vascolare di una regione che attraverso l’ “erbal fiume silente”, come d’Annunzio nella sua poesia “I pastori” definiva il tratturo, si alimentava ed alimentava la propria economia,quella della transumanza.
Il termine deriva da “ trans” forma avverbiale: attraverso e humum: terra : andare attraverso con il significato di trasferimento di persone e bestiame in estate ai pascoli della montagna e in autunno al piano.
Questo “sentiero naturale tracciato dalle greggi”, viene da molto lontano, perché già all’epoca dei Romani si individuavano come
“semita aspera qua pecora in montes ire solent” (aspri sentieri sui quali sogliono transitare le pecore sui monti). Su questi “sentieri” si svolgevano le partenze ed i ritorni, con un fenomeno chiamato
appunto transumanza.
Tratturo, che sui dizionari viene definito “largo sentiero erboso per far transitare greggi e armenti dalla Puglia ai monti degli Abruzzi e viceversa” è un termine moderno, che si incontra poco nella letteratura italiana, salvo nell’ ”Alcyone”, e nel libro terzo delle “Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi” del D’Annunzio.
La Transumanza: Storia
La transumanza è un sistema di allevamento antico diffuso in molte aree del bacino del Mediterraneo che prevede in estate lo sfruttamento dei pascoli dislocati a quote più elevate sui territori montani e d’inverno il trasferimento delle greggi in pianura anche a distanza di centinaia di Km . Nel caso dell’Abruzzo la transumanza orizzontale veniva praticata già in epoca italica dai Sanniti che si scontrarono con i Dauni della Puglia proprio per il controllo dei pascoli invernali. Durante il periodo romano la transumanza ebbe un forte incremento grazie ad una efficiente organizzazione dello stato. Alcune importanti città romane sorsero proprio sui tratturi per controllare lo spostamento delle greggi tra esse Peltuinum e Juvanum in Abruzzo e Sepino in Molise.
La seconda rivoluzione economica nel campo della pastorizia si ebbe alla metà del XV secolo per opera di Alfonso d’Aragona re di Napoli che prese a modello il sistema in uso da tempo nella penisola iberica dei pastori spagnoli chiamata mesta.Riorganizzò le vecchie “calles” romane che presero il nome di tratturi. Era tutto un mondo che si muoveva, tutta un’economia che si sviluppava intorno a queste vie che organizzata con precise leggi fiscali, è servita a sostenere per secoli le finanze del Regno di Napoli e delle Due Sicilie.
Alfonso I d’Aragona, con la Prammatica del 1 agosto 1447, istituì la Dogana per la “Mena delle pecore” in Puglia. Le terre di pascolo, dette locazioni, erano del Demanio Regio e si potevano utilizzare solo pagando la “fida”, un canone annuo, fissato in rapporto al numero delle pecore , ogni 100 pecore davano diritto ai pastori, detti locati, di utilizzare 24 ettari di terre non arate, chiamate poste.
Un sistema fiscale, duro per i piccoli pastori, che ha fruttato enormi entrate, fino al maggio 1806, quando Giuseppe Bonaparte, re di Napoli abolì le servitù sul Tavoliere di Puglia.
Con l’unità d’Italia alcuni dei tratturi principali furono assimilati alle strade nazionali e protetti, altri furono riassorbiti dall’agricoltura. Questo sistema di percorsi naturali, storicamente sedimentato, era incardinato su pochi valichi che limitavano e canalizzavano i collegamenti con il resto della penisola.
Una società gerarchica
Le greggi transumanti appartenevano a grandi proprietari detti armentari , ricchi possidenti che investivano i loro capitali nell’allevamento e nella produzione della lana. Ma anche gli ordini e le congregazioni religiose e i feudatari locali e gli esponenti dell’alta borghesia possedevano numerose greggi. I piccoli proprietari locali che per necessità si recavano nei pascoli invernali si riunivano in società per ridurre le spese dell’attività. Tra i pastori vigeva una ferrea organizzazione gerarchica .
A capo stava il padrone che si serviva del “massaro di pecore” che organizzava tutte le attività connesse al pascolo. Il “casaro” era addetto alla lavorazione e trasformazione del latte , il buttero sovrintendeva agli animali da soma e agli spostamenti logistici durante il periodo della transumanza. I “ pastori” erano addetti
alla custodia delle greggi . Ad ognuno veniva affidata una “ morra” di pecore composta da circa 200 animali , infine venivano i più giovani detti “ pastoricchi” a cui erano affidati i compiti minuti e umili .
Una vita dura
La vita dei pastori era fatta di sacrifici e rinunce. I pastori transumanti a settembre riprendevano mestamente la via delle Puglie dove rimanevano fino a maggio quando, dopo la fiera di Foggia, iniziava il viaggio di ritorno verso la montagna natia e le famiglie lasciate per molti mesi. Quando tornavano portavano nelle loro bisacce i doni per i loro bambini e le loro spose .
Drammatiche ed epiche insieme, le partenze a fine settembre separavano i nuclei familiari, affidati alle madri coraggio delle montagne abruzzesi, che si riunivano per poche settimane da maggio a giugno in un’atmosfera di ritrovati sentimenti e passioni e poi di nuovo in montagna nella solitudine dei pascoli in attesa di ridiscendere in paese . La vita del pastore non era facile
caratterizzata da privazioni e stenti. D’estate, quando seguiva le greggi sui pascoli della montagna era costretto a vivere all’interno delle grotte adibite sia a stazzo , ricovero degli animali durante la notte, sia a rifugio del pastore , e quando non vi erano ripari naturali costruivano rifugi in terra o in pietra o anche capanne a tholos dalla copertura a cupola a base circolare o quadrata. Il cibo scarseggiava ed era costituito essenzialmente da ricotta siero e pancotto una
semplice minestra fatta con il pane secco e condita con poco olio. Si mangiava carne solo quando qualche pecora moriva , per cause accidentali o divorata dai lupi. La giornata era lunga e scandita dagli astri. All’alba si alzavano quando in cielo splendeva il pianeta Venere a sera riposavano quando compariva la “ stella del pecoraio”.
Nel silenzio delle lunghe ore passate a guardia del gregge i pastori
impiegavano il tempo intagliando il legno, leggendo i racconti cavallereschi e le gesta dei Paladini di Francia o scrivendo i loro pensieri e le loro riflessioni ma anche risentimenti e rancori incidendoli sulla roccia . Esiste infatti una letteratura di tipo pastorale scritta sulle pietre della Maiella che va dal 1600 ai nostri giorni. Molti di umili origini avevano imparato a leggere e a scrivere proprio intorno al fuoco dello stazzo. Un’altra occupazione dei pastori era
suonare le zampogne o le ciaramelle strumenti musicali tradizionali che portavano sempre con loro durante il lungo periodo della transumanza.
La cultura della Transumanza: testimonianze, usi,rituali
Lungo le antiche vie i pastori transumanti portavano con sé diversi strumenti a dorso di muli ed asini. Per le loro necessità utilizzavano bisacce, tascapane, ciotole, posate di legno, corni di bue, inoltre sgabelli a tre piedi, secchi di legno, attrezzi per la tosatura, collari antilupo. Alcuni di questi oggetti venivano anche realizzati artigianalmente dagli stessi pastori. Durante gli spostamenti e le soste, i pastori raccoglievano verdure e radici commestibili che cucinavano a sera. Erano soggetti a continui pericoli come furti di
bestiame, assalti di lupi, morsi di serpenti perciò nella tradizione orale i pastori vengono rappresentati mentre dormono “con un occhio solo”. Per questa loro condizione di vita , quindi, l’invocazione della protezione divina dava la forza necessaria per affrontare i rischi del viaggio ed i sacrifici del mestiere, infatti, lungo i tratturi e nei territori attigui ,sono sorte durante i secoli molte chiese caratterizzate da un’arte strettamente legata al mondo pastorale esse erano molto importanti non solo dal punto di vista spirituale che ma anche commerciale. E’ in prossimità di queste strutture, infatti, si svolgevano anche delle fiere per la commercializzazione di prodotti artigianali e gastronomici.
Diversi furono i protettori dei pastori transumanti. Tra questi, San Michele al Gargano, San Nicola di Bari e la Madonna Incoronata di Foggia. L’anno religioso per i pastori si scandiva due volte l’anno, quello estivo e quello invernale e questi due cicli coincidevano con i festeggiamenti dei santi protettori della transumanza.
Lungo il tracciato tratturale, nel corso dei secoli sono sorte anche taverne, fontane, riposi. Le taverne, che erano delle osterie attrezzate con servizi ricettivi per i pastori e grosse stalle per gli animali, erano tante e frequentate sia da pastori che da viandanti occasionali. Gli abbeveratoi sono disseminati lungo tutti i percorsi , ma, per la necessità di acqua sorgiva, sono concentrati nelle zone medie e alte dei tracciati. Molte di queste architetture sono arrivate fino a noi e vengono ancora oggi utilizzate dai pastori stanziali. Questo patrimonio archeologico, seppur quasi del tutto sconosciuto, presenta notevoli caratteri di qualità ed originalità.
La rete tratturale
La rete tratturale che arriva ad uno sviluppo massimo di circa 3000 km, eracaratterizzata da connessioni e nodi. Così i tratturi, fiumi d’erba larghi fino a 111 metri, secondo le rigide regole che ne stabilirono la larghezza massima per evitare conflitti con i contadini, non erano solo corridoi di scorrimento, ma strutture dotate di servizi e attrezzature per uomini e animali. Lungo il percorso i pastori e gli armenti potevano trovare ricoveri dove trascorrere le notti più fredde, recinti, abbeveratoi e isolate chiese rupestri di cui sono rimasti stupendi esemplari . Tali punti di sosta rappresentavano momenti in cui la socializzazione dava luogo a scambi culturali tra persone provenienti da realtà geografiche diverse ancor più considerando la ridotta mobilità dei tempi.
I principali tratturi erano:
L’ Aquila – Foggia, detto Tratturo Magno. Si sceglieva tra due piste parallele:
Manoppello Guardiagrele Montenegro o
Bucchianico , Chieti , Lanciano
Celano – Foggia. Aggirava Pratola Peligna e
Sulmona, sosta ai riposi di Cesale e Taverna
del Piano, presso Rivisondoli. Costeggiava
Roccaraso, Lucito e Lucera.
Pescasseroli – Candela. Raggiungeva Castel
di Sangro, poi seguiva due tracciati: i monti
del Matese o il percorso sannitico
Pescolanciano – Campobasso
La Via dei Tratturi
“ E vanno pel tratturo antico al piano quasi per un erbal fiume silente su le vestigia degli antichi padri…” Così D’Annunzio descrive la discesa dei pastori verso il mare nella sua poesia “I pastori”.
Dopo la via Francigena e ll Cammino di Santiago il percorso dei “tratturi” le lunghe vie d’erba che collegavano la l’Abruzzo montano con il Tavoliere di Puglia, è tra le esperienze più suggestive. Consente infatti di ripercorrere gli stessi tracciati usati dai Sanniti, dai Romani, e dal 1200 in poi, da centinaia di pastori , milioni di pecore e carovane di muli carichi di masserizie che camminavano silenziosamente in mezzo a quelle ampie distese d’erba. E’ come fare un viaggio nel passato, nelle tradizioni nella cultura e nella religiosità delle genti d’Abruzzo che da sempre hanno legato la loro vita alla pastorizia transumante.
Partendo dai pascoli estivi del Tavoliere di Puglia si risale gradatamente tutto il Molise interno fino ad arrivare nei pascoli estivi delle montagne abruzzesi abitate ancora dal Lupo Appenninico, dall’Orso Bruno Marsicano antagonisti di sempre delle greggi e dei pastori.
Oggi di quelle antiche vie erbose rimane ben poco, come rimane ben poco di quella civiltà pastorale che le aveva generate , l’ ultimo
spostamento a piedi di pastori e pecore pare sia avvenuto nel 1972
Eppure una sensibilità nuova verso il passato sta coinvolgendo persone sensibili associazioni e istituzioni affinché queste testimonianze, o ciò che rimane di esse, non precipitino nell’oblio, insieme all’immenso patrimonio di storia e cultura che portano con sé.
Ricostruzione storiografica di Elisabetta Mancinelli email :
I documenti sono tratti dall’Archivio di Stato , da “ Transumanza e società” di Raffaele Colapietra e da “ Pastori, lanaioli e contadini” di Aurelio Manzi e Giuseppe Manzi.
Descrizione del libro di Luca Randazzo-Siamo sui monti di Aune, il paese sopra Feltre bruciato dai tedeschi l’11 agosto del 1944, base di appoggio della brigata partigiana Gramsci.Giacomo, undici anni, è stato mandato in alpeggio a lavorare in una malga durante l’estate. Il suo padrone si chiama Bepi, un uomo rude che gli incute timore. E poi ci sono Sergio, sempre ingrugnito anche lui, e Alpina, la nipote di Bepi. È taciturna, Alpina, e vestita da maschiaccio.L’estate di Giacomo comincia così, tra la nostalgia di casa, l’odore delle vacche e la fascinazione per i famosi partigiani, che circolano da quelle parti ma lui non ne ha ancora mai visto uno.Poi un giorno, insieme all’amica Rachele, trova in una casèra abbandonata un plico di volantini. È roba segreta, roba che scotta, lo capiscono subito, ma è anche la via d’accesso a quel mondo di combattenti che tanto li affascina.E intanto, mentre le giornate trascorrono veloci tra il lavoro e l’avventura, qualcosa di inquietante e difficile da capire fino in fondo turba le notti di Giacomo, ponendo fine per sempre alla sua innocenza di bambino.In bilico tra realtà e finzione, un romanzo crudo che racconta la Liberazione e l’Italia ferita di quegli anni ma anche la fatica di conoscere gli adulti e le loro feroci contraddizioni.
Recensione
L’ESTATE DI GIACOMO. LA GUERRA E UN PARTIGIANO DI UNDICI ANNI di Luca Randazzo
Estate 1944.Giacomo, undici anni, viene mandato in alpeggio a lavorare in un malga, insieme ad Alpina, ragazzina ribelle e selvatica, Sergio, il pastore, e Bepi, scontroso casaro con il vizio dell’alcol. Giacomo, tra un pascolo e l’altro, sogna di incontrare i partigiani che proprie su quelle montagne trovano riparo, e quando scopre un plico di volantini nascosti in una casèra abbandonata, viene a conoscenza di un segreto scottante. Un segreto che decide di condividere con l’amica Rachele, in visita sulle montagne, senza rendersi conto che quella scelta finirà per cambiare per sempre la sua vita e quella di altre persone…
L’estate di Giacomo di Luca Randazzo ricorda per alcuni aspetti Il sentiero dei nidi di ragno, opera prima nonché uno dei capolavori di Italo Calvino. La figura di Giacomo, con le dovute differenze, non può non far pensare a quella di Pinn, protagonista del romanzo di Calvino; entrambi infatti si trovano a vivere, durante la guerra, esperienze da adulti, senza tuttavia riuscire a distinguere il bene dal male o comprendere adeguatamente il peso degli eventi di cui sono testimoni. Esperienze che inevitabilmente conducono entrambi a dover rinunciare alla propria infanzia, catapultati nella “giungla” degli adulti. “Giacomo si aggrappò al suolo per non farsi travolgere, poi un conato gli scosse lo stomaco e, sul bordo dell’abbisso, vomitò giù la sua anima di bambino”.
Sullo sfondo la guerra dei partigiani, in questo caso le vicende della Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci” di Feltre, le violenze esplicite, rumorose, legate al conflitto, e quelle private, silenziose, legate a quella concenzione arcaica di uomo-padrone intimamente connessa con il mondo rurale dell’epoca. Un quadro da cui trapela, tuttavia, un po’ di nostalgia per i tempi che furono, naturalmente non in riferimento alla guerra ma al fascino di un mondo agricolo di cui tanti, soprattutto i più giovani, ignorano persino l’esistenza.
Il libro si legge velocemente e nonostante la presenza di qualche espressione dialettale la scrittura risulta semplice, fluida. Affascinante l’ambientazione nelle Vette Feltrine, in cui operarono realmente i partigiani della Brigata Garibaldi, alcuni dei quali compaiono nella storia, come il “mitico” comandante Brunetti Paride detto “Bruno”. Un romanzo breve ma intenso, appassionante, consigliato ai ragazzi e, perchè no, a tutti gli adulti che vogliono fare un tuffo nel proprio passato.
L’AUTORE LUCA RANDAZZO nasce nella turbolenta Milano degli anni ’70 e vive un’infanzia tutto sommato spensierata nella natura trentina. Destinato a un sicuro fallimento come astrofisico, scopre l’amore per l’insegnamento e si getta con entusiasmo nella scuola elementare. Attivista sociale nella città di Pisa, completa la propria vita ritrovando un amore perduto e figli già pronti, che confeziona in una deliziosa famiglia. Scrive romanzi per ragazzi quando il tempo glielo consente, cioè durante le vacanze estive, al mare, in montagna o in viaggio con il suo amico furgone. Nel 2008 ha pubblicato Le città parallele con Salani..
Città di Pescara- Se il biscotto diventa un gioiello-
Corso di decorazione al Museo delle Genti d’Abruzzo-
Pescara, 8 ottobre – Al Museo delle Genti d’Abruzzo Sta per iniziare un viaggio attraverso i sensi: la bellezza da guardare, il buono da assaggiare, la capacità di realizzare. E’ un corso che valorizza non solo la creatività, ma le tradizioni e le suggestioni della fantasia. Tre distinti eventi che la Fondazione Genti d’Abruzzo organizza avvalendosi della professionalità di Filomena Tavano cookie artist , ovvero decoratrice di biscotti. Da non confondere con la pasticceria. Tavano è una eccellenza nel suo settore: nasce, con i suoi studi, restauratrice e decoratrice e si perfeziona lavorando con importanti aziende, per poi trovare una strada alternativa, che le consente di coniugare il suo amore per la pittura con quello per la cucina: nasce così Dolcetto, che le frutta riconoscimenti a livello internazionale e la porta in giro a raccontare come si fa a trasformare un biscotto in un capolavoro.
Il calendario degli appuntamenti si apre sabato prossimo alle ore 16, con la decorazione del biscotto “Presentosa d’Abruzzo”, sabato 30 novembre con inizio alla stessa ora toccherà al “Cuore d’Abruzzo” per concludere il 7 dicembre con la più classica preparazione di piccole opere d’arte natalizie. Sarà possibile sia frequentare un solo evento, della durata di quattro ore, che partecipare all’intero percorso ed avere così una preparazione più completa. “Lavoriamo in un ambiente insolito – spiega Tavano – e proprio per questo presentiamo un prodotto che sia attinente al museo. Ma questa esperienza fa parte anche di un mio progetto, che ha mosso i primi passi nel corso di Mediterranea, che è quello di declinare la decorazione dei biscotti in funzione turistica, preparando delle scatole eleganti che siano riconoscibili come prodotti abruzzesi. Ho già collaborato con la Regione Puglia, lavorando sugli Ori di Taranto, anche per l’Abruzzo sarebbe bello poter avviare una produzione con una propria identità. Penso a una scuola di formazione che potrebbe, ad esempio, essere anche funzionale alla riqualificazione di donne che hanno perso il lavoro, ma anche un punto di partenza per chi decide di investire su un progetto innovativo”. La proposta che si svilupperà all’interno del Museo delle Genti d’Abruzzo potrebbe essere un primo passo verso un lavoro più strutturato sul territorio. “Abbiamo organizzato il percorso in tre distinti eventi – chiarisce Tavano – ed in ognuna delle tre occasioni insegneremo le competenze tecniche di base per poter realizzare un biscotto decorato. Gli elementi essenziali sono la pasta frolla e la ghiaccia reale, che possono però essere lavorati con molte varianti. Perché la decorazione ha davvero molto da offrire, come produzione prevede l’infinito: ogni biscotto è una tela bianca su cui lavorare”. Diverse le tecniche di realizzazione tra la Presentosa e il cuore d’Abruzzo, poi il gran finale a sorpresa per il Natale: biscotti da utilizzare come decorazione per l’albero o per la tavola, per regali originali o semplicemente per coccolarsi in occasione delle feste.
Ai corsi sono ammessi anche i ragazzi, dai 12 anni in poi, un’occasione per avvicinarsi, divertendosi, all’arte della decorazione: “Decideremo in prossimità dell’evento come interpretare il terzo evento. Siamo estremamente flessibili. Ogni persona viene seguita a seconda della propria inclinazione, accompagnata fino al conseguimento del suo risultato”.
Informazioni
Il Museo delle genti d’Abruzzo è un museo di Pescara. Wikipedia
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