Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Flaminia Leggeri Fotoreportage –Tirana, la città colorata, è la capitale dell’Albania è un paese indicato come una delle 10 destinazioni da non perdere dalla Rough Guide. Ecco i loro 10 motivi perché visitare Tirana. Marzo sarà un vero mese di festa non solo per i residenti di Tirana, ma anche per i suoi numerosi visitatori che arrivano da altri distretti dell’Albania e dall’estero.
Nell’ambito del centenario della capitale, il Comune di Tirana ha organizzato un’agenda di attività, che ricopre tutto il mese di marzo.
La notizia è stata annunciata dallo stesso sindaco Erion Veliaj, che ha condiviso con molti follower sui social network, l’agenda delle attività festive delle prossime quattro settimane.
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Tirana è solitamente in cima alla lista delle città peggiori d’Europa. Dopo decenni di dittatura stalinista, grigia e triste, povera di infrastrutture e servizi, di certo può rimanere poco attraente per i piu’ superficiali. Nel 1992. con il collasso del regime comunista, la situazione è solo peggiorata, e il caos ha avuto la meglio, ingolfando la città e creando la migliore condizione per la crescita della criminalità.
Adesso tutto è cambiato. Oggi Tirana, anche se rimane comunque una città caotica, è una piacevolissima cittadina, centro della cultura, dell’intrattenimento e della politica dell’Albania. Ha visto crescere rapidamente la sua popolazione, arrivando quasi ad un milione di abitanti ( la totalità della popolazione albanese ne conta tre milioni ). La città ti sorprenderà, ed in tutto il paese non si troverai nulla del genere!
Ecco le 10 ragioni per andare a Tirana.
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Sperimentare l’ospitalità degli abitanti
Essere invitati per un caffè o un rakia (un brandy di prugna) è un’abitudine locale e troverete gli albanesi amichevoli verso i visitatori stranieri. Essendo stata isolata dal resto del mondo per la seconda metà del ventesimo secolo, molti sono curiosi dell’afflusso di viaggiatori.
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Tirana, la città colorata
Poiché è una piccola città, è possibile coprire facilmente la zona centrale di Tirana in un giorno. Ma oltre a un’esplorazione piacevole della manciata di musei, monumenti, edifici storici e parchi, trovate un po’ di tempo per ammirare le abitazioni tiranesi . Verniciati con colori arcobaleno, aggiungono luminosità a quello che un tempo era un paesaggio urbano piuttosto monocromatico.
La cultura del caffè
L’Albania potrebbe non essere famosa per la sua cucina, ma non è un motivo per non fare attenzione al cibo. Cercate l’ottimo caffè e birra (l’Islam è la religione predominante, ma è praticata in modo molto tollerante), nonché pasticcini decenti e buon gelato. I caffè sono il luogo perfetto per guardare la gente, impostato su una colonna sonora di albanese e di Euro-pop.
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Una lezione di storia a Piazza Scanderbeg
Il centro di Tirana è Piazza Scanderbeg, che prende il nome dall’eroe nazionale che ha dato vita anche se brevemente all’indipendenza dell’Albania dall’Impero Ottomano nel XV secolo. Al centro della piazza c’è una grande statua bronzea di Scanderbeg a cavallo (immaginate Alessandro Magno incontra Thor), e la Moschea Et’hem Bey, uno degli edifici più preziosi della nazione che risale alla fine del XVIII secolo, che si trova nell’angolo sud-est. Sempre nella stessa piazza si trovano anche i principali musei della nazione, tra cui il Museo Storico Nazionale albanese adornato con un enorme muro socialista di partigiani vittoriosi.
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Quale occasione migliore per visitare una piramide dell’era moderna?
Troverete la piramide di cemento di Tirana, Piramida, a pochi passi da Piazza Skanderbeg. Costruito nel 1987 dalla figlia del dittatore albanese Enver Hoxha (che tirannicamente governò l’Albania dal 1944 al 1985) come museo a suo padre, ora sembra abbandonata, spogliata delle piastrelle che una volta la coprivano e spruzzi di graffiti. Si parla di demolirlo, ma alcuni sostengono che dovrebbe essere mantenuto intatto come un monumento adatto allo spirito dello stalinismo.
Per il “Blloku”, il cuore della movida albanese
“Blloku” è un quartiere di Tirana. Letteralmente, il suo significato è, Il Blocco ex quartiere dei dirigenti del Comitato Centrale del Partito del Lavoro. Progettato come “quartiere giardino” dall’architetto Gherardo Bosio, divenne dopo la Seconda Guerra il quartiere residenziale del dittatore Enver Hoxha. Oggi è il cuore della “movida” albanese. Oggi si trovano alberghi costosi, caffè di design, ristoranti e negozi.
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Per la vita notturna
Ogni anno la scena notturna di Tirana si muove su di un livello e i club della città, in gran parte situati intorno a Blloku, variano notevolmente in tema e atmosfera. È meglio visitarli con qualcuno del posto per sapere dove andarci (e quali evitare). Siate tuttavia consapevoli che l’Albania è ancora una società tradizionale.
Un pò di relax in Parku i Madh (Grand Park)
Questo grande parco boscoso è dove molti cittadini di Tirana vanno per passare qualche ora, sia che si tratti di pesca nel lago artificiale, picnic sui prati o passando il tempo in uno dei tanti bar-caffetterie. Tenuto conto del traffico opprimente di Tirana, questo parco consente di brillare l’atmosfera mediterranea della città.
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Per visitare il Parco Nazionale del Monte Dajti
Se volete una pausa dal centro della città, dirigetevi verso il Parco Nazionale del Monte Dajti, popolare tra i residenti di Tirana per l’aria fresca e le passeggiate fuori dal centro abitato. Potete prendere una funivia costruita dagli Austriaci (costosa) o il bus della città (a buon mercato) e una volta lì troverete alberghi, pensioni e ristoranti se ti senti di trascorrere la notte.
Un salto al mare, perché no?
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La città storica di Durazzo sul mare Adriatico è stata per decenni, dove i potenti di Tirana andavano per rilassarsi (Enver Hoxha e Re Zog disponevano di case vacanze). Oggi sono in gran parte i turisti kosovari che si avvalgono di numerosi hotel e ristoranti economici lungo il lungomare. Le cose sono ruvide e pronte, ma Durazzo è vivace, poco costosa e facilmente accessibile.
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Situata geograficamente al centro del Paese, circa 35 km a est di Durazzo e circa 40 km a nord-ovest di Elbasan, sorge in una valle racchiusa da montagne e colline (Monte Dajt a est, le colline di Kërrabë e Sauk al sud, le colline Vaqarr e Yzberisht a ovest e Kamzë a nord). È attraversata da due fiumi (il Tirana e il Lana) ed è affiancata da diversi laghi (lago di Tirana, Thatë, Farkë e Paskuqani) e da una riserva naturale nazionale (parku i madh).
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È la sede del potere del governo albanese, con le residenze ufficiali del presidente e del primo ministro albanese e del parlamento albanese. La città è oggi il principale centro economico, finanziario, politico e commerciale, nonché culturale e religioso d’Albania, sede di istituzioni pubbliche e dell’università, e grazie alla sua posizione nel centro del paese, snodo di trasporti e traffici, e al suo moderno trasporto aereo, vicino ai poli marittimi, ferroviari e stradali, è in progressiva crescita urbana. È stata insignita dei titoli di Capitale europea della gioventù per il 2022[5] e di Capitale mediterranea della cultura e del dialogo per il 2025[6].
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Estesa su un’ampia pianura al centro dell’Albania, con il monte Dajt che si eleva a est e una valle a nord-ovest che si affaccia sul mare Adriatico in lontananza, è contornata da diversi laghi artificiali.
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Territorio
Tirana dal Satellite
Il Comune di Tirana si trova a (41,33 ° N, 19,82 ° E) nell’omonimo distretto. L’altitudine media di Tirana è 110 metri (361 piedi) sul livello del mare mentre il punto più alto è a 1828 m (5,997.38 ft) sulla sommità del Gropà Mali.
Ricca d’acqua, è situata in una pianura fertile. Bagnata dal fiume di Tirana (lumi i Tiranës), il cui affluente Lana attraversa il centro abitato[7] e affiancata nella zona sud dal fiume Erzen.
La comune comprende anche diversi laghi artificiali: il lago artificiale di Tirana, intorno al quale fu costruito il Grande Parco, il lago di Farka, di Bovilla, di Allgjate, di Kus, di Kashar e di Vaqarr.
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Il clima di Tirana è temperato, con estati calde e inverni freschi e umidi.[8] Grazie alla sua posizione nella pianura di Tirana e alla vicinanza al Mar Mediterraneo, la città è particolarmente influenzata da un clima stagionale mediterraneo. È tra le città più piovose e soleggiate d’Europa, con 2.544 ore di sole all’anno
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Descrizione del libro di Carlo Greppi–Editori Laterza–Il capitano Jacobs è un buon soldato, rispettoso delle gerarchie, onesto. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare, armi in pugno, dalla parte dei partigiani. Sceglie di combattere contro i propri camerati. Perché lo fa? Inseguendo la parabola di quest’uomo viene alla luce una grande storia dimenticata: furono centinaia i tedeschi e gli austriaci a percorrere lo stesso cammino. Un piccolo esercito senza patria e bandiera, una pagina unica nella storia d’Italia.
Sui monti di Sarzana, proprio lungo la Linea Gotica, dove nel 1944 i combattimenti infuriavano con maggiore ferocia, il capitano della marina tedesca Rudolf Jacobs, ottimo soldato, abbandonò le proprie fila. Non lo fece per fuggire da una guerra ormai persa, ma per unirsi ai partigiani garibaldini, fino a morire eroicamente durante l’assalto a una caserma delle Brigate nere fasciste. Apparentemente la sua sembra la storia di un’eccezione, commovente e coraggiosa, ma pur sempre un’eccezione rispetto alla nostra idea dei tedeschi zelanti combattenti della Germania nazista, fedeli fino al suo crollo. Eppure questa eccezione non fu così solitaria e isolata: parliamo di centinaia di uomini, almeno mille secondo le stime degli storici. O erano di più? Tedeschi e austriaci, ‘banditi’, ‘disertori’, ‘senza patria’, che hanno saputo dire di no agli ordini ingiusti, che hanno rigettato la legge dell’onore e del sangue per scegliere quella della libertà e della coscienza. Partendo da tracce labili, quasi svanite – un nome su una lapide, poche righe nei documenti ufficiali, qualche ricordo dei partigiani sopravvissuti –, questo libro è un’indagine appassionata e coinvolgente che ci trascina alla riscoperta di una pagina di storia che nessuno in Italia ha mai raccontato in questo modo.
Solo la coscienza non inaridisce,
questo fiero, aspro paesaggio di giustizia,
questo fortino contro il rimorso.
Siegfried Lenz, Il disertore (1952)
Sotto una stella armata
1.
Brema, Germania nord-occidentale, domenica 26 luglio 1914.
Poche ore prima di quel pianto apparentemente inconsolabile, gran parte del mondo era totalmente all’oscuro delle macchinazioni dei potenti del Vecchio Continente. Dopo il durissimo ultimatum austroungarico alla Serbia di tre giorni prima, l’Europa sta entrando in guerra. Spalleggiato da un incondizionato sostegno tedesco, l’impero asburgico ha deciso che la sua pazienza è finita, e si percepisce il montare di uno scontro generalizzato, e non limitato alla regione balcanica. Non succedeva da oltre quarant’anni, dal conflitto franco-prussiano del 1870-71, che gli eserciti si scontrassero nel cuore dell’Europa – su altri scenari non avevano mai smesso di esportare distruzione, chiaro, ma questa è un’altra storia. E, soprattutto, una guerra così nessuno l’aveva ancora vista mai. La crisi continentale apertasi da meno di un mese con un colpo di pistola a Sarajevo deflagrerà nel giro di una manciata di ore, questa volta, nel conflitto più devastante della modernità. Ma nessuno, in questa domenica d’estate, può davvero intuire la portata epocale di quello che sta cominciando. Cinque giorni più tardi la Germania dichiarerà guerra alla Russia e due giorni dopo le truppe tedesche entreranno in Francia; nelle settimane successive i cadaveri si conteranno già a centinaia di migliaia – alla fine del conflitto, i morti della sola Germania saranno oltre due milioni.
La madre del bambino che viene al mondo, Frieda Rosenthal, compressa com’è nell’ultimo, definitivo sforzo di darlo alla luce, difficilmente sta pensando all’inquietudine che la circonda. Ma essere nati a luglio del 1914, e per la precisione in quegli ultimi giorni che hanno visto scattare il perverso meccanismo delle alleanze senza possibilità di fare marcia indietro, diciamocelo, non è cosa da poco. Forse si intende questo, quando si dice che qualcuno è nato sotto una stella. L’astro che osserva la venuta al mondo a Brema di Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs, il 26 luglio dell’anno in cui si schiantano le speranze in un progresso generatore di futuro e milioni di giovani europei si preparano ad andare alla guerra, è circondato dall’euforia e dal terrore, sentimenti vagamente intrecciati in tutti e in ciascuno. Perché, poi, quello della popolazione tedesca compattamente e ferocemente convinta di questo nuovo conflitto è in parte un mito – la realtà, nella storia e nel presente, è spesso molto diversa da come appare a un primo sguardo superficiale. Proprio il 26 luglio, a voler seguire i tratti contraddittori di quella stella che sbircia la nascita di Rudolf Heinrich Otto Max, si scatenano massicce proteste contro la guerra in tutta la Germania: dureranno fino al 30 del mese, coinvolgendo oltre 750.000 tedeschi. Anche a Brema, nella città vecchia, il 28 si tengono ben sette corposi assembramenti che rigurgitano una folla tenacemente contraria al gioco al massacro che si intuisce stia per cominciare. Sfogliando i giornali locali degli ultimi giorni di quella settimana scarsa, decisiva per le sorti della Germania e dell’umanità intera, si colgono da un lato l’incertezza e la paura ma anche, è vero, una sprezzante arroganza, quel “sentimento nazionale” che è sempre pronto a tutto, pur di nutrire se stesso. Anche a fagocitare padri, fratelli, figli altrui e propri. La tensione montata da Sarajevo al cuore della Mitteleuropa è alle stelle: anche a Brema, come nel resto della Germania e come, gradualmente, nel continente intero, i manifestanti vengono randellati, caricati, ostracizzati – e chi si oppone al conflitto diventa presto, agli occhi della maggioranza della popolazione, nemico della nazione. “Traditori della patria”, per usare una formulazione che incontreremo: Landesverräter, in tedesco. Traditori, siete solo dei maledetti traditori.
All’inferno e ritorno: così titola il grande storico britannico Ian Kershaw la sua opera monumentale dedicata all’Europa “nell’era dell’autodistruzione”, fornendoci un frame per leggere, in linea con una cornice interpretativa ormai fiorente e consolidata, quello che si spalanca nel 1914 come un interminabile conflitto che cova una sua seconda fase in una lunga, drammatica pausa, la Guerra dei Trent’anni, con un “comune denominatore ideologico” – il nazionalismo. Tutto cominciò, nella via via più lucida percezione degli europei, in quei giorni finali di luglio del 1914: “La convinzione che la guerra fosse necessaria e giustificata, e l’autoconsolatorio presupposto che sarebbe stata una cosa spiccia – una breve, eccitante ed eroica avventura coronata da una vittoria rapida e con poche perdite – era penetrata in ampi settori della popolazione, molto al di là delle classi dirigenti europee. Questo aiuta a spiegare come mai in tutti i paesi belligeranti tanta gente fosse così euforica, perfino entusiasta, mentre la tensione, che non toccò il grosso della popolazione fino all’ultima settimana di luglio, andava montando fino a esplodere nella guerra generale”. Il sigillo di questo inizio, per la Germania, lo si può forse apporre al 31 luglio, quando 50.000 cittadini tedeschi, a Berlino, acclamano il Kaiser Guglielmo II in un discorso che diventerà immensamente celebre. “Nella lotta che ci sta davanti io non conosco più partiti nel mio popolo. Adesso tra noi ci sono soltanto tedeschi”, ribadisce il Kaiser nei giorni successivi. Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs – per la sua famiglia e per noi sarà semplicemente Rudolf – ha cinque giorni, è in effetti tedesco, e la sua esistenza sarà integralmente incastonata in questi trent’anni.
Venuto al mondo nell’anticamera dell’inferno, lo vedrà e cercherà la via del ritorno, con tutte le sue forze. È nato sotto una stella armata, Rudolf, mentre intorno a lui qualcuno ragiona e grida che no, questa carneficina la si deve fermare.
2.
A dirla tutta, tra i tanti figli illustri di Brema, una città che all’alba della Grande Guerra conta 250.000 abitanti, ce n’è uno che spicca su molti per chiara fama: il suo nome è Ludwig Quidde. Storico di formazione, quando Rudolf nasce Quidde è ormai un uomo di 56 anni che da molto tempo si batte contro la politica estera aggressiva del Kaiser e, più in generale, per la pace tra le nazioni. Non è certo l’unico, intesi: mentre infuriano i nazionalismi, gli imperialismi, il razzismo e il darwinismo sociale che – in forme e misure diverse – legittimano la guerra come strumento di regolazione dei rapporti di forza, in Europa non mancano gli afflati di contrapposizione a un’idea di senso di appartenenza esclusiva, asfittica, chiusa. Innanzitutto l’internazionalismo socialista e l’universalismo di frange del composito mondo cristiano, che si fronteggiano e a tratti convergono. E poi una rete pulviscolare di realtà associative – come il Bund Neues Vaterland, di cui lo stesso Quidde fa parte – e di semplici donne e uomini, non di rado cresciuti nella prosperità e nel benessere, che intendono sinceramente favorire la cooperazione tra i popoli e tra gli stati attraverso forme di associazionismo di vario tipo. “Pacifismo” è una parola potente, per uomini come Ludwig Quidde. Una parola alla quale dedicare l’intera propria vita, oscillando tra momenti di riconosciuta pavidità – Quidde non si pronuncia sull’aggressione tedesca del Belgio, per dirne una – e invidiabili squarci di coerenza.
Quidde, ad esempio, avrebbe potuto fare del mestiere di storico la sua vita. Ma ha avuto la carriera accademica stroncata vent’anni prima, in seguito alla pubblicazione di un infuocato pamphlet che, pur riferendosi all’imperialismo dell’antica Roma, accusava implicitamente Guglielmo II e le mire espansioniste della Germania di fine Ottocento, in una sorta di parodia nella quale accostava il Kaiser a Caligola, e che gli era costata tre mesi di galera. Si era tenacemente impegnato per ridurre l’ostilità tra la Francia e la Germania dopo il conflitto del 1870-71, e proprio a maggio del 1914, poche settimane prima dello scoppio del conflitto mondiale, è diventato presidente della Deutsche Friedensgesellschaft (DFG), la Società tedesca per la pace, che conta circa 10.000 membri per lo più appartenenti alla piccola borghesia, e che guiderà per quindici anni. Esiste ancora oggi, scopro, con una straordinaria e nitida specifica in aggiunta: “Resistenti Uniti contro la Guerra” (Vereinigte KriegsdienstgegnerInnen). La Società aveva raggiunto addirittura il traguardo del Nobel con la baronessa Bertha von Suttner, seconda donna dopo Marie Curie a vincere il prestigioso premio e prima ad aggiudicarsi quello per la pace, che era stata intima amica proprio di Alfred Nobel. Lei stessa, nel ritirarlo, aveva mostrato una profetica consapevolezza di quello che il prossimo futuro avrebbe potuto riservare al Vecchio Continente: “I sostenitori del pacifismo – aveva detto – sono ben consapevoli di quanto siano limitati il loro potere e le loro capacità di influire. Sanno di essere ridotti di numero e di avere scarsa autorità, ma quando considerano realisticamente chi sono e l’ideale che servono, si sentono servitori della più grande di tutte le cause. Dipende dalla soluzione di questo problema se l’Europa diventerà un cumulo di rovine e di fallimenti, o se riusciremo a evitare questo pericolo pervenendo più rapidamente all’era della pace e del diritto”. Era il 1905, e i quattro decenni successivi avrebbero in effetti generato quel “cumulo di rovine e di fallimenti” da lei pronosticato, anche se la baronessa non lo vedrà, perché muore a 71 anni il 21 giugno 1914, pochi giorni prima dell’attentato di Sarajevo. Come non può saperlo Quidde, ritirando il medesimo premio insieme al francese Ferdinand Édouard Buisson, nel 1927. Nella lecture che tiene il 12 dicembre, al cui testo rimetterà più volte mano nei quattro anni seguenti, insiste sul fatto che il programma di disarmo propugnato dalla maggioranza dei pacifisti nei decenni precedenti sarebbe ormai “ridicolo”: “un disarmo drastico e completo è oggi il nostro obiettivo”, altrimenti il disastro è dietro l’orizzonte. Ma la sua, per quanto supportata da schiaccianti evidenze, è ormai pura utopia.
Il clima è irrimediabilmente precipitato, e Quidde lo sa. “Una razza forte scaccerà le deboli” è il mantra del Mein Kampf, il “vangelo” dell’austriaco Adolf Hitler che punta tutto sul riscatto tedesco da affidare a un “uomo forte” (lui stesso, naturalmente), con idee chiare e nemici altrettanto chiari. La Germania e il suo popolo, la Volksgemeinschaft, l’Herrenvolk di cui già si parlava nel secolo precedente (il “popolo di dominatori”, appunto), devono avere diritto al loro “spazio vitale” (Lebensraum) recuperando i territori perduti e prendendosi quelli che ritengono necessari, soprattutto a est. La storia è per Hitler una “lotta totale tra i popoli”: predica la necessità di gerarchie tra esseri umani auspicando con foga l’annientamento dei deboli. La “razza forte”, per prevalere, deve distruggere le altre.
Hitler non è certo l’unico a soffiare sul fuoco della politica di potenza nazionale, né – in Germania – a criticare i trattati di Versailles, e cerca di farsi anzi collettore di una serie complessa di istanze. Molti tedeschi vogliono infatti “rifarsi” perché sulla sola Germania grava l’imposizione della colpa – da lei forzatamente riconosciuta nel noto articolo 231 del Trattato del 1919 – della guerra, e questa trasversale voglia di rivincita nazionale si sposa così a rivendicazioni sociali che coinvolgono ampi strati della Germania inquieta degli anni Venti, nella quale l’ormai anziano Quidde è tra i pochi che invitano alla ragione. Il vento della storia soffia, di nuovo, verso un conflitto generalizzato.
L’anno in cui tutto precipita, lo sappiamo, è il 1929, lo stesso in cui peraltro Quidde lascia la presidenza della Società tedesca per la pace. Rudolf ha 15 anni ed è ancora uno scolaro del Realgymnasium di Brema, mentre suo padre osserva con immensa preoccupazione la crescita improvvisa del partito dell’agitatore austriaco, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP). Il 3 ottobre di quell’anno muore infatti Gustav Stresemann, il politico conservatore che – pur non lesinando misure anche dure – era stato tra coloro che avevano cercato di salvaguardare la tenuta della repubblica di Weimar e dei suoi rapporti internazionali. La scomparsa di Stresemann segna simbolicamente la fine di un’epoca, per la Germania. Tre settimane più tardi, a New York crolla la borsa valori: per i nazionalsocialisti è la grande occasione. Nel giro di tre anni e pochi mesi arrivano al potere, inaugurando una delle epoche più buie della storia dell’umanità, mentre Rudolf frequenta la Seemannsschule di Amburgo, l’istituto nautico fondato da armatori e mercanti della città anseatica cinquant’anni prima.
Sappiamo che suo padre invita immediatamente Rudolf, che nel frattempo ha compiuto 18 anni, a proseguire gli studi e ad abbandonare la Germania per tenersi alla larga dal clima di violenza che si sta facendo asfissiante. Rudolf è ancora giovane, si deve fare le ossa. Imparerà, e ci metterà molto tempo, che la pace – e il suo concittadino Quidde lo sapeva bene – si può fare anche con le armi.
3.
“Per i traditori della Patria e per i disertori, che magari si sono anche vantati di aver combattuto al fianco dei partigiani e di aver ucciso dei soldati tedeschi, non c’è alcuno spazio tra di noi. Siffatti apprendisti senza onore non devono aspettarsi alcun rispetto nemmeno da quelli che sono stati fin’ora nostri avversari. Verranno isolati e trattati nel modo che si sono meritati […] Le nostre leggi militari hanno piena validità, oggi come ieri. Chi le trasgredisce deve portarne inesorabilmente le conseguenze”. Queste parole senza possibilità di fraintendimento sono vergate a giugno 1945 nel Deutsches Hauptquartier Bellaria, il quartier generale tedesco del campo di prigionia di Bellaria, dal comandante Karl von Graffen, che negli ultimi giorni di guerra era stato nominato comandante del LXXVI Panzerkorps sullo scacchiere italiano. Siamo alla fine di quella che molti definiscono la Guerra dei Trent’anni del Novecento, tre decenni e qualche mese dopo le parole con cui il Kaiser Guglielmo II, a Berlino, auspicava – intimava – che davanti a lui ci fossero “soltanto tedeschi”. E sette anni dopo il boato con cui una folla di 250.000 persone nell’Heldenplatz di Vienna invocava l’annessione tedesca dell’Austria, prima di certificarla con oltre il 99 per cento dei voti in un plebiscito che nel 1938 aveva saldato le due nazioni in un solo destino, in quella che sarà un’unica “comunità di popolo armata in guerra”. Così non è stato, almeno in parte: davanti al comandante del LXXVI Panzerkorps non ci sono solamente soldati che hanno inseguito quel sogno di dominio nazionale.
Alle spalle delle spietate minacce di von Graffen, sul suolo italiano e su tutto il globo terracqueo, quel “cumulo di rovine e di fallimenti” previsto dalla baronessa von Suttner quarant’anni prima. Eppure – c’è sempre un “eppure” – queste parole lasciano trasparire qualcosa di immenso. E cioè che von Graffen minaccia inesorabili conseguenze per chi, tedesco, con spudorata doppiezza o vestito di sincera convinzione, ha “combattuto al fianco dei partigiani”. E più in generale per chi si è macchiato del più infamante dei gesti che si possano immaginare, in tempo di guerra: la resa ai nemici, la diserzione, il tradimento – Special Germans, li chiamano gli Alleati. Tedeschi e austriaci speciali, con traiettorie imprevedibili, come molto più spesso erano stati imprevedibili i percorsi di tutte le nazionalità da loro arruolate più o meno a forza: soprattutto cecoslovacchi, polacchi e sovietici di varie provenienze.
In quello stesso campo di prigionia – il lager 12 – erano infatti presenti diversi soldati della Wehrmacht che durante il conflitto avevano disertato, e si erano uniti alla Resistenza italiana. Alcuni dei loro nomi li sappiamo: il sottufficiale Karl Berger, il caporalmaggiore Oskar Blümel, il caporalmaggiore Erich Stey, il caporale austriaco Franz Maier. Dubito che abbiano conosciuto Rudolf, eppure qualcosa li univa. Innanzitutto il fatto che, a differenza di Quidde e della baronessa von Suttner, a loro nessuno avrebbe neanche mai pensato di dare un premio Nobel. Anzi. Il futuro avrebbe riservato, a quegli uomini, quasi solo sguardi e parole taglienti come quelli del comandante von Graffen – quasi solo disprezzo, e al massimo poche briciole di compassione.
“Lui ha combattuto con loro”, avrebbero detto i concittadini, i parenti, gli amici: “Ha rivolto le armi contro di noi”.
4.
Quando ti uccidono più volte, forse non sarai mai morto per davvero. Se hai dimostrato di saper essere un uomo protagonista del tuo tempo ma guidato da valori universali, che trascendono quel tempo stesso, il tuo nome resterà scolpito da qualche parte – nella memoria dei luoghi, in una lapide dimenticata, tra documenti accartocciati, nei sussurrii della gente del posto. Si dirà “lui aveva combattuto con i nostri. Lui, che era tedesco”. Si tramanderà un racconto, che così manterrà viva la tua storia, finché qualcuno non la spolvererà per raccontarla battagliando con l’oblio.
Questo è quanto accaduto a chi, vestendo la divisa delle forze armate tedesche, ha saputo dire di no, seguendo non gli ordini liberticidi e criminali della “patria” ma la propria coscienza, pur sapendo che avrebbe potuto morire non una ma due volte. Se da un lato avrebbe potuto essere ucciso in battaglia, combattendo contro i suoi ex commilitoni e i loro alleati fascisti, dall’altro il suo nome – questo invece era pressoché certo – sarebbe stato a lungo cancellato dalla memoria pubblica del suo paese. Sarebbe stato complicato, anche se si fosse persa la guerra, celebrare i disertori, queste anime rinnegate che avevano scelto il lato giusto della storia, intralciando la cavalcata del Reich millenario per inseguire, al contrario, un altro ideale.
Già nella riedizione della prima grande narrazione della guerra partigiana di Roberto Battaglia, uscita postuma, sono inserite ex novo alcune pagine dedicate al tema su cui lo storico scrive in maniera pionieristica negli anni Sessanta. E tra gli stranieri che si unirono alla Resistenza ricorda anche i disertori dell’esercito tedesco (nati nel Reich o altrove), che appaiono “nelle file del movimento partigiano in quasi tutte le regioni del Nord”. Stiamo parlando di un nucleo numericamente non trascurabile anche secondo gli storici tedeschi che avrebbero proseguito questo filone di ricerca, arrivando a suggerire l’ipotesi che fossero centinaia. Come avrebbe sottolineato Claudio Pavone molto tempo dopo, si sarebbe addirittura tentato di costituire reparti composti integralmente da disertori della Wehrmacht, e le stime più aggiornate confermano le sensazioni dei primi storici della Resistenza: questi uomini capaci di scarti improvvisi e senza possibilità di ripensamento erano certamente svariate centinaia, questo è il dato dal quale devo e dobbiamo partire. E lo stesso vale per diversi altri teatri di guerra, come la Francia, la Jugoslavia e la Grecia (dove furono oltre mille), anche se in questi casi come in quello dell’Europa orientale è difficile raggiungere delle stime certe: va detto che le biografie a nostra conoscenza hanno raggiunto ormai da tempo, allargando lo sguardo al continente, un ordine complessivo quantificabile in diverse migliaia.
Per la sola 10ª armata di stanza in Italia i dati disponibili parlano di 3.582 casi di diserzione e allontanamento non autorizzato, circa la metà dei quali di nazionalità tedesca o austriaca, e una parte considerevole di loro si unì al partigianato italiano – era uno stillicidio continuo, come rilevava la giustizia militare tedesca nel corso del conflitto. Schegge, in confronto a storie epiche confrontabili, come quella dei molti ex soldati italiani che si unirono alla Resistenza francese o greca, o come quella della Divisione partigiana Garibaldi, in Montenegro, dove 20.000 italiani prima appartenenti all’esercito fascista combatterono fianco a fianco ai partigiani locali, e tra i 6.500 e gli 8.500 di loro morirono per la libertà degli ex nemici. Ma schegge commoventi, che si fanno ossessionanti e irrompono brutalmente, con costanza, nei pensieri di chi studia questi anni. Schegge che, a un certo punto, non lasciano più scampo, e pretendono di essere indagate.
Un giovane studioso cui va il merito di essere stato il primo a provare a operare una ricognizione sistematica su questi disertori nella penisola, Francesco Corniani, ha osservato che in termini assoluti si tratta di un numero limitato, “se rapportato al milione di soldati circa dell’esercito tedesco che furono presenti tra il 1943 e il 1945 in Italia” – uno su mille, a spanne. Eppure l’esistenza di questa nutrita minoranza dimenticata, sulla quale non ha svolto “nessuna ricerca mirata” neanche la Commissione storica italo-tedesca (2009-2012), è un dato dal portato storico, civile, etico e simbolico strabiliante. Rivoluzionario. “Dopotutto, chi controlla i valori del mondo?”, chiede un commilitone di Walter Proska, il riluttante disertore del romanzo di impianto autobiografico di Siegfried Lenz, Der Überläufer,scritto nell’immediato dopoguerra ma uscito solo nel 2016: “Tu e tu soltanto”, si risponde.
L’aspetto più entusiasmante della storia, in fin dei conti, si cela nelle traiettorie biografiche dei suoi protagonisti, come l’archetipico Walter Proska, o come Rudolf. E, in questo caso più che in molti altri, si possono – si devono – ricostruire. Sapendo che saranno innumerevoli i vuoti, gli inciampi, le informazioni che vorremmo e che non potremo avere. Fin dalla riedizione del 1964 della Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia il simbolo anche problematico, tra gli addetti ai lavori, di queste vite utopiche di veri e propri “partigiani dell’umanità” che scelsero il loro versante della lotta senza adagiarsi sui confini imposti alla nascita, è Rudolf, quell’uomo nato a Brema nella “crisi di luglio” del 1914. Ma chi era veramente? È possibile scoprirlo? E quali domande pone a noi oggi la sua parabola umana?
Per quelle inaspettate coincidenze che l’indagine del passato spesso ci fornisce, quell’uomo portava un nome, Rudolf, che molti anni dopo avrebbe raccontato una storia non accomunata solamente dall’omonimia. Una storia di un altro Rudolf, una storia diversa.
Ma – per gli interrogativi che scatena – non poi così tanto.
Saremmo stati diversi?
1.
“Esistevano dei tedeschi buoni?”. È il 1989, un anno fondante per la nuova Europa aperta che si intravede all’orizzonte e in cui inizia a infuriare il dibattito sulla “guerra civile europea”, e Nuto Revelli – ex partigiano, insuperato indagatore della storia sociale italiana – rivolge questa domanda a C.M., un combattente della Resistenza belga ebreo, di madre polacca e padre russo. “No, nessun tedesco buono. Forse uno per uno, sì. Ma due insieme non buoni”, gli risponde C.M.
Revelli, un reduce del freddo glaciale del fronte russo dove aveva maturato un’irriducibile opposizione ai fascismi, aveva narrato diverse volte e per iscritto la sua esperienza – la sua “conversione” all’antifascismo, verrebbe da dire. “Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato”, aveva scritto a inizio anni Sessanta ne La guerra dei poveri a proposito dei giorni di settembre del 1943 in cui finì il suo fascismo “fatto di ignoranza e presunzione”, e scelse la lotta contro i fascisti repubblicani di Salò e i loro alleati nazisti. Come avrebbe più volte raccontato, il suo odio per i tedeschi durante e in seguito alla campagna di Russia era via via cresciuto, diventando coriaceo, insopprimibile. E lo sarebbe rimasto per decenni – nonostante ne avesse incontrati, di tedeschi antinazisti, durante la lotta di liberazione.
“Nei venti mesi della guerra partigiana distinguevo i tedeschi della Wehrmacht dalle SS, ma non i tedeschi dagli austriaci. Erano tutti tedeschi per me, tutti uguali, tutti nazisti”: la sua leggendaria – rivendicata – incapacità di voler andare oltre quell’odio quasi atavico, coltivato con rancore, però, a un certo punto, incontra un ostacolo. Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta comincia a ossessionarlo la storia di un “cavaliere solitario” che era diventato un disperso nel Cuneese nel corso della guerra 1943-45. E cerca spasmodicamente di ricollegare le poche tracce consunte di questa storia dai contorni così incerti, da “sordomuto” (Revelli non parlava né capiva il tedesco, né poteva accedere a Google Translate, ovviamente). Oltre a interrogare una miriade di testimoni e a mettersi alla caccia di una documentazione che pare impossibile da trovare, Revelli si confronta anche con diversi storici, tra cui Christoph Schminck-Gustavus, professore di storia del diritto e storia sociale all’università di Brema. Proprio Schminck-Gustavus, a distanza di poco dal dialogo con il partigiano belga, gli manifesta il suo disagio: “Magari il vostro odio di allora vi ha accecati, fino al punto che non vedevate più quei tanti poveri diavoli” che indossavano malvolentieri la divisa tedesca. In effetti, per Revelli e per molti altri, era stato così, e proprio l’incontro con una nuova leva di storici tedeschi che indaga più a fondo e racconta i crimini del nazionalsocialismo inizia a scavare dubbi nelle sue certezze. Due anni prima, a oltre quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ha scritto questo di Christoph, diventato nel frattempo una frequentazione preziosa: “la sua presenza amica mi fa riflettere. Non ho fatto passi avanti verso il cavaliere solitario, ma il mio ‘tedesco buono’ l’ho trovato”.
Cinque anni dopo questa prima folgorazione – e il capitolo del libro dedicato a questa ricerca, Il disperso di Marburg, si intitola “La svolta” – finalmente, grazie all’aiuto decisivo di un altro storico, l’italiano Carlo Gentile, il bandolo della matassa si sgroviglia e il “cavaliere solitario” guadagna una provenienza (Marburg), un nome – Rudolf, appunto – e un cognome, Knaut. Non molto altro, in realtà, ma anni di vicoli ciechi e false piste alla fine approdano al punto che sogna chiunque si metta su una traccia, sperando di arrivare da qualche parte. “Il sentimento di pietà è così profondo da annullare ogni compiacimento per il risultato conseguito”, annota Revelli a proposito di quel tedesco di Marburg che usciva solo a cavallo tutte le mattine dalle “Casermette” di San Rocco, alle porte di Cuneo, e che un giorno venne catturato e ucciso da un gruppo di partigiani. E che lui insiste, tra le pieghe del suo resoconto impostato quasi come un diario di bordo, a definire il suo “tedesco buono”, nonostante lo stesso Gentile non accetti questa ipotesi e lo inviti “amichevolmente a ritornare con i piedi per terra”. Revelli pare avere una necessità spasmodica di trovare pietà per tutti i combattenti, anche per se stesso.
In realtà Rudolf Knaut non era affatto un “buono”. Certo, come ha osservato Luigi Bonanate, è “il simbolo più banale e più anti-eroico della figura del disperso (di tutte le guerre)”, figura immensamente cara a Revelli per via della sua personale esperienza in Russia, ma non è “né migliore né peggiore di tanti combattenti”, degli oltre sette milioni di morti tedeschi e austriaci della seconda guerra mondiale. Revelli si ostina a voler vedere un “buono” in Knaut, un uomo che, sebbene non fosse iscritto al Partito nazionalsocialista di Hitler, si presume che fosse sistematicamente impegnato in attività antipartigiana con il suo battaglione. Se pensiamo che possa esserci dell’ingenuità in questa clemenza ex post di Revelli, però, ci sbagliamo.
“Credo di non aver dimenticato nulla di quei tempi in cui la ferocia era all’ordine del giorno” – scrive in uno dei passaggi più memorabili de Il disperso di Marburg. “Ma voglio che ogni tanto i freni della razionalità si allentino, voglio ogni tanto sognare a occhi aperti. Quante volte, in quei tempi della malora, mi dicevo che in guerra erano i buoni a pagare, non i peggiori”. E questo, nella nostra storia, è sicuramente vero.
2.
Uno degli ultimi giorni del secolo scorso, intervenendo subito prima di un dibattito tra Revelli e il pubblico, il suo amico Christoph Schminck-Gustavus – “tedesco buono”, lui sì – chiede alla platea: “Come ci saremmo comportati noi?”. Immagino la commozione sua e degli astanti, mentre prosegue: incalza chi lo ascolta definendo certo un po’ “farisaico” il pensiero “che avremmo opposto resistenza, che sarem[m]o stati coraggiosi, che saremmo stati un po’ diversi dal normale, da quella normalità che ha permesso che andasse in rovina quasi tutta l’Europa, che morissero milioni e milioni di uomini”. “Saremmo stati diversi?”, chiede Schminck-Gustavus al pubblico, e a tutti noi. Forse, o forse no. Gli avrebbe fatto eco, molti anni dopo, il conturbante criminale di guerra (hollywoodianamente e ordinariamente “cattivo”) Max Aue, voce narrante e protagonista del romanzo Le benevole di Jonathan Littell, con tutt’altro tono: “Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui comincia il pericolo”.
Naturalmente il fatto che questa domanda, “saremmo stati diversi?”, l’abbia posta un tedesco – seppure in un invidiabile italiano – non deve essere passato inosservato. Negli ultimi tre quarti di secolo è spesso bastato l’accento, di un tedesco, per sentire quel piglio “fanatico, cinico, arrogante, spietato”, “quasi a indicare un’essenza antropologica imperitura”, quasi a significare l’incarnazione del male, come avrebbe osservato Filippo Focardi una dozzina d’anni più tardi. Lo fa nel capitolo “Uomini o tedeschi?” del saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano, un pilastro della storiografia italiana più recente che ci mostra come lo sforzo di addossare tutte le colpe della guerra non solo alla Germania nazista ma, per induzione, a tutti “i tedeschi”, avesse coinvolto a trecentosessanta gradi il mondo della cultura e della politica, anche antifascista, con lo scopo di riabilitare l’Italia, nel dopoguerra, nella cornice internazionale. Ma, parallelamente, era rimasta viva la ricerca di “bagliori di umanità non spenta dall’omologazione imposta dal regime”, in scia alla tradizione pacifista – con tutti i suoi chiaroscuri – incarnata da von Suttner e Quidde, a quella socialdemocratica e conservatrice, a quella con connotazioni religiose rappresentata dal pastore protestante Martin Niemöller e dal teologo Dietrich Bonhoeffer, a quella più controversa di parte dell’establishment militare con il suo apice nell’ultima estate di guerra, fino a percorsi di militanza radicale con le salde radici fin nel 1933, quando il nascente regime aveva cominciato immediatamente a internare, a decine di migliaia, i suoi oppositori (soprattutto comunisti, socialisti e sindacalisti), mentre altre decine di migliaia di antinazisti trovavano riparo in esilio. È stato stimato che furono quasi un milione i tedeschi internati nei campi di concentramento del regime, a diverso titolo componenti della “complessa galassia delle resistenze tedesche”. Quanto di questo è trapelato, all’epoca dei fatti e poi nella loro memoria, in Italia?
Fin dall’immediato dopoguerra sulla penisola avevano iniziato a circolare racconti puntuali e locali relativi a tedeschi – non di rado relativamente anziani – che si erano comportati umanamente, senza per questo scalfire oltre la superficie una raffigurazione fondamentalmente “permeata dall’astio antigermanico”. Focardi ha messo in rilievo come, nonostante il tentativo di contrastarlo recuperando, tra le altre cose, il meglio della “cultura di Weimar” e più in generale frammenti dell’“altra Germania”, questo archetipo del tedesco guidato dall’obbedienza acritica e incondizionata fosse un convincimento ben presente dall’Ottocento risorgimentale e con radici addirittura nella contrapposizione fra latinità e germanesimo in epoca romana. Cresciuto esponenzialmente con la propaganda del primo conflitto mondiale, era poi esploso con il nazismo e con una diffusa sensazione di “asservimento” all’alleato – con cui l’esercito fascista gareggiava in ferocia su diversi fronti – nella prima fase del conflitto mondiale. Questo stereotipo del “barbaro” aveva così inquinato anche nel corso della guerra di liberazione il vissuto di tutti i tedeschi, nessuno escluso, “distorcendo anche la percezione di quanti di loro avevano compiuto concretamente un atto di rottura o quantomeno di distacco nei confronti del Terzo Reich, ovvero i disertori e gli oppositori politici”. Al punto che persino nelle Lettere della Resistenza europea (1969) che ne includono dieci di antinazisti tedeschi e austriaci, si ragiona intorno all’odio maturato nei confronti di un “popolo di assassini”. A questo si erano affiancati, in parziale controtendenza, sporadici riferimenti a tedeschi che avevano abbandonato la lotta, mossi più che altro da nichilismo e disperazione, senza coscienza politica, e più in generale a coloro che nel corso della guerra venivano definiti Wehrkraftzersetzer – “disfattisti”, in sostanza.
Considerando la decisa impennata dettata dal panico delle ultime settimane di guerra che rese anche difficile contarli, tuttavia, i disertori delle forze armate tedesche possono essere stimati nell’ordine delle centinaia di migliaia sui circa venti milioni di combattenti (anche di origine ebraica) impegnati sui vari fronti. Furono oltre 22.000 le sentenze di morte per diserzione emanate, e almeno 15.000 vennero in effetti applicate come auspicava Hitler già nel Mein Kampf: se un uomo in guerra può morire, scriveva il futuro dittatore austriaco, il disertore deve. E infatti molti altri – chissà quanti – vennero giustiziati su due piedi: fucilati o impiccati all’albero più vicino dai loro ex commilitoni.
Ma limitiamoci a osservare i dati certi, per ora: 15.000 esecuzioni. È una cifra impressionante, se comparata con i 48 giustiziati nella guerra precedente dal Reich tedesco e con i 40 messi a morte dalla Gran Bretagna e i 146 dagli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, e considerando le centinaia di migliaia di disertori che, scampata la pena capitale, vennero imprigionati o spediti in “battaglioni punitivi”. Se da un lato non bisogna dimenticare, come ha rivelato negli anni Novanta – innanzitutto in Germania e in Austria – la Wehrmachtsausstellung, la mostra itinerante sulla guerra di sterminio e sui crimini della Wehrmacht, che la guerra ai civili non era stata fatta solamente dalle unità più spietate e più ideologicamente vicine al nazismo (SS e Gestapo), ma anche da molti soldati e ufficiali, né che molti “uomini comuni” parteciparono senza farsi troppi scrupoli al massacro spesso prendendoci anche gusto, dall’altro la vicenda dei disertori è un elefante che si aggira in un silenzio spettrale tra le rovine della guerra europea dei Trent’anni. E va raccontata, anche se questo dovesse significare dibattersi fra tracce rarefatte, sbiadite.
Se raramente questi disertori si unirono alle fila nemiche e lo fecero per ragioni ideali, non si può sottovalutare che – come ha mostrato una ricognizione di 16.000 lettere di soldati, sui tre miliardi di missive e pacchi fatti transitare dalla Feldpost tedesca tra il 1939 e il 1945 – i ragazzi e gli uomini tedeschi che combattevano sui vari fronti vedevano la loro guerra “attraverso il prisma non solo dell’ideologia ma anche della tradizione familiare di ciascuno, delle sue letture, della sua esperienza, del suo rapporto con la storia e del modo in cui collocava se stesso nella storia”. Non era facile scostarsi da quella narrazione nella quale rimbombavano i discorsi ottocenteschi sull’Herrenvolk, e che attingeva a piene mani dalla guerra miseramente persa, quella prima: i principali teatri delle operazioni della seconda guerra mondiale, infatti, avevano visto la generazione dei padri battersi nel conflitto precedente, e questi giovani di nuovo in armi avevano spesso “bisogno di sentirsi parte di una lunga genealogia di combattenti”. Per questa ragione le storie di chi remò controcorrente, di chi si mise di traverso cercando di arginare la tracimante marea nazionalista che aveva travolto (quasi) ogni cosa, in patria e oltre, hanno qualcosa di stupefacente.
Nell’estate del 1944, ad esempio, dopo lo sbarco in Normandia la Wehrmacht si trovò vicina al punto di rottura, e le sistematiche diserzioni riguardavano soldati inquadrati precedentemente a est, alsaziani e Volksdeutsche, ma anche tedeschi nati nel Reich (Reichsdeutsche) e austriaci, come ha notato lo storico militare Antony Beevor: “Alcuni erano soldati che non credevano nel regime nazista o che, più semplicemente, odiavano la guerra […] Il generale Lüttwitz, comandante della 2ª Divisione panzer, rimase sconvolto quando tre dei suoi austriaci disertarono passando al nemico e avvertì che i nomi di tutti i disertori sarebbero stati resi pubblici nelle loro rispettive città, così da poter prendere misure contro i loro parenti. ‘Se qualcuno tradisce il suo stesso popolo’ annunciò ‘la sua famiglia non appartiene più alla comunità nazionale tedesca’”. Un alsaziano che cercò di unirsi a una colonna di profughi francesi, racconta ancora Beevor, venne picchiato a morte dai soldati della sua compagnia, e il suo cadavere con le ossa fratturate venne gettato nel cratere di una bomba – “il capitano proclamò che questo era un esempio di ‘Kameradenerziehung’, un’‘educazione al cameratismo’”. Non stupisce che chi aveva ancora energia e coraggio valutasse di passare tra i ranghi del nemico: non è certo un caso che, sul fronte orientale, Himmler decise di proibire la parola “partigiano”, per riferirsi ai gruppi di civili che affiancavano le forze regolari sovietiche, ordinando di utilizzare il termine “banditi” (Banditen), largamente in uso in tutta Europa, o in alternativa il termine franc-tireurs, espressione che i tedeschi conoscevano bene per via della guerra del 1870-71. Il lemma “partigiano” poteva fare presa sui soldati tedeschi, persino nella “guerra assoluta” contro l’URSS, dove fin dalle ore precedenti l’attacco un militare tedesco passò le linee per avvisare i nemici. Dovrebbe trattarsi dell’operaio comunista berlinese Wilhelm Korpik o del caporale Alfred Liskow, falegname comunista bavarese, che è l’unico disertore (e) del quale è citata l’identità nella raccolta di documenti dell’URSS sulla “grande guerra patriottica” e che venne probabilmente non creduto e fucilato dai sovietici. In realtà sappiamo che di militari passati a dar manforte ai “rossi” ce ne furono diversi altri (persino dei generali come Rudolf Bamler), e furono numerosissimi nel celebre e leggendario “Battaglione punitivo 999” – che poi in Grecia vedrà un altissimo tasso di diserzione –, dove erano assegnati i comunisti tedeschi, e in genere gli antinazisti; i passaggi di campo, considerando anche quelli dei combattenti locali, possono essere stimati in decine di migliaia. Le loro storie, e innanzitutto la lungimirante diserzione di Liskow, a guerra in corso vennero talvolta utilizzate per la propaganda antinazista: tra le più emozionanti rimane la vicenda del muratore comunista Fritz Schmenkel, di Stettino, catturato in Bielorussia dai suoi ex camerati dopo oltre due anni di lotta con i partigiani sovietici e fucilato nel febbraio del 1944.
Anche durante la lotta contro i nazifascisti, le Resistenze europee avevano ben chiaro, con gradazioni e convinzioni diverse a seconda della regione geografica e del posizionamento politico, che il nemico non doveva essere demonizzato in toto, e si moltiplicavano gli appelli che lo invitavano a disertare, e a unirsi ai combattenti per la libertà. Sebbene pochi, i “giusti” c’erano, nelle città e sui fronti più disparati. Uno era Joe J. Heydecker, un fotografo della Compagnia Propaganda 689 della Wehrmacht che partecipò come Revelli all’invasione dell’Unione Sovietica e che nel corso dell’occupazione della Polonia fotografò, a rischio della vita, le condizioni degli ebrei del ghetto, consegnando ai posteri una delle più vigili e strazianti testimonianze dello sterminio nazista. Anche tra le vittime in molti cercarono fin da subito di vedere questi “giusti”, per poter credere in un mondo diverso.
Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, è tra i pionieri di questa ricerca dei tedeschi che non fossero complici, alla quale dedica tutta la sua vita di superstite, non senza ricorrenti ritrosie, in maniera ondivaga, “a tratti entusiasta, a tratti frustrante”. Già nel suo ritorno a casa si sorprende a cercare per le vie di Monaco, “fra quella folla anonima di visi sigillati, altri visi, ben definiti, molti corredati da un nome: di chi non poteva non sapere, non ricordare, non rispondere; di chi aveva comandato e obbedito, ucciso, umiliato, corrotto. Tentativo vano e stolto: ché non loro, ma altri, i pochi giusti, avrebbero risposto in loro vece”.
Sotto il “cumulo di rovine e di fallimenti”, a ben cercare, ha sempre covato un’altra narrazione – un contromovimento presente sottotraccia anche in tutta la letteratura resistenziale del continente, e non solo nei percorsi di ricerca e nelle testimonianze dei combattenti e dei sopravvissuti. Sono squarci della narrativa, come “l’ufficialetto” austriaco unitosi alla Resistenza ne Il partigiano Johnny di Fenoglio, “appena un ragazzo, ma pallido e già stempiato […] straordinariamente smilzo, e la divisa naturalmente gli andava larga, ma senza effetto buffo, anzi con un incredibile incremento di romanticità”; accompagnato da una “totale, immascherabile, propagantesi tristezza”. Ricorda, per contrasto, il tedesco catturato – e soprannominato “Fritz” – che nel racconto fenogliano Golia non osa neanche colpire i partigiani con le palle di neve. È “una pasta frolla, non sembra nemmeno un soldato tedesco”, nella descrizione del comandante Sandor; è un soldato tedesco che aveva combattuto anche “l’altra” guerra e che, dopo una lunga convivenza in banda, finisce “giù piatto come una rana”, la faccia nella neve, in una sorta di beffardo e tragico regolamento di conti che ha più a che vedere con la brama di autostima di un minuto partigiano giovanissimo – “Carnera” – che con il comportamento di Fritz, alias “Golia”.
Uno dei picchi più alti di questa ricerca in apparenza destinata al fallimento lo incrociamo nello straordinario Educazione europea di Romain Gary, un romanzo scritto a guerra in corso e ambientato nella Polonia occupata dai nazisti, nel quale troviamo un dialogo tra il protagonista – un ragazzino, Janek – e il suo mentore, Dobranski, che gli vuole dimostrare “fino a che punto ci assomigliamo, noi e loro”. E gli racconta la storia di quando “il terrore tedesco era al colmo”:
“Allora mi domandavo: come può il popolo tedesco accettare tutto ciò? Perché non si ribella? Perché si sottomette e accetta questo ruolo di boia? Certo, coscienze tedesche ferite, oltraggiate in ciò che hanno di più semplicemente umano, si ribellano e si rifiutano di obbedire. Quando, però, vedremo i segni della loro ribellione? Ebbene, a quel tempo un giovane soldato tedesco venne qui, in questa foresta. Aveva disertato. Veniva a unirsi a noi, a mettersi al nostro fianco, sinceramente, coraggiosamente. Non vi erano dubbi: era un puro. Non si trattava d’un membro del Herrenvolk, si trattava di un uomo. Aveva sentito il richiamo di ciò che in lui vi era di più semplicemente umano, e aveva voluto togliersi di dosso l’etichetta di soldato tedesco. Ma noi avevamo occhi soltanto per questo, per l’etichetta. Tutti sapevamo che era un puro. La purezza la senti, quando ti capita di trovarla. Ti acceca, in mezzo a questo buio. Quel ragazzo era uno dei nostri. Ma aveva l’etichetta”.
“E allora?”
“E allora noi lo abbiamo fucilato. Perché aveva addosso l’etichetta: tedesco. Perché noi ne avevamo un’altra: polacchi. E perché l’odio era nei nostri cuori… Qualcuno, a mo’ di spiegazione, o di scusa, non so, gli aveva detto: ‘È troppo tardi’. Ma sbagliava. Non era affatto troppo tardi. Era troppo presto…”.
Dobranski aggiunse:
“Ora ti lascio. Arrivederci”.
E si allontanò nella notte.
3.
Quando le preoccupazioni ti assediano, non è inconsueto che tu ti svegli all’alba. Forse ti sei già costruito un giudizio inappellabile sul baratro in cui è precipitata la Germania, ma hai due figli, uno di pochi mesi e l’altro di due anni, e devi prendere tempo. Vuoi prendere tempo, dannazione – ci va un coraggio immenso, per osare. Per essere “un puro”.
Rudolf non può aver letto Educazione europea, questo è certo, perché uscirà di scena prima che il romanzo di Gary veda la luce. Conosce invece, con ogni probabilità, alcune delle storie della Resistenza tedesca, che non saprà mai farsi un movimento tendenzialmente strutturato e diffuso come invece accadrà in tutta Europa, è vero, ma che ha sempre innervato la Germania nazista, anche negli anni più bui. Avrà sentito parlare, ad esempio, di Georg Elser, carpentiere e falegname, che a due mesi dallo scoppio della guerra ha mancato il Führer di 13 minuti in un attentato dinamitardo, uno tra le decine di mancati tirannicidi che si sono avvicendati in dodici anni di nazionalsocialismo. Nel frattempo Rudolf si è da poco sposato con Herta Jacke, e ha avuto due figli, Rudolf (nato già nel 1937, prima del matrimonio) e Wilhelm, venuto al mondo il 14 febbraio del 1939 a Brema, pochi mesi prima che calasse l’oscurità sul continente, con l’invasione nazista della Polonia.
Papà Rudolf ha fatto di tutto per non essere arruolato nelle forze armate tedesche, trovando una legittima motivazione nella sua condizione familiare e nel fatto che è ancora impegnato con gli studi. D’altra parte ha già prestato servizio militare a partire dall’ottobre del 1935: negli anni Trenta compie un percorso di formazione da marinaio in patria e all’estero, probabilmente in India, allargando così il suo orizzonte. Tornando sul suolo tedesco ha però disobbedito al padre, che aveva ampiamente previsto la tormenta che si stava abbattendo sulla Germania e sull’Europa intera, e l’aveva supplicato – lo abbiamo visto – di stare lontano dal centro degli eventi. Ora, quando gli anni Trenta sfumano nei Quaranta, vive con la famiglia nel sobborgo Francop di Amburgo. La città diventerà celebre per via di un’istantanea e di una storia. L’istantanea: quella foto che immortala un uomo a braccia conserte, in una posa quasi di sdegnosa disubbidienza, immerso in una folla oceanica tesa nel saluto romano a Hitler, nel 1936, in occasione del varo di una nave.
La storia è invece la vicenda della St. Louis, la nave capitanata da un connazionale di Rudolf, il capitano Gustav Schröder, che ha tentato in ogni modo, nell’estate del 1939, di portare in salvo quasi mille ebrei oltre Atlantico, salvo essere poi costretta a fare marcia indietro, perché nessuno, nelle Americhe, li voleva. La vicenda ha avuto un’immensa eco in tutto il mondo, e quasi certamente Rudolf ha osservato la tenacia di Schröder chiedendosi se lui sarebbe stato capace di fare altrettanto – per non parlare delle migliaia di volontari tedeschi e austriaci che in questi medesimi anni si sono battuti per la Repubblica contro i fascismi, nella guerra civile spagnola.
È un giovane uomo nel pieno delle proprie forze, Rudolf, e suppongo cerchi spiragli di coerenza in quella prigione a cielo aperto che è diventata la Germania. Secondo la sorella, ma non a parere del resto della famiglia, è – o almeno era stato – un Weiberheld, un donnaiolo: una foto di quegli anni in divisa da marinaio cattura il suo sguardo vivace, i capelli tirati all’indietro, leggermente rasati sulla tempia, un’occhiata in camera che sembra chiedere “sto bene, così?”. Ha la vita davanti, Rudolf, e pare esserne del tutto consapevole: se in un ritratto di coppia scattato in occasione del suo matrimonio mantiene uno sguardo austero, con il papillon bianco quasi a scomparire sulla camicia altrettanto candida nell’uniformità cromatica, in un quadretto familiare con il figlio Rudolf jr. cogliamo lateralmente il sorriso sincero di un uomo raggiante. La fossetta sulla guancia destra, la mano del figlio appoggiata con delicatezza sulla sua spalla – si intravede una felicità che chi non ha vissuto non sa di poter provare. Quanto inciderà sulle sue future scelte?, mi chiedo.
Perché la Germania – la Germania nazionalsocialista, ora – pronuncia a più riprese il suo nome. Avere 25 anni allo scoppio della guerra, per Rudolf, è una dannazione e un’opportunità: deve lasciare la sua famiglia, come milioni di altri suoi coetanei, e rispondere alla chiamata alle armi, e questa è la maledizione. Ma può fare carriera, con alle spalle la sua formazione da marinaio alla Seemannschule e i suoi studi da ingegnere, seppur interrotti a più riprese: nonostante riesca per diverso tempo a scampare l’arruolamento, gli viene infine intimato di partecipare alla realizzazione del “Vallo Atlantico”, un progetto mastodontico con l’obiettivo di rendere la “fortezza Europa” nazista inespugnabile, ad Amburgo-Altona e a Saarburg. Presta giuramento alla Marina di guerra – la Kriegsmarine – l’8 maggio del 1941 e a fine agosto del 1942, quando il mondo sta entrando nel quarto anno di guerra, si trova a nord di Brema, nella Bassa Sassonia (a Wilhelmshaven). Un tedesco di 28 anni, in pieno conflitto mondiale, difficilmente può evitare di prenderne parte.
Ed è così che Rudolf, nato sotto una stella armata a Brema e diventato adulto per le vie del mondo e nella turbolenta Amburgo, richiamato dalla Marina il 25 settembre del 1943, dopo qualche mese con la Maas-Flottille nell’Europa settentrionale arriva infine in Italia – un fronte che diventerà presto secondario, ma sul quale i vertici delle forze armate tedesche ripongono ancora fiducia. Sul suo ruolino militare non risultano sanzioni disciplinari. Servono gli uomini migliori per arrestare la risalita della penisola degli Alleati, e per annichilire quei piantagrane dei “banditi” italiani, che imperversano intorno alle Alpi Apuane.
4.
Secondo alcuni dei partigiani protagonisti di questa stagione, la banda del marinaio sarzanese Flavio Bertone, nome di battaglia “Walter”, proprio nell’estate del 1944 prende il nome “Ugo Muccini”, in ricordo di un militante comunista che si era arruolato nelle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola ed era morto eroicamente a Sierra Cabals, nel corso della leggendaria battaglia dell’Ebro, non ancora trentenne. Secondo altri, il nome della banda i cui primi nuclei nascono nella valle del fiume Magra sarebbe stato acquisito ben prima, mentre è certo che dall’autunno la denominazione sarebbe stata questa, fino al termine della guerra, una volta costituitasi come Brigata garibaldina d’assalto. La banda guidata da “Walter”, il cui commissario politico è Paolino Ranieri (“Andrea”), in ogni caso, dopo essersi spostata nell’entroterra, a giugno partecipa alla liberazione del paese di Bardi, non lontano da Parma, e da questo colpo di mano nasce l’esperienza della repubblica partigiana del Ceno – un’esperienza pionieristica nell’Italia occupata –, alla quale fa seguito l’istituzione del vicino Territorio libero della Val Taro, con una popolazione di oltre 40.000 abitanti. Le fotografie scattate agli uomini di “Walter” e “Andrea” a Bardi ci mostrano un gruppo compatto di giovani determinati, che vogliono fare la differenza non solo nei luoghi dei quali la maggior parte di loro è originaria. La porzione di territorio dalla Spezia a Parma in cui si stanno muovendo è cruciale per gli Alleati: la presenza delle Alpi Apuane e dell’area appenninica che porta da Genova a Modena rende infatti alquanto impervia la zona nella quale non è in sostanza possibile ingaggiare scontri in campo aperto. Né, per i partigiani, sarebbe sensato.
Quella della banda di “Walter”, e vale in generale per la Resistenza italiana, è guerra di guerriglia: un conflitto asimmetrico, contro un nemico che ha risorse spropositate e armamenti con un raro potenziale distruttivo. L’occupazione nazista è iniziata a settembre del 1943, e nelle settimane successive in un’ampia area dell’Italia centrosettentrionale è sorto il governo vassallo fascista della Repubblica sociale italiana, per proseguire la guerra al fianco dello storico alleato. I diversi sbarchi angloamericani hanno rapidamente liberato l’Italia del sud, e il fronte si è incancrenito per circa otto mesi sulla Linea Gustav, dove combattono truppe arruolate in ogni dove, in uno schieramento e nell’altro – anche qui è davvero una guerra “mondiale” che coinvolge decine di stati e di nazionalità. Dopo lo sfondamento della Gustav a maggio, grazie al contributo determinante delle truppe coloniali francesi e del corpo di spedizione polacco, i tedeschi sono definitivamente in ritirata dal Mezzogiorno, incalzati anche dai combattenti provenienti dal Corno d’Africa come quelli della “Banda Mario”, che avrà tra i suoi ranghi un melting pot di combattenti di almeno otto nazionalità tra cui un viennese, Emerich Schafranek. La pressione alleata sta spingendo gli avamposti tedeschi più meridionali verso il sud della Toscana: in quell’area i disertori sono numerosi, rileva Carlo Gentile – lo storico che aiutò Revelli nella sua ricerca –, e la disciplina risulta “fortemente compromessa”. Il Comando supremo della Wehrmacht tenta di “reagire a quelle tendenze disgregative mandando in Italia un reggimento di Feldjäger, un corpo speciale di polizia militare dotato di pieni poteri e incaricato di intercettare fuggiaschi e disertori alle spalle della linea di combattimento per rispedirli al fronte”.
“Te la fanno vedere loro, la diserzione”, commenta portandosi un dito teso alla tempia Walter, il protagonista diciassettenne del romanzo Morire in primavera di Ralf Rothmann, ambientato in un altro teatro di guerra (quello ungherese, dove Walter è trascinato suo malgrado) ma che delinea perfettamente i rischi che la diserzione comporta: “La polizia militare vede chiunque a mille metri di distanza e ti impicca su due piedi, senza processo. Sono dei veri bastardi. Probabilmente rischi di meno se riesci a tenerti fuori fino alla fine”.
Nella regione lo sa bene il diciannovenne tedesco Günter Frielingsdorff, pittore e studente d’architettura, “un bel ragazzo, un bel moro, alto” secondo una testimone, che già a ottobre del 1943 ha disertato insieme a un compagno, aggregandosi alla Resistenza nel Grossetano: dopo varie peripezie, si è unito a una banda di dieci giovani italiani – con loro “lo spezzino” trentottenne Mario Becucci – nella macchia di Monte Bottigli, una trentina di chilometri a sud di Grosseto. Durante un rastrellamento in seguito a delazione, iniziato la notte tra il 21 e il 22 marzo 1944, Frielingsdorff riesce a salvarsi sfondando audacemente la parete della capanna in cui si trova per fuggire nella boscaglia, dove i fascisti lo inseguono sparando all’impazzata – gli abitanti del luogo ricorderanno che “gli passavano sopra le pallottole”, come in un film. Ma è la bruta realtà: “il fatto che soltanto uno della banda è riuscito a fuggire all’annientamento, dimostra che la sorpresa è riuscita in pieno”, commenta poi il capo fascista della provincia ai suoi “gregari”, rivolgendo il suo “vivo plauso” agli autori materiali di quella che passerà alla storia come la strage di Istia d’Ombrone. Gli undici compagni di Frielingsdorff – tutti tranne Becucci fra i 19 e i 24 anni – vengono fucilati la mattina stessa, e gli esecutori si allontanano dal luogo dell’eccidio cantando. La sera del giorno seguente il disertore tedesco si presenta a un podere “tutto strappato” (ricorda un’altra testimone) con i piedi sanguinanti e, rimasto nella zona, partecipa alla guerra di liberazione nella banda di Monte Bottigli “Sempre Presente”, mantenendo il nome di battaglia “Gino” e ottenendo il riconoscimento di partigiano combattente – con lui combatterà anche un coetaneo austriaco, Frurin Chlofch. Nelle vite di molti dei ragazzi come Frielingsdorff e Chlofch – che alla fine della guerra avranno vent’anni – e come gli undici ragazzi della strage di Istia d’Ombrone che Frielingsdorff scampa a testa bassa nella boscaglia, in fondo, “a parte la guerra non era successo ancora molto”. Leggo questa osservazione folgorante nel “romanzo di fatti” di Christiane Kohl intitolato Villa Paradiso, ambientato proprio in Toscana e che illumina la complessità tra i ranghi delle forze armate tedesche, mostrando parecchie e diverse possibilità dell’agire umano anche nella schiera dei carnefici, sebbene non appaiano disertori in senso stretto fino ai “titoli di coda” del libro, dove l’autrice racconta di un renano senza nome che, fuggito dal fronte orientale, raggiunge rocambolescamente i partigiani italiani per unirsi a loro. Le descrizioni di Kohl ci aiutano anche a restituire la giusta tinta – fosca – a quanto sta accadendo sulle colline toscane: “La regione si stava progressivamente trasformando in uno scacchiere su cui si svolgeva una guerriglia confusa e disordinata. I tedeschi, che vedevano avvicinarsi lo scacco matto, rappresentato dalle truppe inglesi sempre più vicine, si vendicavano con maggior accanimento sulle pedine più piccole, ovvero sulla popolazione civile italiana. Intanto gli abitanti si aspettavano che la guerra sarebbe terminata nel giro di pochi giorni, con l’arrivo degli alleati: la vita era come una violenta raffica di vento, capace di far precipitare la gente dalla speranza alla paura e viceversa, in una continua altalena”.
L’Autore
Carlo Greppi-
Carlo Greppi,storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento.Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018) e Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022).
RASSEGNA STAMPA
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Fara in Sabina (Rieti)-Un ricco weekend di spettacoli al Teatro Potlach –
Fara in Sabina – Va in scena al Teatro Potlach ,Sabato 29 Marzo alle ore 21.00, “MOBY DICK”con Maurizio Stammati adattamento e regia Antonello Antonante scene e costumi Dora Ricca allestimento scenografico e foto di scena Eros Lealeluci e audio Giuseppe Canonaco immagini Angelo Gallo-
“MOBY DICK”con Maurizio Stammati adattamento e regia Antonello Antonante
Moby Dick, allegoria dell’uomo alla ricerca di se stesso ed esplorazione del mistero.Nelle pagine di Melville si scopre che quell’abbandonare la sicurezza della terraferma, per puntare verso la verità del mare aperto, appaga per sempre l’istinto di qualsiasi Ulisse e l’ambizione di qualsiasi gioventù. La Pequod (il nome della baleniera del capitano Achab) si trasforma, preso il mare, in un microcosmo, in una medievale allegoria dell’uomo, del suo destino, delle sue scelte, o addirittura in un riassunto della storia dell’uomo. Achab, nella sua determinazione di lottare, sino all’autodistruzione o al sacrificio, per conoscere la verità assoluta (perché questo è il senso della sua caccia alla balena) scopre (per tutti noi) il limite fatale della sua follia che sta nella superbia, il peccato dei peccati.Moby Dick di Hermann Melville è uno dei capolavori della letteratura americana, considerato opera fondamentale della letteratura mondiale.
“MOBY DICK”con Maurizio Stammati adattamento e regia Antonello Antonante
Età consigliata: da 13 anni
Biglietto: 10 €
Info e prenotazioni scrivendo SMS o WhatsApp al numero del Teatro Potlach: 351.7954176
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E la domenica… appuntamento in teatro per tutta la famiglia!
Domenica 30 Marzo alle ore 17.00 al Teatro Potlach di Fara Sabina
“Fiabe scacciamostri” – Teatro Laboratorio Isola di Confine
Di e con: Giulia Castellani, Valerio Apice
Canzoni originali: Giulia Castellani
A volte i bambini hanno paura di andare a dormire. Fa paura il buio della notte, con le sue ombre lunghe, che nasconde chissà quale orribile mostro. Anche Nicolino ha paura e non vuole proprio addormentarsi.
«Papà! Papà! Mi racconti una storia?»
«Va bene, Nicolino, però poi promettimi che ti addormenterai»
Lo spettacolo racconta diverse storie, con le tecniche del teatro d’attore e del teatro di figura, accompagnato da canzoni e musica dal vivo. Nicolino ascolterà fiabe classiche come “I musicanti di Brema” e fiabe più moderne come “Il mostro peloso” tratto dal libro di Henriette Bichonnier. Fiabe di spavento e di coraggio, ma anche per sorridere ed esorcizzare insieme le paure dei bambini.
E alla fine… Si addormenterà Nicolino?
|Adatto a partire dai 3 anni.
Biglietto: 5 €
Info e prenotazioni scrivendo SMS o WhatsApp al numero del Teatro Potlach: 351.7954176
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TEATRO POTLACH via Santa Maria in Castello n. 28, Fara in Sabina (RI)
Poggio Mirteto(RI)- ospita la Mostra “PLAUTILLA BRICCI-Architettrice a Roma nel Seicento”-
Poggio Mirteto (Rieti)-ospita la Mostra “Plautilla Bricci ” la prima donna architetto nella storia dell’arte. Valente disegnatrice, pittrice capace, musicista dilettante e persino scultrice, Plautilla Bricci fu anche un’esperta architetta. La sua fama nel campo dell’architettura si deve all’abate Elpidio Benedetti, che le commissionò il Casino del Vascello sul Gianicolo e un’intera cappella in una delle chiese più importanti di Roma: una circostanza così eccezionale da richiedere l’invenzione di un termine appropriato, “architettrice”, per sugellare il riconoscimento ufficiale della donna in un settore artistico al tempo riservato esclusivamente agli uomini. La mostra vuole presentare i progetti dell’architettrice Plautilla Bricci nel panorama della Roma seicentesca. Oltre alla Villa del Vascello e la cappella del Re Santo in San Luigi dei Francesi, anche i progetti per la scalinata di Trinità dei Monti e il reliquario in San Giovanni in Laterano.
Dal 31 Marzo al 31 Maggio 2025
“PLAUTILLA BRICCI-Architettrice a Roma nel Seicento”
Chi era Plautilla Bricci
Donna “libera” e signora romana, Plautilla Bricci (1616-1692) è l’unica artista universale donna nell’Europa di età moderna. Valente disegnatrice, pittrice capace, musicista dilettante e persino scultrice, Plautilla Bricci fu anche un’esperta architetta. La sua fama nel campo dell’architettura si deve all’abate Elpidio Benedetti (1610-1690), che le commissionò il Casino del Vascello sul Gianicolo e un’intera cappella in una delle chiese più importanti di Roma: una circostanza eccezionale anche da richiedere l’invenzione di un termine appropriato, “architettrice”, per sugellare il riconoscimento ufficiale della donna in un settore artistico al tempo riservato esclusivamente agli uomini.
La mostra vuole presentare i progetti dell’architettrice Plautilla Bricci nel panorama della Roma seicentesca. Oltre alla Villa del Vascello e la cappella del Re Santo in San Luigi dei Francesi, anche i progetti per la scalinata di Trinità dei Monti e il reliquario in San Giovanni in Laterano.
“… la terza maniera è il fabricar sempre in presenza dell’Architetto,, il quale se sarà buono e ideale farà mettere benissimo in essecutione le sue idee senza un minimo errore…”
(da ASCL, vol. FF xx, cc. 373-377 Lettera di Plautilla Bricci al Signor Antonio degli Effetti per il pagamento del reliquario di San Giovanni in Laterano)
“…li modelli sempre si devono pagare, e sempre si è costumato pagarli…”
(da ASCL, vol. FF xx, cc. 373-377 Lettera di Plautilla Bricci al Signor Antonio degli Effetti per il pagamento del reliquario di San Giovanni in Laterano)
“La volta del timpano è parimenti ornata di stucchi in varij ripartimenti con pitture della signora Plautilla Bricci, che trahono gl’applausi da ognuno e la stima da i più intendenti”
(Dal volume Villa Benedetta di Elpidio Benedetti, stampato a Roma 1677)
Plautilla Bricci, una donna emancipata al secolo del Re Sole
-Fonte Rivista ELLE– Plautilla Bricci è stata per molto tempo un personaggio della storia dell’arte poco noto e conosciuto e solo negli ultimi anni la sua figura è tornata in auge ed è stata indagata attraverso mostre e percorsi museali perché è stata la prima e unica architetta del suo tempo. Nel Seicento, infatti, per le donne era particolarmente difficile emergere in qualsiasi ambito dell’arte e della cultura data la società prettamente patriarcale, eppure Plautilla è riuscita nell’impresa che molte giovani del suo tempo hanno tentato invano. Incontriamo più da vicino questa complessa figura di donna e di professionista in un tempo in cui alle donne era permesso solo di essere madri e mogli.
È stato decisamente particolare il cammino intrapreso da Plautilla Bricci per affermarsi come prima donna architetto nell’Italia del Seicento: ha potuto godere di un’indipendenza e un’autonomia impensabili per una donna della sua epoca, considerato che non si sposò o prese mai i voti. Come le altre sue colleghe, anche lei era figlia d’arte: è stato proprio il padre Giovanni, infatti, ad avviarla nella sua bottega senza limitarsi a insegnarle i rudimenti del disegno e del colore ma introducendola anche alle basi dell’architettura.
Le sue prime opere PlautillaBricci le ha realizzate proprio per il padre. All’inizio si era dedicata a dipinti di teste e a busti di Madonne che le più importanti botteghe del tempo, però, non presero in considerazione. Solo tramite il padre riuscì a ottenere la sua prima commissione: il genitore, infatti, le offrì la sua rete di contatti e committenze e permise così alla figlia di mettersi in gioco.
Il percorso professionale di Plautilla Bricci
Era il 1640 quando Bricci si dedicò alla sua prima pala d’altare per la chiesa di Santa Maria in Montesanto: si trattava di quella “Madonna con Bambino” che cambierà completamente la vita dell’artista. Non era stato facile per la giovane dedicarsi alla pala dato che era abituata a lavorare su piccoli quadri: leggenda vuole che Plautilla, addormentatasi per la stanchezza e la difficoltà richieste dall’opera, al suo risveglio abbia trovato la pala già completata.
Questo ipotetico episodio miracoloso contribuì a rendere il suo nome noto nell’ambiente e le valse la conoscenza di suor Maria Eufrasia della Croce, sorella dell’abate Elpidio Benedetti, una delle figure più influenti di Roma, consigliere prima del famigerato cardinale Mazzarino e poi agente di re Luigi XIV, il Re Sole. Conoscere una personalità tanto influente nel gioco politico tra Roma e Parigi permise all’artista romana di cimentarsi e ricevere importanti commissioni, di essere impegnata nella progettazione di opere illustri nonché nell’ideazione di apparati decorativi tra i più importanti della città (suo il progetto per la scalinata di Trinità dei Monti). L’abate Benedetti, da cultore dell’arte, conosceva tutti gli artisti più famosi dell’epoca, dal Bernini a Pietro da Cortona, da Andrea Sacchi a Giovan Francesco Romanelli, e grazie a lui Plautilla Bricci riuscì a rendere reali le sue aspirazioni e le sue ambizioni affermandosi come architetta. Tale evento fu tanto più eccezionale da far nascere appositamente per lei un termine nuovo, quello di architettrice, per definire il suo ruolo in un settore che fino ad allora era stato, come molti, esclusivamente riservato agli uomini.
Proprio sull’inizio della sua professione di architetta, molti restano ancora i punti da chiarire: si ipotizza che l’influenza del Benedetti fosse stata ancora una volta imprescindibile per l’artista, cui forse l’abate affidò la ristrutturazione di una casa che aveva preso in affitto. Altri studiosi di Plautilla Bricci sono concordi nel supporre che la giovane abbia frequentato la scuola per architetti di Cassiano dal Pozzo e che abbia messo in pratica tali insegnamenti già nel cantiere dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, insieme al fratello Basilio, nel 1612. L’essere donna, inoltre, deve averla ostacolata non poco nel prendersi i propri meriti: sarà solo dopo i cantieri del Vascello e di San Luigi dei Francesi che la Bricci riuscirà a emanciparsi come artista indipendente.
Plautilla Bricci e Villa del Vascello, l’opera più rappresentativa
La sua opera più famosa è stata Villa Benedetta fuori Porta San Pancrazio, meglio nota come il Vascello, che è stata pesantemente danneggiata durante l’assedio dei francesi nel 1849. La villa sarebbe stata la nuova dimora del suo mecenate, l’abate Benedetti. I lavori partirono nel 1663 e vi presero parte anche artisti come Bernini, Cortona e Grimaldi, tutti diretti da Plautilla. Proprio perché era una donna al comando del cantiere, che l’inizio dei lavori non si dimostrò dei più rosei: il capocantiere, infatti, non intendeva prendere ordini da una donna e minacciò di mollare. L’abate intervenne e lo obbligò a firmare alla presenza di un notaio un atto in cui si impegnò formalmente a obbedire a Plautilla Bricci, definita nel contratto come l’architettrice.
In tale occasione, inoltre, la Bricci non ricoprì solo il ruolo di architetta ma anche di pittrice: si occupò, infatti, anche delle decorazioni interne dell’edificio realizzando numerosi affreschi oltre a un dipinto a olio per la cappella del palazzo, con soggetto l’assunzione della Vergine. Le volte delle tre gallerie che progettò per il piano nobile del palazzo, ornate da specchi e trofei con pavimenti in maiolica bianca e nera, vennero decorate dagli affreschi di Pietro da Cortona, Grimaldi e Allegrini. La struttura, nota anche come Villa Benedetti e in seguito Villa Giraud, dal nome di uno dei suoi proprietari, è passata alla storia come villa del Vascello per la sua forma desueta.
Le ultime opere di Plautilla Bricci
Tra il 1671 e il 1680 invece Plautilla Bricci si occupò interamente della progettazione della cappella di San Luigi presso la chiesa di San Luigi dei Francesi per l’abate Benedetti e per la quale realizza anche la pala d’altare raffigurando “San Luigi IX di Francia fra la Storia e la Fede”. Nel 1675 la Compagnia della Misericordia di Poggio Mirteto le commissionò uno stendardo per le processioni che rappresentava la nascita e il martirio di San Giovanni Battista; mentre dal 1683 al 1687 fu impegnata nella realizzazione della “Madonna del Rosario con i santi Domenico e Liborio” per la collegiata di Santa Maria Assunta di Poggio Mirteto. Quando nel 1690 l’abate Benedetti muore, le lasciò una casa a Trastevere di cui, però, la sua pupilla poté godere solo per poco tempo: quando anche il fratello Basilio la lascerà, deciderà di trasferirsi nel monastero di Santa Margherita in Trastevere dove resterà fino alla fine dei suoi giorni.
Roma- Il Premio Nobel per la Letteratura Jon Fosse riceve la Lupa Capitolina,dal Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri-
Il Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri conferirà allo scrittore norvegese Premio Nobel Jon Fosse il più importante riconoscimento della Città di Roma, la Lupa Capitolina. La cerimonia si svolgerà in Campidoglio, dove al termine di un colloquio privato, alla presenza dell’Assessore alla Cultura di Roma Capitale, Massimiliano Smeriglio, Jon Fosse sarà accompagnato a firmare il “Libro d’Oro Capitolino” nella Sala delle Bandiere per poi ricevere la Lupa.
Nello stesso giorno, alle ore 21, avrà luogo, con i saluti dell’Assessore alla Cultura di Roma Capitale, un incontro aperto al pubblico e gratuito all’Auditorium Parco della Musica – Ennio Morricone in cui Jon Fosse dialogherà con la scrittrice Claudia Durastanti e il traduttore, Andrea Romanzi.
Si tratta del primo incontro delle Anteprime di Letterature Festival Internazionale di Roma, storica manifestazione letteraria promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, curata dal Dipartimento Attività Culturali con il coordinamento organizzativo di Zètema Progetto Cultura. Questo primo incontro è organizzato in collaborazione con l’Ambasciata di Norvegia.
Jon Fosse, nato a Strandebarm nel 1959, è scrittore e drammaturgo ed è universalmente considerato uno dei più importanti autori contemporanei. Attualmente vive nella residenza onoraria di Grotten, a Oslo, concessagli dal Re per i suoi meriti letterari. Fosse è uno scrittore incredibilmente prolifico. Ha esordito nel 1983 e da allora ha pubblicato romanzi, raccolte di poesie, saggi e libri per bambini. Le sue opere – per cui è stato insignito di numerosi premi internazionali ed è stato più volte candidato al Premio Nobel – sono state tradotte in oltre 40 lingue. I suoi testi teatrali sono stati messi in scena in tutto il mondo. Presso La Nave di Teseo ha pubblicato Mattino e sera (2019), L’altro nome. Settologia I-II (2021), Io è un altro. Settologia III-V (2023) e Melancholia I-II (2023), Un bagliore (2024) e Un nuovo nome. Settologia VI-VII (2024). Settologia I-II – libro dell’anno per “The New Yorker” e scelto tra i 100 libri del secolo da “The New York Times” – è stato finalista nel 2022 all’International Booker Prize, al National Book Award e al National Book Critics Circle Award. Crocetti editore ha pubblicato nel 2024 l’opera poetica Ascolterò gli angeli arrivare.
Autore in lingua nynorsk, ottenne notorietà nel suo paese nel 1983, con la pubblicazione del romanzo Raudt, Svart (Rosso, Nero), il cui titolo è ispirato al romanzo Le rouge et le noir, dell’autore francese Stendhal. Nel 1993 ottenne anche notorietà internazionale, grazie alla sua prima opera teatrale, Nokom kjem til å kome (Qualcuno arriverà). Nel 2007 fu nominato cavaliere dell’Ordre national du Mérite in Francia, è considerato dal Daily Telegraph uno dei 100 geni viventi.[2] Il governo norvegese gli ha concesso, per meriti letterari, di risiedere nella residenza di Grotten, edificio risalente al XIX secolo situata nel cortile del Palazzo reale.[3]
Il 5 ottobre 2023 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura “per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile”.[4] Con Sant’Agostino ritiene che l’indicibilità sia la principale caratteristica con cui si esprime Dio e ciò che “la letteratura potente dice, o mostra”.[5]
Il 5 marzo 2024 al Teatro Carignano di Torino, in prima nazionale, diretto e interpretato da Valerio Binasco, ha debuttato “La ragazza sul divano”, affascinante opera introspettiva tra presente e passato di una donna di mezza età, intenta a dipingere il ritratto di una ragazza seduta su un divano.
Nel 2012 si è convertito dal luteranesimo al cattolicesimo.[6]
Opere
Prosa
Raudt, svart (1983).
Stengd gitar (1985).
Blod. Steinen er (1987).
Naustet (1989).
Flaskesamlaren (1991).
Bly og vatn (1992).
Dyrehagen Hardanger (1993).
To forteljingar (1993).
Prosa frå ein oppvekst (1994).
Melancholia I (1995).
Melancholia II (1996).
Melancholia, Postfazione e traduzione di Cristina Falcinella, Collana Mine vaganti, Roma, Fandango, 2009, ISBN978-88-604-4132-4. – Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2023, ISBN 978-88-346-1690-1.
L’altro nome. Settologia I-II (Det andre namnet – Septologien I-II, 2019), traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2021, ISBN978-88-346-0457-1.
Io è un altro. Settologia III-V (Eg er ein annan – Septologien III-V, 2020), traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2023, ISBN978-88-346-1512-6.
Un bagliore, traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2024, ISBN978-8834617687.
Un nuovo nome. Settologia VI-VII (Eit nytt namn – Septologien VI-VII, 2021), traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2024, ISBN978-88-346-1869-1.
Teatro
Qualcuno verrà (Nokon kjem til å komme, scritto nel 1992–93, rappresentato nel 1996).
E non ci separeremo mai (Og aldri skal vi skiljast, 1994).
Teatro. E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome, a cura di Vanda Monaco Westerståhl, Collana I Testi, Imola, CUE Press, 2023, ISBN 978-88-551-0308-4.
Teatro, a cura di Rodolfo Di Giammarco, trad. di G. Perin e F. Ferrari, Collana Scritture, Roma, Editoria & Spettacolo, 2006, ISBN 978-88-890-3664-8. [contiene: Il nome, Qualcuno arriverà, E la notte canta, Sogno d’autunno, Inverno, La ragazza sul divano]
Tre drammi. Variazioni di morte, Sonno, Io sono il vento, trad. e cura di Vanda Monaco Westersthåhl, Collana Lo spirito del teatro, Siena, Titivillus, 2012, ISBN 978-88-721-8342-7.
Altiero Spinelli e l’Europa-MANIFESTO di VENTOTENE-
Il 23 maggio 1986 moriva a Roma Altiero Spinelli, tra i padri dell’Unione Europea. Nato a Roma nel 1907, militante comunista, viene arrestato dalla polizia fascista e condannato a 16 anni di reclusione. Durante la detenzione matura il suo distacco dal Pci e dopo il carcere, confinato a Ventotene, scrive, fra il 1941 e il 1942, in collaborazione con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, il Manifesto per un’Europa libera e unita.
Noto come il Manifesto di Ventotene, considerato il documento di base del federalismo europeo.
Caduto il fascismo, liberato il 19 agosto 1943, dieci giorni dopo Spinelli fonda a Milano, insieme a una trentina di reduci dal confino, dal carcere e dall’esilio, il Movimento Federalista Europeo. Nel luglio del 1980 promuove l’iniziativa che porterà al trattato di Unione Europea, approvato a larghissima maggioranza dal Parlamento Europeo il 14 febbraio 1984.
Altiero Spinelli è stato un politico anomalo, ricorda in Altiero Spinelli, lo storico Pietro Graglia: «prima giovane militante comunista, poi, durante la Resistenza e dopo la guerra, profeta dell’unità federale dell’Europa. Combattente indomito, quasi sempre controcorrente, oggi egli appare sempre più una delle figure di rilievo assoluto del Novecento europeo. Della sua vita privata e pubblica Spinelli ha lasciato testimonianze numerose: le memorie, i diari (tutti pubblicati dal Mulino), un ricchissimo archivio».
Sulla base di questi documenti e grazie a una paziente ricerca condotta in archivi europei e americani, Graglia con questo volume ha tracciato per la prima volta un profilo completo della vita e dell’azione politica di Spinelli, soffermandosi in maniera speciale sui decenni dell’impegno federalista e del lavoro nelle istituzioni europee. Minuziosa e appassionata, questa biografia ci porta a contatto diretto con una vicenda umana e politica fuori dal comune e ne conferma a un tempo l’importanza e il fascino.
Un altro libro dopo oltre un settantennio dalla fine della Seconda guerra mondiale e dall’avvio della storia repubblicana: L’Italia e l’Europa di un pessimista attivo – Stati Uniti d’Europa e altri scritti sparsi (1930-1976), edito da Il Mulino, è «il pensiero di uomini e donne del nostro antifascismo, come i valori e le battaglie di quelle generazioni, che costituiscono un patrimonio comune della nostra recente storia democratica ed europea», una fonte d’ispirazione per riflettere sulla condizione presente.
Sono gli scritti di Mario Alberto Rollier raccolti in questo volume, redatti fra gli anni Trenta e Settanta del secolo scorso e affrontano con sorprendente attualità alcune questioni centrali del Novecento che ancora oggi si pongono alla nostra attenzione: l’ecumenismo cristiano e il desiderio di rinnovamento evangelico, l’antifascismo e la Resistenza, la difesa della laicità dello Stato e l’esperienza costituente, il federalismo interno e sovranazionale, il sogno degli Stati Uniti d’Europa, fino alle problematiche di carattere scientifico sull’impiego civile dell’energia nucleare.
La vita di Rollier traccia, con una prospettiva inedita, il quadro di un’epoca della storia europea caratterizzata dalla profonda crisi dei valori cristiani, sopraffatta dagli egoismi nazionali e dalla ferocia dei totalitarismi, ma anche carica di forti tensioni morali, di attese, di entusiasmi e di impegno civile e politico.
Mario Alberto Rollier (1909-1980) nasce a Milano in una famiglia valdese aperta alla cultura liberale europea. Influenzato da Karl Barth e dal movimento ecumenico, partecipa alla stagione di rinnovamento dell’evangelismo italiano. Antifascista, azionista ed europeista è tra i fondatori del Movimento federalista europeo con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli e tra gli estensori della Carta di Chivasso insieme a Émile Chanoux. Chimico di fama nazionale, è stato direttore del Centro sperimentale Lena di Pavia che ha ospitato il primo reattore nucleare italiano.
FONTE-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Altiero Spinelli
Biografia di Altiero SPINELLI-Uomo politico italiano, nato a Roma il 31 agosto 1907, morto ivi il 23 maggio 1986. È stato il massimo sostenitore dell’ideale europeista nell’Italia del secondo dopoguerra. Aderì giovanissimo al Partito comunista e partecipò all’attività clandestina antifascista. Nel 1927 fu arrestato a Milano e condannato a sedici anni di carcere. Nella primavera del 1937 fu inviato al confino di Ponza e, nel luglio 1939, a quello di Ventotene. Nel frattempo, nel 1937, a causa degli orrori della politica staliniana, aveva abbandonato il partito. A Ventotene si convertì al federalismo e scrisse, insieme a E. Rossi, Per una Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto (1941), noto anche come Manifesto di Ventotene, da cui emergeva come la migliore organizzazione politica per l’Europa democratica che stava per nascere dalla guerra fosse l’unità federale dei suoi popoli liberi. Liberato nell’agosto 1943, fondò a Milano il Movimento federalista europeo, di cui fu segretario generale dal 1947 al 1963. Nel 1945-46 entrò nella segreteria politica del Partito d’Azione, che lasciò nel febbraio 1946 quando, insieme a U. La Malfa e a F. Parri, costituì il Movimento della Democrazia Repubblicana (MDR). Abbandonato anche questo raggruppamento politico, si dedicò esclusivamente all’impegno del Movimento federalista, e dopo la mancata ratifica, da parte dell’Assemblea nazionale francese, della CED (Comunità Europea di Difesa) che avrebbe costretto gli stati nazionali ad avere un esercito comune e quindi, in prospettiva, una politica comune (1954), si convinse che non si sarebbe mai raggiunto l’obiettivo di un’Europa federale se non si fosse passati da una politica di vertice a un’azione di mobilitazione popolare. Nel 1965 fondò a Roma l’Istituto di affari internazionali, un centro che doveva favorire, attraverso la conoscenza dei problemi della politica internazionale, un’evoluzione di tutti i paesi del mondo verso forme di organizzazione sovranazionale. Dal 1970 al 1976 fu nominato membro della Commissione esecutiva della Comunità europea, e nel giugno 1976 fu eletto deputato come indipendente nelle liste del PCI. Nello stesso anno divenne deputato europeo, poi confermato nelle elezioni del 1979 e del 1983. Nel 1983 scrisse il ”Trattato di Unione europea”, poi fatto proprio dal Parlamento europeo.
Tra i suoi scritti citiamo: L’avventura europea (1972); Come ho tentato di diventare saggio. 1. Io, Ulisse; 2. La goccia e la roccia (1984); Il progetto europeo (1985); Discorsi al Parlamento europeo 1976-1978 (1986); Diario europeo (1989).
Bibl.: E. Paolini, Altiero Spinelli. Appunti per una biografia, Bologna 1987; Altiero Spinelli and federalism in Europe and in the world, a cura di L. Levi, Milano 1990.
FONTE-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani-
Carlo Greppi -Storia di Lorenzo, che salvò Primo Levi-Editori Laterza
Descrizione del libro di Carlo Greppi-In Se questo è un uomo Primo Levi ha scritto: «credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi». Ma chi era Lorenzo? Lorenzo Perrone, questo il suo nome, era un muratore piemontese che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz. Un uomo povero, burrascoso e quasi analfabeta che tutti i giorni, per sei mesi, portò a Levi una gavetta di zuppa che lo aiutò a compensare la malnutrizione del Lager. E non si limitò ad assisterlo nei suoi bisogni più concreti: andò ben oltre, rischiando la vita anche per permettergli di comunicare con la famiglia. Si occupò del suo giovane amico come solo un padre avrebbe potuto fare. La loro fu un’amicizia straordinaria che, nata all’inferno, sopravvisse alla guerra e proseguì in Italia fino alla morte struggente di Lorenzo nel 1952, piegato dall’alcol e dalla tubercolosi. Primo non lo dimenticò mai: parlò spesso di lui e chiamò i suoi figli Lisa Lorenza e Renzo, in onore del suo amico. Questo libro è la biografia di una ‘pietra di scarto’ della storia, di una di quelle persone che vivono senza lasciare, apparentemente, traccia e ricordo di sé. Ma che, a ben guardare, sono la vera ‘testata d’angolo’ dell’umanità.
Carlo Greppi-
L’autore Carlo Greppi
Carlo Greppi, storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento. Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente(2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018), Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022) e Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo(2023,Premio TIR-The Italian Review, tradotto in spagnolo, olandese e francese e in corso di traduzione in inglese e russo).
Editori Laterza | Sede legale Piazza Umberto I n. 54, 70121 Bari | Ufficio Via di Villa Sacchetti 17, 00197 Roma
Prologo
E io gli ho detto: “guarda che rischi a parlare con me”.
E lui ha detto: “non me ne importa niente”.
Primo Levi, novembre 1986
Un giorno di dicembre di diversi anni fa mi trovai a dover guardare un documentario intitolato Il coraggio e la pietà, che descrive la solidarietà – vera e presunta – degli italiani nei confronti degli ebrei perseguitati che permise alla maggior parte di loro, al di qua delle Alpi, di salvarsi, a differenza degli oltre settemila che svanirono nella Shoah. Il documentario era andato in onda nel novembre 1986, cinque mesi prima della morte di Primo Levi. Tra le poche scene che mi colpirono ce ne fu una in cui lo stesso Levi raccontava, con la sua consueta pacatezza, quanto fu un uomo silenzioso a permettergli di salvarsi. Era un umile muratore, non un prigioniero di Auschwitz. Era un lavoratore civile piemontese, di Fossano, che viveva fuori dal reticolato di Auschwitz III-Monowitz, con il quale Levi si incontrò per diversi mesi, compensando la malnutrizione del Lager con zuppe di brodaglie che quest’uomo gli portava con regolarità. Tutti i giorni, per sei mesi. L’unico compenso che quest’uomo accettò, se così lo possiamo chiamare, fu di farsi riparare dai ciabattini di Monowitz le scarpe di cuoio, camminando per quattro giorni con gli zoccoli di legno di Levi, per poi scambiare nuovamente le rispettive calzature. Non volle nient’altro.
Non era la prima volta che sentivo parlare di Lorenzo Perrone, perché il chimico torinese sopravvissuto ad Auschwitz ne scrisse innanzitutto in Se questo è un uomo fin dal 1947, poi in una manciata di pagine di Lilìt e altri racconti e inoltre in due passi de I sommersi e i salvati – sempre omettendone il cognome – e perché già sapevo che entrambi i figli di Levi (Lisa Lorenza, nata nel 1948, e Renzo, nato nel 1957) dovevano il loro nome a quest’uomo enigmatico; cosa che, come avrei scoperto in seguito, dichiarò anche pubblicamente. Ma sentire che Lorenzo rischiò di finire ad Auschwitz per i suoi gesti, sentirlo dire intendo – e non leggerlo – smosse in me qualcosa di profondo, toccò una parte di me che era addormentata, forse assuefatta, da tempo.
In quello stesso frangente, ed era sera tardi di un giorno compreso tra l’8 dicembre e Natale del 2014, prima di andare a dormire misi nel lettore un dvd che da quasi tre anni mi riproponevo di guardare e finiva sempre in fondo alla lista: si intitola Il Giudice dei Giusti. Ebbene, nella prima scena – la prima – vediamo Mordecai Paldiel, all’epoca direttore del dipartimento che all’interno del museo della Shoah di Gerusalemme (lo Yad Vashem) si occupa del riconoscimento dei “Giusti tra le nazioni”, i non ebrei che salvarono gli ebrei, prendere un faldone tra le mani. Ed è quello di Lorenzo Perrone, il dossier n. 8157.
A quel punto andai sulla sezione del sito di Yad Vashem dedicata ai 25.271 “Giusti”, 610 dei quali erano italiani (nel 2021 sono diventati 27.921, e 744 gli italiani), e trovai, come epigrafe in inglese che apre la pagina, proprio un estratto del passo che in Se questo è un uomo descrive Lorenzo, cioè questo (otto anni dopo è ancora lì):
Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi.
Primo Levi, forse il più grande testimone del Novecento, ha scritto e detto in più occasioni – ben al di là di quelle finora citate, lo vedremo – di dovere a Lorenzo non solo la vita, ma qualcosa di più, e per l’istituzione che si occupa della cura della memoria dei gesti che salvarono i perseguitati Lorenzo Perrone è senza ombra di dubbio il più importante tra loro, ai livelli dei ben più noti Oskar Schindler e Giorgio Perlasca – resi celebri dal film Schindler’s List di Steven Spielberg (1993), tratto da un libro del 1982 di Thomas Keneally, e da un bestseller di Enrico Deaglio, La banalità del bene (1991), diventato a sua volta un prodotto audiovisivo, lo sceneggiato Perlasca. Un eroe italiano di Alberto Negrin (2002) –, seppur proveniente da un contesto sociale completamente differente. Questo personaggio povero e burrascoso, “quasi analfabeta” e taciturno, “era un uomo – ha scritto ancora il chimico torinese –; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”. I suoi gesti semplici e quotidiani sono diventati con ogni probabilità la radice della testimonianza di Levi, e la sua indelebile solidarietà è impressa nei libri che hanno formato la parte sana della cultura del mondo occidentale degli ultimi decenni. Libri che ancora oggi sono un passaggio obbligato nella formazione di ogni studente delle scuole, in Italia e non solo.
Ma chi era, Lorenzo Perrone? In questi anni ho raccolto materiale sulla sua vita prima, durante e dopo “Suiss” (così lui chiamava Auschwitz), dagli archivi di Fossano – si chiamava Perrone o Perone? Questo è il primo inciampo della nostra storia – alle testimonianze dei due nipoti ancora in vita, dal tentativo impraticabile del carotaggio sistematico di ogni possibile accenno nelle biografie di Primo Levi, nelle sue interviste (oltre trecento quelle finora censite) e nelle migliaia di libri a lui o alla sua opera dedicati (circa 7.000 quando sto scrivendo questo libro) al faldone ancora conservato allo Yad Vashem della pratica istruita nel 1995 grazie alla biografa Carole Angier, tutto questo solo per cominciare; ma una porzione considerevole di quello che possiamo dire intorno a quest’uomo straordinario che rese possibile “la storia stupefacente della sopravvivenza” di Levi è già incardinata nei testi di quest’ultimo. È quanto di più straordinario uno storico possa desiderare di avere tra le mani, nell’avviare una ricerca che punti al cuore dell’umanità: le pagine di uno dei più esatti indagatori dell’animo nostro. Ma non è tutto, naturalmente: “la realtà degli uomini non è la stessa della realtà degli uomini raccontata dagli scrittori”, mi dice Alberto Cavaglion, tra i più fini conoscitori dell’opera leviana, nonché curatore dell’edizione commentata del 2012 di Se questo è un uomo; Primo Levi stesso ne ha parlato sovente, dell’arte di “arrotondare”, facendo perno sull’immaginazione, perché “la realtà è sempre più complessa” e “più ruvida”.
È fisiologico che una nuda vita così umile – così ordinaria, fino a “Suiss” – che oltretutto, come si vedrà, arriva a inabissarsi prima che il suo punto più alto venga alla luce, lasci molti vuoti da colmare, ma la coltre di oblio che è calata su gran parte dell’esistenza di quest’uomo di poche parole la si può perforare. Ci si deve almeno provare. Ed è naturale che questa storia, per iniziare, parta dal primo incontro in cui levò lo sguardo e poi torni sui suoi piedi, che hanno fatto centinaia e centinaia di chilometri, prima di approdare al lascito profondo racchiuso in questa storia di dannazione e salvezza che parla a tutti e a ognuno.
Gli ultimi
[…]
Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo,
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
[…]
Primo Levi, Agli amici, 16 dicembre 1985
Tacca dal Burgué
Quando ha conosciuto il prigioniero 174 517, Lorenzo stava tirando su un muro con un altro tizio della sua ditta, anch’egli di lingua italiana, e com’era prevedibile nonostante e forse proprio per gli schiaffi che la vita gli aveva dato, ne parleremo, anche laggiù lui i muri “li faceva diritti, solidi, con mattoni bene intrecciati e con tutta la calcina che ci voleva; non per ossequio agli ordini, ma per dignità professionale” – è Primo Levi che ne parla, ne I sommersi e i salvati. Quando vide per la prima volta quel minuto torinese, Lorenzo giunto dal Burgué, il borgo vecchio di Fossano, non si stava chiedendo a cosa e a chi avrebbe giovato il suo faticare come un mulo: un bombardamento alleato aveva appena sconvolto “quello sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo” che era la “Buna”, il grande progetto della Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie AG – meglio nota come I.G. Farben – fondato a Monowitz, a sei chilometri da Auschwitz I, e dopo aver zigzagato tra i calcinacci che scricchiolavano sotto il cuoio delle sue scarpe da lavoro, lui era giunto con il suo collega e connazionale nei pressi dei macchinari più preziosi, per proteggerli con alte e robuste tramezze, senza troppo arrovellarsi.
Metteva giù mattoni da un’impalcatura, muto, e quel prigioniero 174 517, che poi avrebbe saputo chiamarsi Primo, il numero tatuato sul braccio sinistro – un Häftling scialbo, un detenuto quasi invisibile tanto ansimava tra i morsi della fame –, era sotto e a un certo punto Lorenzo gli aveva parlato in tedesco avvertendo “che la malta stava per finire”, e di portare dunque su il bugliolo. Quel ventiquattrenne mingherlino che era ancora solo un numero aveva provato ad allargare le gambe, ad afferrare il manico del secchio con entrambe le mani, a sollevarlo e a imprimergli un’oscillazione di modo da poter sfruttare lo slancio e portare il carico in avanti e, da lì, sulla spalla. Ma i risultati s’erano rivelati a dir poco patetici, e il secchio era ricaduto in terra rovesciando metà della malta. A Lorenzo non era scappato da ridere ma aveva pronunciato otto parole, le prime della parte che più conta di questa storia, che sarebbero rimbombate in testa a Primo, non è difficile da immaginare, per interminabili ore di un giorno di inizio estate del 1944, che è da collocare tra il 16 e il 21 giugno, date in cui entrò in allarme la parte occidentale dell’Alta Slesia, che dai mesi successivi sarebbe stata sistematicamente bombardata da raid sempre più imponenti.
“Oh già, si capisce, con gente come questa”, aveva detto Lorenzo accingendosi alla discesa dalla sua posizione, prima di portarsi al medesimo livello della malta rovesciata che già s’induriva tra i calcinacci del cantiere piegato dalle bombe degli Alleati, che colpivano gli impianti industriali – scattando poi fotografie al “pianeta Auschwitz” dal cielo – senza però liberare i prigionieri dalla condanna del gas. A cosa si riferiva, con quel “gente come questa”? Intendeva gli “schiavi degli schiavi”, “lo scalino più basso” della gerarchia di Monowitz, o intendeva i borghesi incapaci di tenere in mano un secchio di malta, privilegiati fino all’ingresso in quel mondo alla rovescia, divenuti a quel punto gli ultimi degli ultimi? Comunque la si voglia leggere, questa frase trasuda disprezzo, o commiserazione: ed è lo stesso Levi a dircelo; e al contempo è a sua volta un cortocircuito; chissà quante volte, suppongo non poche, Lorenzo se l’era sentita dire. Lui, e lo vedremo, era un poveraccio, alcolizzato, rissoso; sarà anche stato uno che faceva bene il suo lavoro, ma della “gente come questa” non è che ci si possa fidare. La sfrutti, finché, a quarant’anni, inizia a perdere vigore e concentrazione – poi, quando non serve più, la butti via.
Ad ogni modo non fu certo un primo impatto raccomandabile, tra loro due, considerato il disastro compiuto da quel manovale 174 517; Primo Levi si era imposto tuttavia alla vista di Lorenzo per la sua curiosa reazione a sentir parlare italiano, dopo quell’ordine burbero da lui intimato in pessimo tedesco, per di più con riconoscibilissimo accento piemontese, creando così un varco in quella sorta di incantesimo che inchiodava ogni essere umano al suo posto, nell’universo ferocemente grottesco che era il Lager. Lorenzo la aveva riconosciuta particolarmente prossima, quella manodopera maschile non qualificata, e tanto poteva bastare, sebbene spesso non fosse sufficiente affatto. Nonostante anche internati di altre nazionalità avessero avuto l’occasione di stabilire un contatto con il mondo esterno, ad esempio tramite i lavoratori forzati del Servizio obbligatorio del lavoro francese, gli schiavi erano infatti per i civili – compresi i lavoratori come Lorenzo, s’intende – “intoccabili”. E tali dovevano restare, non importano le circostanze: “I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa”, avrebbe ricordato Primo Levi.
Lorenzo lo pensava, nell’attimo in cui lo notò? Non credo, perché lui non stava a distribuire colpe a cuor leggero, perché sapeva che quelli in catene sono quasi sempre i miseri, mentre il potere cambia scarpe ogni tre settimane – e perché nulla so di quello che eventualmente disse nelle ore seguenti, e ritengo impossibile lo si possa sapere. Azzardo l’ipotesi, avendo intuito qualcosa della sua personalità grazie a una discreta quantità di fonti, che non volle cercare le parole neanche nei due o tre giorni successivi: stava più probabilmente a macinare pensieri con lo sguardo tra il perso e l’arcigno, indecifrabile, come quello che svelano le sue fotografie giunte fino a noi – mi risulta che siano solamente due. La prima la vedremo a breve; l’altra è questa.
Lo disprezzava, quell’uomo che quasi svaniva, morente? Lo commiserava? Lo temeva? Sembra quasi di sentire l’inquietudine che scaturì già con le leggi razziali del 1938, che Primo Levi avrebbe raccontato ne Il sistema periodico, nel 1975, rievocando quel primo “lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto”: “Che pensi tu di me? Che cosa sono io per te?”.
Servono ancora – sempre – scorci di Levi, che avrebbe saputo sapientemente intessere le parole e i concetti utili a comprendere l’animo umano; qui riferendosi proprio allo sguardo dei lavoratori civili sugli “schiavi degli schiavi”, i prigionieri ebrei che poi, tramite ordinatissime marce con divisa a righe sbrindellata e berretti, andavano alla Buna a lavorare, ammesso che di lavoro si possa parlare:
Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione.
Fotografando il momento in cui questa storia si innescò per divenire qualcosa di più di una riga in un archivio sepolto, per quanto si possa tentare di unire in un unico disegno i chilometri percorsi a capo chino fin da ragazzo e quel momento in cui lo sguardo di Lorenzo cercò al contrario di dare un senso e vagò in cerca delle parole giuste per poi dirlo, bisognerebbe innanzitutto ammettere che poi nelle vite randagie, forse più che nelle altre, è il caso a giocare le sue carte migliori. Un’immagine allora si impone: Lorenzo e Primo appartenevano, semplicemente, “a due caste diverse”, e avrebbero potuto, altrettanto semplicemente, non guardarsi mai. Nella vita precedente, innanzitutto, e poi lì dove il privilegio era la chiave di volta di ogni giorno, in termini completamente ribaltati. Primo era destinato a morire, se non si fosse ingegnato ogni minuto; Lorenzo a vivere, se non si fosse messo nei guai.
La posizione di superiorità nella disposizione spaziale di quel momento e nella gerarchia del Lager, in quel lungo tempo passato a distanza ravvicinata senza essere a conoscenza l’uno dell’esistenza dell’altro, era per così dire un contrappasso, considerati i reciproci trascorsi, nel mondo di prima e di lassù. Mentre laggiù nel 1944 il privilegio era sul suolo che calpestava lui che tanto aveva sputato polvere, ora, il prigioniero 174 517 che nella vita svanita era il borghese dotato di discreta fortuna, il laureato chimico in erba Primo Levi, laggiù sul fondo dello spirito umano era schiavo come migliaia d’altri. Come altri 11.600 lavoratori della I.G. Farben in quell’anno, eseguiva ogni sorta di impiego sfibrante per costruire la Buna-Werke, la fabbrica di prodotti chimici del campo; ma era sovente un lavorare “senza scopo”, il suo, il loro, uno sgobbare per esaurire ogni fibra vitale, fino a morirne. Che piovesse a dirotto o nevicasse sottile, che il vento soffiasse via la cenere o il sole quasi desse l’impressione di poterla ravvivare, come migliaia d’altri lui spalava, interrava, sollevava, cadeva, smistava, assembrava fino a che vene e arterie non erano prossime allo scoppio, e prendeva badilate in testa da un Kapò o da un qualunque prominente se non riusciva a proseguire. Andava ribadito, il potere; e andava annientato, ciò che ci rende uomini e ci fa credere di poterci non piegare. Ma non chiese aiuto a Lorenzo quel giorno, Primo, suppongo perché non aveva, all’epoca dei fatti d’estate del 1944, “un’idea chiara del modo di vivere e delle disponibilità di questi italiani”, prevalentemente dei poveracci nel mondo di prima, ma che lì stavano in superficie mentre lui sprofondava con migliaia di altri pezzenti della storia e nella storia essa stessa. Eppure bastava una manciata di parole, appena misurate sulla bilancia del comune linguaggio, per rompere il sortilegio e spezzare le catene del contagio del male: è così che “si spuntano le armi della notte”, direbbe la sapienza di Levi.
Ebbene Lorenzo le parole le centellinava, è vero – ma queste le pronunciò dopo quell’iniziale e goffo malinteso.
“Guarda che rischi, a parlare con me”, disse Primo.
“Non me ne importa niente”, gli rispose Lorenzo.
Un muratore, uno che sa fare il suo mestiere, costruisce.
Non è detto che abbia la visione d’insieme, quella ce l’ha chi lo comanda, chi lo istruisce, ma lui fa la sua parte. La visione d’insieme ce la si ha alla fine, di solito. O almeno così dovrebbe essere. Mi verrebbe da azzardare l’ipotesi che Lorenzo sia stato uno dei pochi, nella storia, che quella visione ce l’ha avuta dall’inizio, ma risulta impossibile scovarne una prova, ed è difficile trovare qualcuno che possa sostenere di averlo conosciuto per davvero.
Era un uomo di poche parole, Lorenzo. E doveva sempre partire. Attraverso il Colle delle Finestre, negli anni Trenta, a partire dal 1935 o dal 1936 secondo i suoi parenti, andava in Francia a lavorare illegalmente, passando il confine in clandestinità con altri poveracci come lui – i palmi callosi, i piedi nodosi raggrinziti da tanto andare – e come il fratello maggiore Giovanni, due anni scarsi più vecchio di lui, gli occhi sottili e la capigliatura folta, che lo affiancava a passo spedito, sui valichi del contrabbando. Capitava che camminassero una settimana filata: andava così. Mi pare quasi di intravedere i contrabbandieri con cui Lorenzo e Giovanni condividevano brandelli di strada dire loro qualche parola in piemontese: ’ndôma, ’mpresa, le sillabe di rito insomma, quelle che sorvolano la testa di chi procede a capo chino, risparmiando energie per il lavoro che lo aspetta al di là di quella linea tracciata dagli uomini su una carta. Su quelle rotte, in cui potevi essere frontaliero o contrabbandiere a seconda delle circostanze ed era molto sfumata la distinzione tra regolari e irregolari, illecito e lecito, si incontravano persone di ogni età che dalla Francia venivano in qua, in Italia; parlavano la medesima lingua, quella degli sbandati del mondo, dei dannati dei monti. Che si fanno un culo così, con il sole e l’alluvione, per un piatto di polenta concia; ma che se si tratta di sdraiarsi senza se ne fanno in fretta una ragione. Suo fratello Giovanni, detto barba Giuanin, dall’agosto del 1931 era certamente in Francia dove viveva loro zio, “Jean”.
Andavano in Costa Azzurra, dove “lavoro ce n’era sempre” come avrebbe ricordato Levi, probabilmente a Tolone o in altri centri abitati del sud-ovest francese; più precisamente a Embrun, un comune a una sessantina di chilometri dal confine, e quando passava il Giro d’Italia sul Colle della Maddalena, con i controlli più blandi, i vecchi approfittavano dell’occasione per andare su in taxi a salutarli, e forse bere un bicchiere o due. Me lo racconta a gennaio del 2020 il nipote Beppe, figlio di un altro fratello (Michele, otto anni più giovane di Lorenzo), spiegandomi che ogni categoria aveva il suo gergo: non avrebbe senso immaginarli a discutere in italiano, ma nel loro criptico magüt.
A pranzo Lorenzo tirava fuori la sua gavetta d’alluminio, due uova, la buta di vino nero, le croste di pane, e piegava la testa sul suo corpo imponente di un uomo già anziano anche se navigava fra i trentuno e i trentacinque anni, allora. Il cucchiaio di legno sembrava una protesi delle sue braccia, il suo busto pareva ancorato sulla terra, un marcantonio di pelle coriacea emersa dal Burgué, il borgo vecchio dei muratori e dei pescatori – i pescau – che si guadagnavano il pane sul fiume Stura, divorati da zanzare spesse come conigli. Il Burgué era proprio come lo si può visualizzare sforzandosi appena, ripescando in un immaginario arcaico che arrancando si affaccia alla modernità, e aiutandosi con le fotografie dell’inizio del ventesimo secolo. Tutte le porte aperte, le sedie tarlate a ridosso del muro pericolante a incassare il vento e il gelo e il bel tempo del fine settimana, quando il cielo lo regalava – le giornate che iniziano con il buio e finiscono che c’è ancora un po’ di chiarore, per chi riesce a tornare a casa a dormire. Oggi è diverso, ma di quel vecchio borgo si intravedono le tracce, tra i muri ridipinti a nuovo e orientandosi tra le vie con i vecchi nomi e le numerazioni nel frattempo scalate.
Lorenzo viveva a circa un chilometro da dove è stata scattata la prima di queste fotografie, e a pochi metri da dove è stata scattata la seconda, e per la precisione in via Michelini 4 e 6, che oggi corrisponde al civico 12: tre stanze per otto persone, una per stracci e ferri vecchi, e una per il mulo e per il carretto, come avrebbe raccontato Carole Angier, biografa di Levi che un quarto di secolo fa ebbe modo di intervistare tre suoi parenti, tra cui lo stesso Beppe. La notte gli uomini allevavano anguille per mezzo delle dighe e pescavano a Stura con reti e filari; all’alba le donne caricavano quel ben di dio sui carretti e vendevano il frutto del duro lavoro a povera gente come loro. “Si faceva quel che si poteva, si vendeva quel che si faceva”, si cercava di stare alla larga dai guai, salvo qualche rissa di tanto in tanto per assaporare la propria mortalità, forse, o per scordar la fame. Nel Burgué, ancora lo ricorda novant’anni dopo, con malcelata nostalgia, la gente del posto, gli uomini erano tutti pescatori, o lattonieri, o muratori come Lorenzo e Giovanni, e tornavano nel Burgué a dormire in una Fossano che solo nel 1936 avrebbe visto asfaltate le principali strade cittadine. Quando passavano loro due tra le case dove all’epoca non si vedeva mai il sole, oscurato dalla caserma Umberto I che ora non c’è più, lo sguardo sulla polvere o sul fango che sempre accompagna chi non ha, qualcuno si scostava dicendo “Eccoli, i giganti”, così mi racconta Beppe. “Eccoli, i Tacca”.
Lorenzo era il secondo, i genitori – Giuseppe e Giovanna Tallone, sposati nel 1901 – vivevano di ferri vecchi e stracci, anche se i loro mestieri ufficiali erano “muratore” e “operaia”. Aveva altri due fratelli lattonieri: Michele, il padre di Beppe, e Secondo, che era in realtà l’ultimo e il quarto tra i maschi; e due sorelle di nome Giovanna e Caterina, rimasta “da sposare”, che avrebbe poi vissuto con lui e Giovanni, barba Giuanin. E tutti li chiamavano Tacca, nel borgo vecchio dei pescatori di Fossano, probabilmente per via del fatto che erano degli attaccabrighe, anche se si sa che poi i soprannomi – detti “stranomi”, da quelle parti – prendono la loro strada e ci si dimentica perché, soprattutto nelle parabole familiari che fanno di tutto per passare inosservate, agli occhi di chi registra ciò che è degno di essere raccontato, con le fisiologiche dispersioni della storia. Il primo a vedersi affibbiato questo stranome dovrebbe essere Giuseppe, ma forse la storia è più antica.
Tutti i maschi della famiglia, anche Tacca el tulè bel, Michele “il lattoniere bello”, parlavano poco, ed era una caratteristica che avevano preso dal padre, “chiuso in se stesso e preda di oscure depressioni” secondo Angier. Il ritratto fotografico che campeggia ancora oggi sulla sua tomba esibisce uno sguardo arcigno: le sopracciglia visibilmente corrucciate, i baffi curati appena, gli occhi gelidi – difficile immaginare un sorriso uscire da quel volto.
Giuseppe era un genitore “brutale e tirannico, litigioso e violento quando si ubriacava”, un padre padrone, e l’infanzia di Lorenzo, Giovanni e di tutti gli altri della nidiata era stata accompagnata dalle valanghe di botte che avevano preso a casa e poi, in maniera del tutto naturale, da quelle che avevano dato fuori dal “Pigher” – l’osteria “Pigrizia” dei pescatori e dei muratori all’incrocio tra via Don Bosco e via Garibaldi, a pochi passi da casa loro, chiusa da anni. Ora l’edificio in cui stava non ha più neanche vagamente l’aspetto dell’epoca: il palazzo è dipinto di rosso argilla, e le quattro arcate che ospitavano Lorenzo e quell’umanità rocciosa e rissosa sono state tirate a lucido; persino la targa “Terziere del Borgo Vecchio – Via Del Borgo Vecchio” sull’angolo quasi luccica, ad abbellire l’immagine di un’epoca antica più arrotondata di quanto in realtà non fosse. Lo scorrere del tempo a volte parla a gran voce; altre mette tutto a tacere. La famiglia di Luisa Mellano, presidentessa dell’Anpi di Fossano e pronipote del mitico partigiano Piero Cosa, all’epoca abitava davanti al “Pigher”, e il suo bisnonno pescatore, come decine d’altri, passava la sua vita lì a bere, mi racconta lei; d’inverno gli uomini, allora usava, indossavano le mantelline. Sono da immaginare piegati sui loro fegati, in serate interminabili condite da mugugni e bestemmie, in quei luoghi dove prende fiato chi nel corso della giornata va a essere spremuto per potersi permettere un pasto caldo o due; talvolta tra loro c’erano persino dei preti. Immagino che questi uomini tarchiati con la mantellina dicessero, magari citando testualmente una canzone popolare fossanese del 1870, I Mônarca: “Sôma busse ’n po’ ’d barbera”, andiamo a berci un po’ di Barbera, e la ciucca generale – “una ciôca general”– era assicurata.
I “Tacca” stavano per lo più zitti forse anche in ragione di tutto quello che scolavano, Lorenzo e Giovanni che marciava con lui su per i monti, bruciando suole e confini. Dio se bevevano, quei due, probabilmente fin da quand’erano ragazzini, sebbene per legge fosse già vietato. Tutti loro padre; anche se il loro vero padre era il bisogno, familiare quanto il colore nero acre del vino che scandiva le loro stagioni.
Per quanto ne sappiamo, Lorenzo tirava a campare in molti modi: il pensiero che scacciava gli altri era sempre, o quasi, andare avanti, e si comprava e vendeva di tutto, all’epoca, con una cifra sussurrata e una stretta di mano – “se truciavu la man, ’l cuntrat era fat”, come racconta un contadino ne Il mondo dei vinti di Nuto Revelli. Sulle orme del padre da ragazzino Lorenzo, sempre con barba Giuanin, s’improvvisava feramiù, robivecchi: staccava il pezzo inferiore delle grondaie, che era di ghisa, e poi si affacciava alla finestra di casa sua al piano terra a venderla a chi passava. Come Bartolomeo Vanzetti, l’anarchico assassinato negli Stati Uniti nel 1927 di una dozzina d’anni più vecchio e nato e cresciuto a dieci chilometri da Fossano, che a quindici anni già scriveva che alla sera, “dopo diciotto ore di lavoro […] mi pare di avere i piedi nella brace tanto mi bruciano”, anche Lorenzo era vissuto “col sudore della [sua] fronte fin da bambino”. E ci voleva una costante, e rinnovata, inventiva – naturalmente non si può escludere che questo accadesse anche ai margini della legalità.
Era nato “Perone” (con una “r”) in via Ospizio 28 alle “undici antimeridiane” di domenica 11 settembre 1904, quando lo stomaco comincia a fartela sentire, la fame: forse anche per questo era sempre lei che guidava lui. La notizia, naturalmente, non ebbe alcuna rilevanza sui giornali locali, se non sul piano statistico: Lorenzo era uno tra gli otto maschi e le cinque femmine fossanesi nati in quella settimana. All’Ufficio di stato civile il padre Giuseppe – “di anni ventisette, muratore” – il giorno successivo aveva portato tra i testimoni il fratello Lorenzo “di anni ventitré, operaio”, ed entrambi si erano firmati “Perrone” con due “r”; probabilmente è per via dell’inflessione dialettale data al cognome “Perùn” che gli analfabeti e i semianalfabeti marcavano la “r” al punto da raddoppiarla; vedremo che per delle zie di Levi il cognome “vero” era senza ombra di dubbio “Prùn”.
Anche Lorenzo, omonimo del nonno materno e dello zio, suo padrino al battesimo il giorno successivo, sarebbe incorso nello stesso errore – era un errore? – firmandosi “Perrone”: non era andato oltre la terza elementare, come certifica il suo libretto di lavoro intestato a Lorenzo “Perone”. Pur battezzato, non era religioso né conosceva il Vangelo secondo Levi; scriveva a fatica ma camminava molto, e aveva iniziato a lavorare a dieci anni, come avrebbero testimoniato i suoi parenti per la pratica dello Yad Vashem, presumo nei mesi del 1914 in cui scoppiava la Grande guerra: non ho però idea di che aspetto avesse durante la sua infanzia.
Suo fratello Secondo – quello arrivato per ultimo – avrebbe raccontato a un altro biografo di Levi, Ian Thomson, che Lorenzo era un “pessimista nato”, ma è evidente come si sia influenzati dal senno del poi, nel tentativo di ricostruirne la vita, considerando che una delle ultime immagini che possiamo reperire di lui è quella raccolta dallo stesso Thomson, grazie a un’intervista del 1993 all’ex parroco di Fossano, don Carlo Lenta: negli ultimi anni di vita Lorenzo vendeva rottami nella neve, “senza giacca e con il viso livido”. Perché non ha mai saputo come si dimentica, lui, questa è una certezza; ma se già a dieci anni covasse rabbia e rancore non lo possiamo sapere.
Coltelli, bestemmie
Il primo ritratto fotografico di Lorenzo che mi risulti, come peraltro il secondo che già abbiamo visto, non ha niente di fiabesco; è anzi austero. È quello del suo servizio militare del 1924-25, iniziato a diciannove anni, numero di matricola 29439, bersagliere con il 7° Reggimento di Brescia, da poco trasformato in Reggimento ciclisti e oggi di stanza in Puglia. Arruolato (“Perone” con una “r” sola) il 25 aprile del 1924, venne ricoverato meno di tre mesi dopo: fu congedato infine a ottobre del 1925, e tornò a casa. “Durante il tempo passato sotto le armi ha tenuto buona condotta ed ha servito con fedeltà e onore”, dichiarò il suo capitano.
La sua Fossano in quei due decenni era cambiata profondamente: sotto l’amministrazione degli avvocati Antonio Della Torre e Luigi Dompé, che avevano diretto la vita cittadina dal 1899 al 1914, si era arrivati alla luce elettrica, alla tanto agognata distribuzione dell’acqua potabile ai cittadini e alla prima pietra del nuovo edificio scolastico, mentre la storica industria cartaia e la forte presenza dell’industria serica sul territorio erano state affiancate da quella metallurgica, potenziata a partire dal 1907, anno in cui si erano fatte sentire le prime agitazioni sociali per il miglioramento delle condizioni lavorative e della retribuzione, e per il riconoscimento di una rappresentanza sindacale. Dopo la Grande guerra e i suoi 312 morti fossanesi, l’espansione economica aveva vissuto oltretutto una drammatica contrazione, come rilevava il giornale locale “Il Fossanese” il 7 settembre 1918, quando Lorenzo aveva quattordici anni: “La vita cittadina è una vita di vera indolenza generale […] Si dirà: ma nelle osterie e nei caffè vi è sempre gente! […] Date invece uno sguardo al lavoro, alle industrie: l’arte muraria si può dire morta e sepolta, tanto [è] vero che i muratori han dovuto cambiare mestiere; e la crisi muraria la risentono di conseguenza fabbri, falegnami, lattonieri, verniciatori etc. Delle altre professioni non parliamone: magrezza più o meno eguale”.
È in questo contesto che si sarebbe imposta la marea montante del fascismo, nel “biennio nero” che nella percezione dei contemporanei corrispose a uno stato di guerra civile: l’offensiva contro le classi lavoratrici, presto sostenuta dall’azione reazionaria dello Stato liberale, da industriali, da latifondisti e dalla borghesia, e infine dalla monarchia, si sarebbe rivelata letale. Tra le altre cose, nel primo semestre del 1921 i fascisti operarono una distruzione sistematica di Camere del Lavoro, circoli di sinistra, Case del popolo, sedi di sindacati e così via – 49 azioni nel solo Piemonte, come ricostruito in presa diretta da Angelo Tasca – e il 4 maggio e il 3 giugno del 1921 nelle vicine Mondovì e Dronero vennero assassinati quattro e due socialisti dalle squadre d’azione fasciste. Il barbiere fossanese Angelo Suetta, classe 1901 (tre anni più vecchio di Lorenzo), avrebbe ricordato che al 1° maggio del 1921, festa dei lavoratori, era salito “dal Borgo [Vecchio] verso piazza Castello, dove c’era la sede alla Camera del lavoro, per prendere parte al corteo… Ma la città sembrava quasi assediata: fascisti, carabinieri e guardie regie da ogni parte, armati fino ai denti”; c’erano già stati subbugli e tumulti e lui si era precipitato alla Camera del lavoro per nascondere il registro degli operai iscritti al sindacato. Questa cronica violenza politica, che secondo le stime dell’epoca e successive lasciò 3.000 morti sul terreno in tutta la penisola, non può essere passata inosservata agli occhi di Lorenzo. Con la presa del potere del fascismo si sarebbe proceduto alla “normalizzazione”, particolarmente evidente a Fossano dopo l’allontanamento del militante socialista Giovanni Germanetto alla fine del 1922, e il suo arresto nella primavera del 1923. Come scrive lo storico Livio Berardo, già negli anni precedenti il carcere Santa Caterina di Fossano aveva ospitato oltre venti tra comunisti, socialisti e anarchici, e il direttore all’inizio degli anni Trenta “pur avendo indagato con la ‘massima diligenza’, non riuscì a scovare negli elenchi neppure un detenuto che avesse avuto precedenti squadristici”. Non è difficile ipotizzare quello che Lorenzo, all’epoca della marcia su Roma diciottenne, possa aver pensato della sua comunità cittadina, nella quale gli oppositori e i contestatori finivano in galera, i fascisti giravano impuniti, e lo Stato non interveniva a placare la violenza sistemica su operai e contadini. A scanso di equivoci non risulta che avesse la tessera del Partito nazionale fascista, né che abbia mai manifestato alcun tipo di adesione al regime. Sebbene non sarebbero stati solo i poteri locali e i borghesi a farsi attrarre dal fascismo, ma anche contadini e operai, tra le classi lavoratrici e in particolare tra i frontalieri serpeggiava un’ostinata avversione al regime – spesso si migrava anche perché era divenuto sempre più difficile trovare lavoro in una città fascista –, non ci sono riscontri documentari per poter ipotizzare che Lorenzo abbia avuto dei guai per la sua eventuale opposizione politica ai fascisti o al notabilato locale. Né compare tra i 670 antifascisti finiti nel Santa Caterina di Fossano durante il ventennio, fra i quali troviamo detenuti “illustri” come l’operaio comunista Remo Scappini, poi protagonista dell’insurrezione di Genova, al quale si sarebbe arreso un generale tedesco ad aprile del 1945. Questo non significa che Lorenzo, che viveva a meno di duecento metri dal Santa Caterina, non desse rogne alla sua comunità, anzi.
Pugni e pedate Lorenzo, e con ogni probabilità relativamente spesso, ne dava: ma soprattutto al “Pigher”, a quanto si sussurra ancora adesso in quel che rimane del Burgué, o quando riteneva si fosse ampiamente superata la sua capacità di sopportare. Oscuro rimane il modo in cui faceva a botte, che a quanto si percepisce incalzando in superficie la labile memoria della comunità cittadina forse era una delle sue attività principali, o comunque più evidenti, prima della sua partenza per Auschwitz; ma non riesco ad accedere ad alcun tipo di fonte che ci permetta di inquadrare uno di questi momenti, e non saprei come fare, se non scandagliando il suo flebile ma arroccato ricordo tra chi inloco ha indagato la sua storia o fonti e ricostruzioni che ci avvicinano al contesto in cui visse.
“L’essere in conflitto con qualcuno […] era una sorta di stato d’animo, un modus vivendi che esprimeva una certa normalità di rapporti, sia tra singoli che tra comunità”, ha scritto la studiosa Alessandra Demichelis in un saggio intitolato “Il buon tempo antico”. Cronache criminali dalle campagne cuneesi nel Novecento, che ci aiuta a colmare in parte questo vuoto documentario. In quella provincia e all’epoca dilagava “l’uso smodato di vino”, considerato un “nettare riparatore”, e favoriva furibondi litigi in cui non mancavano le bastonate, i coltelli e i coltellacci, i cutlass – i tajun de Il mondo dei vinti –; a partire dalla fine della Grande guerra fecero la loro apparizione, sempre più spesso, anche le armi da fuoco. In quel mondo rurale essere “pronto” significava essere “reattivo alla lite”, e le retate nelle osterie erano uno spettacolo frequente. Lesioni personali, diffamazioni, ingiurie, e la stessa ubriachezza erano tra i delitti più ricorrenti già all’inizio del Novecento: era un mondo, questo, “percorso da accattoni, ubriachi, folli, ciarlatani, truffatori e in cui i più deboli erano destinati a soccombere. Ogni villaggio aveva il suo ‘scemo’, deriso e maltrattato perché malato di mente o semplicemente ‘strano’, fuori binario”. Come ebbe modo di scrivere Nuto Revelli, “nell’arco delle nostre valli si contano a centinaia i ‘fragili di nervi’, gli alcolizzati, i misantropi: un mondo che i sani ignorano o temono o disprezzano”. Un mondo violento, brutale, dove l’uomo è il lupo dell’uomo: con o senza coltello e con o senza bastone – mi sento di escludere che Lorenzo possedesse un’arma da fuoco –, ci si doveva proteggere. E a volte, come recita l’adagio popolare, la miglior difesa è l’attacco.
Come scriveva il “Corriere Subalpino” nel 1914 (Lorenzo aveva dieci anni), “Fino a qualche anno fa buona parte del volgo in buona fede credeva che non potesse celebrarsi una festa campestre senza che la sagra fosse commemorata dalla distribuzione di qualche sacco di legnate…”: nelle risse a calci, pugni, morsi e bastonate per le quali non erano necessari neanche particolari pretesti talora, però, in questa “litigiosità diffusa a tutti i livelli” per la quale “ogni oggetto a portata di mano poteva trasformarsi in arma” (una bottiglia, una pietra, un falcetto, un bastone), “scappava” il morto. È ancora Demichelis che ne scrive:
L’alcol e il suo abuso […] era presentissimo sulle pagine dei giornali e nelle aule dei tribunali. Non c’era festa laica o religiosa, cerimonia o convivio che non si concludesse con colossali bevute cui seguivano, spesso, fatti delittuosi. L’osteria era il luogo del conforto e dello svago dove si cantava, si giocava a carte o alla morra, si discuteva. Sempre bevendo. I verbali delle forze dell’ordine forniscono conteggi sul quantitativo di vino consumato ed erano sempre litri “pro capite”. Bastava quindi una parola di troppo, chiamarsi a mò di scherno con nomignoli appiccicati e mal tollerati, bastava un disaccordo su un soldo non pagato.
“Oh Duro”, uno dice in un’osteria di Limone, e l’altro risponde “Oh Ver”, e si scatena una rissa furibonda a colpi di calci, pugni e coltellate. I delitti si consumavano dentro l’osteria ma soprattutto fuori, appena usciti o nelle ore successive. Non più lucidi e senza freni la rabbia esplodeva anche contro chi magari fino a pochi minuti prima stava seduto allo stesso tavolo.
[…] Le notizie su risse finite in tragedia sono così numerose che non si riesce a contarle, moltissime provocate dall’uso di armi bianche, specie coltelli con lame di lunghezza non consentita. Compagno inseparabile, quasi un prolungamento della mano dell’agricoltore, del pastore, dell’artigiano, il coltello era così diffuso che a più riprese si tentò di regolamentarne il possesso e l’utilizzo, vista la facilità con cui veniva sfoderato.
Nel saggio Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945, un lavoro fondamentale dello storico Cesare Bermani, tra i pionieri di un uso sistematico della storia orale e “dal basso” in Italia e che ci sarà di notevole aiuto, si possono intercettare nudi dati e testimonianze che corroborano l’ipotesi che questo modusvivendi fosse stato spesso, com’è prevedibile, semplicemente esportato. Se l’amministratore di una fattoria nei pressi di Zossen nel 1941 avrebbe notato che gli italiani lavoravano “avendo sempre un randello a portata di mano”, che erano “indisciplinati e sfacciati” e che un sorvegliante era stato assalito e preso a pugni in faccia tre volte in un solo giorno; l’emigrato italiano Gino Vermicelli, che dalla Francia andò in Germania, avrebbe raccontato a Bermani che “questa gente che parte è sempre la più avventurosa e spregiudicata, quindi anche la più combattiva”:
Spesso sono anche delle “teppe”, nel senso che è gente che se ne fotte, di solito sono i timorati di Dio a starsene a casa, ed è naturalmente quella che ti pianta più grane, che fa borsa nera ecc. Questo è comunque il tipo di umanità che emigra allora, e che poi naturalmente può essere in parte simpatica e in parte no. Perché in queste emigrazioni tiri fuori la schiuma.
O ancora: non fosse che stentiamo a pensarlo così rumoroso e loquace, in una sorta di testacoda che ci porta dai primi decenni del Novecento al momento del “ritorno”, verrebbe da affiancare a Lorenzo l’immagine del Moro di Verona che Levi avrebbe incontrato ne La tregua, l’anziano compagno di camerata “di maggior formato” con un “petto profondo [che] si sollevava come il mare quando gonfia in tempesta”. Ecco l’istantanea di un momento del suo picaresco viaggio di ritorno:
Doveva discendere da una stirpe tenacemente legata alla terra, poiché il suo vero nome era Avesani, ed era di Avesa, il sobborgo dei lavandai di Verona celebrato da Berto Barbarani. Aveva più di settant’anni, e li dimostrava tutti: era un gran vecchio scabro dall’ossatura da dinosauro, alto e ben dritto sulle reni, forte ancora come un cavallo, benché l’età e la fatica avessero tolto ogni scioltezza alle sue giunture nodose. Il suo cranio calvo, nobilmente convesso, era circondato alla base da una corona di capelli candidi: ma la faccia scarna e rugosa era di un olivastro itterico, e violentemente gialli e venati di sangue lampeggiavano gli occhi, infossati sotto enormi archi ciliari come cani feroci in fondo alle loro tane.
Nel petto del Moro, scheletrico eppure poderoso, ribolliva senza tregua una collera gigantesca ma indeterminata: una collera insensata contro tutti e tutto, contro i russi e i tedeschi, contro l’Italia e gli italiani, contro Dio e gli uomini, contro se stesso e contro noi, contro il giorno quando era giorno e contro la notte quando era notte, contro il suo destino e tutti i destini, contro il suo mestiere che pure aveva nel sangue. Era muratore: aveva posato mattoni per cinquant’anni, in Italia, in America, in Francia, poi di nuovo in Italia, infine in Germania, e ogni suo mattone era stato cementato con bestemmie. Bestemmiava in continuazione, ma non macchinalmente; bestemmiava con metodo e con studio, acrimoniosamente, interrompendosi per cercare la parola giusta, correggendosi spesso, e arrovellandosi quando la parola giusta non si trovava: allora bestemmiava contro la bestemmia che non veniva.
Sono suggestioni che percorrono le campagne mediterranee ed europee dove erano di casa vino, imprecazioni, coltelli, bastoni; brandelli di esistenze strappati al contesto in cui Lorenzo nacque e crebbe, a quello in cui imparò a fare a botte con la vita e al luogo da cui fu capace in qualche modo di uscire, e non da solo; ma sono immagini che appartengono in parte alla storia, in parte alla cronaca e in parte al mito ribilanciato del “buon tempo antico”, appunto. Questi spunti fugaci eppur concreti, accostabili ma fino a un certo punto alla biografia di Lorenzo, possono farcelo intravedere, il muradur di Fossano? Possono riempire i decenni di silenzio – chissà, forse condito di bestemmie – che ci ha lasciato in eredità?
Sebbene negli anni del fascismo – tra la violenza degli esordi e la “normalizzazione” del regime – Fossano avesse visto impiantarsi l’industria casearia e rafforzarsi anche quella dei concimi chimici, e sebbene negli anni Trenta fosse aumentata la produzione agricola del territorio circostante anche in virtù di imperiosi diktat del regime, questo non aveva scalfito se non in superficie l’imponente flusso migratorio, onnipresente da secoli ma intensificatosi nel tardo Ottocento prevalentemente come movimento stagionale, e diventato via via più definitivo nel periodo tra le due guerre mondiali. Quella che tra gli anni Venti e Trenta accalcava le frontiere tra il nord-ovest dell’Italia e il sud-est della Francia era un’umanità vivace e sofferente: da decenni quel confine poroso era percorso da pastori e colportueurs – gli ambulanti –, da mendicanti che nelle fiere facevano ballare le marmotte, dai cavié che commerciavano capelli femminili per i fabbricanti di parrucche parigini, da venditori di botti, maglie di lana, tele. Il legame che unisce “La Granda” – la provincia di Cuneo di cui Fossano fa parte – e la Francia mediterranea e alpina è antico e radicato in profondità; e nel primo scorcio di Novecento era emersa sempre più chiara la disparità di bisogni e possibilità, dal momento che in Italia mancava il pane, e alla Francia servivano braccia. Anche l’annata agricola era complementare: da novembre a marzo sul territorio francese servivano sempre uomini per il raccolto – delle olive, dei fiori, delle primizie –, per i grandi alberghi della Costa Azzurra e per i lavori di scasso e preparazione dei terreni. E così, ha scritto la storica Renata Allio, “braccianti, terrazzieri, spaccapietre, portuali, facchini”, e con loro molte donne che andavano a fare le domestiche, le cameriere o a raccogliere fiori o olive, quando arrivava il freddo “scendevano” in Francia e lo facevano per lo più in clandestinità. L’emigrazione temporanea dei cuneesi della montagna e di quelli della pianura li portava a condurre una vita di stenti pur di risparmiare qualcosa, e a infittire le fila dei “giavanesi”, come erano definiti in generale i migranti di mezzo mondo che affollavano la Provenza degli anni Trenta rendendola un’isola di Giava, “sprofondata in un concerto tutto suo di voci bisbetiche, di bestemmie e di mugugni” nella vivida descrizione dell’omonimo romanzo del 1939 dell’ebreo polacco Jan Malacki, che adottò lo pseudonimo Jean Malaquais. Gli italiani in particolare erano agli occhi di molti locali dei “rospi” – babi –, come a Marsiglia, o dei veri e propri nemici, come l’eccidio del villaggio occitano di Aigues-Mortes del 1893 già aveva dimostrato. Come sempre accade, chiusure e rifiuti si accompagnavano a contaminazioni virtuose: il romanzo xenofobo di inizio Novecento L’Invasion del prolifico autore ultranazionalista Louis Bertrand, ambientato proprio a Marsiglia – a poco più di duecento chilometri da Embrun –, pur trasudando disprezzo per gli immigrati italiani ammetteva che i provenzali si capivano “a metà” con i piemontesi, ormai parecchie migliaia da decenni, da quando era terminata la Grande Migrazione.
Stiamo parlando di un rigagnolo all’interno di una vera e propria emorragia inarrestabile: tra la fine dell’Ottocento e l’età giolittiana il fenomeno migratorio interessò ogni anno almeno l’1% dei piemontesi, e tra il 1916 e il 1926 i numeri ufficiali parlano di 402.079 piemontesi e valdostani che emigrarono, andandosi a sommare al milione e mezzo abbondante di persone partite dalle medesime regioni nei quarant’anni precedenti. Molte di loro andavano nel sud della Francia, e in alcune regioni nel primo decennio del dopoguerra gli arrivi si impennarono addirittura fino a quasi quaranta volte tanto, come ammoniva un articolo allarmista uscito su “Le Matin” nel 1928, quando Lorenzo di anni ne aveva ormai ventitré e aveva da poco terminato la naia.
Negli anni Venti e Trenta l’immigrazione clandestina in Francia era diventata un fenomeno di massa, e il regime fascista aveva tentato di porle un freno, stimolando esclusivamente l’emigrazione temporanea e reprimendo poi quella irregolare: le leggi fasciste che dal 1927 puntavano a restringere le maglie dell’emigrazione endemica, pur inceppando in parte il meccanismo dei frontalieri, avevano però ottenuto l’effetto opposto a quello auspicato. Molti migranti, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, avevano infatti scelto di radicarsi stabilmente in Francia. Nonostante le tensioni inevitabili in presenza di cospicui flussi, però, come ha rilevato ancora Allio, “l’assimilazione fu rapida e oggi i nipoti degli immigrati piemontesi sono perfettamente integrati e indistinguibili dalla popolazione autoctona. Spesso abitano ancora nella casa costruita dai nonni. Percorrendo la periferia collinare di Nizza, Cannes, Vallauris o la piana di Grasse, sulle targhette dei campanelli delle case mono-famigliari con giardino si leggono tuttora in prevalenza cognomi piemontesi e per la maggior parte cuneesi”.
E venne la notte
Lorenzo “Il Tacca”, insomma, non era certo l’unico che stava più di là che di qua, non era l’unica vita randagia che partiva d’inverno e tornava in primavera, e molti stavano e basta e forse erano più francesi che altro, ormai. Alla metà degli anni Quaranta c’erano 437.000 lavoratori italiani in Francia, 120.000 dei quali erano edili (muratori e manovali in particolare), e se si calcolano le famiglie e i molti naturalizzati francesi – non meno di 150.000 agli inizi del decennio secondo l’ambasciatore Raffaele Guariglia – ci si avvicina al milione di presenze su suolo transalpino. È difficilmente ipotizzabile che questa popolazione per lo più di estrazione popolare fosse fascista. In primis perché – l’ho accennato – non di rado ci si spostava proprio in ragione del fatto che la vita era divenuta più complicata a causa del proprio atteggiamento tiepido o maldisposto nei confronti del regime; un cappellano tra i lavoratori agricoli italiani in Alta Slesia e poi in Austria avrebbe detto a Bermani che “chi va via, spesso lo fa perché non è riuscito a farsi assumere, e le ragioni possono essere varie, anche politiche”. In secondo luogo perché la presenza di antifascisti nella comunità italo-francese era imponente: insistendo sulla difficoltà di distinguere gli uni dagli altri, Bermani arriva a sostenere che “quasi tutti gli italiani in Francia [fossero] quindi in posizione critica od ostile verso il fascismo”, considerato anche il fatto che i “fuoriusciti” politici – pur non essendo dotati di un organismo di propaganda unitario – erano in larghissima parte lavoratori.
Resta un fatto che nel 1940 gli italiani e gli italo-francesi, a prescindere dalle loro convinzioni più o meno marcate, divennero ufficialmente nemici: il loro paese d’origine aveva attaccato la Francia attraversando l’arco alpino occidentale per la pugnalata alle spalle, le coup de poignard dans le dos, in seguito all’offensiva dell’alleato nazista. È ancora l’emigrato Vermicelli, all’epoca in Francia da dieci anni, a raccontare:
Arriva la guerra, la Francia è in guerra con la Germania, tu sei un operaio originario di un paese neutrale e fai il tuo lavoro. Non appena la radio ha comunicato che l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia – io lavoravo alla fabbrica Licorne, faceva dei fuoristrada per l’esercito francese – mi ha chiamato il caporeparto: “Vai in ufficio”. M’han dato i miei quattro soldi e m’han mandato a casa. E così han fatto con tutti gli altri italiani che lavoravano lì, perché ovviamente non era possibile che in una fabbrica militare lavorasse un cittadino di un paese nemico. Arrivato a casa, mi collego con gli antifascisti che conoscevo e la direttiva che viene è questa. “Andiamo tutti ad arruolarci nell’esercito”. Si sapeva benissimo che non ci avrebbero mai chiamati a fare il soldato. Ma si sapeva anche che ci poteva essere un qualche stupido prefetto che ti mandava in campo di concentramento. Infatti i francesi, subito dopo la dichiarazione di guerra, avevano messo qualche decina di migliaia di italiani in campo di concentramento.
Un’altra guerra mondiale, una seconda, iniziava così per quei poveracci come Lorenzo che avrebbero dovuto far grande l’Italia, nelle intenzioni di chi mandava gli uomini a uccidere e a morire in Francia, e poi in Grecia, in Jugoslavia, in Unione sovietica. Da Fossano, e anche dal Burgué, erano partiti in centinaia, a fare le guerre del duce: l’elenco dei caduti lo si trova ancora oggi dietro al monumento nei pressi del Bastione del Salice, il residuo della cinta bastionata del XVI secolo. Risulterebbe invece (di nuovo) titanica – un ago in decine di pagliai – l’impresa di rintracciare la presenza di Lorenzo nel 1940 in un triangolo immaginario tra Nizza, Tolone e Embrun (Levi in un’intervista uscita postuma avrebbe parlato anche di Lione e Tolosa, ammettendo di non ricordare); un percorso di quasi 400 chilometri considerando solo il perimetro. Ma lui era una di quelle migliaia di persone – non meno di 8.500 –, stando a quanto ricostruito da Levi e da Angier, che erano state imprigionate: quando il colpo di pugnale era stato metaforicamente sferrato, i francesi si erano difesi come lo si fa nel momento in cui il nemico varca la soglia di quella che percepisci come “casa” e si diffida di ciascuno, in base al nome che porta, al luogo in cui ha cominciato a faticare. Mentre gli italiani subivano una delle battute d’arresto più umilianti della loro storia militare, Lorenzo aveva tirato il fiato. In gabbia gli uomini con i calli alle mani e ai piedi sopravvivono quasi sempre – almeno così credeva anche lui, prima di “Suiss” – e si mangia pure meglio che fuori, ma era durata solo qualche giorno, la tregua dal tanto andare chini. Perché quando i nazisti, anche per conto degli italiani inchiodati a ridosso delle frontiere dopo qualche passo, avevano annientato la Francia e avevano preso Parigi, il 14 giugno, Lorenzo era stato liberato, e con lui tanti compagni, braccia necessarie all’economia dell’Asse; a inizio luglio era certamente già a Fossano, all’ufficio di collocamento, a chiedere un sussidio di disoccupazione. Lavorare di nuovo in Francia sarebbe stato più ostico, di lì in avanti.
In quella regione di contaminazioni e contatti il vicino e lo straniero, l’italiano, aveva infatti ormai acquisito anche agli occhi della gente comune lo status di nemico: in seguito a una meticolosa preparazione, la frontiera si era irrigidita, trasformandosi letteralmente in un fronte. Gli italiani come Lorenzo, anche se avversi al fascismo, erano nati nella patria dei futuri dominatori, che negli anni seguenti avrebbero occupato un’ampia area del sud della Francia, in buona parte corrispondente proprio alle zone in cui lui si recava a lavorare. L’Asse voleva conquistare il mondo, si partiva dall’Europa che si sarebbe ridotta in macerie, nella quale si sarebbe comunque trovato di che campare; e come Primo Levi fa sostenere al suo alter ego Libertino Faussone ne La chiave a stella, “a dire di no a un lavoro uno impara tardi”. E ce ne sarebbe stato, da marciare, con o senza una divisa. Non posso sapere quante volte Lorenzo sia tornato in Francia irregolarmente nei primi anni Quaranta: anche se mi sento di escluderlo, potrebbe essere addirittura partito da lì attraverso un canale – inizialmente volontario, poi sempre più forzato – che portava migliaia di lavoratori italiani in Germania direttamente dal territorio francese; a nulla sarebbero valse, ad esempio, le pressioni del governo fascista perché gli operai italiani venissero rimpatriati prima di essere inviati nel Terzo Reich. In qualunque dei tre territori uno fosse impiegato, c’è da dire, lavorava comunque per l’Asse; tornare in Italia oltretutto poteva essere rischioso, e in effetti la sua classe di leva venne mobilitata. Una parte dei 178.674 lavoratori rientrati dalla Francia in Italia tra il 1937 e il 1942, in ogni caso, ripartì verso la Germania con dei contratti collettivi a termine: ritengo che Lorenzo fosse tra questi. Come certifica il suo libretto di lavoro, riprodotto parzialmente anche nel fascicolo di Yad Vashem, il muratore di Fossano ad Auschwitz ci arrivò infatti con la ditta italiana “G. Beotti”, purtroppo sempre sprovvista di altri estremi che aiuterebbero a individuarla, e questo dovrebbe essere accaduto tramite uno zio che lo fece chiamare a Embrun, oppure tramite suo fratello Giovanni, barba Giuanin. Primo Levi era stato più vago, scrivendo in Lilìt e altri racconti che “la sua scelta era stata ben poco volontaria” (tornerò su questo aspetto), perché quando i tedeschi erano arrivati in Francia, dopo il suo breve internamento, “avevano ricostituito l’impresa e l’avevano trasferita in blocco in Alta Slesia”. Non è da escludere che sia andata in effetti così, naturalmente, ma il libretto di lavoro di Lorenzo rivela come impiego immediatamente precedente alla partenza per “Suiss” oltre un mese presso una ditta di Tradate, comune del Varesotto, in un cantiere a Levaldigi, frazione di Savigliano ancora oggi nota per l’omonimo aeroporto, che proprio in quei mesi si stava ampliando massicciamente a uso militare, espropriando diverse proprietà del circondario: la committenza infatti era l’aeronautica, come rivela l’archivio storico della ditta.
Le parole di Levi lasciano aperta una pista: sembrano suggerire che Lorenzo avesse intrapreso il percorso più rapido, risparmiandosi perlomeno qualche decina di chilometri a piedi. Lui, che tanto marciava: tolti i continui andirivieni da frontaliero sappiamo con certezza che Lorenzo di chilometri ne avrebbe fatti millequattrocentododici in quattro – o più probabilmente cinque – mesi, seguendo la ferrovia, nel 1945. Ma questo è il capolinea di questa storia, o quasi, e per capirla serve mettere ordine e imparare a conoscere Lorenzo anche e innanzitutto come è stato dato in sorte a Primo.
“Se un capomastro gli faceva un’osservazione, anche con il migliore dei modi, lui non rispondeva, si metteva il cappello e se ne andava”: Levi avrebbe ricordato così gli anni che precedettero il suo incontro con Lorenzo; suppongo che si tratti di un’immagine ricavata di prima mano da lui stesso, o forse per altre vie, a partire dai suoi familiari che avrebbero confermato queste informazioni ad Angier. La scena è ampiamente verosimile, dato il noto carattere irascibile di Lorenzo, sebbene ammantata da un’aura ieratica forse mitizzante, e dalla formulazione scelta da Levi deduco con cautela che questo fosse accaduto più di una volta tra la metà degli anni Trenta e il 17 aprile del 1942, quando infine il muradur di Fossano giunse ai margini di Auschwitz, dove avrebbe lavorato alla “Buna”, fondata nell’ottobre di quell’anno con l’obiettivo di produrre gomma sintetica – la “buna”, per l’appunto, acronimo di Butadien-Natrium-Prozess – e benzina sintetica e coloranti e altri sottoprodotti del carbone.
traduzione e introduzione di Franco Fortini, Oscar Mondadori, Milano, 1985
Biografia di Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952), poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.
Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir, che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le devoir et l’inquiétude e i Poèmes pour la paix.
Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese, quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tzara.
Collabora intanto a diverse riviste d’avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des réves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels.
Nel 1923 il nascente surrealismo si contrappone al senescente dadaismo, ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e Breton, al nuovo movimento.
L’animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.
Nello stesso anno, colto da una crisi interiore, Paul abbandona improvvisamente Parigi e per sette mesi non dà notizie di sé, tanto da essere considerato morto. In realtà egli compie un lungo viaggio per mare da Marsiglia al Pacifico per fuggire alle contraddizioni che lo tormentavano. Ritorna a Parigi nell’ottobre del 1924 e presto riprende la sua attività nell’avanguardia. Continua a scrivere versi e nel 1925 pubblica 152 proverbes mis au goût du jour, in collaborazione con Péret e Au défaut du silence, con illustrazioni di Max Ernst; nel 1926 esce Capitale de la douleur e Les dessous d’une vie ou la pyramide humaine. Sempre nel 1926 aderisce al partito comunista e con la pubblicazione di Capitale de la douleur viene riconosciuto come “il più poetico rappresentante della scuola surrealista”. Da quel momento vive in modo appassionato la vita del gruppo con mostre, incontri, proteste, libri, riviste, riunioni surrealiste.
Nel 1929 esce Défense de savoir con un frontespizio di Giorgio De Chirico e L’amour la poésie.
Gli anni che vanno dal 1930 al 1938 vedono Éluard impegnato contro la repressione della società mentre si fa sempre più vicina la violenza della dittatura fascista che porta all’avvento di Hitler in Germania e alla vittoria di Franco in Spagna.
In questo periodo egli si allontana dal partito anche se non partecipa integralmente alle critiche che i surrealisti, ormai su una linea trotzkista, muovono all’Unione Sovietica, non sottoscrive il manifesto di protesta surrealista per il primo processo di epurazione politica di Mosca nel 1936 e non aderisce alla Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria fondata da Breton.
Pubblica in questi anni molti libri tra i quali A toute épreuve (1930), Le vie immédiate (1932), La rose publique (1934), Facile (1935), Les yeux fertiles (1936), Les mains libres (1937), Cours naturel (1938).
Nel settembre del 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Éluard viene richiamato come tenente per prestare servizio nell’intendenza, ma nel giugno del 1940, data che segna il crollo della Francia davanti a Hitler, egli viene smobilitato e può rientrare a Parigi.
Nel 1942 chiede nuovamente l’iscrizione al partito comunista francese (P.C.F.) e fa parte del movimento clandestino, contrassegnando il suo contributo alla resistenza con edizioni di libri di versi e di giornali alla macchia e trasmissioni radiofoniche clandestine. È del ’42 la sua famosa poesia Liberté.
Nel febbraio del 1944 Éluard rientra a Parigi ancora occupata dai tedeschi e il 25 agosto dello stesso anno avviene la liberazione.
Risalgono a questi anni Chanson complète e Mèdieuses (1939), Le livre ouvert, I e II (1940 e 1941), Poésie et vérité (1942), Au rendez-vous allemand (1942-1945), Le lit table (1944).
Dopo la liberazione e alla fine del conflitto, Éluard si impegna con il comunismo e compie numerosi viaggi nei paesi dell’Europa orientale, appoggia, in Grecia, la lotta per la liberazione e in Italia prende parte attivamente, nel 1946, alla campagna per l’avvento della Repubblica.
Nei primi giorni di settembre 1952, Éluard ha un attacco di angina pectoris e il 18 novembre dello stesso anno, in seguito ad un nuovo attacco, muore.
Sono degli ultimi anni di vita del poeta molte opere, tra le quali Poésie ininterrompue (1946) – la cui seconda parte viene pubblicata postuma, nel 1953 – Le dur désir de durer , sempre nel 1946, Poèmes politiques nel 1948, Une leçon de morale (1949), Tout dire e Le Phénix (1951).
Poesie di Paul ELUARD, Poeta francese
Novembre 1936
Guardateli al lavoro i costruttori di macerie
Sono ricchi pazienti neri ordinati idioti
Ma fanno quel che possono per esser soli al mondo
Sono agli orli dell’uomo e lo colmano di sterco
Piegano fino a terra palazzi senza capo.
*
A tutto ci si abitua
Ma a questi uccelli di piombo no
Ma non al loro odio per tutto quel che luccica
Non a lasciarli passare.
*
Parlate del cielo e il cielo si vuota
Poco c’importa l’autunno
I nostri padroni hanno pestato i piedi
Noi l’abbiamo dimenticato l’autunno
Dimenticheremo i padroni.
*
Città in secca oceano d’una goccia scampata
Di un unico diamante coltivato alla luce
Madrid città fraterna a chi ha patito
Lo spaventoso bene che nega essere esempio
A chi ha patito
L’angoscia indispensabile perché splenda quel bene
*
E alla sua verità salga la bocca
Raro alito sorriso come rotta catena
E l’uomo liberato dal suo passato assurdo
Levi innanzi ai fratelli un volto uguale
E alla ragione dia vagabonde ali.
Da « Cours naturel » (1938)
Paul Éluard
La vittoria di Guernica
1
Bel mondo di tuguri
Di miniere e di campi
2
Visi buoni al fuoco visi buoni al freddo
Ai rifiuti alla notte agli insulti alla frusta
3
Visi buoni a tutto
Ecco il vuoto vi fissa
La vostra morte servirà d’esempio
4
Morte cuore rovescio
5
Vi han fatto pagare il pane
Il cielo la terra l’acqua il sonno
E la miseria
Della vostra vita
6
Dicevano di volere il buon accordo
Razionavano i forti giudicavano i pazzi
Facevano l’elemosina spartivano in due un soldo
Salutavano i cadaveri
Si colmavano di cortesie
7
Perseverano esagerano non sono del nostro mondo
8
Le donne e i bimbi hanno lo stesso tesoro
Di primavera verde e latte puro
E di durata
Nei loro occhi puri
9
Le donne e i bimbi hanno lo stesso tesoro
Negli occhi
Gli uomini come possono lo difendono
10
Le donne e i bimbi hanno negli occhi
Le stesse rose rosse
Mostra ognuno il suo sangue
11
La paura e il coraggio di vivere e morire
Tanto difficile la morte tanto facile
12
Uomini per cui questo tesoro fu cantato
Uomini per cui questo tesoro fu sprecato
13
Uomini reali cui la disperazione
Alimenta la fiamma divorante della speranza
Apriamo insieme l’ultima gemma dell’avvenire
14
Paria la morte la terra l’orrore
Dei nemici hanno il colore
Monotono della nostra notte
E noi li vinceremo.
Da « Cours naturel » (1938)
Dubitare del delitto
Una corda una torcia un sol uomo
Strangolò dieci uomini
Arse un villaggio
Avvilì un popolo
La dolce gatta acquattata nella vita
Come una perla nella sua conchiglia
La dolce gatta ha mangiato i gattini
Da « Poésie et vérité 1942 » (1942)
Paul Éluard
Far vivere
Erano pochi uomini che vivevano nella notte
Sognando del cielo materno
Erano pochi uomini che amavano la selva
Credendo al legno ardente
Fin da lontano beati al profumo dei fiori
La nudità dei desideri li velava
Il respiro ritmato univano nel cuore
All’ambizione minima di vita naturale
Che nell’estate cresce come estate più forte
Alla speranza del tempo venturo
E che pur da lontano altro tempo saluta
Univano nel cuore
Amori più ostinati del deserto
Pochissimo sonno bastava
Per renderli al sole futuro
Duravano sapevano che vivere fa eterni
Dal buio dei sogni generavano luce
*
Erano pochi uomini
Furono folla a un tratto
Sempre è stato così. Da « Au rendez-vous allemand » (1942-1945)
I
Tutte le donne felici hanno
Ritrovato il loro marito egli torna dal sole
Tanto è il calore che porta.
Ride e piano saluta
Prima di dare un bacio alla sua meraviglia.
II
Splendida, il seno teso leggermente,
Santa mia donna, sei mia più di quando
Con lui, e lui e lui e lui e lui,
Io reggevo un fucile, un bidone – la vita!
VII
Per molto tempo ho avuto un volto inutile
Ma ora
Ho un volto per essere amato
Un volto per essere felice.
X
Sogno di tutte le belle
Che di notte vanno in giro,
Lente e calme,
Con la luna che viaggia.
XI
Tutto il fiore dei frutti m’illumina il giardino,
Gli alberi di bellezza e gli alberi da frutta
E io lavoro e sono solo nel mio giardino,
E il Sole cupo fuoco arde sulle mie mani.
Da « Poèmes pour la paix » (1918)
Zampa
Il gatto nella notte si fissa per gridare,
Nell’aria libera, nella notte, il gatto grida.
E triste, a altezza d’uomo, l’uomo ode quel grido.
Da « Les animaux et leurs hommes » (1920)
L’innamorata
Mi sta dritta sulle palpebre
E i suoi capelli sono nei miei,
Di queste mie mani ha la forma,
Di questi miei occhi ha il colore,
Dentro l’ombra mia s’affonda
Come un sasso in cielo.
Tiene gli occhi sempre aperti
Né mi lascia mai dormire.
I suoi sogni in piena luce
Fanno evaporare i soli,
E io rido, piango e rido,
Parlo e non so che dire.
Senza rancore
Lacrime delle palpebre, dolori dei dolenti,
Dolori che non contano e lacrime incolori.
Non chiede nulla, lui, non è insensibile,
Triste nella prigione e triste quand’è libero.
È un tempo tetro, è una notte nera
Da non mandare in giro nemmeno un cieco. I forti
Siedono, il potere è in pugno ai deboli,
E in piedi è il re, vicino alla regina assisa.
Sorrisi e sospiri, insulti imputridiscono
Nella bocca dei muti e negli occhi dei vili.
Non toccar nulla! Qui brucia, là arde;
Codeste mani son per le tasche e le fronti.
*
Un’ombra…
Tutta la pena del mondo
E il mio amore addosso
Come una bestia nuda.
Da « Mourir de ne pas mourir » (1924)
Paul Éluard
Non smetto ma per così dire di parlare di te eppure l’essenziale è presto detto.
Quando l’alba leva gli artigli
E il primo versante di selva
Tra riflessi di brividi
L’abisso delle vette s’apre
Quando a picco ti s’apre la veste
E dà alla luce il corpo tenero
E offre il seno lustrato docile
Seno che mai ha lottato
Ranuncoli tigrati di piombo
Eclissi fatali a chi è forte
Gradi di ermellino immolato
O quando in volto ti turbi
Quel che mi piace del tuo volto è l’apparire
D’un lume ardente in pieno giorno.
Da « La rose publique » (1934)
Nessuno può conoscermi
Nessuno può conoscermi
Come tu mi conosci
Gli occhi tuoi dove dormiamo
Tutti e due
Alle mie luci d’uomo han dato sorte
Migliore che alle notti della terra
Gli occhi tuoi dove viaggio
Han dato ai gesti delle strade un senso
Separato dal mondo
Negli occhi tuoi coloro che ci svelano
La solitudine nostra infinita
Non sono più quel che credevan essere
Nessuno può conoscerti
Come io ti conosco.
Da « Les yeux fertiles » (1936)
Un lupo
La buona neve il cielo nero
Le rame morte lo squallore
Della selva piena d’insidie
Onta alla bestia inseguita
La fuga in freccia nel cuore
Tracce d’una atroce preda
Dàgli al lupo e quello è sempre
Il lupo più bello ed è sempre
L’ultimo vivo sotto la minaccia
Dell’assoluta massa di morte.
Da « Poésie et vérité 1942 » (1942)
Sorelle di speranza
Sorelle di speranza o donne coraggiose
Contro la morte avete stretto un patto
Quello di unir le virtù dell’amore
Sopravvissute sorelle
Vi giocate la vita
Perché la vita vinca
Vicino è il giorno o mie sorelle di grandezza
Che delle parole guerra e miseria noi rideremo
Di quanto fu amarezza nulla resisterà
Ogni viso avrà diritto alle carezze.
Da « Poèmes politiques » (1948)
Buona giustizia
È la calda legge d’uomini
Con le uve fanno vino
Col carbone fanno fuoco
Con i baci fanno uomini
È la dura legge d’uomini
Rimanere integri contro
E la guerra e la sciagura
Contro i rischi della morte
È la dolce legge d’uomini
Tramutare l’acqua in luce
Ed i sogni in realtà
E in fratelli i tuoi nemici
Una legge antica e nuova
che si va compiendo e va
Dal cuore infante che non sa
Fino alla ragion suprema.
Da « Tout dire » (1951)
AVVERTENZA:tutti i testi qui presentati sono tratti da:
Paul Éluard POESIE traduzione e introduzione di Franco Fortini Oscar Mondadori Milano, 1985
Antonino Caponnetto
Pubblicato da Antonino Caponnetto venerdì 13 aprile 201
Biografia di Paul Éluard, pseudonimo di Eugène Émile Paul Grindel (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952), poeta francese, tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.
Risale al 1916 la raccolta di versi Le devoir, che ripubblica ampliata nel 1918 con il titolo Le devoir et l’inquiétude e i Poèmes pour la paix.
Nel 1919 partecipa alla vita del movimento dadaista e stringe rapporti di amicizia con i rappresentanti della contestazione artistica francese, quali Paulhan, Aragon, Breton, Soupault e Tzara.
Collabora intanto a diverse riviste d’avanguardia e dirige egli stesso la significativa rivista Provèrbe.
Nel 1920 pubblica Les animaux et leurs hommes, les hommes et leurs animaux, nel 1921 Les nécessités de la vie et les conséquences des réves, nel 1922 Répétitions e Les malheurs des immortels.
Nel 1923 il nascente surrealismo si contrappone al senescente dadaismo, ed Éluard passa, insieme ad Aragon, Péret e Breton, al nuovo movimento.
L’animatore del surrealismo è André Breton e a lui Éluard dedica, nel 1924, Mourir de ne pas mourir.
Nello stesso anno, colto da una crisi interiore, Paul abbandona improvvisamente Parigi e per sette mesi non dà notizie di sé, tanto da essere considerato morto. In realtà egli compie un lungo viaggio per mare da Marsiglia al Pacifico per fuggire alle contraddizioni che lo tormentavano. Ritorna a Parigi nell’ottobre del 1924 e presto riprende la sua attività nell’avanguardia. Continua a scrivere versi e nel 1925 pubblica 152 proverbes mis au goût du jour, in collaborazione con Péret e Au défaut du silence, con illustrazioni di Max Ernst; nel 1926 esce Capitale de la douleur e Les dessous d’une vie ou la pyramide humaine. Sempre nel 1926 aderisce al partito comunista e con la pubblicazione di Capitale de la douleur viene riconosciuto come “il più poetico rappresentante della scuola surrealista”. Da quel momento vive in modo appassionato la vita del gruppo con mostre, incontri, proteste, libri, riviste, riunioni surrealiste.
Nel 1929 esce Défense de savoir con un frontespizio di Giorgio De Chirico e L’amour la poésie.
Gli anni che vanno dal 1930 al 1938 vedono Éluard impegnato contro la repressione della società mentre si fa sempre più vicina la violenza della dittatura fascista che porta all’avvento di Hitler in Germania e alla vittoria di Franco in Spagna.
In questo periodo egli si allontana dal partito anche se non partecipa integralmente alle critiche che i surrealisti, ormai su una linea trotzkista, muovono all’Unione Sovietica, non sottoscrive il manifesto di protesta surrealista per il primo processo di epurazione politica di Mosca nel 1936 e non aderisce alla Federazione internazionale dell’arte rivoluzionaria fondata da Breton.
Pubblica in questi anni molti libri tra i quali A toute épreuve (1930), Le vie immédiate (1932), La rose publique (1934), Facile (1935), Les yeux fertiles (1936), Les mains libres (1937), Cours naturel (1938).
Nel settembre del 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Éluard viene richiamato come tenente per prestare servizio nell’intendenza, ma nel giugno del 1940, data che segna il crollo della Francia davanti a Hitler, egli viene smobilitato e può rientrare a Parigi.
Nel 1942 chiede nuovamente l’iscrizione al partito comunista francese (P.C.F.) e fa parte del movimento clandestino, contrassegnando il suo contributo alla resistenza con edizioni di libri di versi e di giornali alla macchia e trasmissioni radiofoniche clandestine. È del ’42 la sua famosa poesia Liberté.
Nel febbraio del 1944 Éluard rientra a Parigi ancora occupata dai tedeschi e il 25 agosto dello stesso anno avviene la liberazione.
Risalgono a questi anni Chanson complète e Mèdieuses (1939), Le livre ouvert, I e II (1940 e 1941), Poésie et vérité (1942), Au rendez-vous allemand (1942-1945), Le lit table (1944).
Dopo la liberazione e alla fine del conflitto, Éluard si impegna con il comunismo e compie numerosi viaggi nei paesi dell’Europa orientale, appoggia, in Grecia, la lotta per la liberazione e in Italia prende parte attivamente, nel 1946, alla campagna per l’avvento della Repubblica.
Nei primi giorni di settembre 1952, Éluard ha un attacco di angina pectoris e il 18 novembre dello stesso anno, in seguito ad un nuovo attacco, muore.
Sono degli ultimi anni di vita del poeta molte opere, tra le quali Poésie ininterrompue (1946) – la cui seconda parte viene pubblicata postuma, nel 1953 – Le dur désir de durer , sempre nel 1946, Poèmes politiques nel 1948, Une leçon de morale (1949), Tout dire e Le Phénix (1951).
Antonia Pozzi: la drammatica fine della Poetessa dell’Anima-
Articolo di Giovanna Potenza
Antonia POZZI
ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … …
È strana, a volte, la vita. Se osserviamo dall’esterno, alcune persone sembrano insolitamente privilegiate e la loro esistenza fluisce serena, senza ostacoli, come un fiume che scorre inarrestabile. Eppure, talvolta, quel moto lento e inesorabile si interrompe bruscamente, magari per una casualità o per un intervento volontario, e noi restiamo attoniti e smarriti ad interrogarci sul perché. Cosa può aver spinto, a soli 26 anni, Antonia Pozzi a compiere il suo tragico gesto in una gelida giornata decembrina di tanti anni fa, quando sull’Europa si addensavano minacciose le nubi di guerra? Forse non sapremo mai se le ragioni del suo suicidio sono da ricercarsi in un oscuro “male di vivere”, oppure in un sentimento di disperazione fatale. Possiamo asserire con certezza però che il panorama letterario italiano ne risultò impoverito perché, come ebbe a commentare Dino Formaggio, un famoso filosofo legato da profonda amicizia con la donna: “la poesia di Antonia Pozzi rimane, più che mai oggi, una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite, della poesia lirica italiana di questo secolo“. Una voce isolata e solitaria, quella della Pozzi, a lungo poco nota, fino alla “riscoperta” da parte di Montale, che ne decretò la fama definitiva. Milanese, nata nel 1912 da una facoltosa famiglia alto-borghese (il padre era un noto avvocato, la madre, una nobildonna nipote di Tommaso Grossi, scrittore amico di Carlo Porta e del Manzoni), Antonia Pozzi studia al liceo classico “Manzoni”, nella sua città, e intreccia ben presto una relazione con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, relazione fortemente avversata dai genitori, terminata nel 1933, con il trasferimento dell’insegnante a Roma. L’ambiente altolocato di appartenenza offre alla giovane molteplici stimoli culturali: la frequentazione di un circolo sociale esclusivo, un palco riservato alla Scala e – chance non comune all’epoca – la possibilità di viaggiare. Antonia suona il pianoforte, dipinge, si dedica alla fotografia, pratica il nuoto, il tennis, lo sci, l’equitazione. E’ una bionda bellezza esile e raffinata, con i bei capelli ondulati tagliati corti, stile Anni Trenta. Il mondo sembra spalancarsi dinanzi a lei, caleidoscopio rutilante di opportunità ed emozioni. Quando si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, nel 1930, sembra aprirsi per lei un nuovo capitolo, il più felice, della sua breve esistenza. Frequenta molti dei nomi più importanti del firmamento intellettuale milanese di quegli anni, da Vittorio Sereni ad Enzo Paci, da Luciano Anceschi a Remo Cantoni, ma nessuno avrà maggiore influenza su di lei del docente di estetica Antonio Banfi, con cui si laureerà nel 1935. Viaggia in Italia, Austria, Germania e Inghilterra, ma visita anche le periferie della sua città, un mondo per il quale prova compassione, sentendosi quasi in colpa per i suoi natali privilegiati. Non a caso preferisce all’elegante mondanità milanese la solitudine della vita immersa nella natura incontaminata di Pasturo, presso Lecco, dove si erge la settecentesca villa di famiglia. Antonia fa lunghe escursioni a piedi o in bicicletta, ama la selvaggia bellezza di quei paesaggi ricchi di picchi innevati, di torrenti e di crepacci. Trae fonte di ispirazione dalla natura, è il silenzio delle alture che la induce alla meditazione sulla finitezza umana. Scatta fotografie ai luoghi ed agli abitanti, colti nelle loro umili mansioni quotidiane. Solo in alcuni e brevi momenti la giovane riesce a sentirsi in pace con se stessa. Poi la Storia, con la sua urgenza, irrompe anche nel ritiro dorato di Antonia: è il 1938 e le leggi razziali fasciste colpiscono alcuni dei suoi amici più cari. La giovane scrive, amara, al Sereni: <<l’età delle parole è finita per sempre>>. Il male di vivere, di cui soffre da tempo, si acuisce. “Morte” è una parola dolorosamente ricorrente nei suoi versi. Pericolosamente ricorrente. E la morte, infine, si materializza e se la porta via il 3 dicembre 1938, quando Antonia decide di avvelenarsi con dei barbiturici nei prati antistanti l’abbazia cistercense di Chiaravalle. Il suo biglietto di addio ai genitori parla di un’invincibile “disperazione mortale”, ma la sua famiglia nega a lungo la circostanza del suicidio, per evitare lo scandalo. Le sue prime opere vengono pubblicate postume, dalla Mondadori, un anno dopo la sua morte, dopo essere state revisionate dal padre, che modifica soprattutto quelle dai contenuti amorosi. Ma, a dispetto delle manipolazioni subite, la produzione lirica della Pozzi affascina tuttora generazioni di lettori per la modernità e per la scarna essenzialità dei suoi versi soffusi di tristezza, debitori del crepuscolarismo e dell’espressionismo tedesco.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Dopo un lungo periodo di oblio, persino il cinema si è interessato ad Antonia e la sua vita è stata ricostruita nel cine-documentario della regista Marina Spada in “Poesia che mi guardi”, presentato fuori concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia, nel 2009. In occasione del centenario della sua nascita, i registi Sabrina Bonaiti e Marco Ongania hanno, poi, realizzato un film-documentario dal titolo “Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa” e nel 2016 è stato proiettato, al Cinema Mexico di Milano , un film sulla sua vita intitolato “Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino. Oggi ella riposa nel cimitero di Pasturo, e la sua tomba è vegliata dal monumento funebre dello scultore Giannino Castiglioni, un “Cristo Giovane” che ha lo sguardo rivolto alla Grigna, alle amate montagne testimoni silenti e imperturbabili della “breve sosta” di Antonia nella nostra dimensione terrena.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Articolo di Giovanna Potenza , è una dottoressa di ricerca specializzata in Bioetica. Ha due lauree con lode, è autrice della monografia “Bioetica di inizio vita in Gran Bretagna” (Edizioni Accademiche Italiane, 2018) e ha vinto numerosi premi di narrativa. È uno spirito curioso del mondo che ama viaggiare e scrivere e che legge avidamente libri che riguardino il Rinascimento, l’Età Vittoriana, l’Arte e l’Antiquariato. Ha una casa ricca di oggetti antichi e di collezioni insolite, tra cui quella di fums up e di bambole d’epoca “Armand Marseille”.
Fonte- Vanilla Magazine-
VOCE DI DONNA 18 settembre 1937
Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.
Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.
Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore:
che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.
Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
PRATI Milano, 31 dicembre 1931
Forse non è nemmeno vero
quel che a volte ti senti urlare in cuore:
che questa vita è,
dentro il tuo essere,
un nulla
e che ciò che chiamavi la luce
è un abbaglio,
l’abbaglio estremo
dei tuoi occhi malati –
e che ciò che fingevi la meta
è un sogno,
il sogno infame
della tua debolezza.
Forse la vita è davvero
quale la scopri nei giorni giovani:
un soffio eterno che cerca
di cielo in cielo
chissà che altezza.
Ma noi siamo come l’erba dei prati
che sente sopra sé passare il vento
e tutta canta nel vento
e sempre vive nel vento,
eppure non sa così crescere
da fermare quel volo supremo
né balzare su dalla terra
per annegarsi in lui.
Antonia POZZI
INCANTESIMI 22 dicembre 1935
Alti orli ghiacciati
si disfecero al mondo.
Solcava
lenta e lieve la barca
laghi d’oro,
andando così noi nel sole
abbracciati.
Gracili reti bionde
imprigionavano l’ora.
E nacquero brividi;
crebbero
voci tristi;
fischiò
a sponda il dilacerarsi delle canne.
Belve chiare
guardarono dal folto
a lungo
il tramonto nell’acqua,
andando così verso l’ombra
io libera
e sola per sempre.
ANTONIA POZZI-Bambina
Lampi
Stanotte un sussultante cielo
malato di nuvole nere
acuisce a sprazzi vividi
il mio desiderio insonne
e lo fa duro e lucente
come una lama d’acciaio.
Margherita, 23 giugno 1929
ANTONIA POZZI-Poetessa
Sfiducia
Tristezza di queste mie mani
troppo pesanti
per non aprire piaghe,
troppo leggére
per lasciare un’impronta –
tristezza di questa mia bocca
che dice le stesse
parole tue
– altre cose intendendo –
e questo è il modo
della più disperata
lontananza.
16 ottobre 1933ù
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Pensiero
Avere due lunghe ali
d’ombra
e piegarle su questo tuo male;
essere ombra, pace
serale
intorno al tuo spento
sorriso.
maggio 1934
Antonia Pozzi
Convegno
Nell’aria della stanza
non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso
come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora – in lontani istanti –
sul mio volto.
29 maggio 1935
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Brezza
Mi ritrovo
nell’aria che si leva
puntuale al meriggio
e volge foglie e rami
alla montagna.
Potessero così
sollevarsi
i miei pensieri un poco ogni giorno:
non credessi mai
spenti gli aneliti
nel mio cuore.
8 giugno 1935
Antonia Pozzi
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
ANTONIA POZZI-Poetessa
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
Fara in Sabina-Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina:Intervista alla Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Fara in Sabina (Rieti)-Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina, sito nel borgo antico di Fara in Sabina, celebra un anniversario importante: lo scorso 16 marzo 2024, infatti, è stata inaugurata la sala che ospita il prezioso corredo della Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, testimone di una delle pagine più travagliate e avventurose della storia dell’archeologia, insieme al suo reperto più celebre: il Carro del Principe di Eretum.
Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina:Intervista alla Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Il recupero, il restauro, la fruizione e la valorizzazione del ritrovamento sono stati resipossibili dal lavoro sinergico del Comune di Fara in Sabina e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti.
Per omaggiare questo primo anniversario, il museo ha organizzato un evento speciale previsto per sabato 29 marzo 2025, al quale saranno presenti diverse figure di rilievo tra cui l’archeologa dott.ssa Paola Santoro, dirigente emerito del Consiglio Nazionale delle
Ricerche ed ex dirigente dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico a Montelibretti. È stata allieva del grande etruscologo Massimo Pallottino e attualmente ricopre il ruolo di direttrice del Museo Civico Archeologico di Magliano Sabina.
Dottoressa Santoro, lei ha diretto e promosso ricerche topografiche e scavi nella Sabina Tiberina, che hanno avuto come risultato l’identificazione di alcune città con le necropoli, tra cui quella di Colle del Forno: può parlarcene?
Sì, dirigevo le ricerche sui Sabini del Tevere. È stato abbastanza complicato perché iprimi scavi, avvenuti negli anni Settanta, sembravano una sorta di libro di cui sono state ritrovate solo alcune pagine sparse. Noi abbiamo cercato di collegarle tra loro, ma ovviamente i buchi restano. Per fortuna siamo stati ricompensati perché nella seconda serie di campagne di scavo, iniziate negli anni 2000, abbiamo trovato la tomba 36, conosciuta come Tomba del Trono, conservata anch’essa al museo di Fara in Sabina.
Cosa avete scoperto durante gli scavi?
Nel ‘73 è stata allestita una prima esposizione al Consiglio Nazionale delle Ricerche per mostrare che la Sabina non è una zona grigia dell’archeologia, come diceva l’archeologo Pallottino, ma appare con un profilo archeologico ben definito. Da quel momento,coadiuvati dalla Soprintendenza, abbiamo ripreso a studiare tutti i Sabini del Tevere confermando la presenza di due fari nella Sabina Tiberina: uno è la città di Tito Tazio e Numa Pompilio, ossia Cures, e l’altro è la necropoli che ci ha dato l’opportunità di tracciare il profilo culturale dell’insediamento sabino, cioè Eretum.
Qual è stato il momento più emozionante per lei?
Chi ha trafugato la tomba ha trovato il carro intatto, evento raro in questo ambito, ma a causa degli scavi fatti con la ruspa sono stati riportati diversi danni. Io scientificamente ho potuto scavare i lacerti, i quali erano soprattutto frammenti d’oro. Ed è proprio questo il dettaglio che mi ha particolarmente colpito, cioè scoprire che i materiali d’oro rinvenuti si possono collegare alla veste di una principessa sepolta nella tomba. Si tratta di elementi decorativi provenienti dal Lazio e dall’interno della penisola e questo fa supporre che tutto il corredo sia appartenuto a una delle famiglie più emergenti di Eretum.
Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina:Intervista alla Dott.ssa Paola Santoro Arheologa
Davvero affascinante. E secondo lei che impatto ha avuto l’arrivo del Carro per il museo e per tutta la comunità?
Io penso rappresenti un valore aggiunto per il museo e per la città, infatti il Comune di Fara in Sabina ci tiene tanto. Bisogna continuare a tutelare questo importantissimo patrimonio. D’altronde, il museo di Fara ha il vanto di avere i due poli principali della Sabina Tiberina Meridionale nominati dalle fonti e scavati scientificamente, uno dalla Soprintendenza e uno dal CNR.
Dottoressa, ha altri progetti in cantiere?
A noi rimane tanto materiale da studiare riguardo alla storia di Eretum. Al momento abbiamo documentato graficamente tutti i reperti e ora stiamo lavorando alla pubblicazione di un libro dedicato alla storia della Tomba XI, che mi auguro
diventi una pietra miliare della storia dei Sabini del Tevere. Magari, il 29 marzo de prossimo anno, potremo finalmente presentarlo.
Il Museo Civico Archeologico della Sabina Tiberina, sito nel borgo antico di Fara in Sabina, celebra un anniversario importante: lo scorso 16 marzo 2024, infatti, è stata inaugurata la sala che ospita il prezioso corredo della Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, testimone di una delle pagine più travagliate e avventurose della storia dell’archeologia, insieme al suo reperto più celebre: il Carro del Principe di Eretum. Il recupero, il restauro, la fruizione e la valorizzazione del ritrovamento sono stati resi possibili dal lavoro sinergico del Comune di Fara in Sabina e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti.
Per omaggiare questo primo anniversario, il museo ha organizzato un evento speciale previsto per sabato 29 marzo 2025, al quale saranno presenti diverse figure di rilievo tra cui l’archeologa dott.ssa Paola Santoro, dirigente emerito del Consiglio Nazionale delle Ricerche ed ex dirigente dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico a Montelibretti. È stata allieva del grande etruscologo Massimo Pallottino e attualmente ricopre il ruolo di direttrice del Museo Civico Archeologico di Magliano Sabina.
Dottoressa Santoro, lei ha diretto e promosso ricerche topografiche e scavi nella Sabina Tiberina, che hanno avuto come risultato l’identificazione di alcune città con le necropoli, tra cui quella di Colle del Forno: può parlarcene?
Sì, dirigevo le ricerche sui Sabini del Tevere. È stato abbastanza complicato perché i primi scavi, avvenuti negli anni Settanta, sembravano una sorta di libro di cui sono state ritrovate solo alcune pagine sparse. Noi abbiamo cercato di collegarle tra loro, ma ovviamente i buchi restano. Per fortuna siamo stati ricompensati perché nella seconda serie di campagne di scavo, iniziate negli anni 2000, abbiamo trovato la tomba 36, conosciuta come Tomba del Trono, conservata anch’essa al museo di Fara in Sabina.
Cosa avete scoperto durante gli scavi?
Nel ‘73 è stata allestita una prima esposizione al Consiglio Nazionale delle Ricerche per mostrare che la Sabina non è una zona grigia dell’archeologia, come diceva l’archeologo Pallottino, ma appare con un profilo archeologico ben definito. Da quel momento,coadiuvati dalla Soprintendenza, abbiamo ripreso a studiare tutti i Sabini del Tevere confermando la presenza di due fari nella Sabina Tiberina: uno è la città di Tito Tazio e Numa Pompilio, ossia Cures, e l’altro è la necropoli che ci ha dato l’opportunità di tracciare il profilo culturale dell’insediamento sabino, cioè Eretum.
Qual è stato il momento più emozionante per lei?
Chi ha trafugato la tomba ha trovato il carro intatto, evento raro in questo ambito, ma a causa degli scavi fatti con la ruspa sono stati riportati diversi danni. Io scientificamente ho potuto scavare i lacerti, i quali erano soprattutto frammenti d’oro. Ed è proprio questo il dettaglio che mi ha particolarmente colpito, cioè scoprire che i materiali d’oro rinvenuti si possono collegare alla veste di una principessa sepolta nella tomba. Si tratta di elementi decorativi provenienti dal Lazio e dall’interno della penisola e questo fa supporre che tutto il corredo sia appartenuto a una delle famiglie più emergenti di Eretum.
Davvero affascinante. E secondo lei che impatto ha avuto l’arrivo del Carro per il museo e per tutta la comunità?
Io penso rappresenti un valore aggiunto per il museo e per la città, infatti il Comune di Fara in Sabina ci tiene tanto. Bisogna continuare a tutelare questo importantissimo patrimonio. D’altronde, il museo di Fara ha il vanto di avere i due poli principali della Sabina Tiberina Meridionale nominati dalle fonti e scavati scientificamente, uno dalla Soprintendenza e uno dal CNR.
Dottoressa, ha altri progetti in cantiere?
A noi rimane tanto materiale da studiare riguardo alla storia di Eretum. Al momento
abbiamo documentato graficamente tutti i reperti e ora stiamo lavorando alla
pubblicazione di un libro dedicato alla storia della Tomba XI, che mi auguro
diventi una pietra miliare della storia dei Sabini del Tevere. Magari, il 29 marzo del
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