La lunga storia della ricotta, un latticino dalle antiche origini-
Il candido colore bianco della Ricotta , la consistenza morbida e cremosa, il gusto fresco e delicato: la ricotta è un prodotto unico, che ancora oggi è protagonista di moltissime ricette. Ma non tutti sanno che si tratta di “un’invenzione” molto più antica di quanto si pensi.
La ricotta è un ingrediente indispensabile in molte delle più famose ricette della tradizione gastronomica italiana, un patrimonio che è stato costruito con il tempo, lentamente e con la saggezza di centinaia di generazioni. Con la sua consistenza piacevolmente cremosa e il suo gusto fresco e delicato, la ricotta è uno dei pochi ingredienti insostituibili di molti dolci, come ad esempio la cassata o i cannoli siciliani, ma anche la pastiera napoletana; è poi un prodotto indispensabile nella ricetta dei cannelloni ricotta e spinaci e in molti altri primi piatti della tradizione italiana, come la pasta alla norma. E poi ancora la deliziosa farcitura dei ravioli, mille tipi di polpette, altrettanti di crostate, torte salate e sformati, e così via: le ricette con la ricotta sono davvero innumerevoli.
Una storia millenaria
Ma se l’uso della ricotta nella cucina contemporanea è un dato assodato, di certo non si può dire lo stesso per la lunga storia di questo latticino, spesso ignorata anche da chi lavora o si intende di cucina. Eppure, si tratta di una delle vicende più lunghe, antiche e appassionanti della gastronomia italiana, dalla quale c’è sempre molto da imparare. Di origini assai remote, la ricotta sembra essere un prodotto conosciuto addirittura fin dai tempi delle antiche popolazioni mesopotamiche, che popolavano il Mediterraneo già nel quarto millennio avanti Cristo. Da allora, divenne molto popolare anche tra gli antichi greci e i romani. Dopo un periodo in cui la sua preparazione sembra cadere in disuso, la ricotta ricompare nelle fonti iconografiche della fine del XII secolo, in pieno Medioevo.
La ricotta: un ritratto delle antiche abitudini alimentari
Ma in che modo siamo riusciti a reperire così tante informazioni su un alimento che era conosciuto decine di millenni or sono? Ebbene, la maggior parte delle testimonianze ci giungono da remoti affreschi, dipinti e disegni reperiti da codici e libri antichi.
Questo ricco alimento, ad esempio, è frequentemente raffigurato nei mosaici e negli affreschi dell’antica Pompei, nei quali la ricotta veniva ritratta in canestrini di giunco, dove era effettivamente conservata, così come è ancora in uso nelle zone rurali.
Spesso, al centro di rappresentazioni di banchetti e tavole imbandite, cesti o ciotole di ricotta fresca sono sempre più gettonati nel corso dei secoli, specialmente nelle aree geografiche la cui economia si basava sull’allevamento di bovini e ovini. Alla fine del Cinquecento, quando diventa sempre più diffusa la tendenza a ritrarre la natura morta, compaiono anche molte raffigurazioni del latticino in questione, che nel frattempo si è imposto come una delle delizie più ricercate sulle tavole dell’epoca: ne è una dimostrazione l’opera di Vincenzo Campi, intitolata “I mangiatori di ricotta”, in cui è palpabile la goduria dei personaggi rappresentati nell’atto di consumare una candida forma di ricotta.
Dai santi alle regine
Quando, sul finire dell’età antica e successivamente alle invasioni barbariche, la produzione di ricotta calò bruscamente, si persero con essa anche la maggior parte delle testimonianze che ci informano sul suo uso e consumo. Ma, stando alla tradizione popolare, il ritorno in auge di questo delizioso latticino si deve a – niente di meno che – San Francesco, il religioso assisano poi diventato patrono d’Italia. Leggenda vuole, infatti, che fu lui a reintrodurre tra i pastori della campagna romana l’usanza della produzione della ricotta, insegnando loro i semplici passaggi necessari per ottenerla dal latte dei loro animali. Che sia merito di San Francesco in persona o meno, il racconto cristiano ha certamente un fondo di verità, perché, nel Medioevo, ai monaci era affidato un ruolo decisivo nel preservare il sapere contadino.
Nella storia della ricotta, però, c’è almeno un altro personaggio importante: molti storici gastronomici sono concordi, infatti, nell’attribuire a Caterina de’ Medici la caduta in disuso della ricotta presso l’aristocrazia, e il suo declassamento ad alimento della gastronomia povera. Divenuta regina di Francia nel 1547 come moglie di Enrico II, Caterina stentò ad abbandonare le abitudini culinarie della sua Firenze, per adattarsi alla cucina – che riteneva primitiva e insoddisfacente – dei cuochi francesi. Chiamò quindi a corte esperti gastronomi fiorentini, rivoluzionando i pasti e le abitudini alimentari della cucina francese, dividendo le portate salate da quelle dolci ed eleggendo a cibi “nobili” solo pochi selezionati alimenti. Dopo di lei, la ricotta scomparve quasi del tutto dalle opere letterarie e figurative.
Una ricotta leggendaria Caterina de’ Medici interruppe, suo malgrado, una tradizione davvero millenaria, che vedeva la ricotta protagonista di miti e leggende. Questo latticino è presente, addirittura, in uno dei passaggi più celebri dell’“Odissea”, ovvero quello che vede il ciclope Polifemo incontrare Ulisse e i suoi compagni, proprio mentre prepara e lavora la ricotta: «Mezzo il candido latte insieme strinse, / E su i canestri d’intrecciato vinco / Lo collocò ammontato», si legge nel nono libro; poco oltre, Ulisse stesso assaggia un po’ di quel ciclopico lavoro quotidiano, gustando una generosa porzione del «rappreso latte». E di certo non ci saremmo tirati indietro, al posto del leggendario esploratore: ancora oggi la ricotta vanta numerosi ammiratori ed è l’ingrediente principe di preparazioni salate e ricette dolci di ogni genere, dalla “cuccìa siciliana” consumata in occasione del giorno di Santa Lucia alla saporitissima pasta alla Norma, confermandosi uno dei prodotti gastronomici di punta del nostro Paese.
Roma Municipio XIII-Fotoreportage di Franco Leggeri-
“-Neve a Castel di Guido e Residenza Aurelia-“
Roma Municipio XIII-Castel di Guido e Residenza Aurelia–26 febbraio 2018 – E, alla fine, anche i più prudenti sono stati smentiti e la neve è arrivata. Poco dopo l’una di questa notte i primi fiocchi di neve hanno iniziato ad imbiancare Castel di Guido e la Residenza Aurelia. La neve , per l’intera notte, ha accarezzato la Capitale. Entrata da nord, dopo aver imbiancato tutta la Provincia di Viterbo , la perturbazione nevosa ha coinvolto la nostra Città e Castel di Guido. Alleghiamo al post un fotoreportage sulla nevicata che ha interessato la Residenza Aurelia.
PIANO NEVE DEL CAMPIDOGLIO-
Scuole chiuse
Ieri pomeriggio il Comune di Roma ha emanato un’ordinanza che prevede la chiusura delle scuole: “Preso atto dell’ultimo aggiornamento delle previsioni fornite dalla Protezione Civile regionale, che confermano i rischi di neve e forti gelate, è stata firmata ordinanza sindacale che dispone la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, compresi gli asili nido, sul territorio di Roma per lunedì 26 febbraio”. Provvedimenti analoghi sono stati presi da tutti i Sindaci della Città Metropolitana , sono sospese anche le lezioni e gli esami nelle Università della Capitale.
Chiusi parchi, cimiteri e ville storiche
Una seconda ordinanza, firmata sempre dalla sindaca Raggi, è quella relativa a parchi, cimiteri e ville storiche che resteranno chiusi fino a cessata allerta.
Piano neve di Atac
Anche Atac è “in trincea”. Varato il piano neve: in servizio saranno solo le linee di bus che garantiranno gli spostamenti lungo le direttrici principali della città con vetture dotate di gomme termiche. L’intera rete metro-ferroviaria (metro A, B e C, ferrovie Termini- Centocelle, Roma-Lido e Roma-Viterbo) sarà regolarmente in servizio.
La costruzione della via Aurelia assunse subito una grande importanza. La sottomissione dei popoli del sud est della Gallia permise di accorciare il tragitto e di conseguenza il tempo di percorrenza tra Roma e la Spagna. Grazie alla via Aurelia, Giulio Cesare giunse ad Arles partendo da Roma in otto giorni, per poi giungere in soli 27 giorni in Spagna, accompagnato dal suo esercito. Il cursus publicus, il servizio di posta romano, giungeva in Spagna percorrendo 70 chilometri al giorno, con quattro cambi di cavallo durante l’arco della giornata.
Itinerario
Il tracciato della via romana, poi detto via Aurelia Vetus (ancora oggi via Aurelia antica), partiva dal Foro Boario oltrepassando le Mura serviane e il Tevere sul pons Sublicius, poi sostituito dal ponte Emilio (attuale ponte Rotto) e attraversava la zona paludosa di Trastevere (in parte su viadotto ancora visibile nelle cantine di via della Lungaretta), salendo quindi sul Gianicolo (via della Paglia, vicolo della Frusta, via di Porta San Pancrazio) e superando le Mura aureliane a porta Aurelia (oggi porta San Pancrazio).
A Pisa la viabilità consolare lungo la costa tirrenica si interrompeva a causa di due componenti fondamentali che ne impedivano la prosecuzione: da una parte, la presenza dell’ampia zona paludosa detta Fossae Papirianae (riportate nella Tabula Peutingeriana) nell’attuale costa della Versilia (da Migliarino Pisano fino a Luni, poco lontano dall’odierna Sarzana); dall’altra, la presenza degli scomodi e bellicosi Apuani, detti anche Liguri Montani o Sengauni.
Segmentum IV; Rappresentazione delle zone Apuane con indicate le colonie di Pisa, Lucca, Luni ed il nome “Sengauni”; il tratto Pisa-Luni non è ancora collegato
Cosicché il percorso della via Aurelia dopo Pisa andava verso Lucca, attraverso la deviazione di Corliano, Rigoli e Ripafratta (San Giuliano Terme) e, incuneandosi poi nel Forum Clodii (Garfagnana), entrava in Lunigiana attraverso la valle del Serchio (Auser) e la val d’Aulella (Audena) per ricongiungersi con la viabilità di Luni.
Il brevissimo tratto paludoso da Pisa a Luni (solo poche miglia terrestri) interruppe così la viabilità costiera fino al 56 a.C., quando Giulio Cesare ebbe la necessità impellente di sveltire i collegamenti viari in vista della conquista della Gallia. Per tale ragione strategica egli diede incarico al figlio di Marco Emilio Scauro (di nome anch’esso Marco Emilio Scauro) di costruire una sorta di “scorciatoia” che potesse collegare Pisa con Luni (Luna). Questa seguì un percorso collinare, sempre però con deviazione su Lucca, diventando quella che oggi è la strada provinciale Sarzanese, che effettivamente collega Lucca con Camaiore (Campus Major) e con Massa (Tabernae Frigidae), proseguendo infine verso Sarzana sempre con percorso collinare.
Intorno al 13 a.C. Augusto fece costruire la via Julia Augusta verso Marsiglia (antica Massalia) insieme all’edificazione del Trofeo di Augusto a La Turbie (sopra l’attuale Principato di Monaco), per celebrare la sottomissione di tutte le popolazioni alpine. A Nîmes (Colonia Augusta Nemausensis), la Julia Augusta si raccordava con la via Domizia, la più antica costruita in Gallia dai Romani, lunga circa 620 km, da Segusium (Susa) ai Pirenei.
Nei tempi successivi, mediante la riunione di ulteriori tratti di viabilità nell’entroterra ligure di levante e di ponente e con l’aggiunta di migliorie nella Sarzanese, la via Aurelia andò componendo nei secoli quel “puzzle” che è l’attuale via Aurelia da Roma fino a Ventimiglia (confine di Stato) e prosegue verso Nizza, Tolone e Marsiglia fino ad Arles, portando così la lunghezza totale del sistema Aurelia/Julia-Augusta a 962 chilometri.
L’itinerario in Francia
All’ingresso in Francia, prende il nome di Via Julia Augusta e copre tutta la Costa Azzurra passando per diverse stazioni. Proprio grazie ad esse è stato possibile individuare il reale percorso della Via Aurelia.
La prima stazione è quella di Cap Martin dove sono stati ritrovati i resti di un mausoleo romano. Da qui, nasce un’altra via minore che conduce a Porto d’Ercole, nel principato di Monaco. A seguire, si giunge al colle di Turbia. Qui, nel 6 a.C., il senato romano decise di costruire il Trofeo delle Alpi, per commemorare la vittoria dell’imperatore Augusto sulle popolazioni ribelli delle Alpi. Si trattava di un monumento di grandi dimensioni per l’epoca con i suoi circa 50 metri di altezza che culminavano nella statua di Augusto, posta in cima alla costruzione. Dopo l’abbandono temporaneo a causa della caduta dell’Impero Romano, fu parzialmente distrutto per essere poi utilizzato come fortezza durante il Medioevo e infine, nei primi anni del Settecento, scavato per necessità minerarie. Insieme alla costruzione, fu attuato un rafforzamento della strada che passava proprio ai piedi della collina.
Nel 14 a.C., Augusto scelse la città di Cemenelum, situata sulle alture dell’attuale Nizza e oggi quartiere della città nizzarda sotto il nome di Cimiez, come capoluogo dell’antica provincia romana delle Alpi Marittime. Attualmente sono presenti i resti di un sito gallo romano composto da tre terme, un quartiere abitato, un anfiteatro e una cattedrale dotata di battistero paleocristiano.
La via attraversa il comune di La Gaude, in un tratto lungo il quale è presente un cenotafio romano contenente un’urna funebre di un legionario imperiale, Cremonius Albucus. Inoltre, la presenza di un ponte romano in pietra attesta l’interesse archeologico della Via Aurelia in questo settore. Segue poi un passaggio da Antibes, una città greca annessa nel 43 a.C. a Roma, in cui vengono costruiti un municipio, un teatro, un arco di trionfo e vari acquedotti.
La città successiva è Forum Julii, oggi Fréjus, all’epoca abitata da più di 6000 persone ed estesa su una trentina di ettari. Fondata da Giulio Cesare nel 49 a.C., vi nacquero personalità illustri come Publio Cornelio Tacito e Gneo Giulio Agricola. Da città commerciale, divenne un porto di guerra tra i più importanti del Mediterraneo in cui si instaurarono i soldati dell’Ottava Legione. Con la diffusione del cristianesimo, divenne sede episcopale. Anche a Fréjus sono numerosi i resti della civiltà romana, tra cui acquedotti, un teatro, un anfiteatro, le terme, la porta di Gaules e un faro noto come lanterna di Augusto. La via Aurelia seguiva da qui il corso dell’Argens tracciando in parte l’attuale strada nazionale da Muy a Vidauban per arrivare a Luc. Raggiunge poi Cabasse e Brignoles, dove è situata una stazione di posta. Uno snodo chiave è quello di Tourves, punto strategico per l’esercito romano, cui segue la città di Saint-Maximin-la-Sainte-Baume che anticipa i resti del Trofeo di Mario presso Pourrières, eretto nel 102 a.C. dopo la vittoria del console Mario sui Teutoni.
La via Aurelia arriva a Acquae Sextiae, l’attuale Aix-en-Provence, la cui storia è legata a quella dell’Oppidum di Entremont. I Romani distrussero l’oppidum nel 123 a.C. per eliminare un punto nevralgico dei Liguri. Il proconsole Sextius costruì una fortezza nei pressi di sorgenti termali e le diede il nome di “acque di Sextius”. Dalla fortezza si sviluppò un villaggio che divenne definitivamente colonia nel 15 a.C. e vide la propria economia crescere fino a permetterle di diventare capitale amministrativa della Gallia Narbonense. Nell’invasione del IV secolo, la città fu parzialmente distrutta.
Da Aix, la strada si divide verso Marsiglia, Vitrolles, Fos e Arles.
La via Aurelia passa dal nord di Eguilles diretta verso il sud di Salon-de-Provence, sede della stazione di Pisavis. Questa stazione è oggi distrutta e le sue mura sono conservate in una proprietà privata. Da qui raggiunge Mouriès, la piana di La Crau, il mas d’Archimbaud, il mas Chabran, Le Paradou e Estoublon. Qui partiva la strada verso Arles, città gallo romana per eccellenza, che aveva un ruolo strategico e economico. Inoltre, qui si instaurò la quinta legione. L’espansione fu interrotta dalle invasioni del III secolo ma presto ripristinata quando l’imperatore Costantino I vi si stabilì. Arles era un capoluogo di provincia, prefettura delle Gallie e sede di un’importante zecca monetaria. Inoltre, è sede di numerosi monumenti di epoca romana: oltre all’anfiteatro, al teatro e al circo, vi si trovano le terme di Costantino, il foro e la necropoli di Alyscamps.
Nella località di Ernaginum è situato l’odierno sito di Saint-Gabriel sede del più grande nodo stradale tra via Aurelia, via Domizia e via d’Agrippa. Da qui, la via Aurelia confluisce nella via Domizia e si dirige in Spagna.
Sviluppo della via Aurelia
Di seguito vengono riportati alcuni dei luoghi toccati o sfiorati dal percorso dell’antica via Aurelia (fra parentesi sono riportati i chilometri), degli avvenimenti e degli argomenti correlati.
-I colori e le bacche nell’autunno della Campagna Romana-
-Fotoreportage di Franco Leggeri-
Roma Municipio XIII-Fotoreportage di Franco Leggeri-L’autunno è magico, le atmosfere diventano più rarefatte e i colori caldi ritornano a sorprenderci con mille sfumature di giallo. Dai cespugli ricoperti di bacche, scopriamo i colori tenui e la poesia di questa sinfonia di bellezza. Gli alberi , assieme agli arbusti, con le loro cortecce e le loro cromie, contribuiscono a creare quell’atmosfera fiabesca, romantica e sorprendente che delizia gli amanti dell’autunno.
Con la locuzione Campagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino. Storia-Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Biblioteca DEA SABINA-Sante RUFINA e SECONDA Martiri di SELVA CANDIDA-Diocesi di Porto e Santa Rufina–(Breve Storia)–
Sante RUFINA e SECONDA-Sono due celebri martiri romane ricordate in tutti i più antichi elenchi e in molti documenti storici. La loro morte avvenne durante la persecuzione di Valeriano e Gallieno, attorno al 260. Nel racconto del loro martirio sono presentate come sorelle, fidanzate con due giovani cristiani che per timore della morte avevano rinnegato la fede. A causa del rifiuto del matrimonio esse furono denunciate ed imprigionate mentre fuggivano da Roma. In seguito al loro diniego di sacrificare agli idoli le due giovani furono condotte in un bosco sulla via Cornelia, a dieci miglia da Roma in un terreno detto “Buxo”, dove vennero uccise e lasciate insepolte. Plautilla, matrona romana, che le aveva viste in sogno, provvide alla loro sepoltura in quello stesso luogo dove, già nel sec. IV, fu eretta una basilica, iniziata da Giulio 1 (336) e completata da papa Damaso, rinnovata con l’aggiunta del battistero da Adriano 1 (772-95) ed arricchita di doni da Leone IV (847–55). A questa chiesa si fa riferimento nei diplomi pontifici anche oltre l’ XI secolo, essendo divenuta Cattedrale della diocesi di Lorium, che presumibilmente ebbe un suo Vescovo proprio per provvedere alla quotidiana celebrazione dei sacri misteri nei tre santuari del territorio (sante Rufina e Seconda, san Mario e compagni e san Basilide) e per il decoro della vicina residenza imperiale. Il primo vescovo del quale si ha certezza storica è Pietro nell’anno 487. Attorno a quel luogo di culto, divenuto celebre meta di pellegrinaggio assieme alle catacombe di san Mario, era sorta gradualmente una città, che fu saccheggiata e distrutta dai Saraceni nell’847 e poi nell’870. Sergio III, nel 904, provvide alla riparazione della Chiesa, ma il centro abitato era oramai quasi del tutto abbandonato a causa dei pericoli delle incursioni barbariche e dello squallore del luogo. Papa Anastasio IV, nel 1153, fece trasportare il corpo delle due Sante nel dove venne loro dedicata una cappella che fu posta Sotto la giurisdizione del vescovo di Porto e Santa Rufina, come è provato dalla bolla di Gregorio IX del 1236. A Trastevere, in via della Lungaretta, esiste ancora un antico monastero loro intitolato e che si dice edificato nel luogo dove era la loro casa natale. Della chiesa adiacente, ornata con un campanile del XIII sec., si hanno notizie fin dal 1123, dato che in una bolla di Callisto Il è annoverata fra le filiali di santa Maria in Trastevere. I resti archeologici sulla via Boccea (loc. Porcareccina), gi–á individuati e descritti da Antonio Bosio (1632), furono di nuovo studiati nel nostro secolo.
Festa delle Sante Rufina e Seconda, patrone della Diocesi –
Preghiera di S.E.. Monsignor GINO REALI in onore della Sante Patrone della nostra Diocesi
Padre di misericordia, che hai chiamato alla gloria del martirio le sante sorelle Rufina e Seconda, congiunte in vita e in morte dall’amore per l’unico Sposo, e le hai donate alla nostra Chiesa come modello di fede e di fortezza, concedi a noi, per il loro esempio e la loro intercessione, di seguire il Signore Gesù con fede viva, speranza ferma e carità ardente. Questa terra, bagnata dal sangue dei Martiri, germogli ancora il frutto della santità e dell’amore. Per la loro comune intercessione, dona alle nostre famiglie unità e pace; per il loro esempio rafforza i nostri giovani nella lotta per la virtù ed il bene, e dona loro limpidezza di cuore e generosità d’impegno; per i loro meriti, sostieni i nostri passi nel cammino verso la patria eterna. A te, o Padre, affidiamo la nostra vita: liberaci da ogni pericolo dell’anima e del corpo, e donaci la grazia che ti chiediamo … Tu che vivi e regni, con Cristo tuo Figlio e lo Spirito Santo, nei secoli glorioso. Amen.
Monsignor Gino Reali Vescovo di Porto – Santa Rufina 7 giugno 2007
La Chiesetta è stata edifica dal Sig. Enrico SCORSOLINI a perenne memoria di ALBERTO FALCIANI. La chiesetta fu inaugurata da S.E. Monsignor Tito Mancini Vescovo ausiliare di Porto e Santa Rufina , Segretario particolare di S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT. L’inaugurazione avvenne il 16 maggio 1965.La bella chiesetta di campagna fa parte della Parrocchia di Sant’Isidoro di Tragliata, vi si celebra la Messa domenicale e tutti i pomeriggi alle ore 16:00 si recita il Santo Rosario .
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina.
Biografia-S.E. Monsignor Tito Mancini-Il Vescovo Pietro Mancini nacque a Bologna il 24 novembre 1901. Trasferitosi a Firenze entrò giovanissimo nel Convitto della Calza da dove , ordinato sacerdote insieme a Mons. Bagnoli il 25 luglio 1925, uscì per dedicarsi al ministero.
Il quel 25 luglio 1925 furono ordinati preti anche Don Antonio Pettini, Don Romano Rastrelli, Don Serafino Ceri.
A Don Mancini si deve la costruzione della nuova Chiesa parrocchiale di Santa Maria a Coverciano .
Dopo aver svolto il ministero a Coverciano per un certo periodo , cioè sino al mese di agosto del 1933, Don Tito Mancini passo alla Marina Militare con il grado di Capitano dedicandosi all’assistenza religiosa dei marinai; ma i parrocchiani di Coverciano non lo dimenticarono e quando arricchirono di un nuovo concerto di campane il loro campanile vollero che una campana fosse dedicata a San Tito al ricordo proprio di Don Tito Mancini.
Ben presto Don Tito Mancini dovette lasciare il ministero a favore dei marinai perché chiamato a Roma al seguito del Cardinale francese Eugenio Tisserant il quale ripose ogni fiducia nel sacerdote calzista. Ben presto, il 29 gennaio 1947, Don Mancini divenne Vicario Generale della Diocesi di Ostia Porto e Santa Rufina delle quali era titolare il Cardinale Tisserant, e poi lo stesso Cardinale ottenne , nel 1960, dalla Santa Sede che Monsignor Mancini gli fosse assegnato come Vescovo Ausiliare e fu lo stesso Cardinale Tisserant a consacrare.
Si legge nel settimanale “Vita” nell’edizione del 4 aprile 1962 , in un lungo articolo dal titolo TISSERANT a pag. 43 :” il 29 gennaio 1961 il Cardinale Tisserant, versò non poche lacrime di commozione mentre consacra Vescovo Mon. Tito Mancini, assegnatogli come Ausiliare.
Prosegue il cronista:” sembra che consagri Vescovo un figlio.” Era questo il commento dei presenti. Dopo la cerimonia di investitura gli invitati fecero al Cardinale le congratulazioni per aver ottenuto un Vescovo Ausiliare per la Diocesi, il Cardinale rispose così:”Non dovete rallegrarmi con me perché ho avuto il Vescovo Ausiliare, ma perché ho avuto Questo Ausiliare, Mons. Tito Mancini .” Appena aver pronunciato queste parole il Cardinale fece un gesto che commosse profondamente i presenti e il Vescovo Mancini: si sfilò dal dito l’anello episcopale che egli aveva ricevuto 24 anni prima nel giorno della sua propria consacrazione e lo donò al sua neo Ausiliare….”.
Il 28 febbraio 1967 Mons. Tito Mancini passò a reggere le Diocesi di Nepi e Sutri nella Tuscia laziale.
L’attività pastorale di Monsignor Tito Mancini ,molto intensa , diede ottimi frutti. A questo proposito giova ricordare ciò che il parroco Don Alberto Benedetti attestò di lui ancora vivente:” dalla mente e dal cuore…Mancini trae motivo per portare la fiaccola della Fede e l’ardore della Carità in ogni angolo della Diocesi, con semplice umiltà aiuta i parroci , sostituisce quelli improvvisamente impediti per malattia o impegni , nella celebrazione della Santa Messa…” Monsignor Tito Mancini morì a Sutri, rimpianto del clero e dal popolo, dal 4 marzo 1969 è sepolto all’interno della Cattedrale della Diocesi di Porto e Santa Rufina a La Storta vicino al Cardinale Eugenio Tisserant , Monsignor Luigi Martinelli,Monsignor Pietro Villa e Vescovo Andrea Pangrazio, come si legge nell’epigrafe .
Ricerche bibliografiche, foto d’archivio e foto originali sono di Franco Leggeri-
Torri piezometriche-Serbatori Idrici della Campagna Romana-Franco Leggeri Fotoreportage-Le prime torri piezometriche si fanno risalire all’Impero Romano, poiché la loro funzione, oltre ad avere un serbatoio come riserva per l’accumulo di acqua, è quella di, naturalmente, compensare la rete idrica in particolar modo lavorando per vasi comunicanti, proprio per ottenere una maggiore pressione nelle condutture rispetto alla pressione nella rete urbana dell’acquedotto.Negli schemi acquedottistici, spesso sono necessarie le torri piezometriche: in pratica sono delle vere e proprie “torri” composte da un serbatoio sollevato da terra grazie a tralicci, i quali possono essere in metallo o, molto più spesso, in muratura.Dal libro:Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana di Franco Leggeri.Foto Gallery dei Serbatori Idrici della Campagna Romana- Nord-Ovest–Castel di Guido-Residenza Aurelia di Castel di Guido- Borgo di Testa di Lepre- Serbatorio di Cecanibbio-
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Note
^ Il Catasto Alessandrino è un corpus di 426 mappe acquerellate voluto nel 1660 dal Presidente delle strade, regnante Alessandro VII, che dimostra lo stato delle proprietà fuori dalle Mura aureliane, organizzato secondo le direttrici delle strade consolari. Lo scopo era di assoggettare a contribuzione fiscale i proprietari dei terreni serviti dalle strade fuori le mura, per assicurarne la manutenzione. Il risultato, per noi moderni, è una rappresentazione fedelissima, minuziosa e pittoricamente assai interessante, della situazione dell’Agro romano al momento della sua stesura. Nelle piante vengono riportati anche costruzioni, monumenti, acque ecc., successivamente modificati e/o scomparsi, nonché informazioni sulle tenute. I documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, sono stati digitalizzati e sono accessibili in rete, dietro autenticazione.
Franco Leggeri-Fotoreportage dalla Campagna Romana-Preparazione del terreno per la semina del GRANO
La semina del granonella Campagna Romana avviene in autunno, ma la preparazione del terreno comincia un po’ tempo prima.Il primo passo è quello dell’aratura del campo dove vengono smossi piccoli canali di terra chiamati solchi. In seguito, utilizzando l’erpice il terreno viene spianato e le zolle di terra formatesi con l’aratura vengono sminuzzate e frantumate.L’operazione di semina viene fatta con la seminatrice, con la quale l’agricoltore depone i semi nei solchi precedentemente preparati, ricoprendoli poi con altra terra. Arrivato a maturazione, il grano viene raccolto con l’ausilio della mietitrebbia, il cui compito è quello di dividere i chicchi dagli steli della pianta, che vengono eliminati.
Avvicendamento del frumento
A partire dai primi anni dopo la seconda guerra mondiale la tecnica di coltivazione del frumento ha subito profonde trasformazioni grazie all’avanzamento della ricerca scientifica. Il miglioramento genetico, l’utilizzo di fertilizzanti (diserbanti, insetticidi e fungicidi) e il miglioramento dei mezzi agricoli hanno consentito lo sviluppo di varietà più produttive. Ma la sfida non si ferma, l’obbiettivo è quello di migliorare e trovare metodi di coltivazione e protezione delle piante, nell’ottica del risparmio energetico e della riduzione dell’impatto ambientale, non trascurando gli aspetti qualitativi e di salubrità dei prodotti.
Gli aspetti agronomici fondamentali che regolano la coltivazione del frumento, riguardano l’avvicendamento, la preparazione del terreno di semina, l’uso dei fertilizzanti per la difesa dai parassiti e dalle infestanti.
Gli antichi egizi furono tra i primi a capire che seminare sempre la stessa coltura con il tempo avrebbe provocato una “stanchezza del terreno”. Nel corso della storia si comprese che la rotazione delle culture fosse fondamentale per una resa ottimale della terra. Nell’Inghilterra della metà del ‘700 individuarono in modo scientifico come la rotazione quadriennale di determinate culture come rapa-orzo-trifoglio pratense-frumento) aumentassero il rapporto produttivo del frumento grazie all’azoto organico rilasciato nel terreno dal trifoglio pratense, specie appartenente alla famiglia delle leguminose.
Con l’avvicendamento del frumento, così come di qualsiasi altra specie erbacea, generalmente si ottengono produzioni maggiori e di migliore qualità.
Relativamente alla scelta delle colture da impiantare prima del grano, anche in Italia sono stati condotti numerosi esperimenti i cui risultati hanno consentito di definire da “rinnovo” la barbabietola da zucchero, la patata, il tabacco, il mais, il pomodoro e il girasole e “miglioratrici” il favino, l’erba medica, la fava, il pisello e la veccia. Il frumento ha mostrato la sua attitudine a sfruttare la fertilità che le leguminose lasciano nel suolo e la capacità che tale famiglia di piante ha nell’ostacolare la nascita e la crescita delle infestanti, anche se l’uso di concimi e le lavorazioni del terreno sono fondamentali.
Per quanto riguarda l’avvicendamento del grano con altri cereali, le esperienze condotte su mais e sorgo hanno evidenziato un effetto abbastanza favorevole sulla produttività del frumento, ma non della stessa entità raggiungibile con la semina di una coltura non cerealicola. Anche se il ringrano provoca effetti depressivi sulle rese di granella, nelle nostre regioni meridionali e insulari, spesso viene riseminato perché altre colture non trovano condizioni ambientali ed economiche tali da consentirne una conveniente coltivazione.
Nelle zone aride o semi-aride, risulta utile la tradizionale strategia di far precedere il frumento dal maggese.
Dopo il maggese, infatti, il cereale trova il terreno con una carica inferiore d’infestanti, una migliore disponibilità di elementi nutritivi derivanti dalla mineralizzazione della sostanza organica e una maggiore riserva di acqua, condizione che, nei climi aridi e semi-aridi, è adatta a rendere produttiva la coltivazione del grano nell’anno successivo.
Per quanto riguarda le problematiche legate all’avvicendamento, le specie da seminare prima del frumento devono essere selezionate anche in funzione dell’epoca di raccolta, poiché questa può limitare il tempo necessario per la preparazione del letto di semina del frumento. Infatti, nelle zone caratterizzate da un clima con frequenti piogge a fine estate o inizio autunno e in presenza di terreni argillosi, le colture estive con raccolta a fine stagione come il tabacco, il mais, il sorgo da granella, il riso e il girasole, possono rendere difficile la preparazione del terreno per la semina del frumento, a causa del compattamento del suolo bagnato in seguito al passaggio delle macchine di trebbiatura.
Lavorazione del terreno
Per poter procedere alla semina del frumento generalmente il terreno deve essere sottoposto a opportune lavorazioni, ma da circa ventanni però, è possibile eseguire anche la semina su “sodo”, cioè senza lavorare il terreno, grazie all’utilizzo della seminatrice. Le lavorazioni del terreno servono, essenzialmente, a fare in modo che il seme venga accolto e messo in condizioni innanzitutto di germogliare bene, quindi di fuoriuscire dal suolo e permettere l’ottimale sviluppo della piantina. Una volta che il terreno ospita al meglio il seme, deve essere anche abbastanza poroso da trattenere l’acqua e nello stesso tempo consentitire un’ottimale presenza e circolazione di gas quali ossigeno e anidride carbonica. La lavorazione del terreno varia per tipo, epoca e profondità, in base a diversi fattori, che possono essere la coltura precedente, le condizioni pedologiche e climatiche, generalmente si uniformano in base agli obiettivi economici e la qualità della granella. Ad ogni modo la scelta della lavorazione del terreno e della profondità, varia sempre in base alle necessità, che di solito coincidono con l’interramento dei fertilizzanti, dei residui colturali e con gli eventuali miglioramenti delle condizioni del terreno lasciate dalle colture precedenti.
Le lavorazioni si distinguono essenzialmente in principali e secondarie. L’aratura è la lavorazione principale e la più diffusa ancora oggi, di solito avviene in estate a una profondità di 20 e 25 cm in Italia settentrionale e centrale, mentre nel meridione oscilla tra 25 e 30 cm. In alcuni comprensori, allo scopo di correggere la struttura del terreno per favorire la regimazione idrica e l’aerazione del suolo, viene effettuata la lavorazione a due strati; in altre parole, si realizza prima una ripuntatura profonda 50-60 cm, utilizzando un ripuntatore, successivamente si ara a 25-30 cm. Le due operazioni possono essere eseguite contemporaneamente qualora si disponga di un araripuntatore. All’aratura seguono lavorazioni complementari come la frangizzollatura, l’erpicatura e la fresatura, che sono praticate con lo scopo di ottenere un letto di semina non zolloso, ben livellato, in cui il seme possa trovare le condizioni ottimali per germogliare e crescere al meglio. In alcune zone, si preferisce praticare arare in modo superficiale, a una profondità tra 10 e 15 cm, creando uno strato minimo adatto comunque alla nascita delle cariossidi e alla crescita delle piantine.
La semina su terreno sodo, accennata in precedenza, è molto diffusa grazie all’uso delle seminatrici che hanno dato buoni risultati in terreni non lavorati, specialmente in quelli dove era stata fatta una buona lavorazione per la coltura precedente. Questo sistema è adatto alle semine su terreni difficili, anche per colture raccolte tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, anche in condizioni di piogge frequenti. Questa semina è sicuramente più economica, perché non è eseguita nessuna lavorazione precedente del terreno, ma non è sempre consigliabile, sopratutto nel caso sia stato seminato precedentemente mais o sorgo. Infatti per il frumento seminato potrebbe rischiare una trasmissione di fusariosi, responsabili della contaminazione da micotossine nella granella. Inoltre, nel caso si scelga la semina su terreno non lavorato, è necessario predisporre la “pulizia del letto di semina” eliminando le piante infestanti nate dopo la raccolta della coltura precedente, con un trattamento diserbante.
-Preparazione del terreno per la semina del GRANO per uso Zootecnico-
CAMPAGNA ROMANA -11 ottobre 2022–Fotoreportage di Franco Leggeri– Preparazione del terreno per la semina del GRANO per uso Zootecnico- Lavorazione eseguita con un Trattore FIAT 140 sei cilindri che traina un erpice a disco frangizolle –
ROMA-Municipio XIII- Sito Archeologico MASSA GALLESINA
Fotoreportage di Franco Leggeri
Roma- 29 giugno 2018-Municipio XIII-MASSIMINA-MASSA GALLESINA-CASAL SELCE-
Fotoreportage di Franco Leggeri
PREMESSA-L’area fu oggetto di lavori d’indagini archeologiche preventive nel 2009, quando si era ipotizzato che in questa zona dovesse essere edificato lo Stadio della Roma.
Le foto allegate sono relative ai lavori del 2009 e alla situazione di oggi marzo 2017.Tutte le foto sono di Franco Leggeri.
Breve e sintetica storia del sito Archeologico MASSA GALLESINA a cura di Franco Leggeri.
Il territorio in esame è conformato come un vasto altopiano dalla superficie ondulata e in leggera pendenza , in cui i fossi e i torrenti hanno inciso i depositi sedimentari e vulcanici. Tutto il sistema idrografico fa capo al RIO GALERIA che scorre nell’omonima valle. I principali affluenti del Rio Galeria sono il Fosso della Questione in riva sinistra e dal Fosso della Selce in riva destra.
A)-L’insediamento storico area MASSA GALLESINA-
Tutte le foto sono di Franco Leggeri.
Dal punto di vista archeologico l’area in esame presenta siti databili dalla preistoria fino all’età medievale. La presenza umana è attestata già dal Paleolitico. Tutta l’area fu colonizzata dagli Etruschi che controllavano il corso d’acqua chiamato Careia ( da cui deriva il nome Rio Galeria), in epoca romana la zona , attraversata dalla via Cornelia, fu scarsamente popolata.
In età medievale successivamente alla crisi che travolse l’assetto territoriale tardoantico fra il V e VII secolo, seguì una fase di rinascita e riorganizzazione databile fra l’VIII e X secolo nella creazione delle domuscultae papali. In questa zona, infatti, nell’VIII secolo Papa Adriano realizzo la sua domusculta, una grande masseria per rifornire di frumento la Città di Roma; successivamente ; il sito fu trasformato da Papa Gregorio VII che vi fece costruire un Castello adibito a Villa e Fortilizio, oggi perduto. Fu soprattutto il dinamismo economico dei secoli XII-XIII ad incrementare la nascita di numerose aziende agricole (denominate casalia), tra le quali il Nibby ricorda la tenuta di Massa Gallesina, confinante con le tenute di Selce e Maglianella.
Massa Gallesina è una tenuta fuori delle porte San Pancrazio e Cavaleggeri a sinistra della via Aurelia , la quale appartiene a San Rocco e al principe Massimi, e va unita coll’altro fondo detto Pedica Maglianella. Comprende rubbia 147 (1)e confina con le tenute di Pedica Maglianella Sant’Ambrogio, Fontignano, Casale della Morte, Massimilla, Castel di Guido, Casal Selce e Maglianella. La tenuta è divisa nei quarti di Pedica Maglianella, Casale, Ara e Monte Rotondo. Il suo nome attuale è di origine incerta, ma forse una parte di essa , se non tutta, fu compresa nei feudi denominati nel secolo VIII Gratiniano, Rosario, Canneolo e Casale Mimilliarolo esistenti , secondo Cencio Camerario, presso la via Aurelia a 5 miglia distante da Roma, circostanza che col sito della tenuta di Massa Gallesina si accorda.
(1)una rubbia equivale a 18884 mq, ovvero quasi due ettari.
C) CATASTO ANNONARIO –Roma 1783- Agrimensori: PIETRO PAOLO e ANGELO QUALEATI,LUIGI CLERICI,GIOVANNI MEDIANTE,DOMENICO CAPPELLETTI e FILIPPO PEROTTI.
Nel Catasto annonario pubblicato in Roma nel 1803 dal titolo MEMORIE, LEGGI, ED OSSERVAZIONI SULLE CAMPAGNE E SULL’ANNONA DI ROMA (Parte Prima)
Autore -Nicola Maria Nicolaj.
Le tenute di MASSIMILLA, MASSA GALLESINA e PEDICA MAGLIANELLA. Per queste tenute come anche per le altre appresso, passa la celebre via Aurelia . Di questa via fa menzione Cicerone nell’Orazione contro Catilina, il quale per questa strada partì da Roma per congiungersi in Toscana con Manlio. Cicerone additava questa strada agli altri congiurati, perché sortissero dall’agitata Città. “ Unum etiam nunc concedam:exeant, procifiscatur, ne patiantur desiderio sui Catilinam misere tabascere. Demonstrabo ier; Aurelia via profectur est:si accelerare volent, ad vesperam consequetur.” Furono anche nella via Aurelia gli ORTI di GALBA (Lorium) , ove fu anche sepolto questo Imperatore. Dei vari tratti e diramazioni della via Aurelia o piuttosto delle molte strade , quale più, quale meno antica, chiamate con questo nome , si possono vedere gli antiquarj. Non men celebre è la via Aurelia pe’ i Cimiteri de’ SS.Martiri. Presso questa strada si enuncia quella de’ SS. Processo e Martiniano i quali in occasione del martirio de’ SS. Apostoli Pietro e Paolo, convertiti e condotti al supplizio nella via Aurelia, accompagnati e scortati dalle illustre femmina Lucina, furono poi in una possessione di lei sepolti. Ma il loro Cimitero si confonde forse con quello di Sant’Agata. Più vicino a Roma si ammira tuttora il Cimitero di San Calepodio, ove fu sepolto San Calisto Papa, San Pancrazio e poi anche il Pontefice San Giulio e per questo una parte di Cimitero si trova anche nominato di San giulio. Grande è la sua ampiezza sotto diverse Tenute e Vigne; è scavato molti piedi sotto terra nel tufo con moltissimi giri larghi , ed alti quanto un uomo vi possa comodamente camminare . Da ogni parte vi sono sepolture . Vi sono alcuni cunicoli , in uno dei quali sorge una vena di limpidissima acqua, la quale nei tempi delle persecuzioni ai Cristiani che quivi stavano nascosti e vi facevano le loro orazioni, veglie ed altre sacre funzioni, doveva servire non tanto per bere , quanto per uso del Battesimo: onde ancora oggi quest’acqua si ha in gran devozione. Sopra questo Cimitero è la Chiesa di San Pancrazio edificata da San Simmaco Papa, e parte anche della Villa Pamphilj la quale Villa è inclusa la Tenuta.
D) MASSA GALESINA-PEDICA MAGLIANELLA- Di pertinenza della Veneranda Chiesa di San Rocco e del Signor Marchese Massimi delle Colonne. Queste due tenute anche se una volta fra di loro erano separate e distinte formano ora un solo Corpo ed una sola Tenuta confinante con le Tenute della Pedica Maglianella del Venerando Monastero di Sant’Ambrogio, di Fontignano, di Casal della Morte, di Massimilla, di Castel di guido, della Selce dei SS. Domenico e Sisto e della Maglianella del Venerabile Capitolo di Sant’Angelo in Pescheria.
E) Tenuta e CASAL di SELCE-Il Casale prende il nome dall’originario proprietario Andre de Silice, che nel 1227 lo vendette alla Basilica di San Pietro. Successivamente , il CASALE SILICIS fu affidato e ceduto più volte. Attualmente si compone di una serie di piccoli fabbricati , notevolmente rimodernati, che non recano tracce visibili di costruzioni medievali. In un disegno de Catasto Alessandrino il Casale Silicis è rafficurato come composto da due piccoli edifici fiancheggiati da altrettante torrette , una delle quali aveva tre piani. Casal Selce costituiva, quasi certamente, una delle vedette preposte alla sorveglianza del Castello di MALAGROTTA.
Le foto allegate sono relative ai lavori del 2009 e alla situazione di oggi marzo 2017.Tutte le foto sono di Franco Leggeri.
Roma- Municipio XIII, Quartiere Casalotti-Le Catacombe della via Boccea-
Franco Leggeri Fotoreportage –
Il Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina, recentemente scomparso, ha riportato al culto dei fedeli e all’attenzione degli archeologi le Catacombe dei Santi martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC- Il 19 gennaio 1994 ,festa di San Mario, il Mons. Diego BONA guidò una processione di circa 500 fedeli verso le Catacombe ripristinando così un’antica tradizione popolare che si era persa nel corso degli anni. Nei pressi delle Catacombe vi è una piccola chiesetta dedicata a San Mario e Marta, eretta nel 1700 e restaurata nel 1871. In questa chiesetta ,nel 1909, il giovane sacerdote Don Giuseppe RONCALLI, futuro papa Giovanni XXIII- il Papa Buono, venne a celebrare la messa in memoria del fratello Mario. Papa Giovanni XXIII amava la via Boccea e la Campagna Romana durante le sue escursioni egli si deliziava nel gustare “ la buona ricotta di Boccea” che Gli veniva offerta dai pastori romani. A ricordo della presenza in questi luoghi di Papa Giovanni è stata posta in essere, nel 2004, una epigrafe marmorea nella chiesetta di Santa Maria sita all’interno del Castello della Porcareccia nel quartiere Casalotti.
Breve Storia dei Santi MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC.
Ultimo santuario della via Cornelia era quello dei martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC. Nel Martirologio Geronimiano sono ricordati il 16 e 20 gennaio. Sembrerebbe che il vero dies natalis fosse il 20 gennaio, in cui sono stati commemorati nel Sacramentario Gelasiano antico ( Saccr.Gel.,p.131; nel Gelasiano di S.Gallo invece sono anticipati al giorno 19 e vi mancano ABACUC e AUDIFAX (Gel. S. Gallo, p.20) .Di questi Martiri non si hanno notizie sicure.Secondo la passio (Acta SS. Gennaio, II, Parigi, 1863, pp. 578-583.) Mario e Marta erano nobili persiani; al tempo di Claudio il Gotico vennero a Roma , insieme con i figli Abacuc e Audifax per venerare i sepolcri degli Apostoli e aiutare i carcerati per la Fede.Arrestati a loro volta furono condannati dal prefetto Musciano e condotti sulla “ via Cornelia miliaro tertio decimo ad Nymphas Catabassi”: Mario, Abacuc e Audifax furono “decollati sub arenario” e i loro corpi bruciati; Marta invece “in Nympha necata est”. La Matrona Felicita raccolse i resti dei primi tre, Mario,Abacuc e Audifax, ed il corpo di Marta dal pozzo in cui era stato gettato, e li seppellì “ sub die tertio decimo Kalendas febraurium” (B.SS.VIII, p.165. Dall’indicazione topografica “ ad Nymphas” è nata la fantomatica martire Ninfa-cf.B.SS.,IX,p.1009).
I corpi dei Martiri sarebbero stati trasferiti da Papa Pasquale I nella Basilica di S. Prassede ( Lib. Pont.II, p. 64.).
Franco Leggeri Fotoreportage-Foto Gallery e Articolo sono di Franco Leggeri-
Attilio Bertolucci:C’è un proverbio che dice: “Dovrebbe sempre essere settembre”. Settembre ,un mese mite, dolce, venato appena di nostalgia, di una sottile malinconia. Un mese che i poeti come Attilio Bertolucci sentono vicino al loro cuore-Poesie di :Antonia Pozzi,Attilio Bertolucci,Luigi Pirandello,Leonardo Sciascia,Hermann Hesse,Grazia Rombolini,Forough Farrokhzad, Gabriele D’Annunzio.
ATTILIO BERTOLUCCI, “Sirio”, 1929
SETTEMBRE
Chiaro cielo di settembre
illuminato e paziente
sugli alberi frondosi
sulle tegole rosse
fresca erba
su cui volano farfalle
come i pensieri d’amore
nei tuoi occhi
giorno che scorri
senza nostalgie
canoro giorno di settembre
che ti specchi nel mio calmo cuore.
SETTEMBRE
Boschi miei
che le nuvole del settembre
lente percorrono
mentre le prime foglie
crollano giù dai rami
e adunano umidore per i sentieri
intanto che nel cielo
gli alberi si denudano —
così come di sera
quando cadono le ombre
giù dalle cime
s’incupisce la terra
e in alto si rivelano
i disegni dei monti
e delle stelle —
miei boschi
vi è tanta pace
in questa vostra muta
rovina
che in pace ora alla mia
rovina penso
e sono come chi
stia sulla riva di un lago
e guardi miti le cose
rispecchiate dall’acqua
“Settembre” di Luigi Pirandello
Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.
Pioggia di settembre, Leonardo Sciascia
Le gru rigano lente il cielo,
più avido è il grido dei corvi;
e il primo tuono rotola improvviso
tra gli scogli lividi delle nuvole,
spaurisce tra gli alberi il vento.
La pioggia avanza come nebbia,
urlante incalza il volo dei passeri.
Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;
per la rabbia dei lampi preghiere
cercano le vecchie contadine.
Ma ecco un umido sguardo azzurro
aprirsi nel chiuso volto del cielo;
lentamente si allarga fino a trovare
la strabica pupilla del sole.
Una luce radente fa nitido
Il solco dell’aratro, le siepi s’ingemmano;
tra le foglie sempre più rade
splende il grappolo niveo dei pistacchi.
Settembre di Hermann Hesse
Triste il giardino,
cade la fresca pioggia sui fiori
L’Estate trema
tranquillamente verso la fine.
Gocciola una dopo l’altra una foglia d’oro
giù dalla grande acacia.
L’estate sorride con stupore e nostalgia
nel sogno del Giardino morente.
S’attarda tra le rose,
Si ferma desiderosa di pace;
Lentamente chiude i suoi [grandi] occhi pesanti di stanchezza.
****************
September, Hermann Hesse
Der Garten trauert,
kühl sinkt in die Blumen der Regen.
Der Sommer schauert
still seinem Ende entgegen.
Golden tropft Blatt um Blatt
nieder vom hohen Akazienbaum.
Sommer lächelt erstaunt und matt
in den sterbenden Gartentraum.
Lange noch bei den Rosen
bleibt er stehn, seht sich nach Ruh.
Langsam tut er die großen,
müdgewordenen Augen zu.
“Ecco arriva settembre, mese dolce e propizio, di piogge a colorare i prati e di dolci frutti della terra.
Amo settembre, il sole è ancora caldo, si respira ancora aria di gioia e vacanza e qualcosa mi sussurra di sognare e reinventarmi, quasi fosse un nuovo inizio. E’ settembre.”
Settembre
Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
sì, la saluterò
la saluterò di nuovo.
Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.
Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natia
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestio, dolci romori.
Ah perché non son io cò miei pastori?
“Settembre, andiamo. È tempo di migrare.” Il primo giorno di settembre porta con sé la promessa di un nuovo inizio, il che si collega direttamente all’idea di movimento e alla prospettiva di avanzare in una direzione ben precisa.
In un solo verso della poesia I pastori, Gabriele D’Annunzio, il poeta vate, è riuscito ad esprimere entrambe queste sensazioni tipicamente settembrine: l’inizio e il movimento, tramite l’accostamento di due verbi “andare” e “migrare” che appaiono quasi sinonimici, eppure esprimono due moti differenti. L’uso dell’imperativo “andiamo” riflette la necessità di muoversi, di spostarsi, appare come una chiamata alle armi: levatevi, alzatevi, sottintende un incitamento. L’infinito “migrare” invece rimanda all’idea dell’erranza e al proposito della ricerca di un luogo più accogliente, quindi, in breve, al cambiamento.
Nel verso di apertura della lirica I pastori, D’Annunzio esprime una sorta di “passaggio di stato”: dalla stasi al moto, dalla pace alla irrequietezza, tutte sensazioni che, a ben vedere, la fine dell’estate porta con sé.
Settembre è iniziato, è tempo di andare; ciascuno torni alle attività consuete nella stagione che porta il profumo dell’uva matura evocando il tempo della raccolta e della vendemmia.
La poesia I pastori (il cui titolo originale era I pastori d’Abruzzo, Ndr) fu scritta da Gabriele D’Annunzio nel 1903 ed è contenuta nell’ultima sezione dell’Alcyone intitolata Sogni di terre lontane. La raccolta Alcyone rappresenta il vertice massimo della poetica d’annunziana e si presenta come un’autentica celebrazione della natura: nelle cinque sezioni dell’opera infatti il poeta descrive il trionfo della primavera sino all’arrivo dell’autunno. I pastori, ambientata nel tempo mite di settembre che preannuncia l’imminenza della stagione autunnale, rappresenta una delle liriche conclusive.
I pastori di Gabriele D’Annunzio: parafrasi
Settembre è arrivato, è ora di partire.
Adesso, in Abruzzo, i pastori, miei conterranei, lasciano i pascoli montani e scendono verso il mare:
si dirigono verso il mar Adriatico in burrasca che appare verde come i pascoli montani. Lungo il cammino hanno assaporato la dolce acqua delle montagne che ha il sapore delle loro terre e resterà nei loro tristi cuori di migranti per confortarli, affinché la loro nostalgia (della terra natia) sia meno dura.
I pastori hanno fabbricato nuovi bastoni di legno di nocciolo e ora camminano per il sentiero antico che conduce verso la pianura, quasi fosse un fiume d’erba silenzioso, seguendo le orme lasciate dai loro antenati.
È gioiosa la voce di colui che per primo scorge in lontananza il tremolio delle onde del mare. Ora il gregge procede lungo la costa. Il vento tace, mentre il sole si riverbera dorato sul mantello delle pecore, rendendolo di un colore simile alla sabbia.
Il movimento delle onde si accompagna al lento calpestio del gregge, sono rumori dolci.
Ah, perché io non sono con i miei pastori?
I pastori di Gabriele D’Annunzio: analisi e commento
Nella lirica I pastori, Gabriele D’Annunzio compone un idillio pastorale che sembra riflettere lo schema classico, seguendo la tradizione delle Bucoliche virgiliane. Come non associare ai pastori cantati da D’Annunzio, Titiro e Melibeo, i protagonisti della prima ecloga di Virgilio? Anche i pastori abruzzesi di D’Annunzio, proprio come Titiro, sono costretti a partire: ma il loro non sarà un esilio senza ritorno.
La lirica d’annunziana è pervasa da un sentimento di struggente nostalgia, che sembra ben accostarsi ai dolci moti dell’aria di settembre che segna la fine dell’estate. L’imminenza dell’autunno rievoca nel cuore del poeta vate la nostalgia e l’affetto per la propria terra natale, l’Abruzzo. Riportando in vita una delle tradizioni più antiche della propria terra, la pratica della transumanza, D’Annunzio sembra rispondere a questo nostalgico richiamo d’amore.
In quattro strofe in versi endecasillabi il poeta ritrae passo passo il cammino dei pastori che come ogni anno, seguendo una pratica antica, con l’arrivo del vento d’autunno abbandonano i pascoli montani per dirigersi verso le aree costiere. La lirica è chiusa significativamente da un endecasillabo finale, che appare isolato e distaccato dagli altri versi, e ci restituisce intatta la nostalgia del poeta tramite l’emergere della voce dell’Io lirico che improvvisamente si intromette nel canto con un grido accorato: “ah, perché io non sono con i miei pastori?”.
La poesia si apre con un’esortazione: l’invito a partire è dato dall’imperativo “andiamo”. Seguono quindi tutte le varie fasi del viaggio: dalla preparazione (i pastori si abbeverano alle fonti montane e forgiano i bastoni, Ndr) sino al cammino dai monti verso il mare. L’arrivo dei pastori alla meta viene descritto come un momento di quiete, riflette una pace idilliaca: il sole risplende sul manto delle pecore e il loro lento scalpiccio si accompagna allo sciacquio delle onde marine.
D’Annunzio evoca una serie di suoni onomatopeici che si riflettono nelle orecchie dei lettori come dolci rumori familiari, suoni che ci restituiscono l’atmosfera accogliente e piena di grazia di settembre. Ogni nuovo inizio possiede un suono dolce, d’altronde, e ci ricorda che la vita è un continuo “incominciare”.
I pastori di Gabriele D’Annunzio: figure retoriche
Apostrofe: la poesia si apre con un’esortazione “Settembre, andiamo”
Allitterazioni: numerose le allitterazioni dei suoi r e l che danno il ritmo alla poesia. Nel primo verso in particolare la ripetizione del suono “r” produce una ripetizione confortante che suggerisce la presa mnemonica del verso “settembre; migrare; ora; terra”.
Personificazione: il mare Adriatico viene definito “selvaggio” come un uomo straniero o un animale non ancora domato.
Similitudini: il mare è verde come i pascoli dei monti; la lana del gregge è dorata come la sabbia.
Metafora: “erbal fiume silente”, l’erba calpestata dai pastori appare come un fiume silenzioso in cui non s’ode neppure il lento sciabordio dell’acqua. Nel componimento sono frequenti i simboli e le analogie tra i pascoli e il mare.
Onomatopee: “isciacquio; calpestio” sono espressioni che evocano suoni.
Sinestesia: l’espressione “dolci rumori” produce l’accostamento di due sfere sensoriali diverse, quella uditiva e quella del gusto.
Epifrasi: nell’endecasillabo finale, definito dalla domanda retorica “perché io non sono con i miei pastori?” è racchiuso il senso dell’intero componimento, ovvero la nostalgia del poeta che ha dato origine al canto.
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