Cavalleria rusticana è un’opera in un unico atto di Pietro Mascagni-
Cavalleria rusticana Andò in scena per la prima volta il 17 maggio 1890 al Teatro Costanzi di Roma, con Gemma Bellincioni e Roberto Stagno.Viene spesso rappresentata insieme a un’altra opera breve, Pagliacci (1892) di Ruggero Leoncavallo, con la quale è considerata una delle più rappresentative opere veriste.[1] Questo singolare abbinamento venne proposto fin dall’anno seguente il debutto di Pagliacci, al Metropolitan Opera House di New York il 22 dicembre 1893,[1] e venne legittimato dallo stesso Mascagni, che nel 1926, al Teatro alla Scala di Milano, diresse, nella stessa soirée, entrambe le opere. Cavalleria rusticana veniva talvolta eseguita insieme a Zanetto, dello stesso compositore.
Cavalleria rusticana
Cavalleria rusticana fu la prima opera composta da Mascagni ed è certamente la più nota fra le sedici composte dal compositore livornese (oltre a Cavalleria rusticana, solo Iris e L’amico Fritz sono rimaste nel repertorio stabile dei principali enti lirici). Il suo successo fu enorme già dalla prima volta in cui venne rappresentata al Teatro Costanzi di Roma, il 17 maggio 1890 e tale è rimasto nel ventunesimo secolo.
Nel 1888 l’editore milanese Edoardo Sonzogno annunciò un concorso aperto a tutti i giovani compositori italiani che non avevano ancora fatto rappresentare una loro opera. I partecipanti dovevano scrivere un’opera in un unico atto, e le tre migliori produzioni (selezionate da una giuria composta da cinque importanti musicisti e critici italiani) sarebbero state rappresentate a Roma a spese dello stesso Sonzogno.
Mascagni, che all’epoca risiedeva a Cerignola, dove dirigeva la locale banda musicale, venne a conoscenza di questo concorso solo due mesi prima della chiusura delle iscrizioni e chiese al suo amico Targioni-Tozzetti, poeta e professore di letteratura all’Accademia Navale di Livorno, di scrivere un libretto. Targioni-Tozzetti scelse Cavalleria rusticana, di Verga come base per l’opera. Egli e il suo collega Guido Menasci lavoravano per corrispondenza con Mascagni, mandandogli i versi su delle cartoline. L’opera fu completata l’ultimo giorno valido per l’iscrizione al concorso. In tutto, furono esaminate settantatré opere e il 5 marzo 1890 la giuria selezionò le tre opere da rappresentare a Roma: Labilia di Nicola Spinelli, Rudello di Vincenzo Ferroni, e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni.[2]
Cavalleria rusticana
Trama
La vicenda si svolge a Vizzini, un paesino della Sicilia. All’alba di una domenica di Pasqua, nel paese s’ode una serenata dedicata a Lola, moglie di compare Alfio, un carrettiere. Pian piano il paese si sveglia e tutti si preparano per il giorno di festa; Lucia, madre di Turiddu e proprietaria di un’osteria, prepara il vino per i festeggiamenti che avranno luogo dopo la messa. Da lei si reca Santuzza, fidanzata di suo figlio; all’invito della donna a entrare in casa, la ragazza rifiuta, rivelandole un’amara verità: Turiddu la tradisce. Prima di partire per il servizio militare, il ragazzo si era promesso a Lola; tuttavia il periodo di leva si era protratto e la donna, stanca di aspettare, dopo un anno si era sposata con Alfio. Al suo ritorno, per ripicca, Turiddu si era allora fidanzato con Santuzza, ma successivamente aveva preso ad approfittare delle assenze di Alfio per riprendere una relazione clandestina con Lola.
Lucia non crede alle parole di Santuzza, ma il loro discorso è interrotto dalla processione iniziale della messa. Poco dopo arriva lo stesso Turiddu, che saluta la sua fidanzata; questa, ormai esasperata, gli rinfaccia i continui tradimenti, ma lui dapprima nega e in seguito cerca di troncare con rabbia il discorso. La lite è interrotta dall’arrivo della stessa Lola, che provoca Santuzza cantando una canzone dedicata al suo amato; i due si recano insieme in chiesa, mentre Santuzza, al colmo della disperazione, scaglia una maledizione su Turiddu.
Poi compare Alfio, che chiede a Santuzza dove sia sua moglie; lei, incautamente, gli dice che ella è andata a messa con Turiddu e gli svela tutta la tresca, pentendosene immediatamente dopo. Alfio giura vendetta e fugge via. Poco dopo termina la messa e tutti si recano all’osteria di Nunzia, dove intonano gioiosi brindisi alle gioie della vita. Torna Alfio, al quale Turiddu offre un bicchiere di vino; questi rifiuta sdegnosamente, e tutti comprendono che lui voglia sfidare il rivale a duello all’arma bianca. Le donne portano via Lola e Santuzza, mentre Turiddu, con la scusa di abbracciare Alfio, gli morde l’orecchio: con questo gesto accetta la sfida. Turiddu sa di essere nel torto e si lascerebbe uccidere per espiare la propria colpa, ma non può lasciare sola Santuzza, disonorata dal suo tradimento, dunque combatterà con tutte le sue forze. Alfio gli dà appuntamento a un orto poco distante per duellare.
Turiddu si prepara al duello: prima di recarvisi saluta Lucia, raccomandando di fare da madre a Santuzza se lui non dovesse tornare, poi corre via. Lucia comprende solo allora quanto fossero vere le parole di Santuzza; mentre le due donne si abbracciano, si ode un mormorio venire da lontano e poco dopo una popolana urla che Turiddu è stato ammazzato, gettando tutti nella disperazione.
Cavalleria rusticana
Sinossi di Cavalleria rusticana
Preludio
Siciliana O Lola ch’ai di latti la cammisa (Turiddu)
Atto unico
Coro d’introduzione Gli aranci olezzano (Coro)
Scena e sortita Dite, mamma Lucia… Il cavallo scalpita (Santuzza, Lucia, Alfio, Coro)
Scena e preghiera Beato voi, compar Alfio… Inneggiamo il Signor non è morto (Santuzza, Lucia, Alfio, Coro)
Romanza e scena Voi lo sapete, o mamma… Andate, o mamma, ad implorare Iddio (Santuzza, Lucia)
Duetto Tu qui, Santuzza (Santuzza, Turiddu)
Stornello Fior di giaggiolo (Lola)
Duetto Il Signore vi manda, compar Alfio (Santuzza, Alfio)
Intermezzo sinfonico
Scena e brindisi A casa, a casa, amici… Viva il vino spumeggiante (Turiddu, Lola, Coro)
Finale A voi tutti salute… Mamma, quel vino è generoso (Santuzza, Turiddu, Lucia, Alfio, Lola, Coro)
Brani celebri
Preludio, dove Turiddu canta La siciliana
O Lola, c’hai di latti la cammisa, canzone siciliana di Turiddu
L’aria introduttiva O Lola, c’hai di latti la cammisa, detta anche Siciliana, è uno dei due brani in lingua dialettale presenti all’interno del repertorio lirico italiano. L’altro brano è la celebre aria Io de’ sospiri dalla Tosca di Puccini, scritta in dialetto romanesco.
Cristina Mandosi-I paramenti liturgici dell’Abbazia di Farfa
Libreria Editrice Vaticana
Descrizione-Il Dipartimento dei Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana ha realizzato nel 2009 un progetto di inventariazione dei paramenti sacri dell’Abbazia di Farfa (sita nel comune di Fara Sabina, in provincia di Rieti), ponendosi l’obiettivo di valorizzare, nell’ambito di uno studio scientifico, un importante patrimonio storico, culturale e religioso.Il volume illustra dunque i paramenti inventariati, facendo cenno all’arte tessile e al linguaggio dei colori liturgici, e fornisce anche una descrizione della Chiesa abbaziale e della storia farfense.Il testo è inoltre corredato dalle foto della Chiesa e di alcuni dei paramenti conservati nell’Abbazia.Uno studio di sicuro interesse per gli appassionati di storia della Chiesa.
Alcuni dei paramenti liturgici sono nei colori liturgici del periodo dell’anno liturgico o della particolare celebrazione.
Il termine “paramento liturgico” è riservato ai particolari tipi di abbigliamento propri della liturgia, benché in essa si adoperino anche altri abiti particolari che usano il clero (diaconi, presbiteri, vescovi) o i religiosi fuori dalla liturgia per sottolineare il loro particolare stato.
Nei secoli VIII e IX incominciò a introdursi una varietà di colori al posto dell’unico colore bianco.
cotta: è di colore bianco e viene indossata sulla veste talare, come abito corale o per azioni liturgiche al di fuori della messa, eventualmente insieme alla stola;
rocchetto: è una sopravveste bianca, solitamente di lino, con maniche strette e lunga fino a mezza gamba; simile alla cotta, è proprio dei prelati;
dalmatica: è del colore liturgico del giorno; è indossata dal diacono come abito proprio e nei pontificali dal vescovo sotto la casula o pianeta ad indicare la pienezza del sacerdozio;
berretta o tricorno, di vari colori e fogge, a seconda del grado gerarchico o famiglia religiosa di appartenenza;
piviale: è del colore liturgico del giorno; è indossato per le celebrazioni diverse dalla Messa (nel rito ambrosiano anche dai lettori in alcune messe solenni);
Alcuni dei paramenti elencati di seguito sono stati aboliti o resi facoltativi o semplicemente caduti in disuso:
tunicella: del colore liturgico del giorno; indossata in passato anche dal suddiacono;
chiroteche: sono particolari guanti, indossati dai vescovi, dai cardinali e dal papa;
falda papale: camice con lunga falda indossato in tempi passati dal papa durante le celebrazioni;
fanone papale: di forma circolare, tessuto in duplice strato, di uso omerale sulla pianeta o casula, cucito di strisce color bianco, oro e rosso, usato dal papa nelle solenni celebrazioni;
manipolo: del colore liturgico del giorno (nella messa tridentina);
Esistono inoltre indumenti ecclesiastici, che vengono utilizzati anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche, come l’abito talare e lo zucchetto, mentre altri tipi di abbigliamento ecclesiastico come la greca, il mantello, il tabarro, il ferraiolo ed il ferraiolone, (che sono soprabiti) o il cappello romano (detto anche saturno), che si indossano sopra la veste talare, non sono mai usati nella liturgia.
Biblioteca DEA SABINAMaurizio Leggeri fotoreportage-Roma- La via Appia antica-
La via Appia antica vista da due illustri viaggiatori del 1700.
Montesquieu
Montesquieu:“ Avvicinandoci a Roma s’incontrano tratti della Via Appia, ancora integri. Si vede un bordo o margo che resiste ancora, e credo che abbia più di tutto contribuito a conservare questa strada per duemila anni: ha sostenuto le lastre dai due lati ed ha impedito che cedessero lì, come fanno le nostre lastre in Francia, che non hanno alcun sostegno ai bordi. Si aggiunga che queste lastre sono grandissime, molto lunghe, molto larghe, e molto bene incastrate le une nelle altre; inoltre questo lastricato, poggia su un altro lastricato, che serve da base. Le strade dell’imperatore sono fatte di ghiaia messa su una base lastricata, ben stretta e compressa. Dopo, vi hanno messo un piede o due di ghiaia. Questo renderà la strada eterna. C’è da stupirsi che in Francia non si sia pensato a costruire strade più resistenti? Gli imprenditori sono felici di avere un affare del genere ogni cinque anni”.
Montesquieu, Viaggio in Italia, 1728-1729.
Maurizio Leggeri fotoreportage-Roma- La via Appia antica.Charles de Brosses
Charles de Brosses:“E’ questo, o mai più, il momento di parlarvi della Via Appia, cioè il più grande,il più bello e il più degno monumento che ci resti dell’antichità; poiché, oltre alla stupefacente grandezza dell’opera, essa non aveva altro scopo che la pubblica utilità, credo che non si debba esitare a collocarla al di sopra di tutto quanto hanno mai fatto i Romani o altre nazioni antiche, fatta eccezione per alcune opere intraprese in Egitto, in Caldea e soprattutto in Cina per la sistemazione delle acque. La strada, che comincia a Porta Capena, prosegue trecentocinquanta miglia da Roma a Capua e a Brindisi, ed era questa la strada principale per andare in Grecia e in Oriente. Per costruirla hanno scavato un fossato largo quando la strada fino a trovare uno strato solido di terra……Codesto fossato o fondamento è stato riempito da una massicciata di pietrame e di calce viva, che costituisce la base della strada, la quale è stata poi ricoperta interamente di pietre da taglio che hanno una rotaia. E tanto ben connesse che, nei posti dove non hanno ancora incominciato a romperle dai bordi, sarebbe molto difficile sradicare una pietra al centro della strada con strumenti di ferro. Da ambedue i lati correva un marciapiede di pietra. Sono ben quindici o sedici secoli che non soltanto non riparano questa strada, ma anzi la distruggono quanto possono. I miserabili contadini dei villaggi circostanti l’hanno squamata come una carpa, e ne hanno strappato in moltissimi luoghi le grandi pietre di taglio, tanto dei marciapiedi che del selciato. E’ questa la ragione degli amari lamenti che fanno sempre i viaggiatori contro la durezza della povera Via Appia , che non ne ha nessuna colpa; infatti, nei posti che non sono stati sbrecciati, la via è liscia, piana come un tavolato, e persino sdrucciolevole per i cavalli i quali, a forza di battere quelle larghe pietre, le hanno quasi levigate ma senza bucarle. E’ vero che, nei luoghi dove manca il selciato, è assolutamente impossibile che le chiappe possano guadagnarsi il paradiso, a tal punto vanno in collera per essere costrette a sobbalzare sulla massicciata di pietre porose e collocate di taglio, e in tutti i sensi nel modo ineguale. Tuttavia, nonostante vi si passi sopra da tanto tempo, senza riparare né aggiustare nulla, la massicciata non ha smentito le sue origini. Non ha che poche o punte rotaie ma solo, di tanto in tanto, buche piuttosto brutte”.
Charles de Brosses, Viaggio in Italia, 1739-1740.
a.c. Franco Leggeri-Associazione DEA SABINA-Foto di Maurizio Leggeri
Maurizio Leggeri fotoreportage-Roma- La via Appia antica.Maurizio Leggeri fotoreportage-Roma- La via Appia antica.
DESCRIZIONE-del libro di Roberto Ciccarelli-L’odio dei poveri -Biblioteca DEA SABINA Una rigorosa inchiesta politico-filosofica sul welfare. Che cos’è l’«odio dei poveri» che dà il titolo a questo libro? È l’odio verso i poveri o il loro odio verso chi li definisce tali, confermandone e approfondendone la subalternità? A partire da questa doppia definizione, “L’odio dei poveri” si rivela non un semplice saggio su quello che un tempo si sarebbe chiamato «odio di classe», ma una disamina acuta e originale dei conflitti sociali e di potere che indirizzano il nostro linguaggio: termini taglienti e spesso di difficile comprensione come «occupabili», «inclusione attiva», «reddito di cittadinanza», «povertà assoluta» e «relativa» e soprattutto il bicefalo «workfare» – la versione impoverita del welfare – rappresentano in Occidente l’arma più astuta usata dal sistema per governare la precarietà delle vite. In un momento in cui lo slittamento a destra dell’assetto politico sembra non aver fine (e in Italia il governo Meloni svela il suo lato più inquietante e punitivo ai danni dei poveri), Roberto Ciccarelli decostruisce un importante pezzo di storia e di microfisica del potere attuale, fornendo nuovi strumenti all’opposizione politica.
Roberto Ciccarelli-L’odio dei poveri
La recensione
Miseria e povertà-Articolo di Emiliano Sbraglia
Ponte alle Grazie pubblica “L’odio dei poveri” di Roberto Ciccarelli: analisi spietata di una società diseguale, gestita nel nome del workfare
Il titolo di questo volume, L’odio dei poveri (Ponte alle Grazie, pp. 316, euro 18), viene spiegato nella sua doppia accezione all’inizio del capitolo primo: “L’odio dei poveri, in entrambi i sensi del genitivo, attivo e passivo. Nel senso che il povero è odiato e può odiare”. A scriverlo Roberto Ciccarelli, filosofo e giornalista, che nelle riflessioni sul tema per “il manifesto” aveva già dato ai suoi lettori l’opportunità di entrare tra i meandri di un’analisi affatto semplice, come semplice non è l’argomento di cui tratta.
Avvalendosi anche di una ricerca condotta negli ultimi anni per il dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre riguardante il reddito di cittadinanza in Italia, e alle relative politiche pubbliche per l’occupazione, Ciccarelli mette insieme i segmenti sparsi della società contemporanea, non solo italiana, raccolti sotto l’ombrello di un neoliberalismo che per l’autore è un nuovo liberalismo politico e non soltanto economico, come viene solitamente analizzato dai comunicatori di professione, e che può esser definito come una “variante politica del rapporto tra democrazia e capitalismo basato su un progetto classista”.
Affermatosi attraverso diverse strategie di potere, che alternano indifferentemente colpi di stato a elezioni almeno in apparenza democratiche, il neoliberalismo dei nostri giorni utilizza principalmente lo strumento del workfare, versione subdola e volutamente impoverita del welfare, che consente a chi governa di mantenere lo stato delle cose come meglio conviene a pochi, sempre più ricchi, o di modificarle sempre a loro vantaggio, a scapito dei molti, della moltitudine. Una moltitudine sempre più povera anche se lavora, ed è proprio questo uno tra gli elementi costitutivi del sistema di workfare utilizzato, che nell’utilissimo glossario posto in appendice viene descritto come “un’espressione che indica lo Stato sociale conservatore”, e dunque “un insieme di istruzioni tecniche, norme e politiche socio-assistenziali, ispirate alle condizionalità del welfare”.
Tutto questo comporta, per chi tenta di uscire dalla sua condizione di povertà, l’involontario assorbimento all’interno di un groviglio da cui è sempre più complicato dipanarsi, perché la formula delle “politiche attive del lavoro” ormai troppo spesso si rivela poco altro che un metodo di assistenzialismo da accettare e basta, all’interno di un sistema passivo che ti vuole passivo, perché in realtà non concede potenziali e nuove opportunità professionali, e dunque esistenziali, elargendo soltanto quanto basta per una sopravvivenza che definire dignitosa diviene ogni giorno più complicato.
Accanto ai working poor, categoria da qualche tempo riconoscibile non soltanto nel nostro Paese (l’autore ci invita a riguardare con maggior attenzione critica la pellicola del 2016 di Ken Loach “Io, Daniel Blake”), ci sono poi i poveri-poveri, quelli che incrociamo per la strada, che facciamo finta di non vedere o che guardiamo soltanto un attimo, per attutire un istintivo senso di colpa, di dubbia provenienza, che mette direttamente in discussione i rapporti sociali, i rapporti tra le persone.
Ecco perché forse la prospettiva comune dovrebbe essere quella di un commonfare, termine che si incontra nelle conclusioni al libro, non a caso titolate “Non c’è un’ora X”, perché non esiste un tempo stabilito per cambiare l’attuale (dis)ordine delle cose, ma esiste un tempo per tentare di liberare la forza-lavoro, per una liberazione della forza lavoro, restituendo a noi stessi la dignità delle proprie esistenze. Potrebbe accadere così, nella “liberazione del tempo sociale”, che niente potrebbe essere più importante per un essere umano della vicinanza con un altro essere umano.
Torneremmo in questo modo a intendere la povertà come sinonimo di solidarietà, una solidarietà costruita su azioni concrete per tentare di cambiare la realtà quotidiana delle persone, lasciando la miseria a chi è misero nelle sue intenzioni, quelle di continuare a ottenere immensi profitti per pochi a scapito di tutti gli altri.
Poesie di James Russell Lowell-Poeta e critico americano-
James Russell Lowell-Poeta e critico americano, nato a Cambridge, Mass., il 22 febbraio 1819, morto ivi il 12 agosto 1891.Si laureò all’università Harvard nel 1838, e studiò giurisprudenza; ma ben presto si consacrò alla letteratura. Nel 1844 apparve una prima raccolta di poesie, A Year’s life; nel 1845 un poema ben conosciuto, The Vision of Sir Launfal; nel 1848 A Fable for critics. I Biglow Papers, cominciati a pubblicarsi nel 1846 e continuati durante la guerra fra gli stati (1861-65), sono una satira mordace delle condizioni politiche contemporanee, scritta nel dialetto yankee; combattono specialmente la schiavitù negli stati meridionali. Nel 1855 il L. cominciò a insegnare a Harvard le lingue e letterature moderne, succedendo al Longfellow. Dal 1877 al 1880 servì come ministro americano in Spagna, dal 1880 al 1885 in Inghilterra. Conosceva molto bene la cultura europea, che diffuse presso gli Americani, dando incremento alle relazioni culturali specialmente con l’Inghilterra. I saggi critici su autori inglesi, francesi, tedeschi, vennero raccolti dopo il 1870 in diversi volumi: Among my books, My study windows, ecc. Tra i saggi letterarî è notevole quello su Dante (1872). Anche alcune delle liriche (Masaccio, Villa Franca, 1859, On a portrait of Dante by Giotto) e delle prose descrittive sono d’ispirazione italiana.
Bibl.: Bibliografie di G. W. Cooke, 1906; L. S. Livingston, 1914. Biografie di F. H. Underwood, 1882; F. E. Brown, 1887; H. E. Scudder, 1901; F. Greenslet, 1905; E. E. Hale, e altri. Cfr. anche J. J. Reilly, James Russell Lowell, as a critic, 1915.
James Russell Lowell-Poeta americano
Una fantasticheria
Nella cupa e silenziosa luce del crepuscolo
il tuo spirito entra nel mio,
quando la luce della luna e delle stelle
risplende sulla scogliera e sulla foresta,
ed il tremito del fiume
sembra un fremito di gioia benevola.
Allora io mi alzo e prendo a vagabondare lentamente
verso il promontorio accanto al mare,
quando la stella della sera comincia a palpitare
attraverso le fronde striate della sequoia,
e dal basso il bonario rimbombo
delle onde proviene irregolare.
Allora io ti sento dentro alla mia anima
come un barlume di un tempo passato,
visioni della mia infanzia mormorano
la loro antica pazzia nelle mie orecchie,
sino a che la gioia della tua presenza
raffredda il mio cuore con lacrime di felicità.
Tutti i meravigliosi sogni della giovinezza –
tutta la fiera sete giovanile di elogi –
tutte le più certe speranze della maturità
che fioriscono in giorni più tristi –
gioie che mi legarono, dolori che mi incoronarono
con una ghirlanda migliore di quella d’alloro –
tutti desideri di libertà –
l’indistinto amore per il genere umano,
che vaga lontano e senza meta
come un seme alato nel vento –
gli appannati desideri e le violente scottature
di una mente non ancora ordinata –
Tutto questo, o mia amata,
e i presenti e passati sogni più felici,
nel tuo amore trovano sicuro appagamento,
finalmente resi maturi dalla verità;
fede e bellezza, speranza e dovere
si raccolgono veloci all’unisono.
E la mia natura, come un oceano,
al tuo respiro si risveglia dal torpore,
scavalla i suoi argini con pazza gioia
ed irrompe in uno spumeggiante tuono,
e poi abbassandosi, giace ritirandosi
nel tumulto che essa stessa produce!
L’Espero ardente è tramontato
dentro l’occidente tinto di pallido azzurro,
e con dorato splendore corona
la cima coperta di pini dell’orizzonte;
una pensosa quiete placa l’agitazione
della violenta nostalgia nel mio cuore.
Nel mio giardino vago sotto la luce della luna,
sotto i rami frementi,
che, come mossi da uno spirito,
ondeggiano e si curvano, sino a che piano piano
il mormorio delle onde si mischia
con il fruscio della brezza.
Il doliconice
Anacreonte dei pascoli,
ebbro della gioia primaverile!
Sotto l’echeggiante ombra dell’alto pino
io riposo e bevo il tuo canto;
la mia anima è sazia di melodie,
una sola goccia la farebbe traboccare,
così da convogliare le lacrime nei miei occhi –
Ma cosa potrebbe interessarti?
Il tuo cuore è libero come l’aria di montagna.
non ti preoccupi delle tue musiche,
poiché le sparpagli ovunque con allegria,
felice, ignaro poeta!
Su un ciuffo d’erba nella prateria,
mentre la tua amata si prende cura del nido,
tu ondeggi nella brezza che respira,
alleggerendo il tuo cuore troppo pieno
delle moltitudini di canzoni che lo colmano,
proprio come tu hai scelto di volere.
Signore del tuo amore e della tua libertà,
del festoso Maggio l’uccello più spensierato,
volgi i tuoi occhi splendenti verso di me,
e parlami come solo uno sguardo sincero può parlare –
“Qui sediamo, nel tempo d’estate,
io e la mia modesta compagna insieme;
qualsiasi cosa possano essere i tuoi saggi pensieri,
sotto quel vecchio triste pino,
noi non li valutiamo neppure un’inezia”.
Adesso, mentre lasci me e la terra sotto di te,
sbatti le ali verso il vento,
o, galleggiando lentamente prima di librarti al cielo,
aleggi sul tuo nido nascosto dalla vegetazione
e cominci a intonare la tua canzone d’amore,
diluviando piogge di musica su di esso,
e mai affaticato, ancora cinguetti
gioiosi canti di festa,
simili a ruscelli costeggiati da muschi
mormoranti attraverso gli angoli ciottolosi
durante i tranquilli giorni d’estate.
Tu riempi di felicità il mio cuore,
mi sembra di tornare ragazzo
quando ti vedo, allegro, gioioso amante,
volare sui campi appena mietuti,
con le ali frementi di gioia.
C’é qualcosa nella fioritura dei meli,
nell’erba che inverdisce e nella canzone del doliconice,
che fa ancora risvegliare dentro al mio cuore
sensazioni sopite da lungo tempo.
Per tanti, e tanti anni, io ho vagabondato,
e mi sembra di vagabondare ancora adesso,
invece di sprecare le ore a scuola da ragazzo,
quelle stesse ore che da uomo morirei per non dimenticare.
O ore che gli anziani dal cuore di ghiaccio credevano perse,
reclini con la loro testa grigia sopra i miei libri,
ancora di più apprezzo la scienza che ho assaporato
con te, tra gl’alberi ed i ruscelli,
più di tutto quello che ho imparato
dai tomi eruditi o dagli uomini inariditi dagli studi!
Natura, la tua anima era una sola con la mia,
e, come una sorella da un giovane fratello
è amata, ognuno sgorgante dall’altro,
e il mio amore era il tuo.
Non sei stata forse come una madre amorevole
che mi ristorava con la gentilezza e con il potere dell’amore,
sul cui cuore il mio palpitante cuore deponevo
e spillavo tutti i miei dolori d’infanzia,
sino a che pace e tranquillità non volavano su di me?
Non è stato un caro amico il dorato tramonto?
Non ho mai trovato gentilezza nella silente luna,
e nei verdi alberi, le cui cime ondeggiano e s’incurvano,
intonando sempre la loro dolce sommessa melodia?
Non ho mai sentito affetto nelle oscure e solenni foreste –
non ho mai sentito la voce dell’amato nelle tristi solitudini?
Sì, sì! I miei occhi non m’hanno mai ingannato,
i ciechi capi non mi hanno insegnato ad essere saggio.
Care ore! Che ancora oggi vivo,
sentendo e vedendo con le orecchie e gli occhi
dell’infanzia, voi insetti, che nell’alveare
del mio giovane cuore venivate cariche di ricchi tesori,
raccolti in campi e boschi e assolate valli, per divenire
cibo per il mio spirito nei giorni d’inverno.
Venite, venite ancora! Venite ancora!
E, come un bambino tornato a casa ancora una volta
dopo un lungo soggiorno in regioni straniere,
io riposo sopra il petto di mia madre,
sentendo la benedizione del ristoro,
e dimorando nella luce dei tempi passati.
O voi che non vivete la vera Vita,
il vostro morire non è altro che morte,
cantate la vuota fatica e le insignificanti lotte,
in un’insensata ossessione!
Uscite, vedrete il vero volto della Natura,
bevete nella grazia del suo sguardo;
guardate il tramonto, ascoltate il vento,
la cascata, il terribile tuono;
andate, adorate il mare;
allora, e solo allora, capirete
con sempre crescente meraviglia,
che l’uomo non assomiglia per nulla a voi;
andate con anima mite e umile,
e allora le scorie di voi stessi si staccheranno
dai vostri occhi – stanchi pesi
cadranno dalle vostre gravate schiene;
e voi vedrete,
con occhi rispettosi e pieni di speranza,
ardere con neonate energie,
le più grandiose opere!
James Russell Lowell-Poeta americano
La Luna
La mia anima era simile al mare
prima che fosse creata la luna,
piangeva nell’immensità indistinta,
impaurito dalla sua stessa forza,
irrequieto ed instabile.
Attraverso tutte le fenditure spumeggiava invano
intorno alla sua prigione di terra,
in cerca di qualcosa di sconosciuto,
inabissandosi senza pace e senza riposo,
perché nessuna luna era ancora sorta:
la sua unica voce era un lungo e cupo gemito
perché era solo, senza speranze,
e viveva unicamente per una inutile ricerca.
Così era la mia anima; ma quando fu piena
di così tanta inquietudine da distruggerla,
una voce bellissima
sussurrò un fioco presagio,
e fu così soave, così dolce, così sommesso,
ch’ella fu felice e sparì ogni dolore;
e, come il mare spesso giace immoto,
facendo incontrare le sue acque,
come guidate da una volontà inconscia,
ai piedi dell’argentea luna,
così giace la mia anima dentro ai miei occhi
quando tu, luna guardiana, sorgi.
E ora, quantunque le sue onde
possano turbare e risvegliare sensazioni sopite,
la forte ed eterna legge dell’Amore,
come un mentore deciso e tranquillo,
calma e naturale come il respiro,
si muove attraverso la vita e la morte.
Mezzanotte
La luna risplende bianca e silente
nella nebbia, come un’onda
di un oceano incantato,
scivola sull’immensa palude,
riversando i suoi flutti simili a spettri
dappertutto, silenziosamente.
Una incerta e siderea magia
rende tutte le cose misteriose,
e attrae il muto spirito della terra
verso i cieli bramosi, –
mi sembra di udire deboli sussurri,
e tremebonde risposte.
Le lucciole sui pascoli
vibrando corrono di qua e di là;
la severa ombra degli olmi
grava sull’erba sottostante;
e debolmente da lontano
il gallo sognante rimanda il suo grido.
Tutto appare bizzarro e mistico,
gli stessi cespugli si gonfiano,
si muovono e prendono forme meravigliose,
come stregati da un sortilegio, –
neanche i lillà sembrano più gli stessi
conosciuti così bene sin dall’infanzia.
La neve che infonde il silenzio più profondo
continua a cadere sopra ogni cosa,
così bella e serena,
eppure simile a un drappo funebre, –
come se tutta la vita fosse finita,
e il riposo fosse giunto su tutto.
O selvaggia e mirabile mezzanotte,
c’è una forza dentro di te
che rende il corpo incantato
simile ad uno spirito,
e gli dona flebili barlumi
di immortalità!
Beaver Brook
Silente riposa la collina illuminata dalla luce del sole,
mentre, per segnare il trascorrere del tempo,
l’ombra del cedro, lenta e tranquilla,
si allunga sulla sua meridiana di muschio grigio.
L’afoso mezzodì colma il calice della valle,
le foglie del pioppo ondeggiano impercettibili,
solo la piccola macina rimanda
il suo incessante ed indaffarato ronzio.
Scalando il muro dalle pietre smosse che circonda
la strada lungo gli argini del laghetto del mulino,
da sotto i tronchi dell’archeggiante cispino,
i miei passi spaventano il timido chewink.
Sotto all’ossuto sicomoro
la porta rossa del mulino lascia uscire il baccano;
l’impallidito mugnaio, impregnato di polvere,
percorre rapidamente la stanza buia al suo interno.
Qui non troverete la forza del torrente di montagna;
il dolce Beaver, figlio della tranquilla foresta,
ammassa la sua piccola brocca nel mio orecchio,
e docile attende la volontà del mugnaio.
Velocemente l’Ondina scivola lungo la corrente
senza essere udita, e, ad intervalli regolari,
allaga la lenta ruota della sua luce e della sua grazia,
mentre, ridendo, insegue il riluttante sgobbone.
Il mugnaio non si immagina a quale costo
le tremanti pietre del mulino mormorano e roteano,
né come ad ogni movimento, scuotono
bracciate di diamanti e perle.
Ma l’Estate ha rasserenato i miei occhi felici
con gocce di succo celestiale,
per mostrarmi come la Bellezza si trova
dentro ad ogni forma delle cose.
Di più: mi è sembrato di aver osservato quel fiume,
che ora si sottrae alla vista triste e offuscato,
spesso, qua e là, di sangue umano,
per far girare le laboriose ruote del mondo.
Non diversi dal mugnaio,
anche noi rinchiusi nelle nostre celle,
sappiamo quale spreco di rara bellezza
muove i macchinari di tutti i giorni.
Certamente arriverà un tempo più saggio
in cui questo eccesso di forza,
non più tetra, lenta e stupida,
si lancerà verso la musica e la luce.
In quella nuova infanzia della Terra
la vita stessa danzerà e giocherà;
il sangue fresco ridarà vigore nelle vene smorte del Tempo,
e la fatica incontrerà il piacere.
Poesia
Violetta! Dolce violetta!
I tuoi occhi sono pieni di lacrime;
Sono forse umidi,
ancora umidi,
dei ricordi del passato?
O sono forse pieni di gioia,
per questa notte così bella,
perché desiderano arrivare ai cieli più alti?
Tu sei stata l’amata della mia giovinezza,
della mia felice giovinezza,
e adesso posso vedere
nelle lacrime
tutto il passato allegro e soleggiato,
tutta la sua felicità e verità,
sempre fresca e verde in te
come il muschio nel mare.
Il tuo piccolo cuore, che grazie al tuo amore
é cresciuto ed è diventato color del cielo,
verso il quale tu sempre guardi,
può conoscere
tutti i dolori
di una speranza per quello che non ritornerà più,
tutti dispiaceri e i desideri
di questi nostri cuori che ci appartengono?
No! Non guardare
verso il cielo
con quegli occhi tristi,
non guardare con gli occhi tristi le stelle;
lascia che la mia anima insieme alla tua
prendano il colore che vogliamo,
sereni, forti, nobili,
non soddisfatti dalla sola speranza – ma divini.
Violetta! Cara violetta!
I tuoi occhi azzurri sono umidi
di gioia e d’amore per colui che ti ha mandata,
e per il senso
di felice obbedienza
che ti ha reso ciò che la Natura voleva che fossi!
James Russell Lowell-Poeta americano
Una ballata mistica
I.
La luce del tramonto si era quasi confusa
nell’incerto grigiore del crepuscolo;
una lunga nube riposava sull’orizzonte,
al di sotto della quale una stria d’un bianco azzurrognolo,
oscillava tra il giorno e la notte;
nel cielo, sopra i pini della collina,
fremeva la palpitante stella della sera,
e la luna nuova, dalle tenui forme,
fiocamente scintillante attraverso le arcate degli olmi,
riempiva il calice della memoria sino all’orlo.
II.
In una sera come questa il cuore diviene
luogo di meditazione, e a stento può distinguere
il presente dal passato,
o se la realtà esiste davvero; –
una meravigliosa nebbia incantata
serpeggia dalla nuova luna,
avvolgendo tutte le cose nel mistico dubbio,
così che quest’intero mondo sembra falso,
mentre le nostre fantasie prendono colore
da un passato della nostra vita ormai dimenticato.
III.
La fanciulla si sedette ad ascoltare il flusso
del vento d’occidente così leggero e sommesso
che a stento le foglie s’agitavano qua e là;
liberi, i suoi folti capelli dorati
si scompigliavano sul petto nudo,
splendente di fremiti candidi come la neve
nella magica luce della luna:
la brezza si alzò con frusciante crescendo,
e da lontano arrivò il profumo
da lungo tempo dimenticato di un mughetto.
IV.
La fioca luna riposava sulla collina,
in silenzio, senza pensieri o desideri,
accanto a dove sedeva la fanciulla sognante;
d’un tratto la punta della luna, come una stella,
fece affondare la striscia dell’orizzonte;
la notte era giunta al suo nero apogeo,
ed ancora la fanciulla rimaneva seduta da sola,
pallida come un cadavere sotto ai raggi di luce
ed il suo bianco petto ancora brillava
come un sogno nell’oscura mezzanotte.
V.
Arrivò il mattino limpido e sereno,
e generosamente il sole cominciò a distribuire
l’oro tra i suoi biondi capelli,
accendendoli, sino a che lentamente
si formò un’aureola intorno alla sua testa;
teneva in mano un fiore appassito,
cresciuto in terre lontane,
e, silenziosamente trasfigurata,
con i grandi occhi sereni, la testa non abbassata,
la trovarono morta.
VI.
Un giovane, quella mattina, sotto altri cieli,
sentì improvvise lacrime bruciare dentro ai suoi occhi,
ed il suo cuore traboccare di ricordi;
tutte le cose all’infuori di lui sembravano essere unite
in una strana unica fratellanza,
e da allora ebbe sempre la sensazione di
camminare nel mezzo di un incantesimo misterioso,
e da allora, impossibile conoscerne la ragione,
il suo cuore si sarebbe sempre raggelato all’odore
del suo amato mughetto.
VII.
Qualcosa era fuggito via;
degli incostanti palpiti del giorno,
attraverso fessure stellate nel suo corpo,
divennero lucenti e reali, sempre di più,
mentre sulla terra tutto era rimasto nell’oscurità;
e, attraverso quelle fessure, come in un passato,
il suo spirito interiore sopportò
amori più forti e poteri più selvaggi,
che gli portarono frutti rinfrescanti e fiori
dalle dimore e dai campi Elisi.
VIII.
Proprio sul confine labile dei sensi,
non confermato da prove concrete,
ma noto da una profonda influenza
che attraverso il nostro rozzo corpo brilla
con luce crescente e divina,
laddove i più alti pensieri possono prendere il volo
s’estende il mondo del Mistero –
e lassù nessuno prende troppo in considerazione
coloro che giudicano che nulla è reale
all’infuori dell’Invisibile incontestabile.
IX.
Un passo oltre alle cose di tutti giorni,
un battito in più delle grandi ali dell’anima,
un dolore più profondo talvolta accompagna
lo spirito in quella grande Vastità
dove non v’è futuro né passato;
nessuno sa come vi sia entrato,
ma, al risveglio, trovò i propri spiriti dove
pensava che un angelo non avrebbe potuto librarsi,
e, ciò ch’egli prima chiamava falsi sogni,
adesso è la realtà.
X.
Queste apparenti sembianze sono solo spettacoli
con cui il corpo vede e conosce;
molto più sotto, per sempre scorre
il fiume delle più sottili comprensioni
che rendono i nostri spiriti stranamente saggi
nel timore, e paurosi oscuri presagi
che, dai sensi più esteriori,
si estendono oltre il nostro raziocinio e la nostra vista,
bellissime arterie di luce circolare,
pulsate all’esterno dall’Infinito.
Ad un pino
Torreggi sulla cima del Katahdin,
grande e d’un azzurro violetto tu appari da lontano;
come una nuvola sopra le terre più basse ti chini,
sicuro rimani aggrappato, cullato dalla tempesta,
non hai paura d’essere da lei abbattuto.
Nella bufera, come un profeta impazzito,
ti dimeni e fai cantare i tuoi rami;
il tuo cuore si rallegra con il terrore,
presagisci le terribili valanghe,
quando intere montagne precipitano verso le valli.
Con pazienza tu tendi gli impluvi
con le tue braccia, come se implorassero benedizioni,
come un vecchio re portato fuori dal suo palazzo,
mentre il suo popolo si riversa a combattere
la città da lui governata.
Al taglialegna che dorme sotto la tua ombra
tu intoni selvagge melodie,
fino a che egli non vorrà essere trasportato
nelle tende degli Arabi dell’oceano,
le cui isole alla deriva sono il loro bestiame.
La burrasca ti afferra e ti rende la sua lira,
e con mano delirante scortica una delirante armonia,
mentre scarica il suo possente desiderio
di lanciarsi sul grande Atlantico,
ch’estende le braccia verso il suo compagno di gioco.
La selvaggia tempesta si rintana tra i tuoi rami,
e da là devasta il continente sottostante;
come un leone in attesa della preda,
è là che il feroce tuono attende di balzare fuori,
di tanto in tanto grugnendo impaziente.
A disprezzo dell’inverno tu conservi la tua verde gloria,
tu, vigoroso padre degli antichi Titani!
Solo i fiocchi di neve ti ingrigiscono,
accoccolandosi e addormentandosi tra le tue frasche,
ed ammantandoti in silenzio.
Tu solo conosci lo splendore dell’inverno,
tu, che tra le nevi argentate, i precipizi ammutoliti,
ascolti gemere e frantumarsi guglie di ghiaccio verde,
e poi crollare nei velati abissi
nella quiete della mezzanotte.
Tu solo conosci la gloria dell’estate,
quando guardi l’immenso mare delle foreste
che rimandano il loro orgoglioso mormorio
verso di te, verso il loro capotribù, che torreggia
dal tuo brullo trono verso il cielo.
L’amante
I.
Gira il mondo da Oriente a Occidente,
cerca in ogni nazione sotto il cielo,
non troverai mai un uomo così benedetto,
un re così potente come me,
neppure se cerchi per l’eternità.
II.
Io sono un dolce amante,
seduto accanto alla mia amata:
lei mi ha dato tutta la sua anima
senza un solo desiderio o un pensiero di superbia,
e diventerà la mia amatissima moglie.
III.
Non fa mai mostra di sfarzo,
non si fa vedere con gioielli rari;
in bellissima semplicità
veste leggiadre ghirlande di foglie,
intreccia modesti fiori fra suoi capelli.
IV.
Talvolta indossa una gonna verde,
talvolta una gonna bianca come la neve,
ma, comunque si vesta,
sembra sempre la più bella e la più onesta,
e al mio sguardo la più incantevole.
V.
Né io sono il suo unico amante,
lei ama tutti indistintamente,
ma non ne sono geloso, perché tutti
leggono amore e verità dentro ai suoi occhi,
e la stimano all’altezza di un monile prezioso.
VI.
Tu sei così, Eterna Natura!
Sì, sposa del Cielo, tu sei così;
ami tutte le creature,
doni a tutte una parte importante nel creato,
riempiendo di pace ogni cuore.
Il poeta
Colui che ha sentito il mistero della Vita
schiacciarlo come una notte cupa,
la cui anima non ha conosciuto altro
se non la sofferenza; –
colui che ha visto forme confuse sollevarsi
dalle profondità silenti dello spirito
e fissarlo con sguardo espressivo
pieno di speranza,
eppure non in grado di proferire neppure una parola,
sebbene egli preghi tutta la notte che riescano,
“salvatemi, salvatemi! Sono malato,
e voi siete così meravigliosamente forti”! –
Colui che, nella mezzanotte più tetra e cupa,
ha sentito la voce della potenza
irrompere echeggiando tra le sale del sonno
nel solitario cuore della Notte,
e, dal suo giaciglio insonne,
ha guardato e ha pianto perchè desiderava sapere
cosa voleva dire quell’oracolo
che ha reso il suo essere così affranto;
colui che ha sentito quanto possente e grande
sia l’Anima dell’uomo,
e non ha abbassato lo sguardo davanti al Destino,
da cui la Vita e il Pensiero derivano;
la cui armatura di questa fiducia immobile
non conosce debolezze,
colui che ha calpestato e gettato la paura nella polvere
sotto i piedi dell’umiltà; –
colui che in pace con se stesso ha portato la sua croce,
riconoscendosi come il re
del suo tempo, e non ha considerato uno spreco
imparare tramite la sofferenza; –
e colui che ha adorato la donna
con animo puro e modesto,
e non ha mai profanato il suo sacro tempio
né con le azioni né con il pensiero –
Questi è il Poeta, colui al quale
é stato dato il dono della poesia,
la cui vita è sublime, forte e vera,
e che non è mai caduto dal Cielo;
il Poeta, che grazie alle sue labbra
egli vive per l’eternità,
maestose come le navi in alto mare,
le parole della Saggezza egli sparge.
Il pastore di re Admeto
Visse un giovane sulla terra,
migliaia di anni fa,
le cui mani delicate non erano buone a nulla,
né ad arare, né a mietere il grano, né a seminare.
Sopra un grande guscio di tartaruga
distese alcune corde, e da quelle attinse
una musica che scaldava i cuori degli uomini,
o che colmava di lagrime i loro occhi.
Re Admeto, che invero
aveva un buon gusto,
decretò che le sue melodie non fossero così cattive
da esser ascoltate tra un bicchiere di vino e l’altro:
così, molto ben disposto perché dolcemente accompagnato
in un dolce dormiveglia,
tre volte si lisciò la regale barba,
e lo nominò vicerè del suo ovile.
Le parole del giovane erano semplici parole,
ed anch’egli le usava solo come parole,
ma quelle che dalle altre bocche uscivano ruvide
dalla sua bocca uscivano ritmiche e dolci.
Il volgo lo considerava un incapace,
non vedeva nulla di buono in lui;
tuttavia, inconsapevolmente,
accettarono comunque le sue parole come legge.
Non sapevano come avesse imparato quest’arte,
perché in ozio, ora dopo ora,
non faceva altro che guardare le foglie morte cadere,
o meditare su un fiore.
Sembrava che la bellezza delle cose
gli avesse insegnato il loro uso,
poiché, anche nelle semplici erbe, nelle pietre, nelle brezze,
egli trovava un potere ristoratore.
Gli uomini ritenevano che il suo eloquio fosse saggio,
ma, quando notavano un cenno
di grazia delicata e i suoi occhi effemminati,
questi ridevano, e lo chiamavano buono a nulla.
Eppure, dopo che lasciò questa vita,
e perfino dopo che la sua memoria venne offuscata dal tempo,
la terra sembrò un luogo più dolce dove vivere,
più colma d’amore, grazie a lui.
E giorno dopo giorno diventava sempre più venerato
ogni singolo luogo in cui era passato,
sino a che i poeti riconobbero
questo primo fratello come loro dio
James Russell Lowell-Poeta americano
La betulla
Scorre la luce del sole attraverso i tuoi rami che si muovono,
in mezzo alle tue foglie in eterno palpitanti;
Ovidio ha imprigionato dentro te una Ninfa piangente,
anima d’un antico tremulo fiume interno,
che guizzante narra le sue sventure, che rimangono inascoltate.
Mentre tutta la foresta, incantata dall’assonnata luce della luna,
oscilla le sue foglie nel felice silenzio,
in attesa della rugiada, sospesa tra respiro e ansia, –
ascolto da lontano le tue sussurranti e fioche foglie,
e seguo le tue tracce nell’oblio.
Sulle sponde di un laghetto addormentato in mezzo alla foresta,
il tuo fogliame, come le ciocche d’una Driade,
gocciola intorno al tuo bianco e magro fusto, la cui ombra
degrada tremante lungo le oscure e quiete acque,
mentre tu fuggi verso la fonte come una Driade spaventata.
Tu sei l’intermediaria degli amanti di campagna;
la tua candida corteccia trattiene in sé i suoi segreti;
Reuben scrive qui il propizio nome della Pazienza,
ed i tuoi rami flessuosi mormorano e piangono
sopra di lei, che sugge il mistero dalla tua scorza.
Tu sei per me come la mia fanciulla adorata,
così schiettamente ritrosa, piena di tremanti confidenze;
a fatica riesci a fare ombra, le tue foglie scalpiccianti
cospargono sui miei sensi il bagliore del sole che hanno raccolto,
e la Natura mi dona tutte le sue estive intimità.
Sia che il tuo cuore tremi per la speranza o per il dolore,
tu per sempre rimani in armonia; selvaggio ed inquieto
io giaccio sotto di te; il tuo dondolio, come un fiume,
scorre verso valle, dove si estende il regno della pace, e dove
il mio cuore galleggia nella terra della tranquillità.
La serenata
Gentile Signora, sia il tuo sonno sereno,
siano i tuoi sogni tranquilli,
mentre la tua anima accompagna
sulle ali delle chimere la nostra melodia;
Fratelli, noi cantiamo, triste e sommessa,
la nostra canzone dolce e umile,
simile alla voce degli anni che furono,
lascia che i nostri cuori si uniscano
alla sua soavità, come quando sentiamo
cadere le lacrime della nostra mamma.
Signora! La nostra canzone sta riportando
indietro il tempo alla tua giovinezza –
riesci a sentire l’ape che canta
e ronza in mezzo ai fiori?
Sonnolenta, sonnolenta,
nel sole del mezzodì ella continua il suo volo,
si posa sui teneri gambi
che fanno da confine ai ben noti giardini;
riesci a sentire l’intermittente frullio
delle invisibili ali del colibrì –
non ti riempie il cuore l’emozione
delle cose quasi dimenticate dell’infanzia?
Riesci a vedere la cara vecchia casa
con il vincibosco intorno alla porta?
Fratelli, piano! Il suo cuore si sta riempiendo
dei laboriosi pensieri del passato;
umilmente canta, teneramente canta,
ospita il suo spirito non più così selvaggio,
lascia che non dorma più.
Questo è il delizioso tempo d’estate,
spalancata rimane la finestra –
Signora, ti stai imbevendo di quelle voci?
Chi sta cantando queste splendide melodie,
che aumentano e poi d’un tratto diminuiscono,
come la canzone del tordo a Giugno?
Di chi è quella risata che risuona così limpida
e gioiosa nel tuo orecchio bramoso?
Più piano, fratelli, ancora più piano
ordite la canzone in intricati intrecci;
ella ora ascolta il soffio del vento d’occidente,
alla sera attraverso quel bosco di pini;
oh! Lamentosa è la loro melodia,
come di un oggetto impazzito
che, solo,
sussurra eternamente,
attraverso la notte e attraverso il giorno,
qualcosa che è passato per sempre.
Spesso, Signora, tu hai ascoltato,
spesso i tuoi occhi azzurri hanno luccicato,
dove la brezza estiva della sera
piangeva triste attraverso quelle foreste solitarie,
quando il vento fiero che viene dal nord
distorceva la loro musica lamentosa.
Sempre il fiume scorreva
come un flusso ininterrotto,
sempre il vento d’occidente soffiava,
mormorando al suo passaggio,
e mescolandosi con i suoi sogni;
il fiume scorreva sempre
con quel suono d’antico e passato;
piano, Fratelli, piano! Ella piange,
non è più sola;
forme amate e visi delicati
s’affollano intorno al suo cuscino,
in quei luoghi deserti della memoria
fluttuano le acque della nostra canzone.
Signora! Se la tua vita è sacra
come lo era quando eri una bambina,
sebbene la nostra canzone sia melanconica,
non susciterà più alcuna angoscia;
perché l’anima che ha vissuto bene,
perché l’anima simile a quella di un bambino,
è tranquilla nella sua magia
che riporta indietro ai primi ricordi.
La quercia
Che nodosa ampiezza, che profonda ombra, è la sua!
Non c’è bisogno di corone per riconoscere la regina del bosco!
Guarda come offusca con le sue foglie l’estasi estiva!
Sole, bufera, pioggia, rugiada, le tributano i loro onori,
che lei con tale benigna regalità
accetta, come se ripagasse ciò che gli è fu prestato;
tutta la natura sembra essere orgogliosa sua vassalla,
e solo grazie a lei leggiadra nei suoi ornamenti.
Guarda come troneggia tra i cumuli di neve rigonfi,
in indomabile esilio dal trono d’estate,
la cui pianura senza confini mostra ancor più regalità,
ora che le sue foglie cortigiane sono volate via.
I suoi rami mettono in musica il vento dell’inverno,
ornati dal nevischio, come la facciata d’una cattedrale
dove i fiocchi di neve riparano con bizzarra arte
i segni ed i solchi del tempo invidioso.
Guarda come la sua paziente forza persuade il rude
vento di Marzo ad esalare piacevoli brezze d’estate,
guarda come induce il suolo, altrimenti mal disposto,
ad aumentare i suoi regali con orgoglio!
Ella è la gemma; e tutto il paesaggio
(così la sua grandeur isola i sensi)
sembrerebbe solo lo scenario d’un tutto senza valore,
un bicchiere vuoto, se lei dovesse morire.
Così, di fronte alle bufere invernali della vita,
gli uomini dovrebbero imparare come avvinghiarsi
alla terra che infonde vigore; – come altrimenti sfruttare
la linfa generatrice di foglie che germoglia dal sole?
Così ogni anno che muore con le sue scaglie silenti
riempie le vecchie cicatrici sul lato più antico,
e rende l’età canuta riverita come l’età della salute,
un’epoca di orgogliosa e fronzuta giovinezza.
Così dal suolo tormentato da un destino iracondo,
i veri cuori spingono la linfa a svilupparsi più robusta,
e così tra terra e cielo rimangono sempre grandiosi,
sempre più simili ai loro predecessori;
perché le forze della natura con obbediente zelo
aspettano la fede ben radicata e la volontà della quercia;
percepiscono velocemente la frode dell’ingannatore,
e costringono gli Spiritelli a deriderlo e sbeffeggiarlo.
Signora! Tutte le tue opere sono lezioni, e tutte hanno
l’emblema dell’animo umano;
l’uomo renderà infruttuose tutte le tue gloriose pene,
scavando nella sua graziosa mole senza occhi?
Rendimi l’ultimo del boschetto di Dodona,
rendimi messaggero della tua verità,
dimmi una sola parola, non lasciare che il tuo amore
disdegni di posarsi tra i miei rami e di cantare per te.
Si laurea ad Harvard nel 1838, in legge, ma ben presto si dedica alla passione poetica, pubblicando nel 1841 la sua prima raccolta di poesie.
Impegnato con la moglie, Maria Bianca, nello sviluppo dell’abolizionismo della schiavitù negli Stati Uniti, utilizza la poesia come veicolo di lotta per informare ed educare il pubblico.
La sua opera in versi La Fable for Critics (Favola per i critici, 1848), è incentrata su giudizi critici profondi sui maggiori scrittori contemporanei; invece The Biglow Papers (Il carteggio Biglow), manifestò la disapprovazione dell’autore per la guerra con il Messico.
Sergio Rostagno-Una nuova esistenza oltre la vergogna – l’ultimo libro di Marco Bouchard-
Articolo di Sergio Rostagno-Il libro di Marco Bouchard* si presenta come composto di due parti. Il tema è la vergogna, che a volte si prova, che significato ha e come reagire. Nelle prime 80 pagine l’autore (magistrato emerito che conosce bene le situazioni umane dello scacco e le indebite e ingiuste soluzioni che a volte la società presenta) ci aiuta a esaminare da vicino il senso personale di vergogna che ciascuno prova involontariamente, specie nell’adolescenza. Per di più ne abbiamo appunto vergogna e ne soffriamo senza trovare la via d’uscita.
M. Bouchard, La vergogna del giusto e dell’ingiusto. Storia e pensieri di un’emozione inattuale.
Nello stesso tempo noi, poco alla volta, riusciamo a addomesticare la vergogna nel corso del nostro auto-riconoscimento e l’autore può sottolineare l’importanza di questa scuola che la vita ci offre malgrado tutto. La vergogna fa parte di noi stessi, del nostro auto-riconoscimento e della nostra sensibilità personale, nell’ingiusto e nel giusto. È giusto provare vergogna (specie di fronte a fatti che fanno inorridire); è invece ingiusto colpevolizzarci e quasi compiacersi di non riuscire a vincerla.
Nei successivi capitoli l’autore esamina “giusto e ingiusto” sotto forma di negazione e superamento della negazione.
L’autore ragiona sulla vergogna e ci aiuta a trovare il meglio della vergogna. Come si passa dalla vergogna a una ammissione di colpa? L’autore crede nella possibilità di uscire dalla vergogna ed è interessante notare come riesce a farlo.
Contro la vergogna non funziona la riparazione e non si parla di espiazione. Riparazione ed espiazione restano nella zona del compromesso e peggiorano la situazione. Si esce invece da una condizione opprimente e si arriva a respirare un’aria diversa quando si volta pagina completamente. Questo è il messaggio principale del libro. La soluzione (alla quale sono dedicati diversi capitoli e lucidi esempi di letteratura e cinema) è concepita come una possibilità nella quale bisogna comunque sperare e credere.
Non, dunque, sfruttamento della vergogna in senso penitenziale o al fine di espiazione, ma rovescio di posizione. L’autore ne dà diversi esempi con casi realmente successi, secondo lui al di fuori del normale, perché indicano e aprono un nuovo cielo e una nuova terra. Questa realtà nuova si schiude da sé, senza che le istituzioni sociali o la cosiddetta vita normale vi siano propizie o propense. Da qui nasce una prospettiva nuova.
A penitenza, suicidio o espiazione, come esito della vergogna, l’autore contrappone una nuova esistenza fatta di episodi inaspettati che si producono forse per un sussulto di umanità che trova lo spazio attraverso le istituzioni e le volontà avverse. Tra gli esempi anche quello del miglioramento della vita nel carcere.
Un grande tema umano e un grosso tema filosofico e religioso, quello della negazione e del suo rovesciamento. Tema umano e teologico allo stesso tempo. La positività emerge senza che noi ne sappiamo dare una ragione. Succede che ne possiamo afferrare la possibilità e con questa alla fine sfruttiamo al meglio anche la vergogna e la governiamo con un esito limpido, psicologicamente e socialmente positivo. Che l’essere umano possa alzare le vele, quando soffia il vento dello Spirito.
* M. Bouchard, La vergogna del giusto e dell’ingiusto. Storia e pensieri di un’emozione inattuale. Torino, Bollati Boringhieri, 2025, pp. 157, euro 14.
Fonte-Riforma.it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste
Luciano Canfora, Eric Hobsbawm, Marx e i suoi scolari-Stilo Editrice
Descrizione del libro di Luciano Canfora, Eric Hobsbawm-Circa venti anni addietro, il grande storico britannico Eric Hobsbawm pubblicò un’ampia voce biografica su Karl Marx nell’Oxford Dictionary of National Biography. Questo scritto, che rispecchia la riflessione più matura di Hobsbawm sulla figura e sul pensiero di Marx , segna, nonostante la brevità, un passo avanti e, si potrebbe dire, conclusivo nell’ambito della riflessione di lunga durata dedicata da Hobsbawm alla figura di Marx. Il testo è preceduto da una ricerca di Luciano Canfora incentrata sulle indicazioni politiche operative lanciate in modo discontinuo da Marx durante la sua lunga militanza, e soprattutto durante il lungo esilio. Ciò che viene qui messo in evidenza è il peso costituito dalla rilettura che Engels diede di quelle indicazioni sommarie e discontinue: rilettura che determinò il modo di essere e di condurre la propria azione politica da parte della socialdemocrazia europea e tedesca in particolare. Al termine di questa vicenda vi è lo scontro durissimo tra gli eredi di Engels e l’emergente leninismo. Un’attenzione particolare viene dedicata all’esito italiano di questo scontro, imperniato sulla originalità, sanamente eretica dei maggiori esponenti del marxismo italiano Gramsci e Togliatti.
Biografia degli autori
Luciano Canfora è professore emerito dellʼUniversità di Bari. Dirige i «Quaderni di storia» e collabora con il «Corriere della Sera». Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo: La meravigliosa storia del falso Artemidoro (Sellerio, 2011); Il mondo di Atene (Laterza, 2011); Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno, 2012); Spie, URSS, antifascismo. Gramsci 1926-1937 (Salerno, 2012); La guerra civile ateniese (Rizzoli, 2013); La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone (Laterza, 2014); Augusto. Figlio di dio (Laterza, 2015); Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio (Laterza, 2016); La schiavitù del capitale (il Mulino, 2017).
Eric Hobsbawm (1917-2012), già docente a Cambridge (King’s College, Birkbeck College), è stato il maggiore storico del socialismo e dell’Europa otto e novecentesca. Tra le sue pubblicazioni: Il secolo breve (Rizzoli, 1995), Storia d’Europa, vol. I, L’età contemporanea. Secoli XIX-XX (Einaudi, 1996), Gente che lavora. Storie di operai e contadini (Rizzoli, 2001), Imperialismi (Rizzoli, 2007), La fine della cultura (Rizzoli, 2013). Ha diretto l’ampia e polifonica Storia del marxismo per Einaudi.
Descrizione del libro di Corrado Calabrò-Con questo volume di poesie scelte, Corrado Calabrò consegna al lettore un’opera antologica importante e nuova, organizzata in sezioni che gettano luce sui temi fondamentali della sua sessantennale attività di scrittura: un autoritratto poetico da cui emerge la forte consapevolezza raggiunta con la piena maturità espressiva, capace di stabilire rapporti profondi fra testi nati in momenti diversi della vita. Il mare, l’astrofisica e l’amore risultano gli elementi cardine intorno ai quali ruota il pensiero emozionale del poeta, tenuti insieme dall’energia che dà forma alla salda pronuncia del dettato, tra classico e sperimentazione, nella variabilità di forme che spaziano dal poemetto all’epigramma. «La vera originalità del Calabrò» ha scritto Carlo Bo nel 1992, individuando uno dei motivi centrali dell’intera sua opera «sta nell’essersi staccato dai modelli comuni per inseguire una diversa sperimentazione poetica… Ha cantato non il suo mare, ma piuttosto l’idea di un mare eterno e insondabile.» Accompagnano le poesie due significative riflessioni d’autore. La densa postfazione, intitolata C’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia, oggi?, costituisce un bilancio dei multiformi interessi e della passione profusa da Calabrò nel fare poesia; l’altra nota è invece dedicata al poemetto Roaming – apparso per la prima volta nel volume La stella promessa del 2009 e ora posto in apertura di questo libro – che rappresenta forse l’opera più suggestiva di Calabrò. Dopo duemila anni dal De rerum natura di Lucrezio, infatti, l’astrofisica è tornata ad essere, in forma onirica, materia di poesia.
Breve biografia di Corrado Calabrò è nato a Reggio Calabria. Al primo volume di poesie, scritto tra i diciotto e i vent’anni, Prima attesa (1960), sono seguite molte altre raccolte, tra cui Agavi in fiore (1976), Presente anteriore (1981), Rosso d’Alicudi (1992), Una vita per il suo verso (2002), La stella promessa (2009), T’amo di due amori (2010). Numerose sono le edizioni straniere delle sue poesie in una ventina di lingue e le trasposizioni teatrali e musicali dei suoi versi. Col romanzo Ricorda di dimenticarla (1999) è stato finalista al premio Strega e ha ispirato il film Il mercante di pietre di Renzo Martinelli. Per la sua opera poetica ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero, tra cui due lauree honoris causa.
Città di Latina- Allo Spazio COMEL la collettiva degli artisti della Biennale Internazionale di Arad-
Città di Latina-31 marzo 2025-Un altro appuntamento di grande spessore arriva allo Spazio COMEL: nel mese di aprile sarà ospitata la collettiva degli artisti della Biennale Internazionale di disegno della città di Arad, in Romania.
La Biennale Internazionale di disegno di Arad è una prestigiosa manifestazione che si tiene da oltre 50 anni in questa cittadina della Romania e valorizza il disegno e le tecniche tradizionali, sottolineando l’importanza della gestualità nell’arte contemporanea. A ogni edizione una giuria di esperti seleziona le opere più meritevoli provenienti da tutto il mondo. Le opere selezionate per l’edizione 2024, che si è tenuta da ottobre a dicembre scorsi, arrivano ora a Latina.
Città di Latina- Spazio COMEL collettiva Internazionale di Arad
Città di Latina- Spazio COMEL collettiva Internazionale di Arad
Città di Latina- Spazio COMEL collettiva Internazionale di Arad
In esposizione allo Spazio COMEL 25 opere su carta realizzate con varie tecniche: dalle matite al carboncino, dagli acquerelli al mordente in una complessità di espressioni, soggetti e linguaggi che sapranno affascinare l’osservatore.
La mostra, che gode del patrocinio del Comune di Latina e dell’Unione degli Artisti di Arad, sarà inaugurata sabato 5 aprile e rimarrà aperta al pubblico tutti i giorni dalle 17 alle 20 fino a sabato 19 aprile.
In esposizione le opere di: Anamaria Șerban, Adrian Sandu, Delia Brândușescu, Maria Furnea, Linda Barkasz, Vasile Sandu, Michael Wieczorek, Iulian Matei, Corina Stoica, Emanuela Hrițcu, Iosif Stroia, Elena Stoinescu, Ioan Kett Groza, Zoltan Steinhubel, Margareta Simo, Liviu Leonte, Kocsis Rudolf, Hajnalka Siska Szabo, Călin Lucaci, Diana Bota, Sofia Klemenco, Ondina Turturică, Maria Odry, Petronela Veliciu, Luca Popa.
Oltre il segno: il disegno contemporaneo
Mostra collettiva degli artisti della Biennale Internazionale di Disegno di Arad
a cura di Adrian Sandu, Anamaria Șerban e Massimo Pompeo
Spazio COMEL Arte Contemporanea – Via Neghelli, 68 Latina
Inaugurazione sabato 5 aprile ore 18.00
INFO:
Oltre il segno: il disegno contemporaneo
Mostra collettiva degli artisti della Biennale Internazionale di Disegno di Arad
Evento promosso da Maria Gabriella e Adriano Mazzola
Mostra a cura di Adrian Sandu, di Anamaria Șerban e Massimo Pompeo
Dal 5 al 19 aprile 2025
Tutti i giorni dalle 17.00 alle 20.00
Spazio COMEL Arte Contemporanea, Via Neghelli 68 – Latina
Viviamo d’un fremito d’aria,
d’un filo di luce,
dei più vaghi e fuggevoli
moti del tempo,
di albe furtive,
di amori nascenti,
di sguardi inattesi.
E per esprimere quel che sentiamo
c’è una parola sola:
disperazione.
Dolce, infinita, profonda parola.
Vaga e triste è degli uomini la sorte:
degli uomini che passano
con non maggior fragore d’una foglia
che si tramuta in terra.
Precario stato il loro.
La morte è uno sciogliersi,
non un finire,
e senza tempo, senza memoria
il terrestre viaggio.
Il sole è stanco di contemplare
una tanto monotona vicenda.
Così parlava un monaco
neghittoso e bizzarro,
là, nell’antico Oriente:
piccolo uomo assediato
da immani fantasmi.
O gioventù, innocenza, illusioni,
tempo senza peccato, secol d’oro!
Poi che trascorsi siete
si costuma rimpiangervi
quale un perduto bene.
Io so che foste un male.
So che non foco, ma ghiaccio eravate,
o mie candide fedi giovanili,
sotto il cui manto vissi
come un tronco sepolto nella neve:
tronco verde, muscoso,
ricco di linfa e sterile.
Ora che, esausto e roso,
sciolto da voi percorsi in un baleno
le mie fiorenti stagioni
e sparso a terra vedo
il poco frutto che han dato,
ora che la mia sorte ho conosciuta,
qual essa sia non chiedo. Così rapida
fugge la vita che ogni sorte è buona
per tanto breve giornata.
Solo di voi mi dolgo, primi inganni.
POESIE.
Vincenzo Cardarelli
Editore: Mondadori, Milano, 1942
Prima edizione, 25 aprile 1942. Un volume (20 cm) di 132 pagine. Prefazione di Giansiro Ferrata
POESIE.
Vincenzo Cardarelli
Editore: Mondadori, Milano, 1942
Prima edizione, 25 aprile 1942. Un volume (20 cm) di 132 pagine. Prefazione di Giansiro Ferrata
Il bosco di primavera
ha un’anima, una voce.
È il canto del cuccù,
pieno d’aria,
che pare soffiato in un flauto.
Dietro il richiamo lieve,
più che l’eco ingannevole,
noi ce ne andiamo illusi.
Il castagno è verde tenero.
Sono stillanti persino
le antiche ginestre.
Attorno ai tronchi ombrosi,
fra giochi di sole,
danzano le amadriadi.
L’autunno romano tempesta
con furia senile.
E’ Giove che si cruccia
di non poter risplendere
in tutta la sua gloria,
dio irragionevole e antico.
E tuona con fragore
di mobili in isgombero,
lampeggia con improvvise
accensioni di lampadina,
rinnovando in autunno i suoi capricci
primaverili,
e gli alberi si illudono
di rinverdire.
Nume violento e spossato
che, al dolce tempo restio,
poi che passò l’estate
nel caos ci precipita,
per farci rivedere la sua faccia,
di là da questo diluvio,
insostenibilmente luminosa.
Io pago tutto.
Non c’è peccato
ch’io non abbia finora
debitamente scontato.
Ho un organismo vitale
che vuole, contrariamente
al Diavolo di Goethe,
vuole il Bene e fa il Male.
Pensate quale puntualità
e che liste di conti da saldare.
Ai messi del Signore
l’uscio della mia casa è sempre aperto.
E spesso delle loro intimazioni,
prevenendole,
io stesso senz’attenderli
mi faccio esecutore.
Sì che quand’essi giungono
ritto sull’uscio li fermo
e li rimando dicendo:
Amici, sono anch’io
cursore e complice di Dio.
Che dunque venite a fare
se il debito è già pagato ?
Forse è perciò che una donna cattiva
suole dire celiando
ch’io sono un santo e innanzi di morire
farò miracoli.
Talvolta infatti io mi vedo come uno
di quei poveri santi
che sulle tele delle sacrestie
stanno in adorazione della Vergine,
inutilmente aspettando
un suo sguardo.
Ma vi dico, in verità,
che volentieri darei, se pur l’avessi,
una tanto gloriosa vocazione
per un poco d’allegra umanità.
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s’accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale.
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.
Che cosa mi colpisce oramai!
Un velo d’ombra di mare
sui monti lontani,
un lembo di nuvola tutelare.
Ma basta levare la testa.
Le cose non stanno che a ricordare.
Piano piano i minuti vissuti,
fedelmente li ritroveremo.
Coraggio, guardiamo.
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei così m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
più e più insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, più per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
Quel fatale e prescritto momento
che ci diremo addio
è già in ogni distacco
del tuo volto dal mio.
Cosa lieve è il tuo corpo!
Basta che io l’abbandoni per sentirti
crudelmente lontana.
Il più corto saluto è fra noi due
un commiato finale.
Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo
così, senza speranza.
Se tu sapessi com’è già remoto
il ricordo dei baci
che poco fa mi davi,
di quel caro abbandono,
di quel folle tuo amore ov’io non mordo
che sapore di morte.
La vita io l’ho castigata vivendola.
Fin dove il cuore mi resse
arditamente mi spinsi.
Ora la mia giornata non è più
che uno sterile avvicendarsi
di rovinose abitudini
e vorrei evadere dal nero cerchio.
Quando all’alba mi riduco,
un estro mi piglia, una smania
di non dormire.
E sogno partenze assurde,
liberazioni impossibili.
Oimè. Tutto il mio chiuso
e cocente rimorso
altro sfogo non ha
fuor che il sonno, se viene.
Invano, invano lotto
per possedere i giorni
che mi travolgono rumorosi.
Io annego nel tempo.
Al bar della stazione ci fermiamo tutti per un caffè. Se viaggiando nel tempo fino, ci fossimo fermati alla stazione di Corneto Tarquinia, negli ultimi anni dell’Ottocento, avremmo scambiato due chiacchiere con un certo Antonio Romagnoli. Magari ci avrebbe dato qualche informazione sugli orari dei treni; magari avremmo scambiato qualche chiacchiera in modo distratto, sul governo o sul tempo.
Intanto avremmo visto un bambino giocare da qualche parte e quel bambino è il figlio illegittimo di Antonio Romagnoli e di Giovanna Caldarelli. E quel bambino, di nome Nazareno, nato sfortunato per via di una menomazione al braccio sinistro, nato già solo in un mondo che sembra non avere troppo posto per lui, quel bambino è un poeta, uno di quelli bravi davvero.
Cambierà nome e sarà Vincenzo Cardarelli il poeta che più di tutti ha cantato l’incanto dell’amore, della giovinezza, dell’adolescenza e come il tempo possa travolgerci.
La vita di Vincenzo Cardarelli
Vincenzo Cardarelli (nato Nazareno Caldarelli) nasce nel 1887 in una famiglia di umili condizioni, a Corneto Tarquinia (Viterbo) dove un tempo splendeva la civiltà etrusca: il padre gestisce il bar della stazione ferroviaria e ha una relazione con Giovanna Caldarelli, che ne resta incinta.
Nazareno è un figlio illegittimo e per la madre è difficile riuscire a tirarlo su. Dopo le scuole elementari, lascia gli studi e a diciassette anni si trasferisce a Roma trovandosi a fare i mestieri più vari, ad esempio il correttore di bozze per il giornale l’«Avanti». Era il primo contatto con il mestiere di giornalista che avrebbe iniziato proprio con quel giornale.
La rivista letteraria La Ronda
La sua carriera giornalistica fu intensa in quegli anni e furono molte le collaborazioni di Cardarelli con altri giornali come «Il Marzocco», «Il Resto del Carlino», ecc.
Non partecipò alla prima guerra mondiale poiché riformato e passò invece di città in città (Firenze Venezia, Milano, Lugano…) per poi tornare a Roma dove fu tra i fondatori e direttori della rivista letteraria «La Ronda», di cui fu anche il maggiore esponente e teorico.
La morte
Fu il momento di massima gloria per il poeta, perché poi, nonostante altre importanti collaborazioni, finì mano a mano sempre più isolato e lontano dai riflettori.
Morì in solitudine a Roma nel 1959. È sepolto a Tarquinia, per sua volontà, davanti ai luoghi della civiltà etrusca da lui tanto amata e più volte evocata poeticamente.
VINCENZO CARDARELLI
L’esperienza de «La Ronda» per un ritorno all’ordine
Parlare di Cardarelli richiede una doverosa premessa sulla rivista «La Ronda» e sugli ideali letterari da essa proposti. Dopo gli squilibri e le esagerazioni del Futurismo, dopo la febbre di cambiamento sfociata nella grande guerra, ecco che si avverte l’esigenza di tornare all’ordine e all’armonia.
Roma si candida a nuovo centro della letteratura italiana, scalzando idealmente Firenze (dove erano state fondate le riviste la «Voce» e «Lacerba»).
La rivista «La Ronda», uscita per la prima volta nell’aprile del 1919, con la sua bella copertina color mattone e il disegno di un tamburino che chiama a raccolta, si impone di ritrovare l’ordine perduto e recuperare la misura e l’equilibrio del mondo classico, perseguendo una ricerca stilistica capace di rispecchiare sia l’eleganza e la concretezza della forma, sia la profondità intellettuale.
Antonio Baldini (1889-1962), scrittore, giornalista e saggista italiano, co-fondatore della rivista ‘La Ronda’. Roma, 1950 circa — Fonte: getty-images
Soprannomi dei fondatori
Sono sette i redattori e co-fondatori della «Ronda»: Riccardo Bacchelli (1891-1985), Antonio Baldini (1889-1962), Bruno Barilli (1880-1952), Vincenzo Cardarelli (1887-1959), Emilio Cecchi (1884-1966), Lorenzo Montano (alias Danilo Lebrecht, 1880-1952) e Aurelio Emilio Saffi, segretario di redazione.
I fondatori si chiamano anche «i sette savi» o «i sette nemici» e ciascuno ha un soprannome ironico. Antonio Baldini è Margutte, il celebre goliardo mezzo-gigante che troviamo nel Morgante di Luigi Pulci; Vincenzo Cardarelli detto “pubblicista”, Emilio Cecchi “esquire” (lo scudiero, perché deve difendere i poeti con la sua esperienza nella critica letteraria), Riccardo Bacchelli è “possidente”, Antonio Baldini è “baccelliere in lettere”, Lorenzo Montano è “industriale”, “Bruno Barilli è “compositore”, Aurelio Emilio Saffi è “docente nelle scuole governative”.
Gli obiettivi de La Ronda
Questa rivista non ambisce a creare un’opinione politica, ma vuole solo occuparsi di letteratura. Troppo fresco è il ricordo degli intellettuali interventisti come Pascoli e D’Annunzio o il bellicismo dei poeti futuristi come Marinetti.
Quali sono allora gli obiettivi? Riassumiamo:
Culto dei classici
Gusto aristocratico della letteratura
Ricerca del decoro espressivo
Ordine e misura.
«La Ronda» difende anche l’idea della cosiddetta prosa d’arte e il cosiddetto «capitolo», una prosa descrittiva che punta a creare un frammento compiuto (che è un ossimoro) capace di esprimere controllo e piena chiarezza del dettato.
Queste due forme poetiche rappresentano un’evoluzione particolare della prosa lirica. I modelli letterari di riferimento della prosa «rondista» sono:
Questi sono dei modelli di riferimento, ma i rondisti non sono chiusi in sé stessi, avulsi da quanto è accaduto o sta accadendo nella letteratura europea. La fine della «Ronda» è nel 1922.
Ordine, armonia e disciplina sono diventate parole di propaganda del regime fascista e questo creerebbe una sovrapposizione inammissibile. Si chiude così la sua stagione, in un dignitoso e duro silenzio.
La poetica di Cardarelli
Versi discorsivi
Dopo la premessa con «La Ronda» e i suoi ideali risulta più semplice capire quale sia la poetica di Cardarelli, visto che lui è uno dei co-fondatori della rivista letteraria.
Cardarelli punta a una poesia dove i versi abbiamo uno svolgimento discorsivo che possa mettere in luce i segreti moti psicologici dell’autore; con armonia, ma sempre con urgenza; con un ritmo implacabile, con uno scopo a rivelarsi subito chiaro.
Una poesia che ragiona, come un lungo colloquio dell’anima. Colloquiale ma non per ironia come accadeva ai poeti crepuscolari; prosaica ma non per questo meno ricercata e intimamente lirica. Una poesia, quella di Cardarelli, che è discorso sempre in atto, fluente, vivido.
Le parole di Cardarelli
Dice di sé stesso il poeta:
«che la mia poesia “discorra” non c’è dubbio. Anzi corre precipitosamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi, quantunque non sempre in modo graduale e pacifico. Più spesso procede per giustapposizione di idee o d’immagini, per rifrazioni di un medesimo concetto che, accennato fin dalle prime sillabe, si svolge, se mi è permesso di dirlo, come un tema musicale. È la mia maniera di esprimermi».
Il tempo: ossessione ed occasione
La soggettività di Cardarelli si spande nel tempo perché il tempo è la tela del suo io, come l’autoritratto non potesse mai davvero finire; se non con la morte, ovviamente. E allora il tempo è ossessione ed occasione insieme. Non interessa tanto il tempo storico, quanto il tempo in cui l’io ha modo di scoprire il suo passaggio silenzioso nell’esistenza.
Il brano Idea della morte
Si legge nel brano Idea della morte (1918), incluso in Viaggi nel tempo (1920):
«Sono turbato dalla sensazione del tempo come un pericolo assiduo. Il desiderio, spesso spropositato in me, di abbandonarmi, è vinto da una vaga inquietudine senza causa, che urge e mi consiglia di levarmi su, presto, come se ad ogni istante si potesse correre il rischio di perdere tutto il tempo in una volta, tutte le probabilità e le occasioni. […] E mentre noi che ne andiamo, ilari e distratti, per la nostra strada, egli ci cammina dietro, e allorché, trasalendo, ci rivolteremo per guardarlo, ci avrà già passati».
Il tema del vagabondaggio
Il tema del tempo si lega a quello dell’occasione perduta e dell’infanzia passata inesorabilmente.
C’è anche il tema del vagabondaggio, spiccatamente autobiografico, perché Cardarelli si percepisce come un uomo sempre messo al bando.
La sofferenza permea ma non spezza il rigore espressivo e logico della poesia di Cardarelli che riesce sempre a trovare la giusta armonia e una mai acquietata dolcezza.
Il concetto di «impassibilità»
Mengaldo sottolinea il concetto di «impassibilità», come capacità di volgere l’ispirazione «indifferentemente su tutte le cose, come si diffonde la luce». E aggiunge che questa definizione dello stesso poeta «chiarisce benissimo le motivazioni del cosiddetto classicismo cardarelliano, in quanto rifiuto delle salienze espressive e dell’esposizione violenta di singoli particolari in nome di un’equa distribuzione dell’energia stilistica su tutta la superficie del testo…» (Poeti italiani del Novecento, 366).
Vediamo alcune delle poesie più rappresentative di questo poeta, cercando di dare un piccolo commento a ognuna. Non serve la parafrasi perché non si parla più in italiano antico!
Abbiamo detto che il tema del tempo è di assoluta importanza per Cardarelli. Lo è per tanti poeti, in verità, se non per tutti. Cardarelli ha comunque un modo tutto suo di esprimerlo: ora dolce, ora terribile; ora occasione, ora rimpianto.
Il tempo è anche il passaggio in cui la realtà si rinnova. Come se fossimo in un sonetto della corona dei mesi, Cardarelli sceglie di parlarci di febbraio, il mese più corto dell’anno, un mese piccolo e sempre bambino.
Febbraio
Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
Cardarelli innamorato
L’amore è il tema dei poeti: quanto è difficile parlarne? Quanto è difficile scriverne? Scommetto che tutti ci abbiamo provato ad esprimere questo sentimento su carta per poi capire che non ne siamo capaci.
Compito sopraffino da lasciare ai poeti, che parlano per noi tutti. In questa poesia Cardarelli si accorge di essersi innamorato: se ne accorge dallo sguardo di lei triste e felice a un tempo.
Nella mancanza di lei, come in un provenzale “amore da lontano”, il poeta si agita e pensa a cosa sta accadendo e a come quel sentimento, come un uccellino si sia aggrappato ai rami del suo cuore.
Amore
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei cosí m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
piú e piú insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita,
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, piú per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
L’addio
Gli amori dei poeti di norma finiscono tutti. Ma come è dolce il finire delle cose, a volte, quanto è strano di colpo capire che qualcosa è finito. Sotto i nostri occhi, d’improvviso.
E qualcosa si spezza in noi e quella vita, quella possibilità, quella promessa di giorni felici svanisce per sempre. Resta solo il ricordo, amaro, poi magari più dolce e sbiadito, come una luce che passa attraverso le tende. In questa poesia l’addio è netto, deciso: «Non mi lasciasti nessuna speranza», dice Cardarelli.
Ed è così che di lei resta solo lo spettro, un compagno silenzioso e fastidioso; quel silenzio è un baratro dove l’assenza sembra chiamare a sé ogni cosa.
Crudele addio
Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.
Nostalgia e rimpianto
Nascono ombre smisurate da corpi troppo brevi, perché breve è il loro passaggio nel tempo. I ricordi sono così: uno «strascico di morte».
Con una metafora truce e dolorosa, Cardarelli ci porta nella dimensione della nostalgiae del rimpianto che l’amore genera in lui. I ricordi sono «fantasmi agitati da un vento funebre», per riprendere l’immagine dello spettro della poesia precedente, cara al poeta.
La donna amata è un ricordo e quindi, implicitamente, uno spettro che si aggira nella memoria del poeta (la parola «trapassata» si usa infatti per i morti).
L’ultimo sussulto della storia, prima del commiato, è nella consapevolezza che il tempo raggiunge ogni cosa e che l’amore è un fuoco che brucia e agita quel tempo, breve, concesso alla vita.
VINCENZO CARDARELLI
Passato
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
Amore e solitudine
“Attesa” è giustamente una delle poesie più famose di Cardarelli, per dolcezza, malinconia e finanche lieve candore delle immagini. Come nei poemi cavallereschi l’amore è una ricerca attiva o passiva: possiamo andare incontro all’amata come il furioso Orlando di Ariosto o possiamo attendere l’arrivo dell’amata, alla finestra, febbricitanti nell’attesa.
L’amore ha un modo tutto suo di disattendere l’una e l’altra dinamica. Se cerchiamo, non troviamo. Se aspettiamo, non arriva. E allora l’amore si fa compagno della solitudine, intensa esplorazione dell’altro dentro di noi.
È un’assenza che si colma di senso. L’assenza della donna amata brilla tumultuosa come una stella. Come un temporale che, eccolo, è lì, pronto a scrosciare con impeto, ma poi se ne va verso altri luoghi.
L’amore è tutto. Saffo lo definiva dolce-amara bestia. Cardarelli lo vorrebbe coprire di fiori, ma anche di insulti.
Attesa
Oggi che t’aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s’annuncia e poi s’allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
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