Latina -Arte contemporanea -personale dell’artista Carlo Marchetti – Beyond Black-
Latina-In mostra, un’indagine che riscopre l’essenza della materia e della forma. Le opere di Calo Marchetti sono strutture primarie, frammenti che evocano presenze senza mai delinearle in modo netto, ma vibranti di una potenza arcaica.
Latina -Arte contemporanea -personale dell’artista Carlo Marchetti
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Latina -Arte contemporanea -personale dell’artista Carlo Marchetti
Romberg Arte Contemporanea presenta la personale dell’artista Carlo Marchetti, curata da Italo Bergantini e Gaia Conti. “Beyond Black” inaugura domenica 2 marzo 2025, accompagnata da uno scritto inedito di Antonella Paciolla. L’esposizione fa parte del progetto ‘I Racconti della domenica’, sette appuntamenti in cui arte e narrazione si incontrano.
“Beyond Black” è il capitolo più recente della ricerca di Carlo Marchetti, un’indagine che riscopre l’essenza della materia e della forma. Le sue opere sono strutture primarie, frammenti che evocano presenze senza mai delinearle in modo netto, ma vibranti di una potenza arcaica: legno, gomma, lana, tessuti, e sabbia, elementi ricorrenti nella sua ricerca, simboli di radicamento e trasformazione.
La sua arte si odora e si ascolta, un’esperienza sensoriale in cui materia e suono si intrecciano. Dal nero che assorbe, al grigio che accoglie e accompagna, fino all’oro che vibra come un’epifania, il colore si stratifica e trasforma il caos in ordine, rendendo ogni opera una memoria tattile, un linguaggio visivo essenziale.
Marchetti lavora per sottrazione, liberando i lavori da ogni eccesso e creando un perfetto bilanciamento tra pieni e vuoti. Le sue stanze alchemiche sono varchi, porte che invitano lo sguardo a entrare, e finestre che si aprono su nuove prospettive. Le opere si fondono con la grande parete della galleria tracciando un confine sospeso tra due dimensioni: la superficie della coscienza e la profondità dell’Io.
Come un ponte tra due mondi, non è la materia a definirle, ma il nostro sguardo, la nostra capacità di reinventare e cogliere in essi nuovi significati possibili. Là dove l’intuizione coglie frammenti, il pensiero si solidifica in forme che solo l’arte riesce a intrecciare.
La materia si rinnova, si sovrappone, si dissolve e si ricompone in oggetti ritrovati, in nuova vita. Il ritmo della mostra è scandito dalla forza simbolica dei cinque elementi – Acqua, Fuoco, Aria, Terra e Metallo/Spirito – in un’armonia di equilibri e contrasti che evocano la stratificazione del tempo e della storia.
L’invito è superare la percezione iniziale e a lasciarsi attraversare da ciò che si cela dietro l’apparenza, innescando un dialogo non solo con l’opera, ma anche con noi stessi e, in particolare, con quella parte di noi che chiamiamo inconscio. Qui il nero si espande, si frantuma, si rigenera, moltiplicando le prospettive di senso. E al di là del nero, quando l’ombra si dissolve, ciò che resta è luce.
Testo di Gaia Conti
*
Romberg Arte Contemporanea presents the solo show of artist Carlo Marchetti, curated by Italo Bergantini and Gaia Conti. “Beyond Black” will open on Sunday, March 2, with an accompanying unpublished story by Antonella Paciolla. Part of “Stories told on a Sunday”, a series of seven events where art and storytelling converge—this exhibition marks a new chapter in Marchetti’s artistic path.
“Beyond Black” is a journey into the fundamental nature of material and form. His works are raw yet intentional, fragments that suggest presence without ever fully revealing it. They resonate with a deep, ancient energy. Wood, rubber, wool, fabric, and sand, materials that appear throughout his practice, become symbols of grounding and transformation.
His art is an experience—something to be felt, heard, even breathed in. Matter and sound intertwine, guiding the viewer from the absorbing depth of black to the quiet neutrality of gray, and finally to gold, shimmering like an epiphany. Color unfolds in layers, transforming chaos into harmony, turning each piece into a tactile memory, a language distilled to its essence.
Carlo’s approach is one of subtraction, a process of stripping away the superfluous to reveal a perfect balance between presence and absence. His alchemical rooms are thresholds: doors that invite the gaze inward, windows that open onto new perspectives. The works dissolve into the gallery’s vast wall, tracing a suspended boundary between two realms—the surface of consciousness and the depths of the self.
These works are not defined by their material alone, but by how we perceive them, how we reinterpret and discover new meaning within them. Where intuition gathers fragments, thought weaves them into form, creating connections only art can reveal.
Matter exists in a state of perpetual transformation, shifts, dissolves, and reconfigures, breathing new life into what once was. The exhibition’s rhythm is guided by the symbolic essence of the five elements: Water, Fire, Air, Earth, and Metal/Spirit, interwoven in a dynamic equilibrium of harmony and tension, echoing the deep strata of time and history.
This is an invitation to move beyond perception, to surrender to what lies beneath the surface—awakening a dialogue not only with the artwork but with the deeper, hidden layers of the self, the elusive realm of the unconscious. Here, black expands, fractures, and reshapes itself, unfolding into an ever-shifting landscape of meaning. And beyond the black, as shadow fades, what remains is light.
Text by Gaia Conti
Roma va in scena al Teatro Ambra Jovinelli “Benvenuti in casa Esposito “
adattamento di Paolo Caiazzo- regia di Alessandro Siani –
Roma al Teatro Ambra Jovinelli va in scena “Benvenuti in casa Esposito “adattamento di Paolo Caiazzo- regia di Alessandro Siani-Nessuno ha imposto a Tonino Esposito di fare il delinquente. Eppure lui vuole farlo a tutti i costi, anche se è sfigato e imbranato. Perché vuole mostrarsi forte agli occhi di tutti. E perché è ossessionato dal ricordo del padre Gennaro, che prima di essere ucciso è stato un boss potente e riverito nel rione Sanità, a Napoli.
Teatro Ambra Jovinelli “Benvenuti in casa Esposito “
Così Tonino, tra incubi e imbranataggini, resta coinvolto in una serie di tragicomiche disavventure che lo portano a scontrarsi con i familiari, con le spietate leggi della criminalità e con il capoclan Pietro De Luca detto ’o Tarramoto, che ha preso il posto del padre. E quando non ce la fa più, quando tutto e tutti si accaniscono contro di lui, va nell’antico Cimitero delle Fontanelle a conversare con un teschio che secondo la leggenda è appartenuto a un Capitano spagnolo.
Nel tentativo di riportarlo sulla strada dell’onestà, la capuzzella del Capitano si trasforma in un fantasma e si trasferisce a casa di Tonino. Dalla comica “collaborazione” tra i due nascono episodi esilaranti, che trovano il loro culmine nel periodo in cui Tonino, dopo aver messo nei guai ’o Tarramoto, viene messo agli arresti domiciliari dal capoclan e cade in depressione.
Intorno a Tonino, al Capitano e a De Luca si muovono altri personaggi memorabili: Patrizia, moglie di Tonino, donna procace e autoritaria; Gaetano e Assunta, genitori di Patrizia, che si strapazzano di continuo; Manuela, vedova del boss Gennaro, donna dai nobili sentimenti; Tina, giovane figlia di Tonino e Patrizia, che combatte la condotta illegale del padre.
In casa Esposito non manca una presenza animalesca: Sansone, un’iguana del genere meditans, che fa da contrappunto a tutti i divertenti momenti della commedia.
La commedia è un insieme di dialoghi irresistibili, colpi di scena e messaggi di grande valore etico, riporta gli aspetti più cafoni e ridicoli della criminalità, rispolvera la grande tradizione comica napoletana e fa ridere e riflettere.
Un modo nuovo di raccontare e denunciare la malavita, perfettamente in linea con i contenuti del romanzo bestseller “Benvenuti in casa Esposito”, che è stato un vero e proprio caso letterario. Un libro che ha scalato le classifiche grazie al passaparola e all’entusiasmo di migliaia lettori in tutta Italia e che è stato adottato da scuole, istituzioni pubbliche, associazioni antimafia, comitati civici, gruppi che si battono per la Legalità.
Durata: 1 ora e 50 minuti, con intervallo
Orari spettacolo
mercoledì 5, giovedì 6, sabato 8, martedì 11, venerdì 14, sabato 15 marzo ore 21:00
sabato 8 marzo ore 16:30
venerdì 7, mercoledì 12 e giovedì 13 marzo ore 19:30
domenica 9 e 16 marzo ore 17:00
GIOVANNI ESPOSITO IN
BENVENUTI IN CASA ESPOSITO
con Nunzia Schiano Susy Del Giudice – Salvatore Misticone Gennaro Silvestro – Carmen Pommella Giampiero Schiano – Aurora Benitozzi
Regia ALESSANDRO SIANI
Commedia in due atti scritta da Paolo Caiazzo, Pino Imperatore, Alessandro Siani
Liberamente tratta dal romanzo bestseller “Benvenuti in casa Esposito”
di Pino Imperatore (Giunti Editore)
Musiche Andrea Sannino Direzione musicale e arrangiamenti Mauro Spenillo
Scene Roberto Crea Costumi Lisa Casillo
Roma- al Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer”
di Annibale Ruccello regia Geppy Gleijeses-
Nella foto Geppy Gleijeses e Lorenzo Gleijeses
Roma- al Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello regia Geppy Gleijeses dal 5 – 9 marzo 2025- Lo Spettacolo-Travestito è una parola molto precisa ed indica, come sostantivo, “l’omosessuale maschile che si veste da donna e talvolta si prostituisce” e come aggettivo o participio passato del verbo “travestire” “colui che nasconde la propria vera natura assumendo idee e atteggiamenti profondamente diversi dai propri”. Ecco che l’essere attore come l’avere assunto o finto l’identità femminile implica un processo già avvenuto di “travestimento” morale e fisico. Il travestito è una creatura di confine, “figura deportata” come definisce Ruccello i suoi personaggi, non è un transessuale, non ha fatto il grande salto, vive la sua condizione generalmente in modo doloroso e comunque iperbolico, toccando gli estremi della depressione e dell’euforia, creatura meravigliosa, fragile, delicatissima, a volte violenta ma sempre emarginata.
Abbiamo scelto quindi un connotato di base assai realistico; la casa, le piccole cose che ci circondano, i feticci, la colonna sonora, i cibi che cuciniamo, gli odori che sentiamo. Su questa base Jennifer e Anna, ci hanno portato nell’universo di Annibale Ruccello che dalla meraviglia di un’orrida quotidianità ti proietta in una condizione espressionista di grande disperazione, inframezzato da pochi attimi di euforia.
Come voleva Annibale il processo interpretativo, in questo caso, non deve essere lo straniamento, non è l’attore che scherza su Jennifer, è Jennifer che guarda se stessa. E alla fine del nostro spettacolo, davanti alla sua “toeletta” struccandosi, Jennifer si spoglia dalla sua condizione di travestito (e l’attore che la interpreta nello stesso istante si stacca da lei) ma per lei non c’è vita oltre quel distacco poiché, e questa è la profonda differenza, quella sua finzione è la sua verità, l’unica possibile. Geppy Gleijeses
Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer”
Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer”
Teatro India va in scena “Le cinque rose di Jennifer”
5 – 9 marzo 2025
di Annibale Ruccello
regia Geppy Gleijeses
con Geppy Gleijeses e Lorenzo Gleijeses
voce della radio Nunzia Schiano
voce di Sonia Gino Curcione
voce di Annunziata Mimmo Mignemi
voce del giornale radio Myriam Lattanzio
Info e orari
ore 20.00
domenica ore 18.00
durata 1 ora e 30′ senza intervallo
Crediti
scene Paolo Calafiore
costumi Ludovica Pagano Leonetti
light designer Luigi Ascione
foto Marco Ghidelli
Roma-N0 Art Group presenta una serie di quattro mostre bipersonali presso Studio GIGA dal titolo “Pensieri, Parole, Opere, Omissioni”, a cura di Matteo Peretti e Bianca Catalano con le opere di Desirè D’Angelo, Guido Corbisiero, Andrea Frosolini, Sveva Angeletti, Giulia Apice, Sebastiano Zafonte, Diana Pintaldi e Raimondo Coppola.
Le mostre, che esploreranno le connessioni tra il concetto di pensiero, parola, opera e omissione, prenderanno il via il 5 marzo 2025 con l’inaugurazione della mostra “Pensieri”, in cui si confronteranno le ricerche di Desirè D’Angelo e Guido Corbisiero. Gli appuntamenti successivi proseguiranno fino al 25 giugno, con la conclusione dell’ultima mostra “Omissioni”.
Il titolo di questa rassegna prende spunto dal Confiteor, la preghiera di confessione in cui il fedele si dichiara colpevole di “pensieri, parole, opere e omissioni”, configurando tali elementi come forieri di perversione e peccato; oggi più che mai invece la creazione artistica si nutre di pensieri, parole, opere e omissioni, divenendo questi motori generativi di cambiamento e riflessione, se non catartici e purificatori. La confessione dell’artista, quindi, non è verso un’entità superiore, ma rappresenta un tentativo di ricongiungimento con sé stessi, con gli altri e con il mondo che ci circonda, nell’affrontare insidie personali e collettive.
Le mostre esploreranno i diversi aspetti di tale ricerca: nella mostra Pensieri (5 marzo – 26 marzo 2025) Desirè D’Angelo e Guido Corbisiero affrontano esperienze o suggestioni visive segnanti nell’infanzia e nell’adolescenza e che si ripropongono nel presente, attraverso una scultura-performance e due installazioni dal forte potere simbolico. Nell’esposizione Parole (9 aprile – 30 aprile 2025), come suggerisce il titolo, Sveva Angeletti e Andrea Frosolini riflettono sul concetto stesso di parola, dal punto di vista sia semantico che esperienziale, in particolar modo sull’idea di incomunicabilità, aspetto fortemente caratterizzante del vivere odierno. In Opere (7 maggio – 28 maggio 2025), Giulia Apice e Sebastiano Zafonte esplorano la dimensione aggregante e costruttiva dell’arte, mettendo in luce l’aspetto relazionale della pratica artistica. La mostra Omissioni (4 giugno – 25 giugno 2025), con le opere di Diana Pintaldi e Raimondo Coppola, attua una considerazione sul vuoto e sull’assenza tramite un processo di tipo catalogativo di tracce presenti, un tentativo solo in apparenza paradossale che invita ad una intensa riflessione sul concetto di esistenza.
Dettagli dell’evento:
Location: Studio GIGA, via del Governo Vecchio 43, Roma
Opening: 5 marzo 2025, dalle 18.00 alle 21.00
Calendario delle Mostre:
• 5 marzo – 26 marzo 2025: Pensieri – Desirè D’Angelo e Guido Corbisiero
• 9 aprile – 30 aprile 2025: Parole – Sveva Angeletti e Andrea Frosolini
• 7 maggio – 28 maggio 2025: Opere – Giulia Apice e Sebastiano Zafonte
• 4 giugno – 25 giugno 2025: Omissioni – Diana Pintaldi e Raimondo Coppola
Per informazioni: info@studiogiga.com – n0projectroom@gmail.com
Seguici su: Facebook/Instagram: @studiogiga @n0projectroom
N0 Art Group nasce nel 2021 da un’idea dell’artista e curatore Matteo Peretti, come un libero progetto artistico dal carattere nomade, basato sullo scambio di idee di artisti di diversa provenienza e delimitato da confini inversi, ovvero dedito alla ricerca culturale considerata aliena, volta all’indagine di tematiche spesso “scomode” o comunque profondamente radicate nelle controversie del mondo odierno. Inizialmente sito presso la n0 Project Room, luogo espositivo all’interno dell’artist-run space Ombrelloni, in via dei Lucani (quartiere San Lorenzo, Roma), la linea curatoriale del progetto ha assunto da subito un carattere estemporaneo e afocale, inclusivo ed aperto a collaborazioni interdisciplinari, di respiro internazionale ma sempre con un occhio vigile sul territorio.
G.I.G.A. (Gruppo Italiano Giovani Artisti) viene fondato nel 2005 in via del Governo Vecchio 43 come collettivo di giovani artisti italiani, proponendosi quale laboratorio libero di idee e osservatorio territoriale sulla sperimentazione emergente. Attraverso le mostre proposte, ha sempre voluto stimolare un dialogo tra una città dalla forte identità storica, come Roma, ed artisti e operatori legati alla contemporaneità che rivelano attraverso i loro lavori idee innovative ed energetiche. Il focus è prevalentemente indirizzato a temi legati alla società, al quotidiano e in genere ai diversi campi dello scibile e dell’agire umano.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista, activista y defensora de los Derechos Humanos, Alaíde Foppa escribió desde su propia vida con la contundencia de quien quiere transformar con la palabra. Gabriella Borrelli analiza la poesía de esta escritora desaparecida durante la dictadura guatemalteca de Romeo Lucas García. Ilustra Aymará Mont.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
Hay vidas que son como un grito. Un grito que permanece en el aire por décadas, no ensordecedor sino potente para sonar bien lejos. Esa necesidad de alzar la voz para atravesar continentes es una de las características de la poesía, la obra y la vida de Alaíde Foppa. Española de nacimiento, guatemalteca por decisión política y amorosa, pasó su infancia en Argentina y se formó en Italia. Poeta, crítica de arte, traductora, activista por los derechos humanos y catedrática universitaria, fundó un periódico fundamental para la historia del feminismo latinoamericano: FEM.
Ella se siente a veces
como cosa olvidada
en el rincón oscuro de la casa
como fruto devorado adentro
por los pájaros rapaces,
como sombra sin rostro y sin peso.
Su presencia es apenas
vibración leve
en el aire inmóvil.
Siente que la traspasan las miradas
y que se vuelve niebla
entre los torpes brazos
que intentan circundarla.
Quisiera ser siquiera
una naranja jugosa
en la mano de un niño
–no corteza vacía–
una imagen que brilla en el espejo
–no sombra que se esfuma–
y una voz clara
–no pesado silencio–
alguna vez escuchada.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
La vida de Alaíde Foppa estuvo signada por el movimiento político de Latinoamérica. Lo personal y lo político borran sus límites (im)precisos cuando la militancia política se hace de los días y de la vida. Tres de sus cinco hijos pertenecían al Ejército Guerrillero de los Pobres, lo que a dos de ellos les costó la vida.
Cinco hijos tengo,
cinco caminos abiertos,
cinco juventudes,
cinco florecimientos.
Y aunque lleve el dolor
de cinco heridas
y la amenaza
de cinco muertes,
crece mi vida
todos los días.
Alaíde permanece aún desaparecida desde que en 1980 un grupo de inteligencia guatemalteca conocido como G-2 la secuestró una mañana en el centro de Ciudad de Guatemala.
Anatomía no es destino (1976):
Durante milenios la mujer ha sido considerada en función de su cuerpo y de su sexo: el parto, la crianza, la «satisfacción» sexual que puede dar al hombre, su intrínseca impureza determinada por las hemorragias, su efímera belleza, su condición de ser inútil y agotado cuando ya no es fecunda. Aún los llamados trabajos «femeninos», dependen sobre todo del cuerpo, pues son en su mayoría tareas «manuales». La mujer, por su parte, aceptó el papel que se le asignaba y, consciente de que su cuerpo era lo único importante que poseía, no pudo menos que dedicarle toda su atención, si deseaba valorar sus atributos; estuvo por lo tanto, casi siempre dispuesta a ser de uno u otro modo «objeto sexual». Hoy las cosas han cambiado, ya no se discute, por ejemplo, si la mujer tiene o no alma, como sucedió todavía en los primeros siglos del cristianismo oficial, y muchas mujeres desempeñan tareas que no son precisamente inútiles. Sin embargo, los estereotipos persisten y en una forma implícita se les sigue regateando a las mujeres el derecho –y el deber– de ser algo más que un cuerpo.
La idea de una poesía de combate, de verso corto y directo que la acompañara en su militancia se vuelve palabra. La presencia del romancero en algunos poemas atraviesa un castellano hecho del exilio, una lengua que puede dar cuenta del sueño latinoamericano de la revolución y también lanzar una línea histórica hacia los movimientos de mujeres revolucionarias.
«Mujer»
Un ser que aún no acaba de ser,
No la remota rosa angelical,
que los poetas cantaron.
No la maldita bruja que los inquisidores quemaron.
No la temida y deseada prostituta.
No la madre bendita.
No la marchita y burlada solterona.
No la obligada a ser buena.
No la obligada a ser mala.
No la que vive porque la dejan vivir.
No la que debe siempre decir que sí.
Un Ser que trata de saber quién es
Y que empieza a existir.
Alaíde nació en Barcelona en diciembre de 1914 y publicó: Poesías (1945), La sin ventura (1955), Los dedos de mi mano (1960), Aunque es de noche (1962), Guirnalda de primavera (1965), Elogio de mi cuerpo (1970) y Las palabras y el tiempo (1979).
«Un día»
Este cielo nublado
de tempestad oculta
y lluvia presentida
me pesa;
este aire denso y quieto,
que ni siquiera mueve
la hoja leve
del jazmín florecido,
me ahoga;
esta espera
de algo que no llega
me cansa.
Quisiera estar lejos,
donde nadie
me conociera:
nueva
como la yerba fresca,
ligera,
sin el peso
de los días muertos
y libre
ir por caminos ignorados
hacia un cielo abierto.
Elogio de mi cuerpo puede leerse como manifiesto poético y estético de un feminismo activo conectado con las luchas de liberación latinoamericanas sin perder la búsqueda poética. Un corazón como puño en alto, una dulzura potente, una vida que vuelve.
«El corazón»
Dicen que es del tamaño
de mi puño cerrado.
Pequeño, entonces,
pero basta
para poner en marcha
todo esto.
Es un obrero
que trabaja bien,
aunque anhele el descanso,
y es un prisionero
que espera vagamente
escaparse.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
BIOGRAFÍA
Alaíde Foppa nació en Barcelona, el 3 de diciembre de 1914, su padre era un periodista liberal argentino y su madre, Julia Falla, guatemalteca, provenía de una familia de ricos hacendados. Vivió en Argentina e Italia, donde cursó sus estudios de secundaria. Cursó el bachillerato en Bélgica, y la universidad en Roma, en el Departamento de Letras y de Historia del Arte. En 1943 llegó a Guatemala, y en 1944 asumió la nacionalidad guatemalteca. Colaboró activamente en la revolución, se casó con Alfonso Solorzano con quien vivió un primer exilio en México, fue docente de la Facultad de Filosofía y Letras de la Universidad Nacional Autónoma de México en la que ejerció la cátedra de literatura italiana y de sociología. Se trasladaron a París cuando su marido fue nombrado cónsul en la capital francesa. En 1950 regresó a Guatemala junto con su familia, pero cuatro años después tuvieron que salir nuevamente al exilio tras el derrocamiento del gobierno del coronel Jacobo Árbenz Guzmán en junio de 1954.
Durante la década de los años setenta algunos de sus hijos se involucraron con la guerrilla guatemalteca, específicamente con el Ejército Guerrillero de los Pobres (EGP). En 1980 su hijo Juan Pablo, murió en Nebaj, su esposo murió atropellado en la Avenida Insurgentes de la ciudad de México.
En 1980, viajó a Guatemala a renovar su pasaporte guatemalteco vencido y el 19 de diciembre fue secuestrada en pleno día, se asumió que fue el gobierno del general Fernando Romeo Lucas García el que ordenó la desaparición y más tarde el asesinato de Alaíde Foppa, pero no pudo comprobarse. En 1999, su hijo mayor, Julio, residente en México, realizó una campaña internacional, para tratar de encontrar sus restos y a los culpables de su muerte.
Foppa fue pionera en el feminismo, en 1976 fundó la revista Fem, la primera revista semanal feminista de México. Colaboró también en el Foro de la Mujer, programa radiofónico transmitido por Radio Universidad en México durante varios años y se integró activamente a la Agrupación Internacional de Mujeres contra la Represión. También fue crítica de arte y en 1977 organizó en el Museo de Arte Carrillo Gil una exposición de mujeres artistas.
BIBLIOGRAFÍA
Poesía:
El ave Fénix: Las palabras y el tiempo (1945)
Poesías (1945)
La sin ventura (1955)
Los dedos de mi mano (1958)
Aunque es de noche (1959)
Guirnalda de primavera (1970)
Elogio de mi cuerpo (1970)
Poesía. Guatemala: serviprensa centroamericana (1982)
Ensayo:
La poesía de Miguel Ángel. México (1966)
Confesiones de José Luis Cuevas. México (1975)
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
Parole di carne e ossa : Alaide Foppa
Costa poco la parola, anzi, non costa nulla. Tanto, la si dice soltanto e dire non è fare. Dire non vale. Non è vincolante. Non è una promessa. Si può sempre tornare indietro, tanto l’ho solo detto. Siamo abituati a poter dire tutto ciò che vogliamo senza temere alcuna conseguenza e infatti diciamo tutto, siamo circondati di parole e produciamo in continuazione fiumi di parole, parliamo senza fine, senza pensare, scriviamo, leggiamo, pensiamo, le parole non ci lasciano mai in pace ( e nemmeno noi a loro concediamo un attimo di tregua), ci girano sempre intorno, le sentiamo, ma non le ascoltiamo e se le ascoltassimo, scopriremmo che il più delle volte non significano nulla. Tutto è possibile, tutte le parole sono permesse e in questo fiume traboccante le parole non si distinguono più.
Nell’arco di un’ora, si afferma tutto e il contrario di tutto, si parla, si mente, si dimentica ciò che si è appena detto ( e ciò che hanno detto gli altri ), tanto, dire non è fare, la parola non costa nulla e come tutto ciò che non ha un costo, vale poco. Mentre lentamente stiamo soffocando in quel mare di parole senza senso, prive di contenuto che produciamo in ogni istante, le nostre amate chiacchiere, in altre parti del mondo – e in altri tempi – per una parola sola, si può finire in carcere o addirittura perdere la propria vita. Lo so che questa non è una novità. Non è un’ affermazione originale, anzi, lo sanno tutti. Sto facendo del moralismo? E’ come quando si osa dire che noi mangiamo fino al vomito mentre altrove ogni trenta secondi si muore per mancanza di cibo? Non si può dire questo, perché tanto si sa? Perché tanto non cambia nulla. Perché tanto…
Ma non parlo della fame nel mondo. Parlo di chi ha perso la vita per aver detto la sua parola. Perché una parola non è solo una parola, ma è già un atto. Dire è fare. Ogni parola crea una nuova realtà. Dipende da noi.
(Questo non è un bel testo, non è scritto bene e non dice nulla di nuovo. Eppure non intendo limarlo. Non ho in questo momento alcuna voglia di scrivere un bel testo molto originale e very sophisticated, perché la mia stessa abilità di manovrare le parole, come di volta in volta conviene, mi spaventa. Mi è sospetta. Io, donna di lettere che ha condotto tutta la sua vita nella o con la parola, talvolta non mi fido più di me stessa.
Alaide Foppa : Tre poesie
Alaide Foppa (*1914) fu rapita il 19.12.1980 in Guatemala. Da allora non si ha più notizie di lei.
Nata in Italia da madre guatemalteca e padre argentino, trascorse la sua infanzia e gioventù in Italia e Belgio. Sposa Alonso Solórzano, un giurista che, negli anni ’50 fu membro di due governi in Guatemala. Nei tempi della dittatura, la famiglia chiede asilo politico in Messico.
Alaide Foppa fu una donna emancipata che, oltre ad occuparsi dei suoi 5 figli, fu poetessa, professoressa universitaria per italianistica, nonché traduttrice dei sonetti di Michelangelo, fondatrice della rivista “ Fem” e fondatrice di una cattedra per sociologia femminile all’università di città del Messico.
Nonostante la sua appartenenza alla borghesia, Foppa, una convinta femminista e al contempo una donna elegante dei gusti raffinati, si schiarò per la sinistra. Tre dei suoi figli appartenevano alla Guerillia guatemalteca. Poco tempo dopo che fu ucciso il suo figlio Juan Pablo, Foppa sparì insieme al suo autista.
Si presume che in Guatemala sono spariti durante gli anni delle vari guerre civili più di 45.000 persone.
Señor, estamos solos,
Señor, estamos solos,
Yo, frente a Ti:
Diálogo imposible.
Grave es tu presencia
Para mi solitario amor.
Escucho tu llamada
Y no sé responderte.
Vive sin eco y sin destino
El amor que sembraste:
Sepultada semilla
Que no encuentra el camino
Hacia la luz del día.
En mi pecho encendiste
Una llama sombría
¿Por qué señor,
no me consumes entera,
si no hay para tu amor
otra respuesta
que mi callada espera?
Signore, siamo soli
Signore, siamo soli
di fronte a Te :
Dialogo impossibile.
Grave è la tua presenza
per il mio amore solitario.
Ascolto la tua chiamata
e non so risponderti.
Vive senza eco e senza destino
l’amore che tu hai seminato:
seme sepolto
che non trova la via
verso la luce del giorno.
Nel mio petto hai acceso
una fosca fiamma.
Perché, Signore
non mi consumi tutta
se al tuo amore non c’è
altra risposta
che la mia silenziosa speranza?
Oraciòn
Dame, señor
un silencio profund
y un denso velo
sobre la mirada.
Así seré un mundo
cerrado:
una isla oscura;
cavaré en mí misma dolorosamente
como en tierra dura
Y cuando me haya desangrado
ágil y clara será mi vida
Entonces, como río sonoro y transparente,
fluirá libremente
el canto encarcelado.
Preghiera
Dammi, oh Signore,
un silenzio profondo
e un denso velo
sugli occhi.
E un mondo si chiuderebbe:
un isola oscura;
scaverò dentro me stessa dolorosamente
come nella terra dura.
E quando sarò dissanguata,
agile e chiara sarà la mia vita.
E come un fiume sonoro e trasparente
scorrerà liberamente
il canto imprigionato.
Ella se siente a veces
como cosa olvidada
en el rincón oscuro de la casa
como fruto devorado adentro
por los pájaros rapaces,
como sombra sin rostro y sin peso.
Su presencia es apenas
vibración leve
en el aire inmóvil.
Siente que la traspasan las miradas
y que se vuelve niebla
entre los torpes brazos
que intentan circundarla.
Quisiera ser siquiera
una naranja jugosa
en la mano de un niño
-no corteza vacía-
una imagen que brilla en el espejo
-no sombra que se esfuma-
y una voz clara
-no pesado silencio-
alguna vez escuchada.
Talvolta si sente
come una cosa dimenticata
nell’ angolo oscuro della casa
come frutto divorato di dentro
da uccelli rapaci,
come ombra senza faccia né peso.
La sua presenza è appena
una lieve vibrazione
nell’aria immobile.
Si sente trapassare dagli sguardi
e diventare nebbia
tra le goffe braccia
che la cingono.
Può darsi che voglia essere qualcosa,
un’arancia succosa
nella mano di un bambino
– non una buccia vuota –
un’immagine che brilla nello specchio
– non un’ ombra che svanisce –
e una voce chiara
– non il pesante silenzio –
qualche volta ascoltata.
( dallo Spagnolo di Susanne Detering)
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
libertà per Alaide Foppa
La pubblicazione in questa pagina di un articolo di Alaide Foppa “Quello che scrivono le donne” apparso su Fem n. 10 vuole essere un atto di solidarietà contro la violenza di cui la scrittrice guatemalteca è stata vittima.
Molti testimoni hanno assistito il 19 dicembre scorso al suo rapimento in Guatemala; hanno visto la sua macchina circondata, hanno visto Alaide trascinata via. Il governo guatemalteco si è limitato a “deplorare”, senza rispondere agli appelli lanciati dai parenti, dal Presidente del Messico, da “Amnesty International”, dai comitati sorti in Messico, in Francia e altrove per salvare Alaide. In Italia molti giornali democratici e il GR1 hanno denunciato questo rapimento; il Comitato italiano di solidarietà con le famiglie dei prigionieri politici e degli scomparsi in America Latina sta raccogliendo adesioni per un appello alla Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Ma ancora, a più di un mese di distanza, si ignora la sorte di Alaide.
Il Guatemala offre un quadro di violenza sistematica contro tutti i movimenti democratici e rivoluzionari, che appare tragicamente simile a quello, più conosciuto e documentato, del Salvador e di altri Paesi latino-americani. Negli ultimi anni il numero degli “scomparsi” è andato sempre crescendo e ormai spariscono dalle 20 alle 30 persone al giorno. Alaide è stata l’ennesima vittima di un regime che dà carta bianca alle più spietate formazioni di estrema destra.
Eppure Alaide non è iscrìtta a nessun partito, aon svolge -attività rivoluzionaria. E’ stata per lunghi anni innanzi tutto una poetessa, come testimoniano le sue traduzioni, le sue raccolte di liriche: “Poesias” del 1945, “Aunque es de noche” che ottenne un premio di poesia nel 1954, “La sin ventura” nel 1955 e infine “Los dedos de mi mano” del 1958, dedicato ai suoi cinque figli. Si tratta di poesie assai belle, in cui si può forse trovare l’eco della poesia italiana moderna (di Ungaretti specialmente) e dei mistici spagnoli; ma è certamente una poesia originale, frutto di un’esperienza unica, assai ricca e varia: la vita l’ha portata da un Paese all’altro. Alaide è nata a Barcellona da padre argentino, giornalista e scrittore di teatro e da madre guatemalteca. Dopo qualche anno in Argentina, Alaide trascorse in Italia l’adolescenza e la giovinezza: a Roma terminò gli studi universitari dedicati soprattutto alle letterature straniere e alla storia dell’arte italiana, che sono rimasti elementi basilari della sua raffinatissima cultura.
Lasciò l’Italia nel 1942 e dopo un periodo trascorso in Spagna, a Cadice, raggiunse il Guatemala, il paese della madre, dove Alaide ritrovava le sue radici più profonde. Era il tempo in cui il Guatemala usciva dalla lunga dittatura di Ubico e sembrava avviarsi, sia pure faticosamente e con gravi contraddizioni, verso un’evoluzione democratica. Il contatto con i problemi reali e scottanti di un Paese povero e sfruttato determinò una svolta negli interessi di Alaide, così umana e ricca di pietà: si dedicò all’alfabetizzazione, ai problemi dell’infanzia e delle donne. Nel 1945 sposò Alfonso Solorzano, fondatore dell’Istituto Gautemalteco della Sicurezza Sociale, e con lui, dopo qualche anno all’Avana e a Parigi, ritornò in Guatemala e vi rimase fino al 1954, anno in cui si trasferì in Messico con i figli per seguire il marito, che aveva dovuto abbandonare il Paese per la caduta del governo di Arbenz Gusmàn, di cui era stato collaboratore.
In Messico Alaide ha continuato la sua attività come insegnante all’Università autonoma del Messico (UNAM), come responsabile di un programma per la donna a Radio Universitaria e come condirettrice della rivista Fem. Nel 1975, in occasione dell’anno internazionale della donna a Città del Messico, è stato pubblicato un suo saggio intitolato “Feminismo y liberación”; recentemente infine ha pubblicato un libro sul pittore José Ruiz Cuevas. Qualche mese fa Alaide ha perduto, in un incidente stradale rimasto senza spiegazioni, il marito; precedentemente aveva perduto il più giovane dei suoi figli, forse assassinato in Guatemala. Priva di notizie di altri due dei suoi figli, il 18 dicembre scorso, si è recata in Guatemala consapevole dei rischi a cui andava incontro, per portar via — a quanto si dice — da quel paese così pericoloso, una nipotina di pochi mesi.
E’ atroce pensare quali saranno state le sue sofferenze, è difficile credere nella sua salvezza; solo si può sperare che questa donna straordinaria, che tante vicende ha superato con coraggio e con fede, riesca ad uscirne e sia restituita a tutti quelli che l’apprezzano e le vogliono bene.
Nel corso degli ultimi quindici anni, le donne hanno scritto più che in tutta la storia dell’umanità. Hanno pubblicato molti libri, ma hanno anche fondato un gran numero di riviste scritte da donne (alcune di breve durata, ma molte ancora viventi da 4, 5, 6 anni), e sono state più presenti che mai nel giornalismo quotidiano; il personaggio della reporter è diventato frequente e la carriera di Scienze di Comunicazioni è tra quelle maggiormente scelte dalle donne. Non è un fatto casuale, dato che si verifica parallelamente il crescente accesso delle donne agli studi — in particolare agli studi superiori — e la sua maggiore influenza in tutti i campi della vita sociale; però, poiché la parola è il mezzo per eccellenza per “esprimersi”, vale la pena di vedere ciò che le donne esprimono in questo campo. Siamo ancora lontane dalla famosa uguaglianza (non abbiamo bisogno di dire in che cosa e con ohi), ma se in qualcosa si nota il cambiamento è del fatto che la donna che -scrive è vista ogni giorno meno come un’eccezione. Da ciò non è più abitudine dire in suo elogio che una buona giornalista “scrive come un uomo”.
D’altra parte, per la scarsa partecipazione della donna agli affari del mondo, è proprio attraverso la scrittura che alcune cominciarono ad esprimersi da epoche lontane. Quella famosa “stanza tutta per sé” della quale parla Virginia Woolf -— condizione indispensabile per scrivere, negata all’immaginaria sorella di Shakespeare — la ebbero alcune privilegiate da prima del Rinascimento {e penso che anche Saffo l’aveva quando piangeva la sua solitudine); e il privilegio, vincolato ad una educazione eccezionale, offrì la maniera di riempire ozii aristocratici senza uscire dal nucleo domestico.
Le prime cose che scrissero le donne furono poemi d’amore e soprattutto poemi di solitudine e di nostalgia. Quella stanza tutta per sé, senza avere con chi dividerla, neanche la sentirono come un privilegio le poetesse dolenti: Marie de France, Beatrice de Die, piangono assenze, come le piangerà, due secoli più tardi, Cristina Pisano, e un po’ dopo la sfortunata Maria Stuarda, che scrisse in francese secondo i modelli di Ronsard e Du Bellay. Anche le italiane del Rinascimento scrissero poesie amorose e dolenti: Gaspara Stampa sogna con quella “notte più chiara del più chiaro giorno” vissuta con l’amato, e la severa Vittoria Colonna non smette di agognare il marchese che la lasciò vedova, sorda al platonico amore di Michelangelo. E’ un’eccezione tra le poetesse aristocratiche. Margherita, regina di Navarra e sorella di Francesco I di Francia, che non si limitò alla poesia amorosa, ma scrisse anche un libro di racconti ispirati dal modello di Boccaccio, il Decamerone {pubblicato recentemente anche in spagnolo), una commedia e varie opere di carattere religioso che, in quella prima metà del secolo XVI quando c’era la drammatica contrapposizione tra cattolicesimo e riforma, parlano di Uberi sentimenti religiosi. Non farò, ovviamente, “una galleria di scrittrici celebri attraverso i secoli”; solo desidero, nel ricordare qualche nome, segnalare perché scrivono quelle donne, perché quelle e non altre, e che cosa scrivono. La più immediata ed ovvia spiegazione alla prima sarebbe: scrivevano perché sapevano scrivere. Chi era in condizioni di scrivere alla fine del Medio Evo e durante il Rinascimento non era che il venti per cento delle donne (l’analfabetismo c’era anche tra gli uomini ma in misura molto minore). La formazione scientifica, filosofica, umanista, era, naturalmente, ancora più limitata; di modo che le poche che scrivevano e volevano dire qualcosa, erano le sue pene e i suoi abbandoni che potevano esprimere.
In ambienti aristocratici e chiusi incominciarono a scrivere anche le francesi del colto secolo XVII. E non è già poesia; e per lo meno, non solo poesia: molte lettere, pulite, eleganti, ingegnose, piene di succosi pettegolezzi e di tenere effusioni, come-quelle di Madame de Sévigné. (Daltronde, il genere epistolare sembra convenire specialmente alle donne, che salgono essere più immediate ed agili, meno convenzionali degli uomini nel dialogo scritto). E le donne scrivono anche lunghe novelle sentimentali e avventurose: quelle di Mademoiselle de Scudéry, per esempio (Clelia, scritta tra il 1656 e il 1660, comprende dieci tomi) in quel contesto mondano intellettuale che vive intorno alle “preziose”, le pedanti, le sapute, tanto acutamente criticate da Molière, non senza ingiustizia. Ciò che sembrava ridicolo al grande commediografo — e in qualche modo lo era — non era che il risveglio di un gruppo di donne che preferivano le lettere ai lavori domestici e avevano il coraggio di considerare il matrimonio come qualcosa di molto noioso e prosaico a paragone con le avventure letterarie. -La vita di salotto, incentrata sulla conversazione brillante, ingegnosa, intelligente e alimentata dalla presenza di donne che hanno queste qualità, nasce all’Hotel de Rambouillet e il suo eco giunge sino all’opera di Proust. Sottolineo che le donne scrivono, leggono, conversano spiritualmente, con maggior o minor ingegno, solo nei ceti privilegiati, e pertanto nelle società maggiormente sviluppate. Che qualcuna scriva singolarmente bene non cessa d’ essere un mistero, se si tratti di donne o di uomini.
Suor Juana, nel Messico coloniale e barocco, conferma la regola di una stanza tutta per sé, che nel suo caso fu più isolata di altre, ma meno suo: la cella. E nello stesso periodo non c’è in Spagna donna che possa compararsi a lei. Anche se basta alla Spagna avere avuto un secolo prima Teresa d’Avila. Il confronto fra le due suore mette in evidenza più differenze che somiglianze (Suor Jana così colta e… e Santa Teresa così immediata e ispirata); le unisce, invece, un elemento comune: tutt’e due dovettero lottare contro la burocrazia ecclesiastica. D’altronde, esse, come suore, si integrano anche al coro delle solitarie che cantano per amore.
Cosa succede nella nostra America spagnola dopo Suor Juana? Abbiamo, certamente, poetesse romantiche: alcune conosciute e riconosciute; molte anonime. La poesia, nel secolo XIX, è per le donne — come la pittura e l’acquarello e i fiori ricamati e “petit point”
— un amabile intrattenimento e uno sfogo permesso. Anche sono poetesse le prime donne che si mettono in evidenza nel nostro secolo: Delmira Agustini, Alfonsina Storni, Juana de Ibarbourou, Gabriela Mistral… (E’, tra loro, la prima donna che riceve un premio Nobel). Donne, segnate, in maggiore o minore misura per la solitudine; e in un caso
— Alfonsina Storni — per il suicidio; in altre — Delmira Agustini — per essere vittima di un omicidio passionale (il marito si suicidò dopo averla uccisa). Romanticismo tardivo portato sino alle ultime conseguenze.
Sto facendo riferimento alla storia — e storie — solamente di ieri: Juana de Ibarbouru, è appena morta, e le altre, potevano vivere ancora gli ultimi anni di una lunga vita, se la propria non fosse stata così intensamente breve e mutilata. Quello che risulta evidente e che tra questo ieri così prossimo e l’oggi che è incominciato appena quindici anni fa, il cambiamento è radicale. Troppo presto ancora per fare il bilancio di quello che hanno scritto le donne, ovunque, in questo breve periodo; la critica o la semplice rassegna di novelle, poesie, saggi sociologici e antropologici, critiche letterarie, reportages che hanno scritto le donne riempirebbero parecchi libri. Ma, indipendentemente dalla quantità, forse è più importante segnalare qualcosa di nuovo: per la prima volta, le donne parlano di se stesse non soltanto per piangere solitudini e abbandoni, non soltanto per lamentare le ingiustizie sofferte (nel passato e nel presente), non soltanto per analizzare le leggi, i costumi, i pregiudizi vigenti nel mondo degli uomini, se non per affermarsi, per valorizzarsi in quanto donne. Mai più: “siamo uguali, vogliamo essere uguali” se non: “siamo diverse e ci piace essere diverse”. E non soltanto si rifiuta il supposto elogio di “scrivere come un uomo”, ma si pretende “scrivere come donna”.
Su tutta la gamma di uguaglianze e differenze, molto si è detto e forse manca ancora molto da dire. Precisamente il tema della scrittura femminile come tale è uno dei più discussi attualmente (di questo si parla in questo numero, rispetto a scrittrici francesi e italiane). E anche si è parlato di un’arte femminile, di una pittura femminista, etc. Rivendicazione del femminile che, come quasi tutte le rivendicazioni può portare ad eccessi, ma che ha le sue ragioni. Credo che il pensiero e la creatività artistica siano attitudini essenzialmente umane, che non ammettono la differenziazione del sesso. Ma questo non esclude che la donna, come qualcuno che viene da un altro continente — quello della oscurità e della dimenticanza — possa avere qualcosa da dire.
Molti pensano anche che le donne già stanno dicendo troppo, o scrivendo, o parlando troppo. E’ un vecchio rimprovero, tra l’altro, che si applicava agli innocui “chiacchiere di donne”, ma che in questi ultimi anni potrebbe anche essere giustificato… Deve intendersi, invece, che è spiegabile il desiderio di parlare, e anche l’eccesso delle parole, in chi ha mantenuto — salvo brevi intermittenze — un silenzio millenario.
(Da FEM – Publicación feminista tri-mestral – Voi. Ili – N. 10)
Alaide Foppa traduzione dì Maria Stella Conte
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
Alaíde Foppa, la malograda escritora
El 21 de diciembre de 1980, se conocía del secuestro de la escritora Alaíde Foppa, junto a su chofer en un céntrico sector de la ciudad hoy conocido como Plaza Barrios de la zona 1.
El 8 de julio de 1954 la Junta de Gobierno ordenó al Ministerio de Hacienda intervenir los bienes de ex funcionarios de los regímenes de los ex presidentes Juan José Arévalo y Jacobo Árbenz Guzmán, entre quienes figuraba la escritora Alaíde Foppa de Solórzano.
Foppa dijo entonces que ocasionalmente había servido en forma gratuita en temas culturales al gobierno de Árbenz, por lo cual creía que su inclusión en la lista de congelamientos era injusta, pues algunos bienes los había heredado de su abuelo, Salvador Foppa.
El 23 de julio de 1954, Foppa de Solórzano solicitó la revisión de la lista de bienes congelados por la Junta de Gobierno. Explicó que los bienes congelados eran un centenar de libros, unos cuantos cuadros y un automóvil que le fue obsequiado por su madre valorado en Q600, y que los objetos hogareños los había adquirido en los primeros años de su matrimonio con el Alfonso Solórzano.
El secuestro
Foppa arribó a Guatemala procedente de México, donde residía desde hacía muchos años, luego de haber buscado asilo político junto a su esposo, el escritor Alfonso Solórzano. Alaíde llegó al país para celebrar la Navidad con su madre.
Los familiares indicaron que la escritora había salido de compras la mañana del 21 de diciembre de 1980 acompañada de su chofer, Leocadio Astún Chiroy, pero luego ya no se supo más de ellos.
Ambos fueron interceptados por desconocidos que se los llevaron con rumbo no establecido. Esa vez se asumió que había sido el gobierno de Fernando Romeo Lucas García había ordenado su desaparición, ya que la escritora era de ideología izquierdista.
Testigos informaron que Foppa de Solórzano caminaba por una céntrica calle de la ciudad, cuando repentinamente hombres armados le interceptaron el paso y fue obligada a subir al automóvil en el cual la esperaba su chofer y posteriormente ambos fueron llevados con rumbo ignorado.
Los que vieron lo ocurrido dijeron que escucharon cómo la escritora pedía auxilio, así como el momento en que los hechores la golpearon con sus armas y luego la introdujeron a la fuerza al carro.
Foppa gozaba de prestigio internacional, por lo cual el gobierno de México y otras organizaciones internacionales exigieron a Lucas García que investigara.
Estaba casada con el intelectual Alfonso Solórzano, un estrecho colaborador de Arévalo y Árbenz Guzmán.
Era madre del periodista Mario Solórzano Foppa, fundador del desaparecido telenoticiero Estudio Abierto, quien se vio obligado a salir del país debido a su ideología de izquierda.
La escritora realizaba periódicamente visitas a Guatemala invitada para dar conferencias en el Instituto Italiano de Cultura.
Hasta el 24 de diciembre de 1980, día de Nochebuena, el Juzgado Décimo de Paz a cargo del caso mantenían fuerte hermetismo del plagio.
30 de diciembre de 1980 el gobierno informó que se hacían todos los esfuerzo para dar con el paradero de los secuestrados y que los responsables eran elementos subversivos quienes trataban de agenciarse de dinero para financiar sus actividades pro comunistas.
El 2 de enero de 1981, luego de 12 días del secuestro, el paradero de Foppa aún continuaba en el misterio. A ese secuestro se sumaban el del gerente de Ginsa, Clifford Bevens, el de Héctor Aragón Malher, hijo del dirigente político del partido Movimiento de Liberación nacional Héctor Aragón Quiñonez; el de Estela Molina viuda de Luna y el del médico norteamericano Long Cumminings. El caso de Foppa nunca fue cerrado.
El 17 de junio de 2009, Julio Solórzano Foppa, de la Fundación de Antropología Forense de Guatemala e hijo de Alaíde, fue sometido a una prueba de ADN para identificar los restos de su hermano Juan Pablo, quien murió en un enfrentamiento en Nebaj, Quiché, y que habían sido enterrados como XX en el Cementerio La Verbena, zona 7.
El de 21 de julio 2012 Julio dijo que denunciaría ante la Comisión Interamericana de Derechos Humanos el secuestro de Alaíde. “Nosotros necesitamos saber qué paso con nuestra madre”, dijo, y que podría culpar a Donaldo Alvarez Ruiz, ministro de Gobernación de Lucas García.
Luego de la desaparición se corrió el rumor de que cuerpos paramilitares que operaban dentro del gobierno de Lucas García habían sido los responsables del hecho.
Hasta el momento se desconoce en dónde están sus restos, ya que las investigaciones nunca avanzaron.
Alaíde Foppa ,Poetessa guatemalteca.
Biografía
Alaíde Foppa nació el 3 de diciembre de 1914 en Barcelona España; era hija de Tito Livio Foppa, un periodista Argentino, y de la señora Julia Falla, una guatemalteca de familia acaudalada.
Vino a Guatemala a finales de la dictadura de Jorge Ubico. Cuando apenas tenía 19 años toma la ciudadanía guatemalteca y participa activamente en la la Revolución de 1944 como voluntaria en un hospital y en campañas de alfabetización.
Al ser derrocado Jacobo Árbenz se exilia en México junto con su esposo, Alfonso Solórzano. En el exilio nace Julio, uno de sus cinco hijos.
Durante el conflicto armado interno, Juan Pablo, otro de sus hijos, milita en el Ejército Guerrillero de los Pobres (EGP), pero muere en Nebaj, Quiché, durante un enfrentamiento armado.
Al enterarse de la noticia, su padre, Alfonso Solórzano, quien se encontraba en Ciudad de México, sale a la calle y muere arrollado en la Avenida Insurgentes.
La obra de Alaíde
. La palabra y el tiempo
. La sin ventura
. Elogios de mi cuerpo
. Guiralda de primavera
. Ave Fénix, entre otras obras conocidas a nivel internacional
Breve biografia di Giovanna Bemporad nasce a Ferrara nel 1928. È una poetessa precocissima: inizia a pubblicare traduzioni in versi dai classici già a sedici anni (l’Eneide di Virgilio, pubblicata in parte nell’Antologia dell’Epica per i tipi di Enrico Bemporad a Firenze). Frequenta il liceo classico di Bologna, dove conosce altri giovani letterati. Antifascista di famiglia ebrea, atea convinta sfida il regime col proprio comportamento: vive da sola in “un enorme stanzone, un tavolo vastissimo e carico oltre misura di libri”, veste da uomo, si trucca di bianco e tratta alla pari coi coetanei uomini. Vuole, soprattutto, essere libera, essere trattata alla pari.
Scoppia la Guerra, che interrompe la vita. Uno dei compagni bolognesi, Pier Paolo Pasolini, si rivolge agli amici per aiutarlo nel gestire l’improvvisato liceo che sta tenendo a Casarsa, perché è troppo pericoloso per i ragazzi prendere il treno per Pordenone o Udine. Così Giovanna sfolla in Friuli, dove rimarrà fino al 26 gennaio del 1944. A chi gli chiede il motivo dei suoi modi disinvolti, del suo vestire da uomo, risponde provocatoriamente “sono lesbica”. Collabora con la rivista il Setaccio, sotto lo pseudonimo di Giovanna Bembo. Sfuggita alle persecuzioni, nazi-fasciste continuerà per alcuni anni a condurre una vita errabonda, fino al matrimonio con il senatore Giulio Cesare Orlando nel 1957.
La poesia di Giovanna Bemporad si ritagliano una nicchia particolare: classicista fuori dal tempo, filologa (nel senso etimologico del termine), sospesa tra una pulsione decadente della morte e una forte carica erotica, che ricorda i frammenti di Saffo. Minuziosa cesellatrice di parole, dedica la maggior parte della sua vita e della sua creatività alla sua versione dell’Odissea di Omero. Diceva del primo dei poeti greci “Omero è il punto d’arrivo della poesia occidentale. Il più grande di tutti. Tocca l’assoluto con assoluta semplicità”. Di quella traduzione, rimasta incompleta, esistono due edizioni a cura di Le Lettere (1990 e 1992). Morirà a Roma, il 6 gennaio 2013.
Mia compagna implacabile la morte
persuade a lunghe veglie taciturne.
Ma non so che inquietudine febbrile
fa ingombro a questo dolce accoglimento
calando il sole, prima che ogni gesto
si traduca in memoria e che ogni voce
s’impigli nel silenzio. Forse il vento
porta come un rammarico del tempo
che non è più, trascina per le strade
deserte una fiumana d’ombre care.
E biancheggia un’immagine tra i gigli
di giovane assopita nel suo riso.
Giovanna Bemporad
#
………Variazione su tasto obbligato
Non domare, implacabile, il mio riso
mentre il fiore del melo incanutisce;
non recidermi il filo dei pensieri
d’un tratto, ma da sogni e disinganni
lascia che docilmente io mi separi
solo quando alla tua certezza giova
sacrificare il nostro dubbio stato;
quando non amerò che il mio dolore
tu chiamerai meno importuna al nulla:
io con la fronte smemorata l’orma
seguirò del tuo piede, e questo arcano
insondabile azzurro andrà dissolto
come il sogno di un’alba.
#
Non farmi così sola come il vento
che si dispera in questa notte fonda
fino a morirne, eternamente sola
non farmi, come già sono da viva,
sotto la volta immensa ch’è misura
del nostro nulla. In punto di lasciare
questa mia fragile vicenda, tutte
le mie dolci abitudini, e la gioia
che spesso segue all’urto del dolore,
voglio adagiarmi su una zolla d’erba
nell’inerzia, supina. E avrò più cara
la morte se in un attimo, decisa,
piano verrà, toccandomi una spalla.
per questi testi si ringrazia il sito rebstein
Giovanna Bemporad
Ex voto
.
Dea velata di marmo e di silenzio
casta, racchiusa nel perpetuo inganno
del tuo corpo ideale, anima impura-
sento alitarmi un sonno di belletti
dalle tue ciglia; vedo tra le labbra
dove il pennello, non l’aurora, ha pianto
petali rossi, ravvivarsi l’ambra
dei tui denti all’assalto delle risa.
Si colma il cuore di un battito d’ali
quando tu accosti la crescente luna
delle tue ciglia alla nuvola ombrosa
dei miei capelli: o ninfa, o baiadera,
non che adirarmi col vento d’amore
sospendo ai tuoi squillanti braccialetti
e alle tue lunghe mani una bianchezza
di mute solitudini, e il tuo collo
sfioro con disarmati occhi indolenti.
Giovanna Bemporad
.
da Esercizi, Garzanti, 1980.
A UNA ROSA
*
China sul margine del tuo segreto,
o rosa in veste diafana, mollezza
di corpo ignudo, incrollabile tempio
che in vigilanza d’amore mi tieni,
non so di che rilievi si componga
la tua bellezza. E all’onda dei profumi
che col ritmo di un alito tu esali
misuro il tuo pallore e il mio languore.
Mi tenta ogni tuo petalo concluso
nel giro di una linea sensitiva,
mollemente incurvato e pieno d’ombra.
Giovanna Bemporad
Breve biografia di Giovanna Bemporad nasce a Ferrara nel 1928. È una poetessa precocissima: inizia a pubblicare traduzioni in versi dai classici già a sedici anni (l’Eneide di Virgilio, pubblicata in parte nell’Antologia dell’Epica per i tipi di Enrico Bemporad a Firenze). Frequenta il liceo classico di Bologna, dove conosce altri giovani letterati. Antifascista di famiglia ebrea, atea convinta sfida il regime col proprio comportamento: vive da sola in “un enorme stanzone, un tavolo vastissimo e carico oltre misura di libri”, veste da uomo, si trucca di bianco e tratta alla pari coi coetanei uomini. Vuole, soprattutto, essere libera, essere trattata alla pari.
Scoppia la Guerra, che interrompe la vita. Uno dei compagni bolognesi, Pier Paolo Pasolini, si rivolge agli amici per aiutarlo nel gestire l’improvvisato liceo che sta tenendo a Casarsa, perché è troppo pericoloso per i ragazzi prendere il treno per Pordenone o Udine. Così Giovanna sfolla in Friuli, dove rimarrà fino al 26 gennaio del 1944. A chi gli chiede il motivo dei suoi modi disinvolti, del suo vestire da uomo, risponde provocatoriamente “sono lesbica”. Collabora con la rivista il Setaccio, sotto lo pseudonimo di Giovanna Bembo. Sfuggita alle persecuzioni, nazi-fasciste continuerà per alcuni anni a condurre una vita errabonda, fino al matrimonio con il senatore Giulio Cesare Orlando nel 1957.
La poesia di Giovanna Bemporad si ritagliano una nicchia particolare: classicista fuori dal tempo, filologa (nel senso etimologico del termine), sospesa tra una pulsione decadente della morte e una forte carica erotica, che ricorda i frammenti di Saffo. Minuziosa cesellatrice di parole, dedica la maggior parte della sua vita e della sua creatività alla sua versione dell’Odissea di Omero. Diceva del primo dei poeti greci “Omero è il punto d’arrivo della poesia occidentale. Il più grande di tutti. Tocca l’assoluto con assoluta semplicità”. Di quella traduzione, rimasta incompleta, esistono due edizioni a cura di Le Lettere (1990 e 1992). Morirà a Roma, il 6 gennaio 2013.
L’Orfeo (SV 318) è un’opera di Claudio Monteverdi (la prima in ordine di tempo) su libretto di Alessandro Striggio. Si compone di un prologo («Prosopopea della musica») e cinque atti.
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
È ascrivibile al tardo Rinascimento o all’inizio del Barocco musicale, ed è considerata il primo vero capolavoro della storia del melodramma, poiché impiega tutte le risorse fino ad allora concepite nell’arte musicale, con un uso particolarmente audace della polifonia. Basata sul mito greco di Orfeo, parla della sua discesa all’Ade, e del suo tentativo infruttuoso di riportare la sua defunta sposa Euridice alla vita terrena.
Composta nel 1607 per essere eseguita alla corte di Mantova nel periodo carnevalesco, L’Orfeo è uno dei più antichi Drammi per musica a essere tuttora rappresentati regolarmente.
Dopo l’anteprima, avvenuta all’Accademia degli Invaghiti di Mantova il 22 febbraio 1607 (con il tenore Francesco Rasi nel ruolo del titolo), la prima è stata il 24 febbraio al Palazzo Ducale di Mantova. In seguito il lavoro fu eseguito nuovamente, anche in altre città italiane, negli anni immediatamente successivi. Lo spartito venne pubblicato da Monteverdi nel 1609 e, nuovamente, nel 1615.
In seguito alla morte del compositore (1643), dopo la prima del 1647 al Palazzo del Louvre di Parigi il lavoro non venne più interpretato, e cadde nell’oblio.
Dopo la seconda guerra mondiale, le nuove versioni dell’opera iniziarono a presentare l’uso di strumenti d’epoca, per perseguire l’obiettivo di una maggiore autenticità. Vennero quindi pubblicate molte nuove registrazioni e L’Orfeo divenne via via sempre più popolare. Nel 2007 il quarto centenario della prima venne celebrato con numerose rappresentazioni in tutto il mondo. Nel 2009 va in scena alla Scala diretta da Rinaldo Alessandrini con Roberta Invernizzi, Sara Mingardo e Robert Wilson, di cui esiste un video trasmesso da Rai 5.
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
Nella partitura pubblicata Monteverdi elenca circa 41 strumenti da impiegare nell’esecuzione. Lo spartito include (oltre a monodie a una, due o tre voci con basso non cifrato, cori a cinque voci con basso non cifrato, ecc.) pezzi per cinque, sette o otto parti, nelle quali gli strumenti da utilizzare sono a volte citati (ad esempio: «Questo ritornello fu suonato di dentro da un clavicembalo, duoi chitarroni e duoi violini piccoli alla francese»).
Tuttavia, nonostante le indicazioni sulla partitura, ai musicisti dell’epoca era concessa una notevole libertà di improvvisare (questa permissività non si riscontra nei lavori più maturi di Monteverdi). Pertanto ogni rappresentazione dell’Orfeo è differente dalle altre, oltre che unica e irripetibile.
La passione di Vincenzo Gonzaga per il teatro musicale crebbe grazie ai suoi legami familiari con la corte di Firenze. Verso la fine del XVI secolo, infatti, i musicisti fiorentini più innovativi stavano sviluppando l’intermedio—una forma musicale stabilita da tempo come un interludio inserito tra gli atti dei drammi parlati— reideandolo in forme più innovative.[2] Guidati da Jacopo Corsi, questi successori della celebre Camerata Fiorentina[n 1] diedero vita al primo lavoro appartenente al genere melodrammatico: Dafne, composta da Corsi e Jacopo Peri, eseguita per la prima volta a Firenze nel 1598. Questo lavoro unisce in sé elementi canori madrigalistici e monodici, oltre a passi strumentali e coreografici, col fine di stabilire un unicum drammatico. Di quest’opera ci restano solo dei frammenti. Tuttavia, altri lavori fiorentini dello stesso periodo (tra cui la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, L’Euridice di Peri e quella di Giulio Caccini) sono giunti interamente fino a noi. In particolare, queste ultime due opere furono le prime dedicate al mito di Orfeo (tratto dalLe metamorfosi di Ovidio), tema che ispirerà i compositori di epoche successive fino al giorno d’oggi. In questo, furono diretti precursori de L’Orfeo di Monteverdi.[5][6]
La corte dei Gonzaga era da tempo celebre per il mecenatismo nei confronti dell’arte teatrale. Un secolo prima dell’epoca di Vincenzo Gonzaga, si rappresentò a corte il dramma lirico di Angelo PolizianoLa favola di Orfeo. Circa la metà di questo lavoro era cantata invece che parlata. In seguito, nel 1598, Monteverdi aiutò la compagnia musicale di corte a mettere in scena il dramma Il pastor fido di Giovanni Battista Guarini. Mark Ringer, storico del teatro, descrive questo come un “lavoro teatrale spartiacque” che ispirò la moda italiana del dramma pastorale.[7] Il 6 ottobre 1600, durante una visita a Firenze per il matrimonio tra Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, il duca Vincenzo assistette a una rappresentazione dell’Euridice di Peri.[6] È probabile che allo spettacolo fossero presenti anche i musicisti più importanti del duca, tra cui Monteverdi. Il duca si rese subito conto dell’originalità di questa nuova forma di intrattenimento drammatico, e del prestigio che avrebbe conferito a chi l’avesse patrocinata.[8]
Anche il giovane Striggio era un abile musicista. Nel 1589 (a 16 anni), aveva suonato la viola alla cerimonia nuziale di Ferdinando di Toscana. Assieme ai due figli più giovani del duca Vincenzo (Francesco e Fernandino), era membro dell’esclusivo circolo intellettuale mantovano: l’Accademia degli Invaghiti, che rappresentava un importante trampolino di lancio per le opere teatrali della città.[10][11]
Non si sa esattamente quando Striggio abbia iniziato la stesura del libretto, ma il lavoro era evidentemente già avviato nel gennaio del 1607.
In una lettera scritta il 5 gennaio, Francesco Gonzaga chiede a suo fratello (all’epoca vicino agli ambienti della corte fiorentina) di fargli ottenere i servigi di un abile cantante castrato (quest’ultimo impiegato nella compagnia musicale del granduca), per la rappresentazione di un dramma per musica da eseguirsi durante il carnevale mantovano.[12]
Le fonti principali impiegate da Striggio per la scrittura del libretto furono il decimo e l’undicesimo libro dalle Metamorfosi di Ovidio, e il quarto libro dalle Georgiche di Virgilio. Questi documenti gli fornirono il materiale di partenza, ma non suggerivano già la forma di un dramma completo (per esempio: i fatti narrati negli atti 1 e 2 de l’Orfeo occupano appena tredici righe nelle Metamorfosi).[13]
Il musicologo Gary Tomlinson sottolinea le numerose similarità tra i testi di Striggio e Rinuccini, evidenziando che alcuni dei discorsi contenuti ne L’Orfeo rassomigliano, come contenuto e come stile letterario, ad alcuni corrispettivi ne l’Euridice.[15]
La critica Barbara Russano Hanning fa notare come i versi di Striggio siano meno raffinati di quelli di Rinuccini, nonostante la struttura del libretto scritto da Striggio sia più interessante.[10]
Nel suo lavoro Rinuccini fu obbligato a inserire un lieto fine (il melodramma era stato pensato per le festività legate alle nozze di Maria de’ Medici). Striggio, invece, che non scriveva per una cerimonia di corte ufficiale, poté attenersi di più alla conclusione originale del mito, in cui Orfeo è ucciso e smembrato dalle Menadi (dette anche Baccanti) iraconde.[14] Scelse infatti di scrivere una versione mitigata di questo finale cruento: le Menadi minacciano di distruggere Orfeo, ma il suo vero destino, alla fine, non viene mostrato.[16]
Il libretto edito a Mantova nel 1607 (in concomitanza con la prima) presenta la conclusione ambigua ideata da Striggio. Tuttavia lo spartito monteverdiano, pubblicato a Venezia nel 1609 da Ricciardo Amadino, termina in maniera del tutto diversa, con Orfeo che ascende al cielo grazie all’intercessione di Apollo.[10]
Secondo Ringer, il finale originale di Striggio fu quasi di sicuro impiegato alla prima de l’Orfeo, ma indubbiamente (a dire del critico) Monteverdi ritenne che la nuova conclusione (quella dell’edizione dello spartito) fosse esteticamente corretta.[16]
Il musicologo Nino Pirrotta, invece, sostiene che il finale con Apollo facesse già parte della pianificazione originale della messa in scena, ma che alla prima non fosse stato messo in atto. Ciò sarebbe avvenuto, secondo la spiegazione di Pirrotta, poiché la piccola stanza che ospitò l’evento non era in grado di contenere gli ingombranti macchinari teatrali richiesti da questa conclusione. Quella delle Menadi, secondo questa teoria, non sarebbe altro che una scena sostitutiva. Le intenzioni del compositore vennero ristabilite al momento della pubblicazione dello spartito.[17] Recentemente la spiegazione di Pirrotta è stata messa in discussione: l’espressione «sopra angusta scena» che si legge nella lettera di dedica di Claudio Monteverdi non indicherebbe uno spazio piccolo per la rappresentazione, ma sarebbe da opporre al «gran teatro dell’universo», cioè al più vasto pubblico raggiungibile dal compositore dopo la pubblicazione a stampa della partitura.[18]
Quando Monteverdi scrisse la musica per L’Orfeo, possedeva già un’approfondita preparazione nell’ambito della musica per teatro. Aveva infatti lavorato alla corte dei Gonzaga per sedici anni, nel corso dei quali si era occupato di varie musiche di scena (in qualità sia di interprete sia di arrangiatore). Nel 1604, per giunta, aveva scritto il ballo Gli amori di Diana ed Endimone (per il carnevale mantovano del 1604–05).[19] Gli elementi da cui egli attinse per comporre la sua prima opera di stampo melodrammatico — l’Aria, l’Aria strofica, il recitativo, i cori, le danze, gli interludi musicali— non furono, come sottolineato dal direttore d’orchestra Nikolaus Harnoncourt, creati ex-novo da Monteverdi, ma fu lui che “amalgamò l’insieme delle vecchie e nuove possibilità, creando un unicum veramente moderno”.[20] Il musicologo Robert Donington scrive al riguardo: “Lo spartito non contiene elementi che non siano basati su altri già ideati in precedenza, ma raggiunge la completa maturità in questa forma artistica appena sviluppata… Vi si trovano parole espresse in musica come [i pionieri dell’opera] volevano fossero espresse; vi è musica che le esprime… con l’ispirazione totale del Genio”[21]
Monteverdi pone i requisiti orchestrali all’inizio della partitura pubblicata ma, in conformità con la pratica del tempo, non ne specifica l’utilizzo esatto.[20] A quell’epoca, infatti, era normale consentire a ogni interprete di fare scelte proprie, basate sulla manodopera orchestrale di cui disponeva. Quest’ultimo parametro poteva variare considerevolmente da un luogo a un altro. Inoltre, come fa notare Harnoncourt, gli strumentisti sarebbero stati tutti compositori e si sarebbero aspettati di collaborare creativamente a ogni esecuzione, piuttosto che eseguire alla lettera ciò che era scritto sullo spartito.[20] Un’altra pratica in voga era quella di permettere ai cantanti di abbellire le proprie arie. Monteverdi, di alcune arie (come “Possente spirito” da l’Orfeo), scrisse sia la versione semplice sia quella abbellita,[22] ma secondo Harnoncourt “è ovvio che dove non scrisse abbellimenti non voleva che essi venissero eseguiti”.[23]
Ogni atto dell’opera è collegato a un singolo elemento della storia, e si conclude con un coro. Nonostante la struttura in cinque atti, con due cambi di scenografia richiesti, è probabile che la rappresentazione de l’Orfeo abbia seguito la prassi in uso per gli spettacoli d’intrattenimento a corte, ovvero fu eseguito come un continuum, senza intervalli o calate di sipario tra i vari atti. Erano difatti in uso, all’epoca, i cambi di scenografia visibili agli occhi degli spettatori, e quest’abitudine si riflette nelle modifiche dell’organico strumentale, della tonalità e dello stile che si riscontrano nella partitura dell’Orfeo.[24]
L’Orfeo – Opera lirica di Claudio Monteverdi-
Trama
La recitazione ha luogo in due posti contrastanti: i campi della Tracia (negli Atti 1, 2 e 5) e nell’Oltretomba (negli Atti 3 e 4). Una Toccata strumentale (una fioritura di trombe) precede l’entrata della Musica, rappresentante lo “spirito della musica”, che canta un prologo di cinque stanze di versi. Dopo un caloroso invito all’ascolto, La Musica dà prova delle sue abilità e talenti, dichiarando:
Detto ciò, canta un inno di lode al potere della musica, prima di introdurre il protagonista dell’opera, Orfeo, capace di incantare le belve selvatiche con la sua musica.
Atto Primo
Dopo la richiesta di silenzio dell’allegoria della Musica, il sipario si apre sul Primo Atto per rivelare una scena bucolica. Orfeo ed Euridice entrano insieme con un coro di ninfe e pastori, che recitano alla maniera del Coro greco antico, entrambi cantando a gruppi e individualmente. Un pastore annuncia che è il giorno di matrimonio della coppia; il coro risponde inizialmente con una maestosa invocazione (“Vieni, Imeneo, deh vieni”) e successivamente con una gioiosa danza (“Lasciate i monti, lasciate i fonti”). Orfeo ed Euridice cantano del loro reciproco amore prima di lasciarsi con tutto il gruppo della cerimonia matrimoniale nel tempio. Quelli rimasti sulla scena cantano un breve coro, commentando su Orfeo:
«Orfeo, di cui pur dianzi furon cibo i sospir, bevanda il pianto, oggi felice è tanto che nulla è più che da bramar gli avanzi.»
Orfeo ritorna in scena con il coro principale, elogiando le bellezze della natura. Orfeo medita poi sul suo precedente stato di infelicità, proclamando:
«Dopo ’l duol vi è più contento, Dopo ’l mal vi è più felice.»
Questa atmosfera di gioia ha termine con l’ingresso della Messaggera, che comunica che Euridice è stata colpita dal fatale morso di un serpente nell’atto di raccogliere dei fiori. Mentre la Messaggera si punisce, definendosi come colei che genera cattive situazioni, il coro esprime la sua angoscia. Orfeo, dopo avere espresso il proprio dolore e l’incredulità per quanto accaduto, comunica l’intenzione di scendere nell’Aldilà e persuadere Plutone a fare resuscitare Euridice.
Atto Terzo
Orfeo viene guidato da Speranza alle porte dell’Inferno. Dopo avere letto le iscrizioni sul cancello (“Lasciate ogni speranza, ò voi ch’entrate.”), Speranza esce di scena. Orfeo deve ora confrontarsi con il traghettatore Caronte, che si rifiuta ingiustamente di portarlo attraverso il fiume Stige. Orfeo prova dunque a convincere Caronte cantandogli invano un motivo lusinghiero. In seguito, Orfeo prende la sua lira, incantando il traghettatore Caronte, che piomba in uno stato di sonno profondo. Orfeo prende poi il controllo della barca, entrando nell’Aldilà, mentre un coro di spiriti riflette sul fatto che la natura non può difendersi dall’uomo.
Atto Quarto
Nell’Aldilà, Proserpina regina degli Inferi, viene incantata dalla voce di Orfeo, supplicando Plutone di riportare Euridice in vita. Il re dell’Ade viene convinto dalle suppliche della moglie, a condizione che Orfeo non guardi mai indietro Euridice nel ritorno sulla terraferma, cosa che la farebbe scomparire nuovamente per l’eternità. Euridice entra in scena al seguito di Orfeo, che promette che in quello stesso giorno egli giacerà sul bianco petto della moglie. Tuttavia, un dubbio comincia a sorgergli nella mente, convincendosi che Plutone, mosso dall’invidia, lo abbia ingannato. Orfeo, spinto dalla commozione, si gira distrattamente, mentre l’immagine di Euridice comincia lentamente a scomparire. Orfeo prova dunque a seguirla, ma viene attratto da una forza sconosciuta. In seguito, Orfeo spinto dalle proprie passioni a infrangere il patto con Plutone.
Atto Quinto
Tornato nei campi della Tracia, Orfeo tiene un lungo monologo in cui lamenta la sua perdita, celebra la bellezza di Euridice e decide che il suo cuore non sarà mai più trafitto dalla freccia di Cupido. Un’eco fuori scena ripete le sue frasi finali. Improvvisamente, in una nuvola, Apollo scende dal cielo e lo castiga: “Perch’a lo sdegno ed al dolor in preda così ti doni, o figlio?”. Invita Orfeo a lasciare il mondo e a unirsi a lui nei cieli, dove riconoscerà la somiglianza di Euridice nelle stelle. Orfeo risponde che sarebbe indegno non seguire il consiglio di un padre così saggio, e insieme salgono. Un coro di pastori conclude che “chi semina fra doglie, d’ogni grazia il frutto coglie”, prima che l’opera si concluda con una vigorosa moresca.
Roma-La mostra fotografica “Eyes behind the window” di Umberto Stefanelli-
Roma, 5 marzo 2025, Pavart Gallery inaugura la mostra personale di fotografia di Umberto Stefanelli dal titolo “EYES BEHIND THE WINDOW” curata da Velia Littera.
“Vorrei andare oltre l’apparenza di queste centomila e più maschere pirandelliane. Scavare tra perplessità, convinzioni e consuetudini sospese su un tempo d’opprimente modernità.” (Umberto Stefanelli)
Umberto Stefanelli la mostra dal titolo “EYES BEHIND THE WINDOW”
Umberto Stefanelli la mostra dal titolo “EYES BEHIND THE WINDOW”
Umberto Stefanelli la mostra dal titolo “EYES BEHIND THE WINDOW”
La mostra fotografica “Eyes behind the window” di Umberto Stefanelli ci invita a scoprire il mondo dietro le superfici trasparenti e opache delle facciate urbane che si trasformano in quadri visivi. Le immagini scattate da Stefanelli svelano una complessità che va oltre la dimensione architettonica: ogni scatto è un racconto sospeso tra l’astratto e il concreto, tra il reale e l’immaginato.
La tecnica fotografica adottata da Umberto Stefanelli nelle opere di questa mostra si distingue per la sua capacità di trasformare la realtà architettonica in una composizione pittorica. Attraverso un accurato studio delle linee, dei colori e delle simmetrie, Stefanelli cattura in ogni scatto la struttura ripetitiva delle facciate, riducendole a pattern geometrici che evocano l’astrazione tipica della pittura contemporanea.
Un elemento fondamentale del suo approccio tecnico è l’uso di una luce naturale diffusa, che accentua i contrasti cromatici senza annullare la morbidezza visiva complessiva. La scelta di inquadrature perfettamente frontali amplifica il senso di astrazione, eliminando ogni profondità prospettica e concentrando l’attenzione sul ritmo visivo delle finestre e dei pannelli.
Stefanelli sfrutta anche il potenziale narrativo del dettaglio: le tende appena visibili, i riflessi sulle superfici vetrate, o un’apertura casuale, diventano frammenti di storie umane celate dietro la rigidità dell’architettura. Questa combinazione di precisione tecnica e sensibilità artistica è il fulcro del linguaggio visivo di Stefanelli, capace di trasportare l’osservatore in un dialogo tra realtà e immaginazione. Le fotografie in mostra rivelano una profonda influenza della pittura astratta. La geometria delle finestre e delle facciate diventano una tela sulla quale si intrecciano colori, linee e riflessi.
Il tema centrale della mostra è la relazione tra l’interno e l’esterno, tra l’individuo e il collettivo. Le finestre sono barriere, ma anche punti di contatto. Dietro ognuna si nasconde una storia, un frammento di vita che l’osservatore è invitato a immaginare. Questa tensione tra ciò che si mostra e ciò che rimane celato è amplificata dall’estetica pittorica delle fotografie, che invita lo spettatore a perdersi nei dettagli.
La mostra “Eyes behind the Window” è una meditazione sulla città come spazi di contrasto, dove l’anonimato delle architetture si intreccia con l’unicità delle vite umane. Le immagini di Stefanelli ci ricordano che, anche nel cuore del caos urbano, c’è bellezza, c’è storia, c’è arte. Umberto Stefanelli nasce a Roma nel 1967.
Fotografo italiano formato artisticamente a New York, dove sviluppa un approccio personale e innovativo alla fotografia. La sua ricerca continua in Giappone, dove adotta il principio del “less is more”. Dal 2003 al 2008 è stato Responsabile Artistico di “Orvieto Fotografia”. Dal 2009 porta avanti un progetto online di narrazione visiva. Ha partecipato come relatore al Congresso Europeo dei Fotografi Professionisti (2010) e ha collaborato con istituzioni e brand come Polaroid, Levi’s, L’Oréal, Epson e Nokia. È uno dei primi a ottenere la certificazione DIGIGRAPHIE® da Epson. Le sue opere sono conservate in musei e collezioni internazionali. Nel 2020, il suo libro Photogeisha vince il Primo Premio al FEP European Photo Book Award. Nel 2022 è Visual Director della rivista TheUnique e partecipa al 52° Earth Day con una Mostra Virtuale.
Luigi Ganapini- Giorni di tarda estate.Guerra civile nell’Italia del duce
Descrizione del libro di Luigi Ganapini- BFS Edizioni-L’autore ritorna su uno dei suoi argomenti di ricerca privilegiati: la guerra civile che ha interessato l’Italia tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945. Le seguenti citazioni chiariscono quali sono gli obiettivi della ricerca: «Il nostro compito odierno è quello di distruggere la capacità della tirannide di continuare a tenere in catene vittime e testimoni molto dopo che la prigione è stata smantellata» (Z. Bauman). «Nessuna sindrome può veramente essere strappata alla sua tragica fissità se prima non spingiamo l’immaginazione dentro il suo cuore» (J. Hillman). L’immaginazione di cui si parla non è tuttavia sinonimo di fantasia o invenzione, ma si riferisce all’uso di una narrazione più “umana”, meno arida, capace di far intuire i moti dell’anima. Ampio è il ricorso a testimonianze – scritte o orali, coeve ai fatti o rilasciate a posteriori – capaci di evocare esperienze di vita e stati d’animo illuminanti la realtà di quel conflitto, spesso intrecciato alla vita ordinaria di un popolo. Lo studioso di storia, qual è l’autore, affianca a ciò il riscontro puntuale con le fonti, l’attenzione per ogni sfumatura rivelatrice, il rispetto per il senso di ciò che ha rintracciato.
Francesco Cardelli Romarcord Divagazioni su Roma tra nostalgia e amnesia
Descrizione del libro di Francesco Cardelli-Una vita raccontata attraverso i cambiamenti di una città amatissima, o meglio: una città raccontata attraverso il pretesto di un’autobiografia, quella di Francesco Cardelli, nato allo scoppio della Seconda guerra mondiale e cresciuto in una Roma che poteva essere allo stesso tempo aristocratica e popolare, cinica e bonaria, obbediente alla Chiesa eppure già aperta alla controcultura di sinistra. Da una parte la «scola de preti», i riti familiari, il Circolo della Caccia, le udienze papali, gli scout, i rosari serali; dall’altra il Folkstudio, i primi cinema d’essai, il teatro delle cantine: luoghi trasgressivi, eccitanti per i figli di quella Roma ancora provinciale e bigotta che andavano così scoprendo il blues, il cinema d’autore, le avanguardie. I dettagli, soprattutto linguistici, sono registrati perché resti una traccia della città che non c’è più: i richiami degli ambulanti, i menù delle osterie, i giochi dei bevitori, i proverbi, le tante parole di un romanesco che nessuno parla più (la fojetta per versare il vino, la giannetta che soffia da nord), i cibi dimenticati (le fusaje, i mostaccioli), le filastrocche. E così le tradizioni dimenticate: gli zampognari con le «cioce» ai piedi, la «Befana del vigile», le corse dei cavalli «barberi» in via del Corso, la banda musicale al Pincio; e i mestieri scomparsi, come il bottijaro, il robbivecchi, l’ombrellaro o l’«uomo del sacco». Poi c’è la piccola storia: le rare memorabili nevicate, Mister Okay che si tuffa nel Tevere, le Olimpiadi del ’60 con gli atleti a zonzo per via del Corso, Bob Dylan al Folkstudio, Sartre e Beauvoir alla birreria Santi Apostoli, Liz Taylor intravista nel pubblico al concorso ippico di piazza di Siena. E ovviamente ci sono le strade, i cui nomi evocano «una piccola città da libro di fiabe», i quartieri, i negozi ormai chiusi, i mercati, tutta una topografia che tiene insieme, nel lutto dei tanti irreversibili cambiamenti, passato e presente.
L’autore
Francesco Cardelli
Francesco Cardelli è nato accidentalmente a Lugano, nel 1940, ma è sempre vissuto a Roma. Questa è la sua prima pubblicazione
Francesco Cardelli
Romarcord
Divagazioni su Roma tra nostalgia e amnesia
ISBN 9788822906274 2021, pp. 192 145×210, brossura € 14,00 € 13,30 (prezzo online -5%)
Francesco Cardelli Romarcord
Recensioni / Tuffo nella Roma Anni ’60 ritratto di tutta l’Italia-Giacomo Giossi da «L’Eco di Bergamo»
Roma è quasi sempre sinonimo di passato: passato artistico e culturale, passato geopolitico e imperiale così come cinematografico come quando Roma veniva definita la Hollywood sul Tevere e la dolce vita era uno stile di vita famoso nel mondo. Questa idea di un passato quale riferimento ideale e assoluto è chiaramente un limite allo sviluppo e all’idea stessa di città ed è in parte anche la causa dei tanti limiti soprattutto strutturali – che oggi rendono complicata la vita ai suoi cittadini e visitatori. Tuttavia il rapporto vivo e continuo di Roma con il passato la rende anche uno dei pochi luoghi al mondo in cui il passato riesce ad avere un ruolo attivo potenzialmente virtuoso e in cui la memoria può intrecciarsi con la contemporaneità regalando visioni e possibilità uniche. Il romanzo di Francesco Cardelli, Romarcord, centra fortemente questo punto perché costruisce un vivido racconto autobiografico che prende il via dai primi anni del secondo dopoguerra e descrive Roma attraverso un lessico famigliare. La Roma di Cardelli è quella composta da strade e quartieri che fanno da sfondo ad una quotidianità anni Sessanta che tuttavia pulsa ancora oggi viva nella memoria nazionale: la prima auto, la prima coca cola, la cena in pizzeria, il cinema e la scuola. Cardelli assembla i propri ricordi intrecciandoli con quelli di un Paese che esce poverissimo dalla Seconda guerra mondiale e conosce la prima ricchezza (e le prime contraddizioni) con il boom economico. Romarcord è un ricordo affettuoso e malinconico di un tempo finito e concluso, ma anche della forza e della presenza assoluta di quel tempo nelle strade e nei palazzi di Roma. Una memoria dunque non antica, ma che riguarda il passato possibile nel tempo breve di un’esistenza. Ed è in questo lasso di tempo, di un Novecento complicato ed oggi esaurito, che si palesa anche la forma di una città che altro non potrebbe essere che la capitale d’Italia. Un titolo e un ruolo che veste a pennello non tanto per la centralità del potere (che è pure effettiva) o per la maestosità dei suoi palazzi e delle sue opere d’arte, ma per quella capacità minima se si vuole di rappresentare in ogni suo borgo un qualunque altro possibile borgo italiano. Un tempo si diceva che a Roma si diventava dopo pochi giorni tutti romani, e lo si diceva come nota di demerito. La verità è che quella romanità attraversa come un fiume carsico tutto il Paese rappresentando la nostra storia tra vizi e virtù, e soprattutto chi potremo essere in futuro.
Francesco Cardelli
Romarcord
Divagazioni su Roma tra nostalgia e amnesia
ISBN 9788822906274 2021, pp. 192 145×210, brossura € 14,00 € 13,30 (prezzo online -5%)
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