Kappler-faccia tagliata venne per testimone a raccontarci il massacro. Si disse fanatico e sacro nella sua grande fatica d’abbattere ostaggi, un portone di buio aperto dai fari la cava di Roma antica.
Su quel trofeo di vendetta – sempre più deboli i forti ciechi nel giallo alone del tufo in polvere – in vetta lui solo a sparare per tutti i carnefici arresi all’orrore, lui solo totale furore di mazza sugli innocenti. E tacquero i venti, il silenzio non era del mondo ma di quel sangue assetato.
Kappler-faccia tagliata parlava in tedesco, il pubblico zitto l’interprete muto. Nessuno guardava più in giro, tutti fissi in un punto, quel punto: Kesselring, il viso compunto nell’ordine, il fatto compiuto. E nulla andò perduto di quelle parole, io non le riesco a staccare da me – e non da me, ma dal fitto del petto con cui le respiro. Blut diceva il sangue e tu-fo il tufo come noi, mostrando fra le sue dita la gialla arenaria che frana su quella morte impaurita, sulla giustizia vana che lascia parole.
All’Appia antica se il sole rallegra la via e s’odono i passi perduti dei morti cristiani, ricorda gli eterni minuti di questo supplizio. Domani i giusti saranno con noi nel tempo che i morti non hanno. Or la pietà dell’inganno vi chiude le tombe già aperte perché la morte vi opprima col peso di tutte le offerte, col senno di poi. Per altri innocenti, per altro furore s’accenda la prima la stessa parola d’amore che ci fu tolta: domani.
(da La storia delle vittime, 1966)
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ALFONSO GATTO
“Ad ascoltarlo [Kappler] erano tutti fissi dai propri banchi: egli descriveva la scena delle esecuzioni, esaltandosi alle sue stesse parole, stancandosi della fatica del massacro come allora, ma senza rompere l’equilibrio necessario… Erano queste stesse precisazioni che spiegavano l’episodio del massacro nel suo svolgimento e lo rendevano terribilmente vero”:Alfonso Gatto (1909-1976) seguì come giornalista del Mattino del popolo di Venezia il processo ad Albert Kesselring e Herbert Kappler, responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, compiuto come rappresaglia dai tedeschi il 24 marzo 1944, all’indomani dell’attentato di Via Rasella nel quale i partigiani uccisero 33 soldati nazisti. Fu una vera e propria strage a sangue freddo: i tedeschi, dopo averli portati nelle cave di pozzolana sull’Ardeatina, uccisero dieci italiani per ogni loro soldato, sbagliando anche i calcoli poiché le vittime furono 335, rastrellate nelle carceri di Via Tasso e di Regina Coeli – in particolare partigiani, monarchici, massoni ed ebrei – e tra i detenuti in attesa di giudizio anche per reati non politici. Poi fecero saltare la cava con le mine per sigillarla. Fu una delle crudeltà più impressionanti e gratuite dell’intera guerra, che lasciò un segno profondo nella coscienza della nuova Italia.
Mausoleo delle Fosse Ardeatine Il 23 marzo 1944, in un’azione di guerra in via Rasella a Roma, un gruppo di partigiani uccideva 33 soldati nazisti e ne feriva 38. Pronta la risposta tedesca: per ogni soldato ucciso sarebbero stati eliminati dieci italiani. Il giorno dopo, 24 marzo, 335 uomini, scelti a caso dalle truppe di occupazione tedesca tra prigionieri politici, tradotti dal carcere di via Tasso, ebrei e civili furono giustiziati. Le vittime vennero poi gettate nelle antiche cave di pozzolana situate a ridosso di via Ardeatina che vennero poi fatte brillare su ordine di Kappler per occultare la carneficina.
I movimenti di automezzi nei pressi del luogo dell’eccidio e le successive esplosioni furono però uditi da alcuni religiosi che si trovavano nelle vicinanze in qualità di guide alle catacombe. Durante la notte, i frati entrarono nelle cave e scoprirono i corpi ammassati uno sull’altro.
Per commemorare il tragico evento, e offrire degna sepoltura ai martiri della resistenza, il governo post-liberazione decise di “erigere sul luogo della vendetta tedesca un monumento a perenne ricordo dei Martiri e di tutti i caduti della guerra di Liberazione”. A questo scopo, nel settembre 1944, il Comune di Roma indisse un concorso – il primo dell’Italia democratica – per l’edificazione di un mausoleo da consacrare simbolo della Resistenza alle violenze del Reich.
I vincitori del concorso, gli architetti Giuseppe Perugini, Nello Aprile e Mario Fiorentini, progettarono un semplice parallelepipedo cavo in cemento a protezione dei sacelli dei martiri posti fuori terra ma in stretto collegamento con il luogo dell’eccidio.
La costruzione del sacrario iniziò il 22 novembre 1947. Nel 1949, il Mausoleo fu inaugurato solennemente in occasione del quinto anniversario della strage. Da allora, ogni 24 marzo, l’evento viene commemorato al cospetto di autorità, associazioni partigiane e di deportati, studenti e comuni cittadini, mentre i nomi delle 335 vittime vengono scanditi ad alta voce.
La suggestiva cancellata da cui si accede al mausoleo è opera dello scultore e pittore Mirko Basaldella. Il senso che assume è altamente simbolico di una scena di feroce massacro tratteggiato dalle figure disperatamente contorte che vi sono rappresentate.
L’imponente gruppo scultoreo in travertino posto sul piazzale è opera dello scultore di Francesco Coccia, e rappresenta tre personaggi a simbolo delle tre età. I corpi ritratti sono orientati rispettivamente verso le cave, verso il luogo delle sepolture e verso il piazzale, come a indicare il percorso al visitatore.
Il film Roma città aperta, struggente capolavoro diretto da Roberto Rossellini nel 1945, con Anna Magnani e Aldo Fabrizi ricorda quei tragici avvenimenti. Aldo Fabrizi è don Pietro, figura che ricorda i due religiosi, Don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta, e Don Pietro Pappagallo, ucciso nelle Fosse Ardeatine. Anna Magnani, invece, è Pina, la moglie incinta di Fabrizio, uno dei prigionieri condotti alle Fosse Ardeatine. Per cercare di salvarlo, insegue il camion sul quale è stato caricato, ma viene falciata da una raffica di mitra.
Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo.
Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina.
Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura.
La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini.
Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Fonte-Nuova Rivista Letteraria
ANTONIA POZZI-Poetessa
ANTONIA POZZI-Poetessa
ANTONIA POZZI-Copia del manoscritto PREGHIERA ALLA POESIA
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Tristano e Isotta(Tristan und Isolde) è un dramma musicale di Richard Wagner, su libretto dello stesso compositore. Costituisce il capolavoro del Romanticismo tedesco e, allo stesso tempo, è uno dei pilastri della musica moderna, soprattutto per il modo in cui si allontana dall’uso tradizionale dell’armonia tonale.
Richard Wagner-
La trama è basata sul poemaTristan di Gottfried von Straßburg, a sua volta ispirato dalla storia di Tristano raccontata in lingua francese da Tommaso di Bretagna nel XII secolo. Wagner condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi completamente dalla storia originale e caricandola di allusioni filosofiche di stampo schopenhaueriano.
Decisivo per la stesura dell’opera fu l’amore intercorso tra il musicista e Mathilde Wesendonck (moglie del suo migliore amico), destinato a restare inappagato. Wagner era ospite dei Wesendonck a Zurigo, dove ogni giorno Mathilde poteva ammirare pagina per pagina l’evolvere della composizione. Trasferitosi a Venezia per fuggire lo scandalo, Wagner si ispirò alle notturne atmosfere della città lagunare, dove scrisse il secondo atto e dove attinse l’idea per il preludio del terzo. Scrisse Wagner nella sua autobiografia:
«In una notte d’insonnia, affacciatomi al balcone verso le tre del mattino, sentii per la prima volta il canto antico dei gondolieri. Mi pareva che il richiamo, rauco e lamentoso, venisse da Rialto. Una melopea analoga rispose da più lontano ancora, e quel dialogo straordinario continuò così a intervalli spesso assai lunghi. Queste impressioni restarono in me fino al completamento del secondo atto del Tristano, e forse mi suggerirono i suoni strascicati del corno inglese al principio del terz’atto.»
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Terminato a Lucerna nel 1859, Tristano venne inizialmente proposto al teatro di Vienna, dove però fu respinto in quanto giudicato ineseguibile. Dovettero trascorrere ben sei anni prima che il dramma potesse essere rappresentato per la prima volta al Koenigliches Hof- und National- Theater (Opera di Stato della Baviera) di Monaco di Baviera il 10 giugno 1865, diretta da Hans von Bülow con Ludwig e Malwina Schnorr von Carolsfeld nelle parti dei due protagonisti, e con il concreto sostegno del re Ludwig II.
La critica dell’epoca si divise tra coloro che videro in quest’opera un capolavoro assoluto e quelli che la considerarono una composizione incomprensibile. Tra questi ultimi figura il critico austriaco Eduard Hanslick, noto per le sue posizioni conservatrici in ambito musicale. Fu proprio l’atteggiamento di Hanslick a fornire a Wagner l’idea per il personaggio di Sixtus Beckmesser ne I maestri cantori di Norimberga.Il cosiddetto “accordo del Tristano“, che apre la partitura.Una copia del manoscritto originale . Finale.
Al Teatro alla Scala di Milano, il 29 dicembre 1900, andò in scena nella traduzione italiana di Boito ed Angelo Zanardini con la direzione di Arturo Toscanini. Nel 1902 avvenne la prima rappresentazione in concerto nel Théâtre du Château-d’Eau di Parigi di “Tristan et Isotte” nella traduzione francese di Alfred Ernst.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Musica
Nella musica del Tristano si è voluta vedere un’anticipazione del futuro.[1] Servendosi dell’uso ossessivo del cromatismo e della tecnica della sospensione armonica, Wagner ottiene un effetto di suspense che dura per tutto il corso dell’azione. Le cadenze incomplete del preludio non vengono risolte fino alla fine del dramma, che si chiude col canto di amore e morte di Isotta (Liebestod). Come dice il critico Rubens Tedeschi, il linguaggio musicale del Tristano deve farsi infinitamente duttile per dipingere – oltre il pochissimo che accade – il moltissimo che viene alluso. Il Leitmotiv deve quindi smussare la propria nettezza melodica a favore della massima incertezza. In questo sbiadire dei contorni melodici si insinua l’allentamento dei rapporti armonici, come l’ombra notturna dei due amanti contribuisce all’ambiguità dei significati. È una sorta di ondeggiamento perpetuo simile al movimento del mare. Hanslick stroncò il valore della partitura affermando che “contiene della musica ma non è musica” e denunciando “il fumo dell’oppio suonato e cantato”. Lo stesso Wagner, in una lettera a Mathilde Wesendonck, definì il proprio lavoro “qualcosa di terribile, capace di rendere pazzi gli ascoltatori”.
Particolarmente impressionanti per la loro modernità – al limite della dodecafonia – sono le variazioni del tema del Filtro d’amore e della Canzone mesta del pastore, a metà del terzo atto, che accompagnano il protagonista nella sua delirante allucinazione. Il cromatismo e il prevalere dell’armonia sulla melodia appaiono già evidenti fin dalle prime battute del preludio (tema del Desiderio). Carl Dahlhaus definisce queste battute come una serie informe e insignificante di intervalli se non fosse per gli accordi che sorreggono e determinano la condotta melodica. La condotta armonica del tema del Desiderio (ossia il famoso “accordo del Tristano”) acquista carattere motivico in proprio. Allo stesso modo, il motivo del Destino deve la sua inconfondibile fisionomia non tanto alla condotta melodica quanto al collegamento con una successione di accordi che ha l’evidenza inquietante dell’enigma. In altre parole, la condotta armonica (che se ascoltata autonomamente non avrebbe senso) scaturisce nel rapporto che intercorre tra il motivo melodico del tema del Destino e un contrappunto cromatico a suo modo integrato nel motivo stesso: affiora l’idea paradossale di un “motivo polifonico”.[2]
La prima rappresentazione del Tristano nel 1865 ebbe un effetto non indifferente sul pubblico dell’epoca. Rubens Tedeschi segnala che l’estetica del decadentismo europeo nacque in quel momento, sebbene all’interno di un processo che sarebbe accaduto anche senza il diretto intervento di Wagner. La “valanga intellettuale” investì letterati, pittori e musicisti preparando la ribellione della avanguardie novecentesche. Valgono tra tutte le parole di Giulio Confalonieri:
«Tristano non ha soltanto soddisfatto una sete e placato una febbre ormai brucianti nell’umanità intera, ma altresì infettato la musica di un bacillo che nulla, nemmeno le più moderne penicilline, sono ancor riuscite ad eliminare del tutto.»
Interpretazione
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Wagner all’epoca del Tristano.
Si dice spesso che nel Tristano Wagner abbia voluto mettere in scena la filosofia di Schopenhauer. In effetti, in una lettera spedita a Franz Liszt nel dicembre del 1854, Wagner scrisse che l’incontro col grande filosofo gli aveva rivelato un “accorato e sincero desiderio di morte, la piena incoscienza, la totale inesistenza, la scomparsa di tutti i sogni, unica e definitiva redenzione”. Ma (come nota il critico Petrucci nel suo Manuale wagneriano), se così fosse, Tristano e Isotta avrebbero saputo dominare la loro passione. Schopenhauer insegna che per raggiungere la serenità occorre accettare la sofferenza e rassegnarsi alla concezione pessimistica dell’impossibilità del desiderio. Tristano è invece letteralmente divorato dal desiderio. L’esaltazione della notte – cantata per tutto il secondo atto come brama irrisolta di fuggire la luce del giorno e con essa la vacuità del reale – trova nella morte la sua naturale conseguenza in quanto liberazione. Una liberazione, dunque, non pessimistica rinuncia ma simbolo (per metà ascetico, per altra metà panteistico) di unione cosmica. Per questo motivo, Tristano era addirittura venerato dal filosofo Nietzsche, anche in virtù delle sue ideologie dell’ateismo: “Vorrei immaginare un uomo capace di ascoltare il terzo atto del Tristano senza il supporto del canto, come una gigantesca sinfonia, senza che la sua anima esali l’ultimo respiro in un doloroso spasimo”.
Schopenhauer e la filosofia della pace dei sensi saranno piuttosto trattati nel mistico Parsifal, che decretò l’allontanamento di Nietzsche dalla concezione wagneriana. A proposito del presunto ateismo del Tristano, vale la pena di segnalare un’osservazione di Antonio Bruers: “A chi giudicasse esagerato l’uso della parola ateo, dobbiamo rilevare un fatto che non si discute: in tutto il Tristano non è mai nominato Dio.”
Un altro dubbio circa il legame con Schopenhauer arriva da Thomas Mann: “Tristano si rivela profondamente legato al pensiero del Romanticismo e non avrebbe avuto bisogno di Schopenhauer come padrino. La notte è il regno di ogni romanticismo; scoprendola esso ha sempre identificato in lei la verità, in contrasto con la vaga illusione del giorno, il regno del sentimento in antitesi a quello della ragione”.
In effetti Tristano racchiude in sé la percezione di un mondo misterioso e fantastico in cui esprimere la propria “eterna eccezionalità”; racchiude l’inconsapevole ricordo di eventi passati e fondamentali; racchiude l’individuo che per comprendersi si isola dalla società. Cos’altro simboleggiano, per esempio, i favolosi castelli che Ludwig II eresse tra i monti della Baviera? Lo stesso Ludwig che, un’ora dopo aver assistito alla prima rappresentazione, decise di ritirarsi da solo nella notte, cavalcando nel bosco in preda ad una fortissima emozione. Allo stesso modo farà Zarathustra di Nietzsche, che per ritrovare se stesso si ritira sulla cima di una montagna. Siamo già molto lontani dall’eroe medievale del soggetto originale. L’eroe è stato trasferito dalla dimensione dell’amore cortese alla tenebrosa atmosfera degli Inni alla notte di Novalis.
Del resto, come sempre capita in Wagner, non è possibile non rintracciare alcune latenti allusioni politiche che tanto fecero discutere in seno alla Tetralogia. Già il poeta Hölderlin aveva decantato la “grande missione” della Germania, situata al centro dell’Europa e considerata come il “cuore sacro dei popoli”. In questa direzione, Tristano e Isotta potrebbero forse simboleggiare la verità intima che la forza del filtro magico ha saputo rivelare contrapponendola al resto del mondo, all’apparenza delle convenzioni sociali. Tali allegorie (che in futuro avrebbero contagiato pericolosamente la politica intesa come purezza dello spirito tedesco) si associano però al costante desiderio di annullamento nutrito dai protagonisti. Il loro desiderio non è deputato a risolversi nell’opulenza della vita materiale ma in un’altra dimensione, simbolo metafisico della vita più autentica e segreta. Questo è il vero dramma dei due amanti: l’impossibile conciliazione della dicotomia in cui sono costretti a vivere, divisi come sono tra anima e corpo, tra essenza e apparenza, come rivela il tormento allucinato di Tristano nel terzo atto, mirabilmente reso nell’incisione discografica di Wilhelm Furtwängler.
Tristano e Isotta non vivono un amore normale ostacolato dalle avversità come accade in Romeo e Giulietta, bensì inappagabile per sua stessa natura, condannato a vivere nel finito e soddisfabile solo nella morte. È la verità più profonda che gli amanti avrebbero taciuto reprimendola nel subcosciente. Non c’è da stupirsi, quindi (anche se per altri comprensibili motivi) che Cosima Wagner ironizzò riguardo l’amore intercorso tanti anni prima tra suo marito e Mathilde Wesendonck. Nel suo libro La mia vita a Bayreuth, Cosima scrisse: “Poverina, si spaventerebbe se sapesse cosa c’è nel Tristano!”
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Trama
Antefatto
Per liberare la Cornovaglia da un ingiusto tributo imposto dagli irlandesi, Tristano ha ucciso il cavaliere Morold, patriota irlandese e fidanzato della principesse Isotta, figlia del re d’Irlanda. Ferito durante il combattimento, viene amorevolmente curato dalla stessa Isotta, la quale non conosce la sua identità. Soltanto il ritrovamento di un frammento della spada le fa capire di trovarsi davanti all’assassino del suo uomo; allora lo risparmia, facendosi promettere di sparire per sempre dalla sua vita. In seguito, Tristano infrange il giuramento e ritorna per portarla in sposa al Re di Cornovaglia, come pegno di riconciliazione tra i due paesi.
Atto I
Scena 1ª
La voce di un giovane marinaio si alza dal ponte di un vascello:
“Verso levante muove la nave, soffia il vento verso il nostro paese: e tu, bimba irlandese, dove rimani?…”
In rotta verso l’Inghilterra, Isotta sfoga la sua rabbia contro il giovane Tristano, cui la lega un confuso sentimento di amore e di odio. Lo fa chiamare affinché la venga a trovare ma Tristano, turbato, risponde di non poter abbandonare il timone della nave.
Scena 2ª
Isotta ricorda il passato, racconta alla sua ancella Brangania di essersi affezionata a un misterioso guerriero di nome Tantris, il giovane rimasto ferito nella battaglia, che lei raccolse curandone le ferite. In realtà, Tantris era Tristano, che presentandosi sotto falso nome era riuscito a scampare alla vendetta di Isotta grazie al suo sguardo supplicante.
“Con lucida spada mi presentai davanti a lui, per vendicare la morte di Morold. Dal suo giaciglio egli mi guardò: non sulla lama, non sulla mano, ma sui miei occhi egli alzò lo sguardo. Con mille giuramenti mi promise lealtà eterna ed ebbi pietà per la sua pena. Ma ben altro sfoggio fece Tristano di ciò che in me celavo. Colei che tacendo gli ridava la vita, colei che tacendo lo salvava dall’odio, tutto egli ha messo in mostra! Borioso del successo, mi ha additata quale preda di conquista. Sii maledetto, infame!…”
Reprimendo l’amore che li unisce, Isotta vorrebbe uccidersi con lui per cancellare l’affronto.
Scena 3ª
Tristano arriva e, in un impeto di rabbia, accetta di sacrificarsi con onore.
“La signora del silenzio, silenzio a me impone. Se comprendo ciò che ha taciuto, taccio ciò che non comprende.”
Entrambi credono di bere un potente veleno ma Brangania ha sostituito il veleno con un filtro d’amore. Nell’orchestra, ricompaiono i temi del Desiderio e dello Sguardo, che erano già apparsi nel preludio strumentale. Il loro sentimento si rivela con forza alla realtà, ogni incomprensione svanisce e il mondo circostante non ha più alcun significato. Quando lo scudiero di Tristano, Kurwenald, giunge ad avvertire dell’imminente incontro col Re, Tristano risponde: “Quale re?” ormai del tutto ignaro di ciò che sta avvenendo. Nel momento in cui la nave approda nel porto, Tristano e Isotta si gettano l’uno nelle braccia dell’altro.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Atto II
Scena 1ª
Nel giardino del castello di re Marke, durante la notte, Isotta attende l’arrivo di Tristano. Brangania la avverte del pericolo che stanno correndo, sapendo che Melot, amico di Tristano, ma innamorato segretamente di Isotta, potrebbe rivelare al Re l’amore clandestino della coppia. Isotta non le crede. Tristano si precipita in scena con un abbraccio travolgente.
Scena 2ª
Incomincia la lunga notte dei due innamorati che è la vera protagonista del dramma, è l’oscurità che circonda i due amanti e li riassorbe in un’originaria, individuale armonia. Dice Isotta:
“Chi là segretamente celai, come mi parve malvagio quando, nello splendore del giorno, l’unico fedelmente amato sparve agli sguardi d’amore, e quale nemico s’erse dinnanzi a me! Trascinarti voglio laggiù, con me nella notte, dove il mio cuore mi promette la fine dell’errore, dove svanisce la follia del presentito inganno.”
Dice Tristano:
“Su noi discendi, notte arcana! Spargi l’oblio della vita!… Quel che là nella notte vegliava cupamente richiuso, quel che, senza sapere e pensarci, oscuramente concepii – l’immagine che i miei occhi non osavano osservare, ferita dalla luce del giorno – mi si rivelò scintillante.”
”Gloria al filtro e alla sua forza! Mi dischiuse le vaste porte dove solo in sogno ho soggiornato. Dalla visione celata nel segreto scrigno del cuore, esso cacciò lo splendore ingannevole del giorno, sì che il mio orecchio, penetrando la notte, potesse vederla davvero.
“Chi amoroso osserva la notte della morte, a chi essa confida il suo profondo mistero: la menzogna del giorno, fama e onore, forza e ricchezza, come vana polvere di stelleinnanzi a lui svanisce!…Fuor dal mondo, fuor del giorno, senza angosce, dolce ebbrezza, senza assenza, mai divisi, soli, avvinti, sempre sempre, nell’immenso spazio!..”
Ma nel momento più impetuoso della passione, quando le voci e la musica vengono sospinte dal motivo della Felicità, improvvisamente l’incanto si spezza. Arrivano il Re, Melot e i cortigiani del castello, che circondano inorriditi la coppia degli amanti. Il tema musicale del Giorno avverso invade la scena. Sorge l’alba.
Scena 3ª
Melot, tradendo Tristano, presenta al Re la sua vittima. Il magnanimo re Marke si perde allora in un lungo monologo cantato sul tema del Cordoglio, addolorato per il comportamento di Tristano e rievocando le vicende che li unirono in passato.
“A me, questo? Perché? Chi mi è fedele, se il mio Tristano mi tradì?… Se non c’è redenzione, chi può spiegare al mondo tale cupo immenso abisso?…”
Ma Tristano, come trasognato, non può fornire alcuna spiegazione. “Ciò che tu domandi non potrai mai comprendere”, e si volge quindi verso l’amata:
“Dove ora Tristano s’avvia, vuoi tu seguirlo, Isotta? È terra buia, muta, da cui mia madre m’inviò, quando mi partorì dal regno della morte…”
Mentre Isotta lo bacia, Melot incita il Re a reagire. Tristano sfida l’amico a duello e si lascia cadere sulla sua spada. Cade ferito tra le braccia di Kurwenald.
Atto III
Scena 1ª
Il castello di Tristano nel terzo atto.
Tra le rovine del suo castello, accudito dal fedele Kurwenald, Tristano riprende lentamente conoscenza. Ferito nel corpo e nell’anima, egli ha delle allucinazioni. Ciò che desidera gli è negato e il pensiero di Isotta, simbolo di quel desiderio, lo travolge. Immobile sul letto la cerca, in preda al delirio la invoca:
“Kurwenald, non la vedi?!”
Ma l’orizzonte del mare è completamente vuoto. Tristano, allora, maledice il filtro magico che gli rivelò l’amore e la verità:
“Il terribile filtro, che m’ha votato al tormento, io stesso l’ho distillato! Nell’affanno del padre, nel dolore della madre, nel riso e nel pianto, ho trovato i veleni del filtro!”…
Sono pagine molto drammatiche, dove la musica rompe definitivamente con la tonalità tradizionale anticipando per la prima volta il sistema dodecafonico. Ma intanto la nave di Isotta è apparsa davvero all’orizzonte, salutata da un’allegra cantilena del corno inglese. Tristano è fuori di sé dalla gioia. Egli segue l’arrivo del veliero e manda Kurwenald a ricevere l’amata. Rimasto solo, si strappa le bende della ferita e si alza in piedi sanguinante:
“O sangue mio, scorri giulivo!… Lei, che un dì mi guarì le ferite, a me s’avvicina per salvarmi!… Possa il mondo perir, dinnanzi alla mia esultante fretta!”…
Isotta entra in scena. Sulle grandi note del tema del Giorno avverso, i due amanti si abbracciano. Sul tema dello Sguardo, Tristano esala l’ultimo respiro.
Scena 2ª
Mentre Isotta piange la morte di Tristano, un’altra nave approda al castello. Si tratta di re Marke che, venuto a conoscenza del filtro magico e dell’inevitabile verità, è accorso con Melot a chiedere perdono. Ma Kurwenald, furibondo per la morte del suo padrone, si scaglia contro di lui. Appena Melot arriva lo uccide in un colpo; resta ferito a sua volta e muore egli stesso accanto al corpo di Tristano. Il Re, addolorato, cerca di spiegarsi con Isotta ma lei, ormai, non lo ascolta più. Nel suo canto supremo, Isotta invoca la celebre Liebestod, la “morte d’amore” che riunirà i due amanti:
“Son forse onde di teneri zeffiri? Son forse onde di voluttuosi vapori? Nel flusso ondeggiante, nell’armonia risonante, nello spirante universo del respiro del mondo, annegare, inabissarmi, senza coscienza, suprema voluttà!”
Sulle note della Felicità, Isotta cade trasfigurata sul corpo di Tristano. Il Re benedice i cadaveri. Si chiude lentamente il sipario.
Goethe J.W., Viaggio in Italia -Johann Heinrich Wilhelm Tischbein
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
Goethe J.W., Viaggio in Italia -,Roman Campagna
Goethe J.W., Viaggio in Italia -William Stanley Haseltine-Morning LIght,Roman Campagna
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
I virtuosi – Yasmina Khadra – Sellerio Editore Palermo
Descrizione del libro di Yasmina Khadra-Un affresco emozionante dell’Algeria tra le due guerre attraverso gli occhi di un algerino povero e puro che si trova sballottato dagli eventi della colonizzazione francese, della Prima guerra mondiale e delle guerre civili. Un romanzo dal respiro ottocentesco, denso e commovente, pieno di empatia, che miscela perfettamente la materia brutale della violenza bellica con dialoghi vivaci e descrizioni poetiche.
Algeria, 1914. Yacine è un giovane ingenuo e virtuoso. Non vuole deviare dalla legge divina, né sa come evitare le trappole e le insidie del mondo. Povero e alla mercé di un ricchissimo signore che ha diritto di vita e di morte su di lui, sulla sua famiglia e sull’intera comunità, Yacine imbocca un sentiero irto di insidie che non era destinato a percorrere. La Grande Guerra è appena deflagrata, l’Europa intera è nel caos, e dal misero villaggio in cui è nato e cresciuto si ritrova catapultato nel fango della trincea.
Sballottato dagli eventi e dai conflitti della colonizzazione francese, scoprirà il mondo moderno: quello delle macchine e delle macchinazioni, della fedeltà e dei tradimenti, del coraggio e delle promesse ingannevoli. E anche quello dell’amore, semplice e puro, unico faro per resistere all’avversità. Il ricordo dei suoi compagni lo perseguita senza sosta, la paura lo tormenta, in un vagabondare tra agio e miseria, amicizia e odio, prigionia e libertà. Ma è circondato da una schiera di personaggi che con lui compongono un’umanità vitale, sempre resistente. E se questa avventurosa esistenza disseminata di pericoli lo pone sulla strada di uomini spietati, disonesti e crudeli, gli offre anche incontri straordinari e gli rivela una bellezza che il mondo, nonostante tutto, non sembra poter cancellare.
Yasmina Khadra ha scritto un romanzo dal respiro ottocentesco, denso e commovente, pieno di empatia, miscelando perfettamente la materia brutale della violenza bellica con dialoghi vivaci e descrizioni poetiche. Il racconto dell’Algeria dell’inizio del ventesimo secolo, terra multiculturale dominata dalla colonizzazione, si intreccia alle avventure di un eroe schiacciato dalla fatalità della sorte, un uomo – meglio, un ragazzo – che tra sangue e vendetta sceglie una terza via, quella della saggezza e del coraggio.
18Marzo2025
Il contesto n. 164
516 pagine
EAN 9788838947742
In libreria dal: 18 Marzo 2025
Traduzione dal francese di Marina Di Leo
Titolo originale: Les vertueux
Autore-Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohamed Moulessehoul, è uno scrittore stimato e apprezzato nel mondo intero. Nato in Algeria nel 1956, reclutato alla scuola dei cadetti a nove anni, è stato ufficiale dell’esercito algerino. Dopo aver suscitato la disapprovazione dei superiori con i suoi primi libri, ha continuato usando come pseudonimo il nome della moglie. Nel 1999 ha lasciato l’esercito svelando così la sua vera identità e ha scelto di vivere in Francia. In Italia sono pubblicati molti dei suoi romanzi, tra cui i due noir Morituri (1998) e Doppio bianco (1999), e Quel che il giorno deve alla notte (2009), miglior libro del 2008 per la rivista letteraria «Lire» (adattato a film nel 2012). Con Sellerio: Gli angeli muoiono delle nostre ferite (2014), Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini (2015, 2022), L’ultima notte del Rais (2015), L’attentato (2016), dal quale è stato tratto il film di Ziad Doueiri, Khalil (2018), L’affronto (2021), Le rondini di Kabul (2021), Il sale dell’oblio (2022) e Cosa sognano i lupi (2024).
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12) – Louis Pasteur, il primo microbiologo-
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 12) – Louis Pasteur, il primo microbiologo- Lo scienziato che dimostrò che i germi esistono e possono causare malattie –Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Il bicentenario di Louis Pasteur, il primo microbiolog Lo scienziato che dimostrò che i germi esistono e possono causare malattie raccontato dalla professoressa Carla Renata Arciola.
Professoressa-Carla Renata Arciola
Duecento anni fa, il 27 dicembre 1822, nasceva a Dole, un paesino della regione francese del Giura, Louis Pasteur, chimico e pioniere nello studio dei microrganismi patogeni.
Carla Renata Arciola, docente di Patologia Clinica e di Storia della Medicina nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, ci racconta l’enorme importanza delle sue ricerche per il progresso della scienza medica e per la salute dell’umanità intera.
Tutti hanno sentito nominare almeno una volta la “pastorizzazione”, il processo di conservazione degli alimenti che da Louis Pasteur ha preso il nome, ma il suo contributo al progresso scientifico in medicina è stato assai più ampio, ce lo può riassumere?
Louis Pasteur era un chimico e condusse i suoi primi studi sulla fermentazione della birra e del vino e sulla malattia del baco da seta. Si occupò di fermentazione su richiesta di alcuni fabbricanti di birra, timorosi per le sorti delle loro produzioni. I suoi studi misero in evidenza che le alterazioni nella fermentazione di questi alcolici potevano essere evitate semplicemente portando a 55- 60° C la loro temperatura per tempi molto brevi. In questo modo si otteneva la bonifica delle bevande senza alterare le loro caratteristiche organolettiche. La tecnica è stata poi utilizzata sino ai nostri giorni per “pastorizzare” il latte, le uova, i succhi di frutta e molto altro.
In tutt’altro contesto, ma sempre utilizzando il calore, Pasteur riuscì a trovare una brillante soluzione per prevenire i danni dovuti alla pebrina, la malattia epidemica del baco da seta: elevare la temperatura di qualche grado per sollecitare l’uscita delle farfalle, così da poter esaminarle al microscopio, individuare precocemente quelle contaminate ed escluderle dalla catena produttiva della seta.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Un’altra grande innovazione di Pasteur fu il concetto di “attenuazione” e di “vaccino attenuato”, che egli introdusse studiando il cosiddetto “colera dei polli”, una malattia che colpisce gli allevamenti avicoli. Pasteur coltivò materiale contaminato, proveniente da polli uccisi dalla malattia, in un brodo di coltura e poté constatare che poche gocce del brodo bastavano a uccidere un pollo sano. Si accorse però che i polli trattati con una brodocoltura vecchia di alcune settimane non morivano più e collegò il fenomeno all’attenuazione della virulenza dovuta all’invecchiamento della coltura. Inoltre, i polli così vaccinati risultavano protetti dalla malattia anche in caso di esposizione a colture fresche e vitali: questo perché il precedente contatto col vaccino attenuato aveva stimolato le loro difese immunitarie. Successivamente Pasteur estese le sue ricerche e le sue applicazioni ad altre malattie del bestiame, come il carbonchio.
Uno straordinario successo di Pasteur in ambito vaccinale riguardò la rabbia silvestre. Si deve infatti a Pasteur il merito di aver progettato e preparato il primo vaccino per il trattamento della rabbia animale e umana. La rabbia, con le sue vittime furiose, si manifestava molto drammaticamente e il trattamento cui i malati erano allora sottoposti, cioè l’applicazione di tizzoni ardenti sulle ferite, era impressionante. Pasteur sviluppò un vaccino che saggiò prima sui cani: così vaccinati, questi non sviluppavano più la rabbia se esposti ai morsi di animali rabbiosi. Poi una drammatica emergenza lo spinse a saggiare il vaccino anche sull’uomo: gli portarono un bambino che aveva subito quattordici morsi da un cane rabbioso. L’altissima probabilità che il bambino morisse di rabbia convinse Pasteur a procedere subito con la somministrazione del suo vaccino sperimentale, affiancato da un medico (Pasteur non era medico) che eseguì materialmente le iniezioni. Il bambino fu sottoposto a un ciclo di vaccinazioni con dosi crescenti e si salvò. Fu così che Pasteur divenne famoso e ricercato: vittime di morsi di cane e di lupo giunsero nei laboratori di Pasteur da tutta la Francia, e anche dall’estero, per ricevere il nuovo trattamento antirabbico. A Parigi, per il trattamento della rabbia, fu costruito appositamente, con finanziamenti pubblici, l’Istituto Pasteur.
Pasteur dimostrò anche che la “Teoria dei germi patogeni” non è solo una teoria ipotetica ma è la realtà del mondo che ci circonda. Fino a quel momento invece, l’origine delle malattie che ora chiamiamo “infettive” (peste, colera, tifo, ecc..) come era spiegata dalla medicina?
Oggi è ovvio riconoscere i batteri e i virus come causa di malattie che possono trasmettersi da un individuo all’altro ma, sino alla fine dell’Ottocento, l’origine delle malattie era ancora molto misteriosa. All’epoca di Pasteur le numerose epidemie di colera focalizzarono il dibattito sulle possibili cause di tale malattia e sui possibili meccanismi della sua diffusione. Si ipotizzava allora vagamente la natura contagiosa di molte malattie epidemiche, ma senza un coerente collegamento concettuale fra cause, effetti, evoluzione. La teoria che anche esseri viventi microscopici potessero essere coinvolti nel contagio e nello sviluppo delle malattie, benché fosse stata avanzata in più occasioni sin dal Seicento, non era mai stata dimostrata. Sino ad allora, era emersa solo una lunga serie di ipotesi e di congetture che mettevano in relazione, in modo disordinato e talora capriccioso, la fermentazione, la putrefazione, i miasmi, il contagio, l’infezione, la corruzione. Il passaggio dalle confuse ipotesi sulla natura dei contagi a una spiegazione convincente ed unitaria fu il risultato dello sviluppo di una nuova disciplina, la microbiologia, e di una nuova teoria, la teoria dei germi. Il termine microbiologia fu introdotto ufficialmente nel 1881 da Pasteur in occasione del Congresso Internazionale di Medicina di Londra e sancì il riconoscimento della teoria dei germi per spiegare l’origine di molte malattie epidemiche. Secondo la teoria, in estrema sintesi, i microbi sono causa di malattie che possono essere trasmesse da un individuo all’altro. Pasteur avviava così una vera e propria rivoluzione concettuale nella storia del pensiero scientifico.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Pasteur dimostrò inoltre la fallacia della c.d. “generazione spontanea” dei viventi. Una teoria che risaliva ai tempi di Aristotele. Per il filosofo greco gli organismi viventi nascono da altri organismi, ma possono anche generarsi spontaneamente, ad esempio scaturendo dalla putrefazione della terra. Nel 1860 l’Accademia Francese delle Scienze istituì un premio per chi fosse riuscito a far luce sulla millenaria questione con una dimostrazione scientifica. Louis Pasteur vinse il premio, dimostrando l’impossibilità della formazione spontanea dei microrganismi e spiegando che quella che appariva come “generazione spontanea” era invece il frutto di una contaminazione dall’esterno. Gli esperimenti di Pasteur rimangono un brillante esempio di rigore sperimentale.
Per chiudere, una domanda, per così dire, “di stagione”. Pasteur era nato durante le feste natalizie. Quali cibi del pranzo di Natale non potremmo mangiare (o potremmo mangiare, ma con maggior rischio per la salute) se non ci fosse stato Louis Pasteur?
La grandezza delle scoperte di Pasteur si riverbera su molti aspetti della nostra vita e della nostra salute ed è tuttora attualissima. In questo periodo di festa potremo ringraziare Pasteur quando porteremo sulle nostre tavole il panettone impastato con ingredienti pastorizzati, come le uova e il latte, o farcito con panna e crema, quando faremo bollire a lungo il brodo, per renderlo più gustoso ma anche per sterilizzarlo, oppure quando condiremo i tortellini con la panna (pastorizzata), quando stapperemo lo spumante (pastorizzato) o anche, in onore di Pasteur, lo champagne (pastorizzato) per il brindisi augurale di Natale e Capodanno.
Fonte-ALMA MATER STUDIORUM – Università di Bologna –
Vita e attività di Louis Pasteur, il primo microbiologo-Chimico e biologo francese (Dôle 1822 – Villeneuve l’Étang, Seine-et-Oise, 1895). Considerato il padre della microbiologia, a lui si devono sia la scoperta della fermentazione sia l’introduzione delle vaccinazioni e dei metodi di sterilizzazione.
– Louis Pasteur- il primo microbiologo
– Louis Pasteur- il primo microbiologo
– Louis Pasteur- il primo microbiologo
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Louis Pasteur-(Dôle 1822 – Villeneuve l’Étang, Seine-et-Oise, 1895)Di umili origini–(il padre era un conciapelli), compiuti gli studî secondarî a Besançon, si iscrisse (1843) all’École normale supérieure di Parigi, addottorandosi nel 1847. Le sue prime ricerche furono di cristallografia. Il chimico tedesco E. Mitscherlich aveva osservato (1844) che il paratartrato e il tartrato doppio di soda e di ammoniaca, perfettamente identici quanto alla composizione chimica, alla forma cristallina e alle proprietà fisiche, esercitavano azioni diverse sulla luce polarizzata, senza riuscire a trovarne una spiegazione. P. si impegnò per diversi anni a ricercare la causa di un tale fenomeno, individuandola infine nella loro dissimmetria molecolare (1848). Gli studî sulla dissimmetria molecolare (P. continuerà ad occuparsi di cristallografia fino al 1857) mostrarono in seguito tutta la loro importanza dando luogo al sorgere della stereochimica. Nel 1854 fu nominato docente nella facoltà di scienze di Lilla. In quegli anni (le sue prime annotazioni sui Cahiers de laboratoire sono del 1855), P. cominciò ad occuparsi del problema delle fermentazioni, indotto a ciò anche dalle pressanti richieste di alcuni fabbricanti di birra preoccupati per le sorti del loro prodotto. L’idea allora dominante intorno all’origine e alla causa delle fermentazioni era quella sostenuta dal chimico tedesco Liebig che riteneva la fermentazione un fenomeno puramente chimico. Nel suo primo Mémoire sur la fermentation appelée lactique (1857), P. sostiene che “la fermentazione si mostra correlata alla vita“. Nella fermentazione alcolica in particolare egli notò la presenza di globuli il cui comportamento era quello di esseri viventi microscopici. Giunto a questo punto P. fu naturalmente portato a chiedersi quale fosse l’origine di questi esseri microscopici, capaci di indurre importanti fenomeni di trasformazione delle sostanze fermentescibili. Fu così che si trovò ad affrontare lo studio della generazione spontanea, antica teoria esplicativa dell’origine della vita e risalente almeno ad Aristotele. Nel sec. 17° tale teoria fu dimostrata falsa dall’italiano F. Redi per l’origine spontanea di mosche e insetti di varia natura. La teoria risorse nel sec. 18° per certi aspetti con la disputa Spallanzani-Needham. Nel 1858 F. A. Pouchet comunicò all’Académie des sciences alcuni risultati favorevoli all’eterogenesi. La disputa Pasteur-Pouchet sulla generazione spontanea durò a lungo e si concluse con il “trionfo” di P., il quale riuscì a dimostrare che con alcuni accorgimenti tecnici i liquidi utilizzati negli esperimenti, se precedentemente sterilizzati, non presentavano alcuna produzione vitale. Bisogna dire che i motivi ideologici presenti nel dibattito fecero apparire Pouchet un materialista convinto e, di contro, P. un difensore dello spiritualismo e della religione ufficiale. Un’attenta ricostruzione storica ha dimostrato che i termini reali della questione stanno ad indicare l’erroneità di tale semplificazione. Dalla teoria della generazione spontanea alla teoria generale dei germi patogeni il passo era breve e quasi obbligato. La medicina in generale e la chirurgia in particolare acquisivano i concetti fondamentali di sepsi e asepsi. Il grande chirurgo inglese J. Lister, invitando P. a Edimburgo dichiarava: “Ho bisogno di aggiungere che grande soddisfazione sarebbe per me mostrarvi qui quanto la chirurgia vi deve”. Dal 1865 al 1870 P. si dedicò quasi interamente allo studio delle malattie del baco da seta. A conclusione di questi suoi lavori poteva affermare che le due principali malattie che lo colpiscono, la pebrina e la flaccidezza, sono malattie ereditarie e contagiose, indicando i mezzi per prevenirle. Negli anni Ottanta P. si impegnò nello studio di numerose malattie infettive come il colera dei polli e il carbonchio. Grazie a queste ricerche egli riuscì a mettere a punto un metodo di attenuazione degli agenti patogeni mediante l’azione dell’ossigeno dell’aria. Attraverso l’inoculazione preventiva dei germi attenuati egli riusciva a prevenire la malattia nella sua forma più virulenta e mortale. Nasce così la tecnica della vaccinazione preventiva delle malattie infettive. Ma gli studî che gli diedero fama imperitura furono, per la loro drammaticità e spettacolarità, quelli sulla rabbia. Questi studî segnarono, per P., il passaggio dalla sperimentazione animale a quella sull’uomo. Contrariamente a quanto avveniva per le altre malattie infettive, P. non riuscì mai a isolare l’agente patogeno della rabbia. Riuscì però, col contributo fondamentale di É. Roux, a mettere a punto un metodo di attenuazione del virus rabbico. Da qui l’importante prassi della vaccinazione preventiva. La spettacolarità dei risultati ottenuti da P. sull’uomo ha contribuito a creare un vero e proprio mito-P., che attraverso una acritica vulgata storiografica ci ha tramandato un’immagine agiografica e di maniera del grande scienziato francese. Solo di recente, anche sulla base di un attento studio dei manoscritti inediti (Cahiers de laboratoire), si è cominciato a restituire una dimensione storica realistica alla scienza pasteuriana e al suo autore nella sua concreta figura di uomo e di scienziato del sec. 19°. Numerosi furono gli incarichi accademici cui P. venne chiamato: direttore degli studî scientifici all’École normale (1857-67), prof. di chimica alla Sorbona (1867-74), direttore del laboratorio di fisiologia-chimica all’École normale (1867-88); nel 1888 (fino al 1895) fu direttore dell’Institut P., fondato per lui, per ricerche di sieroterapia e microbiologia. Nel 1882 era stato eletto all’Académie française. Fu socio straniero dei Lincei (1888). Delle opere si ha un’edizione completa a cura di M. Pasteur-Vallery-Radot (Oeuvres, 7 voll., 1922-39); la Correspondance è stata pubblicata in 4 volumi (1940-51). Fonte -Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Poesie di Giosuè Carducci -Nuove poesie edizione del 1873 – prima edizione del 1873-copia anastatica-
Giosuè Carducci – Nuove poesie – 1873 (prima edizione) Imola, Tip. d’Ignazio Galeati e figlio, 1873.
Nuove poesie di Enotrio Romano è la prima edizione della quarta raccolta di poesie di Carducci, contenente poesie mai apparse nelle precedenti raccolte.
Carducci è stato il primo italiano vincitore del Premio Nobel per la letteratura. Insieme a Camillo Golgi, è stato il primo italiano in assoluto insignito di tale premio nel 1906.
La consacrazione letteraria
Piano piano riuscì a riprendersi, usando le armi consuete: quelle dello studio e dell’insegnamento. Il 1º marzo 1872 la casa sarà poi allietata dalla nascita dell’ultima figlia, Libertà, che verrà sempre chiamata Tittì. Il Barbera intanto propose a Carducci di pubblicare un libro che raccogliesse tutte le poesie, dalle prime alle più recenti. Giosuè accettò, e nel febbraio 1871 apparvero le Poesie, suddivise in tre parti: Decennali (1860-1870), Levia Gravia (1857-1870) e Juvenilia (1850-1857). Nei Decennali confluirono le poesie politiche, ad eccezione di quelle precedenti a Sicilia e la Rivoluzione (così volle l’autore), mentre le altre due sezioni riproducevano sostanzialmente i testi del volume pistoiese.[117]
Continuò poi con la composizione di giambi (Idillio Maremmano il più celebre) ed epodi, sonetti (Il bove) e odi, unendovi la traduzione di composizioni di Platen, Goethe ed Heine mantenendone il metro originale. Questi e altri testi andarono a formare nel 1873 le Nuove poesie, 44 componimenti editi dal Galeati di Imola, inglobanti anche le Primavere elleniche che l’anno prima il Barbera aveva licenziato in un volumetto.
Il libro non risparmiava critiche dirette a uomini politici, e suscitò forti reazioni. Bernardino Zendrini e Giuseppe Guerzoni scrissero su Nuova Antologia e sulla Gazzetta Ufficiale articoli contro le Nuove Poesie, cui fece seguito la reazione carducciana sulle colonne de La voce del popolo, comprendente sette capitoletti di Critica e arte, saggio che entrerà a far parte dei Bozzetti critici e dei Discorsi letterari editi dal Vigo nel 1876. Nel complesso, però, l’Italia ne riconobbe il valore. Ancora maggiori furono i consensi provenienti dall’estero. L’editore della Revue des Deux Mondes e addirittura Ivan Sergeevič Turgenev ne chiesero una copia, ed entusiastiche approvazioni arrivarono dal mondo germanico.[118] La prima edizione fu subito esaurita e portò a esaurire anche quella delle Poesie edite da Barbera, il quale diede di queste ultime nuove edizioni nel 1874, 1878 e 1880, con la presenza nelle ultime due di una biografia del poeta scritta da Adolfo Borgognoni.[119]
In quegli anni non era possibile, per i letterati della città, non fare una tappa alla libreria Zanichelli. Il Carducci incominciò a frequentarla quotidianamente, nelle passeggiate che faceva prima di cena dopo un pomeriggio di studio o di lezioni universitarie. Nicola Zanichelli voleva avviare una casa editrice, e si fece promettere dal nuovo avventore uno studio sulle poesie latine dell’Ariosto, dato che, con un anno di ritardo, nel 1875 si sarebbe celebrato a Ferrara il quattrocentesimo anniversario della nascita del poeta reggiano. Iniziò così una collaborazione molto duratura. Nell’aprile 1875 Zanichelli pubblicò la seconda edizione delle Nuove Poesie, e il mese successivo il promesso studio ariostesco.
Dopo le Nuove poesie però il Carducci voleva abbandonare la poesia sociale e tornare al primo amore: la classicità. «Alle mie odi barbare pensai fin da giovane; ne formai il pensiero dopo il 1870, poi ch’ebbi letti i lirici tedeschi. Se loro, perché non noi? La prima pensata in quella forma e scrittene subito le prime strofi è All’Aurora; la seconda tutta di seguito è l’Ideale».[120] È un tuffo nel passato affrontato tuttavia con le armi di chi si è creato negli anni una precisa identità e non ha quindi intenzione di procedere a una pedissequa imitazione. Stimolato dall’esempio dei poeti tedeschi Carducci volle dimostrare che la poesia italiana poteva non solo riprendere le tematiche dei greci e dei latini, ma mantenerne il metro. Klopstock aveva riproposto in tedesco l’esametro latino, Goethe aveva risuscitato le forme greche, e la scuola teutonica si credeva la sola capace dell’impresa, in quanto le lingue romanze si erano allontanate troppo, attraverso la corruzione linguistica medievale, dal modello originario. Theodor Mommsen giurava che in italiano una simile operazione non fosse possibile.[121]
Tutto ciò non poteva che spronare Giosuè a tentare: «Non so perché quel che egli fece col duro e restio tedesco, non possa farsi col flessibile italiano», scriverà a Chiarini nel 1874 riferendosi alle Elegie romane del Goethe[122] e allegando l’asclepiadeaSu l’Adda, scritta l’anno precedente.[123]
La prima edizione delle Odi barbare
Nel 1873, quindi, uscirono dalla sua penna i primi componimenti di questo tipo, le prime Odi barbare, che avranno una prima edizione presso Zanichelli nel luglio 1877, e in concomitanza con Postuma di Lorenzo Stecchetti inaugureranno la famosa «Collezione elzeviriana». In Su l’Adda l’asclepiadea viene resa in quartine con due endecasillabi e due settenari, uno sdrucciolo e uno piano, e qualche mese dopo compirà All’Aurora – pensata e cominciata prima delle altre -, in distici elegiaci, e l’alcaicaIdeale. Per il distico, ora e in seguito, riesce a trasportare l’esametro e il pentametro nella poesia italiana combinando un settenario e un novenario per il primo, un senario sdrucciolo e un settenario piano per il secondo, mentre l’alcaica presenta due endecasillabi seguiti da un novenario e un decasillabo. Del 1875 sono le quattro quartine della saffica Preludio (la strofa saffica è costituita da tre endecasillabi e un quinario), concepita, come dice il titolo, come poesia introduttiva all’intera raccolta.
Le quattordici odi dell’edizione zanichelliana sono un vero e proprio manifesto della concezione carducciana del mondo, della storia, della natura. Gli eventi del passato non hanno potuto sconvolgere l’Adda che continua a scorrere ceruleo e placido (Su l’Adda), mentre «su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando/ con un sorriso languido di viola».[124] La natura continua imperturbabile il proprio corso, attraverso le aurore e i tramonti che costituiscono lo sfondo prediletto della raccolta.[125]
La storia, però, funge da maestra per i costumi degradati del presente che possono risollevarsi solo attraverso il maestoso insegnamento di un passato rievocato come una fusione della storia nella natura, spoglio ormai delle proprie componenti truci o barbare e materia prima della poesia, e come nel canto di Demodoco le fiamme di Ilio non bruciano più, ma vengono trasfigurate dal canto, che con totale serenità esplica la propria potenza, come una nave – leitmotiv della raccolta – che pacificamente risale la corrente del tempo.[126]
Non c’è quindi più furia politica in Carducci, non c’è rabbia né critica sociale. Le odi attaccano il cattolicesimo, esaltano l’impero romano ed esprimono la visione politica carducciana, ma essa perde la carica polemica precedente. Le odi si fissano su un particolare attuale – l’Adda che scorre, il sole che illumina il campanile della Basilica di San Petronio, il poeta che contempla le terme di Caracalla – per rievocare gli eventi storici trascorsi, e si chiudono nuovamente in una contemplazione solenne della natura, mentre il passato ormai andato non è più fonte di angoscia come in Leopardi, ma canto sempre attuale. La storia è regolata da un principio preciso e incontrovertibile.[127]
I modelli non possono che essere Omero, Pindaro, Teocrito, Virgilio, Orazio, Catullo, accanto a cui agiscono Dante, Petrarca, Foscolo, cui vengono fatti rimandi testuali piuttosto espliciti e seguiti anche nel frequente uso dell’inversione sintattica caro alla lingua latina.[128]
Le Odi, all’inizio, si scontrarono con lo scetticismo generale e presso il grande pubblico, voglioso di una poesia “leggera” dopo i recenti duri trascorsi storici, furono offuscate proprio dallo stile lineare e dal lessico semplice di Postuma. Non v’era un’immagine, nelle poesie dello Stecchetti, che non fosse chiara a tutti, né mancava certa licenziosità che attraeva il pubblico. Negli anni compresi tra il 1878 e il 1880Postuma ebbe sette edizioni, mentre le Barbare si fermarono a tre, e se furono lette e vendute è da ascriversi all’ormai indiscussa fama del loro autore.
Se è vero che Gaetano Trezza e Anton Giulio Barrili le lodarono, è da dire come la prima reazione della critica fu anche più severa di quella del pubblico. Il Carducci fu attaccato e stroncato da tutte le parti. Passata la tempesta, però, il valore dell’opera fu riconosciuto, e lo stesso Guerrini dovette apprezzarla dato che si dilettò poi anch’egli a restituire nei suoi componimenti la versificazione latina.[129]
Carducci però viveva un periodo affatto particolare, e le polemiche non turbavano più molto il proprio animo acceso e focoso. Aveva qualcosa che riempiva la sua esistenza, qualcosa di insperato e insospettato fino ad allora:
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Giosuè Carducci – Nuove poesie – prima edizione del 1873
Viterbo- Teatro dell’Unione va in scena White Out uno spettacolo di danza
Il Comune di Viterbo e ATCL presentano Al Teatro dell’Unione “ White Out” uno spettacolo di danza-Circuito multidisciplinare del Lazio sostenuto da MIC – Ministero della Cultura e Regione Lazio, al Teatro dell’Unione domenica 23 marzo, alle ore 18,00, White Out, uno spettacolo tra danza, circo e alpinismo, con Javier Varela Carrera, Luca Torrenzieri e Piergiorgio Milano, creazione, direzione e coreografia di Piergiorgio Milano. White Out offre un vocabolario coreografico specifico, risultato di una fusione tra danza e circo contemporaneo che riesce a restituire la spettacolarità di uno sport estremo come l’alpinismo. Segue la storia di una piccola comunità che segue un viaggio iniziatico. Parla della natura umana affrontando i temi della morte, della separazione, dell’ambizione personale, dei rapporti all’interno di un gruppo. La montagna è la metafora, la lente di ingrandimento all’interno di un gruppo che permette di osservare la natura umana da vicino. Moschettoni, funi e imbraghi vengono sradicati dal loro utilizzo reale per dare vita a nuove possibilità coreografiche ed espressive. Gli sci diventano un oggetto dall’equilibrio instabile, originando una forma di movimento in perfetto equilibrio tra danza contemporanea e arte circense, che offre allo spettatore un’esperienza visiva intensa e originale. Nel rappresentare l’universo legato alla montagna, la fisicità è spinta al suo limite. Non c’è raffigurazione, né pantomima. Sono veri i pesi negli zaini, così come le difficoltà di ancorare i rinvii, lo sforzo di sostenere il peso in sospensione, quello degli altri corpi e di conseguenza la fatica e l’autenticità della presenza in scena.
Design luci Bruno Teusch, sound design Federico Dal Pozzo, soundtrack Piergiorgio Milano, costumi Raphaël Lamy, Simona Randazzo, Piergiorgio Milano, scenografia Piergiorgio Milano, con l’indispensabile aiuto di Florent Hamon, Claudio Stellato e un grazie speciale a Francesco Sgro, Matias Kruger.
Viterbo al Teatro Unione ,White Out uno spettacolo di danza
Viterbo al Teatro Unione ,White Out uno spettacolo di danza
Viterbo al Teatro Unione ,White Out uno spettacolo di danza
Biglietti:
Platea intero: € 15,00 + € 1,50 prev.
Ridotto: € 12,00 + € 1,00 prev.
Ridotto per le scuole di danza e per gli abbonati: € 10,00
La biglietteria del Teatro è aperta dal martedì al sabato con orario 10.00 – 13.00 e 15.00 – 19.00.
Aperto anche di domenica, con gli stessi orari, solo in caso di spettacoli o altre attività.
Chiuso il lunedì.
In Italia il canto costante è che il lavoro ‘non c’è’: però è lo stesso paese dove si chiede di lavorare gratis o senza tutele. Il tutto con spaventevoli ricadute culturali sul lavoro come merce degradata, una svalutazione umana e professionale che riguarda tutti.
Marta Fana ci racconta non solo i numeri del lavoro, già deprimenti, ma la sua perdita di qualità.
Non è un libro per economisti, questo combattivo pamphlet, ma un libro per lavoratori. Alessandro Robecchi, “il Fatto Quotidiano”
La precarizzazione ha reso il lavoro una risorsa povera, incapace di fornire alla maggior parte degli italiani quello che un tempo poteva dare: sicurezza economica, forza contrattuale, capacità progettuale. In Italia è stato un processo particolarmente rapido e violento, che ha aperto ferite difficili da rimarginare. Un libro militante e documentato. Giuliano Milani, “Internazionale”
Dicevano: meno diritti, più crescita. Abbiamo solo meno diritti. La modernità paga a cottimo. Così dilaga il lavoro povero, spesso gratuito, e la totale assenza di stabilità lavorativa.
Non è la rabbia di chi ha perso la partita,
ma quella di chi non ha nemmeno potuto giocarla.
Così passi dalla parte del torto (Zerocalcare)
A chi si deve, se dura l’oppressione? A noi.
A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà
fermare?
Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
e il mai diventa: oggi!
Lode della dialettica (Bertolt Brecht)
L’autore -Marta Fanaha conseguito un dottorato di ricerca in Economia presso l’Institut d’Études Politiques di SciencesPo a Parigi. Ha iniziato l’attività di ricerca studiando appalti e corruzione e oggi si occupa di political economy, in particolare di mercato del lavoro, organizzazione del lavoro e disuguaglianze economico-sociali. Per Laterza è autrice di Non è lavoro, è sfruttamento (2017).
Prologo. Di precariato si muore
«Io non ho tradito, io mi sento tradito» sono le parole di un ragazzo, appena trentenne, che decide di abbandonarsi al suicidio denunciando una condizione di precarietà, un sentimento di estrema frustrazione. Non è l’urlo di chi si ferma al primo ostacolo, di chi capricciosamente non vede riconosciuta la propria ‘specialità’. È l’urlo di chi è rimasto solo. Di precariato si muore.
Tutto questo ha a che fare con le trasformazioni della nostra società, a partire dai diritti universali, dal lavoro, dall’umanità e dalla solidarietà negate. Quelle cose che si è deciso di escludere dalle nostre vite, non potendogli dare un prezzo. C’è più di una generazione a cui avevano detto che sarebbe bastato il merito e l’impegno per essere felici. Quella di chi si è affacciato al mondo del lavoro cresciuto a pane e ipocrite promesse, e quella di chi si affaccia oggi, quando la promessa assume il volto di un’ipocrisia manifesta. Oggi ci si suicida perché derubati di possibilità, di diritti, di una vita libera e dignitosa. Qualcosa è andato storto e c’è chi continua a soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali, delle frustrazioni che la solitudine sociale produce.
Di precariato si muore. E non è un caso. Il precariato è la risposta feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di distruzione di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell’insaziabilità, dell’avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti quelli che contribuiscono a creare le fortune dei pochi che se le accaparrano.
Di precariato si muore quando al concetto di società si antepone quello di individuo.
Ed è esattamente ciò che è stato fatto dalla Thatcher e da Reagan in poi, quello che hanno fatto tutti i governi che hanno tradito i lavoratori, dalla fine degli anni Settanta fino alle più recenti riforme del mercato del lavoro. È stato un impegno quotidiano. Costanza e tenacia. Le hanno provate tutte e ci sono riusciti perché sono rimasti coerenti con la loro idea e ogni giorno e ogni notte hanno lottato per raggiungere quell’obiettivo. Uniti. Loro hanno vinto nel momento in cui sono rimasti uniti perseverando nel disaggregare i lavoratori in quanto corpo sociale. Per farlo hanno avuto bisogno di molta creatività, di imporre, con una buona dose di maquillage, un nuovo volto al lavoro: eliminando dall’immaginario i bassifondi, gli operai; escludendo dal racconto quotidiano la fatica dello sfruttamento; mascherando l’impoverimento dietro l’obbligo di un dress code.
Come scrive Owen Jones a proposito del ‘thatcherismo’: «L’obiettivo era quello di cancellare la classe operaia come forza politica ed economica della società, rimpiazzandola con una collezione di individui, o imprenditori, che competono gli uni contro gli altri per i propri interessi. […] Tutti avrebbero aspirato a rimontare la scala [sociale] e coloro che non l’avessero fatto sarebbero stati responsabili del loro stesso fallimento».
Né sulla Manica né sul Tirreno è bastata la poesia a fermare questa deriva. Nostalgicamente ascoltiamo ancora De André, capace come pochi di riflettere su un’umanità che sembra persa, spiegarci che esiste «ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore».
Così, negli ultimi decenni, è andata diffondendosi sempre più la figura del giovane con la partita Iva: libero di solcare i contratti a progetto, le prestazioni occasionali, di non arrivare a fine mese e di non avere diritto al reddito nei periodi di non lavoro. Non vincolato da un contratto, libero di esser pagato quanto e quando vuole l’azienda e di non avere alcun potere negoziale. Nel frattempo, il giovane precario poteva consolarsi e crogiolarsi del racconto della sua specificità, di essere unico, di non essere uguale a ‘quegli altri’, quelli impiegati da più di vent’anni con gravi lacune nell’utilizzo di Microsoft Office o, peggio ancora, quelli vestiti male, un po’ sporchi di polvere, di grasso e vernice. Nei cinque minuti tra il parcheggio e la porta d’ingresso, o tra la caffettiera e la piccola scrivania, separate dal lungo corridoio di una casa in affitto, il giovane precario pensa di essere indispensabile. Pensa che tutto andrà meglio, che questo contratto è solo l’inizio, potrà rivendicarlo al prossimo colloquio, quello che non esiste, perché il curriculum lo mandi a un indirizzo di posta elettronica. Lui è solo e a volte pensa che in fondo è l’unico uomo al comando. Di cosa non gli è ben chiaro. Però i sindacati mai.
E del resto, per molti anni, i sindacati non si sono accorti che questi avevano la partita Iva ma erano degli sfruttati e quando se ne sono accorti hanno procrastinato. Un circolo vizioso che ha portato alla sconfitta. Era in atto la trasformazione antropologica e culturale del lavoro subordinato, mascherato dalle collaborazioni. All’inizio degli anni Duemila chiunque poteva essere un lavoratore a termine. Una generazione in fin dei conti abituata dai tempi della scuola: le verifiche a crocette, i quiz ogni quindici giorni erano già l’emblema del ‘mordi e fuggi’. Al diavolo il diritto a una conoscenza lenta, approfondita, critica. Gratta e vinci. Usa e getta. Come quei gadget che, ora, soddisfano gli attacchi di consumismo bulimico, mentre un operaio muore sotto un camion durante un picchetto. È il momento in cui, controllando il codice a barre che traccia la spedizione, il giovane collaboratore inveisce contro Poste Italiane perché non ha consegnato il gadget in tempo. Ma Poste Italiane è stata privatizzata, i postini sono sempre meno e quelli che son rimasti lavorano dieci ore al giorno, le spedizioni sono state appaltate a un corriere esterno, gli sportelli chiudono perché i cittadini sono stati trasformati in clienti. E vanno su internet, le filiali non servono più.
Sono gli anni in cui molti più giovani potevano dirsi liberi dal lavoro subordinato, lo dicevano alla televisione, lo dicevano i giornali. Purtroppo continuano a dirlo. I costi del lavoro diminuiscono, le imprese non devono pagare i contributi, ma non devono pagare neppure la formazione ai propri collaboratori. E i giornali tornano a titolare che le imprese non trovano giovani adatti a ricoprire le mansioni cercate. La colpa della disoccupazione e della precarietà è stata accollata alla scuola, che non prepara al mercato del lavoro. Devono uscire precisi e perfetti per il prossimo annuncio. Ma guai a investire nella formazione: meglio pretendere che sia la scuola, e quindi lo Stato, a pagare, anche per far lavorare gratis nelle aziende i propri studenti.
È così che nasce l’alternanza scuola-lavoro, i cui protocolli d’intesa del Ministero del Lavoro e di quello dell’Istruzione e della Ricerca danno il diritto a grandi multinazionali di impiegare migliaia di studenti nei propri locali, per fare i commessi. Una velocità che lascia interdetti. È stato un attimo, dal susseguirsi di stage umilianti o inutili al dovere del lavoro gratuito. Sarà un’esperienza fantastica, recitavano le pubblicità dell’Expo 2015 a Milano. Vedrete cose, conoscerete gente, gratuitamente. Lavorerete gratis finché altri vorranno. Poi il nulla. Anzi no, poi Garanzia Giovani, il progetto europeo per l’inserimento lavorativo dei Neet (Not in Education, Employment, Training), cioè per coloro che non studiano, non lavorano e non sono coinvolti in programmi di formazione. Più di un milione di persone tra i 15 e i 29 anni si sono presentati ai centri per l’impiego o strutture convenzionate, con la speranza di trovare un lavoro. L’ha detto la pubblicità, il Ministero del Lavoro non fa che vantarsi di questo programma. E allora proviamoci, come in un reality, sia mai che ci dice bene. Altri ci sono arrivati celando l’umiliazione, mettendo da parte l’orgoglio della laurea, dei master da fuori sede. Tirocini come se non ci fosse un domani, per tutti!
Masse di lavoratori che la sera tornano a casa con le proprie storie personali, alcuni aprono un blog e si raccontano. Una questione privata. Nessuno ha inventato il sito di incontri per partite Iva, un mega raduno di chi ha partecipato al grande show di Garanzia Giovani. Lo sciopero generale dei tirocinanti. Ognuno a pregare che quella promessa di assunzione possa un giorno farsi realtà.
Loro, i potenti, gli avidi, gli sfruttatori, hanno vinto perché sono stati coerenti, uniti, perché sono stati più forti nel ‘tutti contro tutti’, dove i morti li abbiamo contati solo noi. Hanno vinto quando ci hanno chiamati «bamboccioni», imponendoci una partita Iva, e siamo stati educati, silenti, accondiscendenti. Hanno vinto quando ci hanno detto che eravamo «choosy» e abbiamo porto l’altra guancia. Hanno vinto quando abbiamo smesso di credere che, uniti, si vince anche noi.
Indagare sulle condizioni di lavoro e non lavoro in Italia è una vera e propria discesa agli inferi. Il dilagare del lavoro povero, spesso gratuito, la totale assenza di tutele e stabilità lavorativa sono fenomeni all’ordine del giorno, che si abbattono su più di una generazione, costretta a lavorare di più ma a guadagnare sempre di meno, nonostante viviamo in una società il cui potenziale produttivo già permetterebbe di ridurre e distribuire il tempo di lavoro mantenendo e/o raggiungendo un tenore di vita più che dignitoso. È la realtà contro cui si infrange la narrazione dominante sulla ‘generazione Erasmus’ e sui Millennials, la stessa che con facilità dichiara che coloro che sono nati negli anni Ottanta dovranno lavorare fino a 75 anni per avere una misera pensione. Come se fosse un fatto naturale, inevitabile, ma soprattutto irreversibile, e non invece il risultato di scelte politiche ben precise, che hanno precarizzato il lavoro, la possibilità di soddisfare bisogni che dovrebbero essere considerati universali, come l’istruzione, la sanità, la casa, il trasporto pubblico. Le stesse politiche che hanno provocato l’inasprirsi delle diseguaglianze sociali spostando reddito e ricchezza dai lavoratori, che li producono, alle imprese, che a loro volta hanno scelto di trasformarli in vere e proprie rendite. Il furto quotidiano operato a danno dei lavoratori, di oggi e domani, è stato sostenuto dall’ideologia del merito, imposta per mascherare un inevitabile conflitto tra chi sfrutta e chi è sfruttato. Ma soprattutto per negare la matrice collettiva dei rapporti di lavoro, dei rapporti di forza in gioco: è la retorica per cui ognuno è unico artefice del proprio destino.
Il risultato è l’avanzare di forme di sfruttamento sempre più rapaci che pervadono ogni settore economico, con labili differenze tra lavoro manuale e cognitivo: dai giornalisti pagati due euro ad articolo ai commessi con turni di dodici ore, dagli operai in somministrazione nelle fabbriche della Fca ai facchini di Amazon.
Sono questi gli argomenti trattati in questo libro in cui l’analisi delle trasformazioni economiche e sociali che hanno attraversato i diversi settori si intreccia con le storie di quanti vivono quei luoghi – e non luoghi – di lavoro. Per ragioni oggettive e soggettive, ho scelto di analizzare e descrivere solo alcuni settori economici e forme di lavoro, in particolare la logistica, la grande distribuzione e i servizi pubblici, ma anche i lavoretti dietro la gig economy, le forme di lavoro gratuito, il lavoro a chiamata e il sistema dei buoni lavoro (i voucher). È una scelta dettata da poche ragioni di fondo, tra loro collegate. Primo, essi costituiscono gli esempi più significativi della ristrutturazione del capitalismo, dove la frammentazione del lavoro segue la frammentazione del processo produttivo. Secondo, sono la più nitida rappresentazione di come la valorizzazione del capitale necessiti la creazione di vere e proprie avanguardie dello sfruttamento, che coinvolgono sia i lavoratori immigrati della logistica, sia quelli italiani della grande distribuzione o dei servizi pubblici. La matrice di classe che opera in questi settori è la medesima, nonostante la narrazione dominante tenda a separare e a diversificare una soggettività, quella del nuovo e trasversale proletariato, con espedienti retorici e di facciata. Terzo, il riemergere dei conflitti che popolano questi settori e le modalità con cui le lotte si affermano son spesso taciuti o relegati a meri fatti di cronaca locale quando, invece, sono espressione di un mondo nient’affatto pacificato. D’altra parte, frontiere del precariato come il lavoro a chiamata e il lavoro gratuito si configurano non soltanto come forme di totale estrazione del valore prodotto dai lavoratori che ingrassa solo gli utili d’impresa, ma agiscono come strumenti di estremo ricatto: la promessa di un futuro migliore se si è disposti a farsi sfruttare senza mai alzare la testa.
Mettere in luce la comunanza di interessi, palesando la natura di classe di questi conflitti, ha l’obiettivo di far convergere e amplificare le lotte e le pratiche in atto.
Infine, sebbene con estrema sintesi e in modo nient’affatto esaustivo, si è provato a descrivere il processo politico che ha portato all’impoverimento della classe lavoratrice e soprattutto di quelle generazioni che si affacciano oggi al mondo del lavoro. Per ribadire, in fin dei conti, che il divorzio tra la sfera economica e quella politica è solo un inganno: i processi economici non sono nient’altro che processi politici di potere, di riproduzione di rapporti di forza. In Italia come nel resto d’Europa, la scelta dei governi è stata quella di avallare il progressivo smantellamento dei diritti in modo da restituire forza e dominio alle imprese, a discapito del progresso sociale, cioè del miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza.
Mi preme specificare alcuni dettagli del modo in cui nasce e prende forma questo volume. Innanzitutto, esso è frutto di un lavoro collettivo per cui ringrazio i colleghi, gli amici ma soprattutto i compagni che, interrogandosi e stimolando il dibattito su questi temi, mi hanno, metaforicamente, costretta nel tempo ad approfondirli. È soprattutto grazie a loro che questa coscienza collettiva ha preso forma in uno scritto, preceduto da diversi interventi sui giornali, nei dibattiti, in piazza, nei picchetti e nelle assemblee. Gli incontri con lavoratori e disoccupati sono la fonte delle storie che a tratti compaiono nel libro. Storie che si ripetono e di cui il breve racconto che ne viene fuori non è che una sintesi di prassi molto più frequenti.
Con la speranza che questa presa di coscienza collettiva possa diffondersi e raggiungere i tanti, i molti, che hanno diritto a un riscatto, all’emancipazione negata dall’avidità del capitale e dall’ipocrisia del potere. A loro è dedicato questo libro.
Miserie e splendori del lavoro: un immaginario da ricostruire
Durante gli ultimi decenni, la rappresentazione del lavoro, della quotidianità dei lavoratori, è scomparsa dall’immaginario, dalla cultura. La creazione di vere e proprie periferie nel mondo del lavoro è stata inizialmente giustificata come l’unico strumento efficace per affrontare le difficoltà a trovare il primo impiego da parte di categorie poco partecipi, come le donne, o più vulnerabili, come i giovani e gli immigrati. Una volta create, tuttavia, queste periferie sono state utilizzate dalla narrazione dominante per giungere al fine ultimo: la precarizzazione di ogni forma di lavoro, anche quelle finora garantite da tutele, come i contratti a tempo indeterminato. Dal punto di vista della composizione sociale, lo scontro alimentato è stato quello generazionale: i padri garantiti stanno togliendo lavoro e possibilità di lavorare ai propri figli. La stessa identica narrazione assoldata per giustificare e imporre antidemocraticamente dosi massicce di austerità sul piano fiscale e dei conti pubblici.
Le condizioni di vita di milioni di persone sono usate solo ed esclusivamente per la costruzione di un’immagine funzionale a rappresentare altro: una volta un nemico da creare – come nel caso dei dipendenti pubblici o degli operai in lotta –, un’altra volta un’azienda da esaltare. Più recentemente quel che torna di moda è la costruzione del nemico esterno incarnato dagli immigrati. La retorica dominante, trasversale, sebbene con qualche eccezione nello spettro politico, indica l’immigrazione come causa ultima del crollo di diritti e salari, nonostante sia evidente che l’Italia – da molti più anni rispetto all’inizio dell’attuale ondata di immigrazione – vive un vero e proprio esodo verso l’estero. Secondo quanto riporta l’Istat nel rapporto Migrazioni Internazionali e interne della popolazione residente, «Negli ultimi cinque anni le immigrazioni si sono ridotte del 27%, passando da 386 mila nel 2011 a 280 mila nel 2015. Le emigrazioni, invece, sono aumentate in modo significativo, passando da 82 mila a 147 mila. Il saldo migratorio netto con l’estero, pari a 133 mila unità nel 2015, registra il valore più basso dal 2000 e non è più in grado di compensare il saldo naturale largamente negativo (-162 mila)». Andamento che si ripete nel 2016. Inoltre, il perdurare di fenomeni storici di immigrazione interna – da sud a nord Italia – viene accolta paternalisticamente come qualcosa di naturale. Ma anche nelle regioni del Meridione, dove lo sfruttamento è prassi mai messa in discussione, si agita lo spettro dell’immigrato che ruba il lavoro al giovane disoccupato, senza mai ricordare che già prima dell’arrivo dell’immigrato la disoccupazione giovanile raggiungeva tassi superiori al 50%. Briciole di realismo necessarie per ribaltare uno schema di analisi falso e deleterio. Ma, appunto, l’immagine dell’immigrato causa dei mali di questo paese è utile per nascondere ciò che realmente avviene quotidianamente contro lavoratori italiani e stranieri. Agitare la guerra tra poveri è il gioco prediletto da chi sullo sfruttamento dei molti, indipendentemente dalla nazionalità, mantiene il proprio potere. Tutto il resto è bene insabbiarlo. Dei conflitti sempre più intensi e frequenti che popolano le relazioni industriali del nostro paese, e che non distinguono tra italiani e stranieri, non deve sapere nessuno, è un’immagine che mostra le crepe di un sistema, un conflitto mai sopito e sempre più radicale, che si è scelto strategicamente di ignorare. Quel che quotidianamente viene raccontato, fino a diventare la lettura dominante di questa fase storica, è una realtà che non esiste, almeno non più, fatta di, seppur scarsa, mobilità sociale, di brevi periodi di precariato seguiti da carriere dignitose, possibilità di uscire da uno stato di bisogno attraverso il lavoro. L’unico scontro generazionale che si intravede è questo: la lettura della realtà nella sua dimensione storica. Più di una generazione vive oggi in un contesto di crisi permanente, di distruzione del patto sociale – scioltosi come neve al sole – del dopoguerra e degli anni del boom. Metabolizzare il lavaggio del cervello quotidiano operato a uso e consumo delle élites non fa che distogliere lo sguardo dalle vere cause e responsabilità e dai possibili rimedi. Secondo questa visione distorta continuano a trovare legittimazione non soltanto opinionisti d’accatto che provano a imporci un ribaltamento della realtà per continuare a garantirsi un posto nel mondo, nonché la loro posizione di potere, ma anche opzioni politiche superate dalla storia e ormai incompatibili con la tenuta politica e sociale del paese. Tra queste, ad esempio, le proposte di mantenere i vincoli di bilancio o le privatizzazioni del settore pubblico, il ripetere incessante del non c’è alternativa al costante impoverimento del mondo del lavoro e non lavoro. Convinzioni e prospettive politiche che scongiurano la necessità di abolire l’intero impianto del Jobs Act, fermandosi nel migliore dei casi a una revisione di facciata, come chi propone di ristabilire non già l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ma l’art. 17 e mezzo. Sono gli stessi che avallano l’aumento dell’età pensionabile e ritengono che sia possibile creare solidarietà tra le generazioni riducendo ancora le pensioni di oggi e assoggettando il diritto alla pensione di oggi e domani al pareggio di bilancio. Attraverso questa lente falsata quel che rimane del mondo del lavoro è un racconto ipocrita che si commuove per le proteste degli operai nelle fabbriche lager del Pakistan o per le stragi in quelle del Bangladesh, come fossero eventi esotici, slegati dall’incedere dell’ordine globalizzato, quello che antepone in ogni luogo gli interessi degli sfruttatori a quelli degli sfruttati.
Più ci si avvicina ai confini dell’Italia, più il conflitto, quando non ignorato, è ormai relegato a una questione di cronaca, di ordine pubblico. Nei fatti si tratta di repressione. Risalgono al 2014 le immagini dei lavoratori delle acciaierie di Terni manganellati durante un corteo a Roma, o le cariche durante gli scioperi all’aeroporto di Malpensa del 2013, quelle contro i lavoratori Alcoa. Lì dove regna la repressione, il titolo di apertura è Scontri! Lo stesso è avvenuto di fronte alla lunga primavera di manifestazioni e scioperi generali che hanno attraversato la Francia nel 2016 contro la Loi Travail. Uno sciopero generale ogni settimana, strade piene in molte città francesi, solidarietà tra operai e studenti, tra disoccupati e pensionati. Ai commentatori italiani non importò l’unità che si andava creando per quelle strade, così come nessuno degli habitués dei talk show di prima e seconda serata ebbe un sussulto di indignazione di fronte all’operazione antidemocratica con cui quella legge fu approvata.
La frantumazione del mondo del lavoro vive dentro e fuori i luoghi di lavoro, soprattutto fuori dalle coscienze di chi per vivere deve lavorare. Senza mezzi termini, l’oggetto della discussione è la coscienza di classe, motore della storia, la cui esistenza è negata nella retorica dominante per sgomberare il campo dalla resistenza a tutte le scelte politiche che in questi anni hanno decretato l’inasprirsi delle diseguaglianze economiche, politiche e sociali.
Ma il conflitto prima o poi emerge, in modi più o meno dirompenti. Non sempre la questione di classe si esprime con una direzione politica, ma quando accade è irresistibile. Fuori dai palcoscenici di una politica a-dialettica, l’esigenza di una ricomposizione di classe prende vita grazie a quella generazione di cui tutti parlano e che nessuno ascolta.
«Siamo quei ragazzi che neanche tu, tu che da noi sei stato servito, hai notato. Perché noi siamo invisibili, siamo fantasmi, siamo una rotella di un ingranaggio gigantesco. Invisibili, ma indispensabili perché senza di noi l’ingranaggio si incepperebbe… Senza di noi, tu non avresti la tua pizza, la tua assistenza telefonica, la tua visita guidata, i tuoi jeans… Siamo in tanti, tantissimi, neanche lo immagini quanti… tutti al servizio di chi sul nostro lavoro ci guadagna, assumendoci senza contratto o con contratti finti che bluffano sull’orario di lavoro, sempre più lungo, bluffano sulle mansioni, sempre di più, sempre troppe. E la paga è sempre più bassa, lontana anni luce da qualsiasi standard contrattuale… Dovrebbero riconoscerci dei diritti: ferie, malattia, permessi, maternità e invece… niente di niente… perché noi siamo invisibili, siamo fantasmi… non esistiamo eppure ci siamo, siamo qua…».
Questo coro agguerrito ha fatto irruzione per le strade assolate di Napoli invase dai turisti nel giorno della Festa internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici, il Primo Maggio 2017. Perché la storia non bussa, entra sicura. Con nitidezza, oltre ogni deformazione. Qui si uniscono le storie dei lavoratori della ristorazione, dei call center, del turismo (affidato al privato), del commercio. La trama è sempre la stessa: lavoro sfruttato, spesso a nero, non importa se con o senza la laurea, se si tratta di lavori ad alta o bassa qualifica. Lavoratori che parlano al resto della società, a tutti quelli a cui è negata quotidianamente la dignità, ai troppi giovani e meno giovani del Sud Italia, del Sud Europa.
Se non si tratta di vero e proprio lavoro nero, si parla comunque di lavoro povero. In particolare, si è di fronte a una vera e propria proletarizzazione della classe lavoratrice, dove i livelli di sfruttamento intensivo riguardano ampi settori dell’economia e coinvolgono sia il lavoro manuale sia quello intellettuale. Dai giovani fattorini delle consegne a domicilio gestite dalle piattaforme digitali, ai giovani avvocati, dai giornalisti precari, freelance e non, agli ultimi arrivati nelle grandi società di consulenza.
Non vi è dubbio che il lavoro povero si palesi con intensità e modalità differenti nei vari contesti, ma ciò non toglie che la tendenza in atto sia univoca.
Per questa ragione l’urlo dei lavoratori a nero coinvolge anche i tanti collaboratori e partite Iva che, per sfuggire alla solitudine, per anni uscivano di casa per andare a lavorare seduti al tavolino di un bar qualsiasi. Finché qualche illuminato non ha deciso che anche la solitudine può essere messa a valore. Il cameriere e la giovane partita Iva si incontrano sempre meno. Infatti, la solitudine di collaboratori e freelance diventa oggetto di innovazione sociale, in cui privati mettono a disposizione spazi a pagamento dove i lavoratori possono recarsi e sentirsi meno soli. Perché spesso i collaboratori non hanno neppure il diritto a una postazione in azienda: a volte, indipendentemente dagli spazi a disposizione, gli è proprio vietato andarci, perché semplicemente non sono coperti da assicurazione in casi di infortunio sul luogo di lavoro. Così il luogo di lavoro è altrove, anzi, non esiste. Ognuno si crei il suo.
Ed eccola, l’innovazione: l’emergere di spazi di ‘coworking’, dove apparentemente si lavora insieme, ma, molto più realisticamente, ognuno se ne sta per i fatti suoi. Mettere a disposizione uno spazio di coworking viene spesso raccontato come l’offrire un servizio che dà l’opportunità di incontrarsi, fare rete, scambiarsi idee e, perché no, crearne di altre tra una pausa e l’altra. A pagamento. Per sentirsi meno soli si spende intorno ai 15 euro al giorno, si affitta una postazione con una presa e se va bene si scambia qualche parola con quel collega fittizio e potenziale. Solitudine e frammentazione create dai processi di precarizzazione produttiva rimangono questioni private a cui il mercato risponde, trova soluzioni a carico dei lavoratori e su cui è sempre pronto a trarre un po’ di utili. Un cortocircuito che rende bene l’idea di come il concetto di condivisione venga messo a valore. In questo caso, infatti, la solitudine e la frantumazione del lavoro diventano ‘nuovi mercati’; la condivisione non ha un connotato sociale bensì di mercato: si paga per condividere qualcosa che non si detiene, a parte la frustrazione della solitudine. Mentre le aziende risparmiano sui costi relativi ai luoghi fisici del lavoro, i lavoratori pagano per dotarsi di uno spazio di lavoro in cui immaginarsi una vita non atomizzata. Si potrebbe ovviamente sostenere che è possibile riconquistare spazi pubblici dismessi, che il settore pubblico potrebbe impegnarsi a adibire a postazioni di lavoro. La riappropriazione degli spazi pubblici da parte della collettività è un obiettivo nobile che va costantemente rivendicato: tuttavia non si capisce perché, ancora una volta, sia il pubblico a dover pagare per il privato e la sua deresponsabilizzazione!
E quando non si deresponsabilizza per legge, si chiude un occhio, come di fronte al lavoro nero, di fronte al disinvestimento in manutenzione e sicurezza: vengono tagliati i controlli e le ispezioni sul lavoro mentre si spendono soldi pubblici, dei lavoratori, per i rastrellamenti degli immigrati. Così se un operaio muore mentre lavora, è distrazione. Un incidente.
Le morti bianche, cioè quelle sul lavoro, compaiono per poche ore sulle pagine dei giornali. Stando ai dati dell’Inail, nell’ultimo quadriennio sono morti sui luoghi di lavoro circa mille lavoratori ogni anno. Cifre che sottostimano il fenomeno, in quanto non tutti i lavoratori sono registrati presso l’Inail, come i liberi professionisti, i vigili del fuoco o proprio quei collaboratori che popolano i coworking o le camere in affitto in centro città. Ogni giorno, in Italia, più di tre persone muoiono sui luoghi di lavoro, a cui vanno aggiunti gli infortuni e tutte le malattie che si manifestano lentamente, quando ormai il lavoratore è andato in pensione. Secondo i dati ufficiali, nel 2016 le denunce per infortunio sul lavoro sono oltre seicentomila. Neanche fossimo in guerra!
Non si discute peraltro di come le scelte aziendali volte alla riduzione del costo del lavoro producano insicurezza sugli altri lavoratori. È un altro caso di come la tecnologia impatti in modo non neutro sulle condizioni di lavoro. Alcune aziende hanno scelto di sostituire le squadre di vigilanza con dei braccialetti elettronici indossati da un unico addetto alla sicurezza. Nel caso in cui dovesse succedere qualcosa, il braccialetto emette suoni allarmando la centrale operativa, che si trova fuori dallo stabilimento. Solo allora saranno attivati i soccorsi. Peccato però che il tempismo non può essere garantito come avveniva quando a vigilare si era almeno in due. La probabilità di incidenti è inoltre proporzionale all’inesperienza e inversamente correlata con la conoscenza dei luoghi di lavoro e dei suoi impianti. È allora inevitabile che più si precarizza il lavoro più gli incidenti aumentano, soprattutto lì dove i lavoratori temporanei non ricevono neppure la formazione sulla sicurezza.
Anche nel lavoro più strutturato si assiste a una inaccettabile deriva per cui la sicurezza sul lavoro, ma anche dei territori, si fa oggetto di ricatto. Capita che i premi aziendali siano ancorati alla riduzione degli incidenti sul lavoro, cioè i lavoratori possono percepirli – in teoria, dato che rimane una promessa – se in azienda diminuiscono gli incidenti sul lavoro. I lavoratori sono allora incentivati a non dichiarare infortuni altrimenti perdono la possibilità di ricevere il premio. Ma, oltre alla beffa, l’inganno: ai fini della retribuzione con i contratti integrativi contano anche le assenze per malattia. Più ci si ammala meno si guadagna. Al lavoratore non rimane che scegliere tra meno soldi a causa della dichiarata malattia, con la promessa di percepire il premio, o denunciare l’infortunio e non perdere i soldi trattenuti dal datore di lavoro in caso di malattia. Gallina oggi, uovo domani.
Recentemente, un esempio di ricatto tra lavoro e sicurezza si è manifestato durante il referendum sulle concessioni per le trivellazioni, quando si barattava il diritto a trivellare ed estrarre petrolio e profitto con il diritto al lavoro che la riduzione delle trivellazioni avrebbe messo a repentaglio. Ci si può tuttavia opporre a derive simili e rivendicare la priorità del rispetto dei diritti sui profitti, come ha fatto la Fiom-Cgil Basilicata nei confronti dell’Eni al Centro Oli di Viggiano, stabilimento le cui attività sono state sospese dalla giunta regionale della Basilicata dopo plurime richieste di intervento a riduzione degli eccessivi livelli di inquinamento provocati. Una storia mai risolta, quella della sicurezza sul lavoro, del conflitto tra diritti sociali e avidità del capitale, come dimostra magistralmente lo scrittore Alberto Prunetti nel suo libro Amianto. Una storia operaia.
Un atteggiamento paradossale, quello degli italiani di fronte al concetto di sicurezza. Prevale oggi nell’opinione comune un bisogno incondizionato nei confronti della propria sicurezza verso il prossimo, specie se più povero, se sta peggio di noi. Una costante richiesta di protezione della nostra non ricchezza, ma pur sempre proprietà di fronte all’indotto pericolo del ladro che invade le case o il garage o l’orto di casa. Si pretende addirittura il diritto di sparargli contro, di ucciderlo se necessario. Perché la proprietà non è più un furto e non può essere oggetto di furto. Sentimenti o risentimenti che sfociano il più delle volte in vere e proprie forme di razzismo e di odio verso il basso; posizioni che conquistano quotidianamente spazi di riflessione e azione politica. Ancora una volta, il racconto è strumentale a evitare che emerga e si consolidi la consapevolezza che il conflitto vive all’interno del processo di produzione e riproduzione sociale, ed è quello che contrappone sfruttati e sfruttatori, oppressi e oppressori.
Cedendo alla narrazione tossica che arriva dall’alto, di fronte al sopruso dei potenti si abbassa la testa, di fronte al furto quotidiano di diritti e salari ci si rivolge con remissività, con l’illusione che da quell’autorità, il capitale e chi lo governa, si può sempre ricevere qualcosa. Un atteggiamento di subalternità che quasi penetra a livello antropologico. Su questo terreno vanno concentrati gli sforzi di una resistenza attiva che rivendichi come sopruso lo stipendio che non arriva da mesi, gli straordinari mai pagati, il contratto a tempo determinato dopo più di tre anni di rinnovi, i contributi non versati, le molestie al lavoro. Rifiutando la guerra tra sfruttati di ogni genere, età, nazionalità.
Dal lavoro a chiamata ai voucher, andata e ritorno
Quando scoppiò la crisi del 2008, le massicce dosi di flessibilità, introdotte fino a quel momento nel mercato del lavoro, mostrarono in modo più eloquente il loro vero volto. La politica aveva però un compito: negare, negare sempre, negare soprattutto di fronte ai giovani: quelli maggiormente coinvolti dai lavori precari e che presto furono espulsi in massa dai processi produttivi insieme ai propri genitori; quelli che un lavoro non riuscivano proprio a trovarlo, indipendentemente dal titolo di studio. La disoccupazione nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 18,3% del 2009 al 30,3% del 2016 (37,8% se si considera la fascia 15-24 anni). Nell’ultimo trimestre del 2016 il tasso di occupazione dello stesso gruppo anagrafico rimane al 29,5%, contro il 39% del 2009.
Alle scelte politiche, ostinate sulla via delle riforme strutturali, serviva rafforzare la narrazione e trovare altri responsabili. Primi tra tutti i giovani stessi, quelli che non ce la fanno neppure a trovare un lavoro sottopagato, sottoinquadrato, quelli che non possono permettersi di lasciare casa dei genitori perché né loro né i genitori hanno i soldi per pagare una stanza in affitto altrove, quelli che si laureano in ritardo e a nessuno importa perché. Nel 2012 essere «bamboccioni», termine coniato dal fu ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, era ormai un complimento: stavano per arrivare gli «sfigati» e gli «schizzinosi». «Dobbiamo dire ai nostri giovani che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa»: parola di Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti (gennaio 2012). Rincara la dose la ministra Elsa Fornero (ottobre 2012): «Non bisogna mai essere troppo choosy [schizzinosi], meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro. Non aspettare il posto ideale. Bisogna entrare subito nel mercato del lavoro».
Così come ha fatto Chiara, che per due anni ha lavorato come cassiera a chiamata all’ipermercato Martinelli di Mantova. Alla cassa tutti i week-end da venerdì a domenica e poi anche un turno durante la settimana. Per gli infrasettimanali la chiamavano il giorno prima per darle conferma. No ferie, no malattia. Il turno era di dodici ore, con un’ora e mezza di pausa pranzo. La pausa pranzo era il solo momento in cui Chiara aveva diritto a bere. In cassa era vietato bere, ma anche sedersi. Così lei e le sue colleghe erano costrette a tenere nascoste le bottigliette e a scomparire sotto la cassa per qualche istante. Essere sorridenti sempre, anche quando ti arrivava un’infezione urinaria, perché pure se bevi poco al bagno devi andare, ma quando chiami il cambio la collega non arriva a tamburo battente. Aspetti, anche mezz’ora, quaranta minuti. A fine turno, nonostante nel contratto ci fosse scritto «cassiera», Chiara e le sue colleghe dovevano pulire i bagni, tutti.
Chiara è riuscita a trovare lavoro subito e a farsi sfruttare come si deve; le dichiarazioni della Fornero però rimangono non soltanto offensive ma anche fuorvianti. Per la legge della domanda e dell’offerta, se tre milioni di persone sono disoccupate e altrettante scoraggiate – cioè non lavorano e si sono stancate di cercare – significa che la prima offerta spesso neppure esiste. Lo dimostra il numero di posti vacanti, cioè disponibili rispetto al totale dei posti di lavoro esistenti (somma tra i posti vacanti e quelli occupati). Un indicatore che misura la domanda di lavoro da parte delle imprese, a ben vedere fanalino di coda europeo tra il 2009 e il 2016.
Ma perché i giovani? Perché se avessero preso coscienza di non essere sfigati – cioè di aver fatto tutto quello che veniva loro richiesto – avrebbero potuto rievocare uno spettro pericoloso: il conflitto. Così i giovani avevano bisogno di una dose, più massiccia, di distrazioni di massa, che dirottasse la frustrazione ed evitasse ad ogni costo che questa si tramutasse in voglia di riscatto. Andava alimentata una guerra tra poveri e diseredati, mascherata da guerra intergenerazionale: padri contro figli, prima di tutto. Poi è arrivato il tempo degli immigrati, che però nel frattempo erano costretti a lavorare gratis.
Senza girarci attorno, ciò che emerge dalle parole di chi è stato chiamato (dall’allora presidente Giorgio Napolitano, con la fiducia in primis del Pd) a governare il paese all’esplodere della crisi è un profondo disprezzo nei confronti dei lavoratori e dei disoccupati, chiamati solo a sacrificarsi sull’altare della competitività e dei profitti delle imprese finanziarie e non. Non a caso proprio la riforma Fornero, oltre a demolire l’art. 18, permise alle imprese di disporre in modo indiscriminato di un enorme esercito di riserva, sempre più giovane, dati i crescenti tassi di disoccupazione. Una specie di gioco delle tre carte: da un lato, venivano aumentati dell’1,4% i costi dei contratti a termine a carico dei datori di lavoro; dall’altro, si escludeva l’obbligo di comunicare la causa del ricorso al contratto a termine per i primi 12 mesi. Allo stesso tempo, con una mano si restringevano le possibilità di ricorrere al lavoro intermittente (o a chiamata) e con l’altra si liberalizzavano a tutti i settori produttivi i buoni lavoro (o voucher).
Ma la storia dei voucher e del lavoro a chiamata non nasce con la Fornero, che di per sé non ha dovuto inventare nulla, bensì con la riforma Biagi-Maroni del 2003. In principio, nel contratto a chiamata un lavoratore «si pone a disposizione del datore di lavoro per lo svolgimento di determinate prestazioni di carattere discontinuo o intermittente». È un contratto subordinato e può essere a tempo determinato o indeterminato, può coinvolgere tutti i lavoratori, ma nel caso di under 25 o over 45 è necessario che siano disoccupati o in mobilità. Ben presto, nel 2005, la condizione di disoccupato decade e la legge estende a tutti la possibilità di lavorare a chiamata. Oltre alla durata del rapporto di lavoro (a termine o permanente), fin dalla legge Biagi-Maroni il lavoro a chiamata può essere di due tipi: con o senza disponibilità garantita dal lavoratore. In pratica, quest’ultimo può concedere al datore di lavoro la propria disponibilità a essere chiamato (per questa sua disponibilità riceve addirittura un compenso!) e si accolla l’obbligo di rispondere alla chiamata. Oppure può non dare la propria disponibilità: se arriva la chiamata ed è libero bene, altrimenti il datore di lavoro dovrà cercare altrove.
Il lavoro intermittente esplose e, dopo alcuni tentativi, la riforma Fornero decise di limitarlo agli under 24 e agli over 55. Ironicamente potremmo dire che la riforma Fornero non volle privare i giovani del loro protagonismo nel lavoro a chiamata. Secondo quanto riporta il Rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie del 2013 (relativo ai dati 2012) del Ministero del Lavoro, i rapporti di lavoro intermittente coinvolgevano principalmente i giovani: «nel 2012 sono stati avviati 223.532 (il 32% del totale) lavoratori nella fascia di età 15-24 anni e 194.941 (ovvero 28% del totale) nella classe 25-34 anni». Si tratta principalmente di contratti a chiamata a tempo determinato, l’8% circa in entrambi i casi.
L’efficacia della riforma Fornero in termini di riduzione del lavoro a chiamata è registrata dai dati: l’incidenza degli avviamenti di contratti a chiamata sul totale dei contratti torna ai valori del 2010 (4%), la metà rispetto al picco massimo raggiunto a inizio 2012, circa l’8%, come riporta l’Isfol nel rapporto del 2015.
Solo una cosa non toccò la riforma del lavoro intermittente attuata dal governo Monti: i rapporti di forza tra datori di lavoro e lavoratori. E non è un caso, perché la flessibilità non è neutra: scarica il suo peso sulla parte più debole, il lavoratore, in balìa del ricatto della disoccupazione. Gioco facile per le aziende, a cui la Fornero dimenticò di apporre un limite massimo complessivo di lavoratori a chiamata: come abbiamo visto, la legge dispose infatti un tetto massimo per ciascun lavoratore, non più di 400 giornate lavorative in un triennio. Ma alle aziende fu accordato il diritto di usare le 400 giornate di ciascun lavoratore e poi cambiarlo con un altro sempre a chiamata. Quindi, i datori di lavoro non soltanto potevano assumere a volontà lavoratori a chiamata (a parte i casi esclusi dai contratti collettivi nazionali che, si sa, vivono ormai in costante difensiva), ma potevano e ancora oggi possono esercitare il proprio potere di ricatto usando i contratti intermittenti senza l’esercizio della messa in disponibilità, così da non dover neppure versare le somme dovute per il periodo di non lavoro. Il ricatto scaturisce sempre da quella tensione messa in atto dall’esercito di riserva, le masse di disoccupati alla disperata ricerca di un posto di lavoro. Non accettare quanto chiesto dal datore di lavoro espone direttamente alla perdita dello stesso, ma piegarsi al ricatto significa contestualmente cedere un diritto.
Un’offerta da non rifiutare, soprattutto se giovani e inesperti, così come suggerì il ministro!
Così è stato per Chiara che, dopo due anni, si è licenziata dall’ipermercato in cui faceva la cassiera. Ha lavorato 510 giornate in due anni, oltre il limite. Non ha prove e non può denunciare. Quando ci siamo incontrate non sapeva che l’essere a disposizione dell’azienda è qualcosa per cui le sarebbe spettato un compenso, che andava scritto nel contratto. L’azienda non gliel’ha mai detto e i sindacati non li ha mai visti. Ha accettato la prima offerta e l’hanno sfruttata.
Come si diceva, alle restrizioni all’uso del contratto a chiamata fu affiancata, sempre nel 2012, la totale liberalizzazione dei voucher. Nati nel 2003, i buoni lavoro erano rivolti a regolarizzare i lavori occasionali e accessori, di tipo domestico o in agricoltura. Bisognava fare qualcosa contro il lavoro nero, si diceva, anche a costo o supportando l’idea di un impoverimento di fasce crescenti della forza lavoro. Una questione di priorità o pura formalità, parafrasando i Cccp.
L’idea geniale, quasi fantascientifica, fu quella di creare e liberalizzare uno strumento incostituzionale per porre rimedio a un’attività irregolare. Uno strumento che si compra facilmente dal tabaccaio e sempre lì si riscuote. Ogni settimana, Giorgio si sveglia e va al tabacchi sotto casa. Ha con sé venti voucher: 150 euro. Gli habitués delle slot machine vivono con estrema invidia la riscossione di Giorgio, pensano sia una vincita ottenuta a quelle maledette macchinette in cui finisce quotidianamente la loro pensione. Vagli a spiegare che è uno stipendio! Vagli a spiegare che le bollette non le porta con sé perché o fa la spesa o paga luce e gas.
Secondo il principio di lucidità, la bulimia con cui il legislatore (nei fatti, sia i governi che i Parlamenti) si è scatenato nella deregolamentazione dei voucher rispecchia intenzioni ben più profonde: abbattere fortemente il costo del lavoro a scapito dei lavoratori.
Articolo di Loredana Menghi – Dal 6 marzo nelle sale il film di Riccardo Cremona e Matteo Keffer, con le ragioni e le testimonianze di un movimento che si batte per fermare il collasso eco-climatico
Fontana di Trevi imbrattata con del liquido nero (in realtà polvere di carbone) al grido di “Noi non paghiamo il vostro Fossile”, da un gruppo di attivisti trascinati via tra gli insulti di locali e turisti. La teca della “Nascita di Venere” del Botticelli tappezzata con le foto dell’alluvione di Campi Bisenzio. E poi i blocchi stradali, gli arresti, sit-in sotto carceri e tribunali. Sono solo alcune delle azioni eclatanti di “Ultima Generazione”, raccontate dai registi Riccardo Cremona e Matteo Keffer nel film “Come se non ci fosse un domani” (2024), dal 6 marzo nelle sale cinematografiche. La pellicola, presentata in anteprima al Festival del Cinema di Roma lo scorso ottobre (pochi giorni prima che l’alluvione di Valencia provocasse in Spagna oltre 200 morti), traccia l’anatomia del movimento ambientalista che dal 2021, attraverso pratiche di disobbedienza civile nonviolenta, si mobilita per sollevare un dibattito sugli effetti del riscaldamento globale.
L’obiettivo? “Ottenere impegni concreti per uscire dall’era dei combustibili fossili e limitare le emissioni inquinanti – spiegano gli eco-attivisti nel documentario – Chiediamo di non trivellare per il gas, di non usare i soldi pubblici per finanziare la nostra morte, ma per creare posti di lavoro nell’economia circolare e nell’energia rinnovabile. E nell’istituzione di un Fondo di Riparazione destinato a risarcire le vittime degli eventi meteorologici estremi”.
Fra i blitz più clamorosi filmati dai registi, che per due anni hanno seguito i militanti in giro per l’Italia, quello all’ingresso del Senato a Roma, quando due manifestanti hanno cosparso il proprio corpo e la facciata di Palazzo Madama col fango prodotto dalle esondazioni in Emilia-Romagna. E poi i blocchi stradali: al traforo del Monte Bianco, dove gli attivisti incatenati sotto la neve hanno paralizzato il traffico transfrontaliero o quelli sul G.R.A. dell’Urbe, rischiando il “linciaggio”. Iniziative che hanno suscitato l’indignazione di stampa, opinione pubblica, politici e Istituzioni, che li hanno definiti mitomani, eco-terroristi, eco-teppisti. E un’ondata repressiva che ha colpito alcuni con oltre 70 denunce. È il caso di Simone Ficicchia, per il quale è stata richiesta dalla Questura di Pavia la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, di norma applicata ai criminali mafiosi. Classe 2002, è lui uno dei protagonisti di “Come se non ci fosse un domani”, insieme a Chloe Bertini, Beatrice Pepe, Michele Giuli e Tommaso Juhasz.
“Studenti universitari- ha dichiarato Riccardo Cremona all’Hot Corn del Festival del Cinema di Roma – che hanno scelto di abbandonare i loro percorsi, i loro destini professionali, mettendosi a disposizione di qualcosa che ci riguarda tutti. Perché la crisi climatica è forse il primo vero problema universale che riguarda tutti indistintamente”. C’è l’universitario che accantona il sogno di insegnare Storia. La danzatrice che rinuncia a un tour in Inghilterra. Il religioso che lotta per salvare gli ulivi da stress idrico e ondate di calore. La studentessa che, nel disappunto della famiglia, ai vestiti, al cinema o alla discoteca preferisce la causa ambientale, perché conscia – come gli altri – che la sua potrebbe essere l’ultima generazione in grado di fermare il global warming. Esistenze che si snodano fra le immagini dell’uragano a Jesolo, della siccità in Sicilia e in Umbria e dei disastri in Emilia-Romagna e Toscana, dopo i quali i giovani hanno spalato le strade dai detriti al fianco della popolazione.
Un film corale, che svela i retroscena delle mobilitazioni, sviscerando incertezze, contraddizioni e l’ansia da cambiamenti climatici, che colpisce principalmente le giovani generazioni, preoccupate per il loro futuro. Timori che diventano rabbia e urgenza di agire, come teorizzato dal sociologo Roger Hallam, co-fondatore nel 2018 a Bristol di Extinction Rebellion, da cui si è formata l’ala radicale di Ultima Generazione, che oggi “raccoglie in Italia circa 150 affiliati, con diverse sedi in Italia – aggiunge Cremona. “Abbiamo raccontato un’intelligenza collettiva – ricorda Matteo Keffer – Un gruppo di persone che senza nessun tipo di esperienza politica si è organizzato per sensibilizzare il più possibile, scontrandosi con le difficoltà del caso”.
Non ultime le misure varate per fermare le proteste: dal ddl “eco-vandali” al decreto 1660 passato alla Camera lo scorso settembre (in attesa di approvazione al Senato) contenente la cosiddetta “norma anti- Gandhi”, ossia il carcere fino a due anni se si blocca in gruppo una strada o una ferrovia. Provvedimento che “esprime la volontà di colpire ogni forma di dissenso e più duramente i movimenti che si battono contro le grandi opere”, ribadisce Ultima Generazione in una nota, deciso ad andare avanti. “Il nostro mondo sta cadendo a pezzi – ammonisce Chloe Bertini, una delle protagoniste – E fra 10 anni, quando i bambini di oggi ci chiederanno: – Tu cosa hai fatto? Noi vogliamo poter dire: – Ho fatto tutto il possibile”.
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