Roma Capitale -Domenica 5 gennaio 2025, musei civici e siti archeologici gratis-
Roma Capitale –Domenica 5 gennaio 2025 ,prima domenica del mese, sarà possibile visitare gratuitamente gli spazi del Sistema Musei di Roma Capitale e alcune aree archeologiche della città.
Saranno aperti a ingresso libero il Parco Archeologico del Celio (ore 7-17:30), con il Museo della Forma Urbis (10 – 16 con ultimo ingresso alle ore 15 – Ingressi Viale del Parco del Celio 20/22 – Clivo di Scauro 4); l); l’Area Sacra di Largo Argentina (via di San Nicola De’ Cesarini di fronte al civico 10, 9:30 – 16, ultimo ingresso ore 15), l’area archeologica del Circo Massimo (ore 9:30 – 16, ultimo ingresso ore 15), Villa di Massenzio (via Appia Antica 153, dalle 10 alle 16, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura) e i Fori Imperiali (ingresso dalla Colonna Traiana ore 9 – 16:30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura).
I musei civici aperti a ingresso gratuito per l’occasione
Musei Capitolini; Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali; Museo dell’Ara Pacis; Centrale Montemartini; Museo di Roma; Museo di Roma in Trastevere; Galleria d’Arte Moderna; Musei di Villa Torlonia (Casina delle Civette, Casino Nobile, Serra Moresca); Museo Civico di Zoologia.
L’iniziativa è promossa da Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Ingresso libero compatibilmente con la capienza dei siti. Prenotazione obbligatoria solo per i gruppi al contact center di Roma Capitale 060608 (ore 9-19).
A ingresso gratuito sia le collezioni permanenti che le esposizioni temporanee, a partire dai Musei Capitolini (piazza del Campidoglio 1) dove si potrà ammirare, nelle sale terrene del Palazzo dei Conservatori, Tiziano, Lotto, Crivelli e Guercino. Capolavori della Pinacoteca di Ancona, una selezione di grandi opere provenienti dalla Pinacoteca Civica ‘Francesco Podesti’ di Ancona. Sei prestigiose tele protagoniste di un percorso espositivo che racconta l’importanza della collezione della Pinacoteca Nella Sala degli Arazzi del Palazzo dei Conservatori, Agrippa Iulius Caesar, l’erede ripudiato. Un nuovo ritratto di Agrippa Postumo, figlio adottivo di Augusto, tre ritratti di Agrippa Postumo, uno appartenente alle collezioni dei Musei Capitolini, un altro proveniente dagli Uffizi e il terzo della Fondazione Sorgente Group, in cui, solo di recente, si è riconosciuto lo sfortunato erede di Augusto.
Nelle sale di Palazzo Clementino l’ingresso gratuito comprende la visita a I Colori dell’Antico. Marmi Santarelli ai Musei Capitolini, un’ampia panoramica sull’uso dei marmi colorati, dalle origini fino al XX secolo, attraverso una raffinata selezione di pezzi provenienti dalla Fondazione Santarelli.
La prima domenica del mese può essere infine l’occasione per ammirare, nel giardino di Villa Caffarelli, l’imponente ricostruzione in dimensioni reali del Colosso di Costantino, una statua alta circa 13 metri realizzata attraverso tecniche innovative, partendo dai pezzi originali del IV secolo d.C. conservati nei Musei Capitolini.
Ai Musei di Villa Torlonia (via Nomentana 70) nelle sale del Casino dei Principi Titina Maselli nel centenario della nascita, un’ampia visione retrospettiva dell’opera di un’artista che ha attraversato con grande autonomia e libertà visiva molte correnti pittoriche, senza mai aderire a una in particolare.
Alla Casina delle Civette è possibile ammirare l’esposizione Niki Berlinguer. La signora degli arazzi, una panoramica completa della produzione di arazzi realizzati dall’eminente tessitrice e artista, pioniera nel tradurre la pittura in narrazioni tessili (www.museivillatorlonia.it).
Al Museo di Roma in Trastevere (piazza S. Egidio 1/b) l’esposizione Roma ChilometroZero, un lavoro fotografico di ricerca in cui 15 fotografi romani documentano la complessità, i cambiamenti e le particolarità della città. Nelle sale al primo piano Testimoni di una guerra – Memoria grafica della Rivoluzione Messicana, 40 fotografie provenienti dal prestigioso Archivio Casasola, che percorrono le tappe fondamentali della Rivoluzione Messicana, periodo in cui sono sorte figure che hanno segnato la storia messicana come Francisco I. Madero, Emiliano Zapata, Pancho Villa e Venustiano Carranza. Infine, sempre nelle sale al primo piano, prosegue Dino Ignani. 80’s Dark Rome, il ritratto della Roma ombrosa e scintillante, sotterranea e plateale, degli anni Ottanta del secolo scorso.
Al Museo di Roma (Piazza San Pantaleo, 10 e Piazza Navona, 2) l’ingresso gratuito darà la possibilità di visitare LAUDATO SIE! Natura e scienza. L’eredità culturale di frate Francesco, esposizione che, prendendo le mosse dal più antico manoscritto del Cantico di frate Sole o Cantico delle creature – tra i primi testi poetici in volgare italiano giunti a noi –propone un itinerario, attraverso 93 opere rare del Fondo antico della Biblioteca comunale di Assisi conservate presso il Sacro Convento.
Nelle sale del terzo piano L’incanto della Bellezza. Dipinti ritrovati di Sebastiano Ricci dalla Collezione Enel, esposizione inedita di due tele, raffiguranti Il trionfo di Venere e Bacco e Arianna, probabilmente eseguite dal Ricci nei primi anni del Settecento da poco sottoposti a un restauro.
Negli spazi della Galleria d’Arte Moderna (via Francesco Crispi 24), la mostra Estetica della deformazione. Protagonisti dell’Espressionismo Italiano, una selezione delle opere della collezione Iannaccone di Milano relative alla linea espressionista dell’arte italiana tra gli anni Trenta e Cinquanta – dalla Scuola Romana al gruppo Corrente. All’ingresso del museo, i visitatori saranno inoltre accolti da À jour. Laura VdB Facchini, un progetto site-specific in dialogo con il complesso monumentale tardo-cinquecentesco che oggi ospita il museo, ispirato dal ricamo à jour, come omaggio alle monache che per secoli hanno abitato questo. Nelle sale al secondo piano prosegue il successo della mostra “La poesia ti guarda”. Omaggio al Gruppo 70 (1963-2023), una selezione di opere di uno dei sodalizi artistici più interessanti sorti nel contesto delle neoavanguardie e delle ricerche verbovisuali italiane. Sarà inoltre ancora possibile ammirare L’allieva di danza di Venanzo Crocetti. Il ritorno, una delle prime sculture di grande formato dedicate al tema della danza di Crocetti, tornata in tutta la sua magnificenza dopo un restauro da parte dei tecnici dell’ICR.
Aperti regolarmente al pubblico anche i musei abitualmente ad ingresso libero, ovvero: Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco; Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese; Museo Pietro Canonica a Villa Borghese; Museo Napoleonico; Museo della Repubblica Romana e della memoria garibaldina; Museo di Casal de’ Pazzi; Museo delle Mura; Villa di Massenzio.
Al Museo Carlo Bilotti, Aranciera di Villa Borghese (via Fiorello La Guardia 6 – viale dell’Aranciera 4) la mostra Sandro Visca – Fracturae, un’occasione unica per esplorare la produzione dell’artista abruzzese con particolare attenzione al suo continuo dialogo tra la materia e la sua messa in forma. (www.museocarlobilotti.it )
Al Museo Napoleonico (Piazza di Ponte Umberto I 1) si potrà ammirare Carolina e Ferdinando. E non sempre seguendo il dopo al prima, sculture, incisioni, installazioni multimediali di Gianluca Esposito che esplorano artisticamente le relazioni fra Maria Carolina d’Asburgo Lorena, il marito Ferdinando IV di Borbone e il Regno di Napoli. Nello stesso museo Giuseppe Primoli e il fascino dell’Oriente, una mostra tematica sull’interesse del conte Giuseppe Primoli per l’arte del Giappone e, più in generale del continente asiatico, con documenti, fotografie, libri, oggetti e manufatti di gusto, tema o manifattura orientale provenienti dalla Fondazione Primoli e dalla collezione del museo. (www.museonapoleonico.it )
Eccezione alla gratuità
(ingresso a tariffazione ordinaria, con tariffa ridotta per i possessori della MIC Card):
Franco Fontana. Retrospective al Museo dell’Ara Pacis (lungotevere in Augusta angolo via Tomacelli), la prima grande mostra retrospettiva dedicata all’intera carriera artistica del fotografo modenese, con opere selezionate dal suo vasto archivio.
Roma pittrice. Le artiste a Roma tra il XVI e XIX secolo al Museo di Roma (Piazza San Pantaleo, 10 e Piazza Navona, 2), che si focalizza sulle artiste donne che lavorarono a Roma a partire dal XVI secolo, con un percorso che giunge fino al 1800 e alle nuove modalità di progressivo accesso alla formazione che lentamente si impongono in accordo con il panorama europeo. Protagoniste le artiste presenti nelle collezioni capitoline, come Caterina Ginnasi, Maria Felice Tibaldi Subleyras, Angelika Kaufmann, Laura Piranesi, Marianna Candidi Dionigi, Louise Seidler ed Emma Gaggiotti Richards, oltre a una selezione significativa di altre importanti artiste attive in città come Lavinia Fontana, Artemisia Gentileschi, Maddalena Corvina, Giovanna Garzoni, e di molte altre.
Rifugio antiaereo e bunker di Villa Torlonia, (Casino Nobile, Via Nomentana 70) con un nuovo percorso espositivo che documenta la vita di Mussolini e della famiglia nella villa e, attraverso un’esperienza multimediale immersiva, permette di rivivere i momenti drammatici delle incursioni aeree durante la Seconda guerra mondiale. Prenotazione obbligatoria per singoli e gruppi.
Circo Maximo Experience, offre la visita immersiva del Circo Massimo in realtà aumentata e virtuale, dalle 9:30 alle 16:00 (ogni 15 min. – ultimo ingresso ore 14:50). Ingresso a tariffa ridotta per possessori della MIC Card.
Tutte le informazioni e gli aggiornamenti sono disponibili su www.museiincomuneroma.it e culture.roma.it e sui canali social di Roma Culture, del Sistema Musei e della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Servizi museali a cura di Zètema Progetto Cultura.
ROMA Municipio XIII-La VILLA ROMANA delle COLONNACCE
– Fotoreportage di Franco Leggeri
Roma- Municipio XIII-Castel di Guido- Fotoreportage di Franco Leggeri –I visitatori che in questi giorni , a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, sono stati ospiti del GAR a Villa Romana delle Colonnacce e qui guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana molti ospiti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi , muniti di cartello con la relativa descrizione di Plinio, che si trovano nell’angolo in fondo all’area archeologica sono alcuni esemplari di : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
Questi alberi sono qui a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato una occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
ROMA – Municipio XIII-Castel Di Guido – Villa Romana delle Colonnacce
Fotoreportage di Franco Leggeri -Anno 2005-
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
Castel di Guido- La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale.La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono,catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Baldo degli Ubaldi dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “. Ricordiamo il recente, superbo, lavoro della Dott.ssa Daniela Rossi nel quartiere Massimina sulla via Aurelia. La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela.Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
Articolo e Fotoreportage di FRANCO LEGGERI-Roma- Municipi XIII- XIV-Il Castello di Bocceaanticamente “Ad Nimphas Catabasi”, sito al decimo miglio dell’antica via Cornelia,(domina il ristorante i SALICI sito sulla via Boccea). Si accede da una via sterrata all’interno della campagna e, come d’incanto, si vedono i resti del vecchio castello, luogo dove albergano le fiabe e ciò che rimane di una architettura delle allucinazioni per chi ha voglia di emozioni, le grandi emozioni, con un percorso iniziatico alla fantasia. Della vecchia costruzione , oltre ai cunicoli e gallerie, è visibile il Torrione, costruito in pietra selce e mattoni con rinforzi di possenti barbacani, necessari per contenere ed arginare il progressivo cedimento del banco tufaceo che costituisce la base naturale del fabbricato. Il Castello domina i boschi dove, nel 260 d.C. furono martirizzate S.s. Rufina e Seconda, mentre nelle vicinanze, al XIII miglio della stessa via Cornelia, nel 270 d.C. sotto l’Imperatore Claudio il Gotico, subirono il martirio Mario e Marta con i figli Audiface ed Abachum, famiglia nobile di origine persiana, come si legge nel Martirologio Romano”Via Cornelia melario terbio decimo ad urbe Roma in coementerio ad Nimphas, sanctorum Marii, Marthae, Audifacis et Abaci, martyrum”. Le prime tracce cartacee documentali del Castello si trovano nella bolla di Papa Leone IV, conservata negli archivi vaticani,tomo I pag. 16, con la quale si conferma la donazione al monastero di San Martino del “fundus Buccia” e delle chiese dei Santi Martiri Mario e Marta. Il Papa Adriano IV nel 1158 confermò alla basilica vaticana il Castello e i fondi di Atticiano, Colle e Paolo. In un antico atto conservato in Vaticano, al fascicolo 142,si legge che nel 1166 Stefano, Cencio e Pietro, fratelli germani e figli del fu Pietro di Cencio, cedettero a Tebaldo, altro fratello, la loro porzione del Castello di “Buccega”. Sempre dal medesimo archivio si apprende che Giacomo, Oddo, Francesco e Giovanni di Obicione, Senatori di Roma nell’anno 58 ( 1201), stabilivano che la basilica di San Pietro possedesse e godesse tutti i beni e gli abitanti del Castello di Buccia fossero sotto la protezione del Senato. Si stabilì che anche i canonici del Castello usufruissero dei privilegi e consuetudini accordati ai loro vicini, cioè come l’esercitavano nei loro castelli i figli di Stefano Normanno, Guido di Galeria e Giacomo di Tragliata (Vitale, “Storia diplomatica dei Senatori di Roma”, pag. 74 ). Da una bolla di Gregorio IX del 1240 si ha notizia di un incendio che distrusse il Castello e che il Pontefice ordinò di prelevare il denaro necessario alla ricostruzione direttamente dal tesoro della Basilica Vaticana ( Bolla vaticana Tomo I, pag.124).In un lodo del 1270,che tratta di una lite di confini della tenuta,si menziona tra i testimoni Carbone, Visconte del Castello di Boccea. Il Castello subì nel 1341 l’attacco di Giacomo de’ Savelli, figlio di Pandolfo che, dopo averlo preso, scacciò gli abitanti e lo incendiò. Papa Benedetto XII, che era ad Avignone, scrisse al Rettore del patrimonio di San Pietro di”costringere quel prepotente a risarcire il danno”. Dopo il saccheggio da parte del Savelli il luogo rimase deserto secondo il Nibby mentre il Tomassetti, nella sua opera (pag.153) ci descrive il castello e la tenuta ancora abitato da una popolazione di 600 anime, cifra ricavata dalle quote sulla tassa del sale dell’anno 1480/81, durante il papato di Sisto IV. Della trasformazione da Castello a Casale di Boccea, moderna denominazione, si trova traccia nel Catasto Alessandrino del 1661,dove la costruzione viene indicata come “Casale con Torre”. Va ricordato che da 20 ettari di uliveto di Boccea si produceva l’olio destinato ai lumi della Basilica Vaticana, come si può desumere dalla cartografia seicentesca di G.B.Cingolani dove si legge”seguita a destra il procoio pure detto delle Vacche Rosse del Venerabile Capitolo di San Pietro, chiamato Buccea, olium Buxetum”. Attualmente il Casale di Boccea è in ristrutturazione con destinazione turistico-alberghiera, con un grande ristorante nel quale troneggia un imponente camino seicentesco in pietra. Altre tracce del passato sono i vari stemmi papali inseriti nei muri ed un frantoio manuale di recente ritrovamento, del tutto simile a quelli del Castello della Porcareccia e di Santa Maria di Galeria. –
articolo e foto di FRANCO LEGGERI
Castello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di BocceaCastello di Boccea
Poesie di Aldo Fabrizi- attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore
Aldo Fabrizi è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, è nato il 1 novembre 1905 a Roma (Italia) ed è morto il 2 aprile 1990 all’età di 84 anni a Roma (Italia). Nel 1988 ha ricevuto il premio speciale alla carriera al David di Donatello. Dal 1947 al 1988 Aldo Fabrizi ha vinto 4 premi: David di Donatello (1988), Festival di Venezia (1947), Nastri d’Argento (1951, 1975).
La Romanella
I Mì nonna, benedetta indó riposa,
se comportava come ‘na formica
e puro si avanzava ‘na mollica
l’utilizzava per un’antra cosa.
Perciò er dovere primo d’ogni sposa,
pure che costa un’oncia de fatica,
è d’esse sempre, a la maniera antica,
risparmiatrice, pratica e ingegnosa.
Si avanza un po’ de pasta, mai buttalla:
se sarta co’ un po’ d’acqua solamente,
pe’ falla abbruscolì senz’abbrucialla.
E la riuscita de ‘sta Romanella
che fa faville e che nun costa gnente
dipenne da ‘na semplice padella.
II Mò l’urtima invenzione è ‘na padella,
che quello che se còce poi se stacca,
mastice, colla, pece e ceralacca,
se rivorteno come ‘na frittella.
‘Sta novità sarà ‘na cosa bella,
ma dato che la Pasta nun attacca
in pratica sarebbe ‘na patacca
perché dev’esse mezz’abbruscatella.
Vedete, er gusto nun dipenne mica
dar fatto che diventa più odorosa,
ma dar sapore de padella antica.
E detto questo, porca la miseria,
fò a meno de la chiusa spiritosa,
perché ‘sto piatto qui è ‘na cosa seria!
Aldo Fabrizi
Pasta alla capricciosella
Provate a fa’ ‘sto sugo, ch’è un poema:
piselli freschi, oppure surgelati,
calamaretti, funghi “cortivati”,
così magnate senz’avé patema.
Pe’ fa’ li calamari c’è un sistema:
se metteno a pezzetti martajati
nell’ajo e l’ojo e bene rosolati,
so’ teneri che pareno ‘na crema.
Appresso svaporate un po’ de vino;
poi pommidoro, funghi e pisellini
insaporiti cor peperoncino.
Formaggio gnente, a la maniera antica,
fatece bavettine o spaghettini…
Bòn appetito e Dio ve benedica!.
Chi sarà stato?
Ho letto cento libri de cucina.
de storia, d’arte, e nun ce nè uno solo
che citi co’ la Pasta er Pastarolo
che unì pe’ primo l’acqua e la farina.
Credevo fosse una creazione latina,
invece poi, m’ha detto l’orzarolo,
che l’ha portata a Roma Marco Polo
un giorno che tornava dalla Cina.
Pe’ me st’affare de la Cina è strano,
chissà se fu inventata da un cinese
o la venneva là un napoletano.
Sapessimo chi è, sia pure tardi,
bisognerebbe faje… a ‘gni paese
più monumenti a lui che a Garibardi.
Aldo Fabrizi
La cottura
I Nun è ‘na cosa tanto compricata,
però bisogna sempre fà attenzione
perché ce vò ‘na certa proporzione
tra tipo e quantità che va lessata.
Me spiego: quella fina e delicata
va bene tutt’ar più pe’ du’ persone,
ma si presempio se ne fa un pilone
basta un seconno in più che viè incollata.
Insomma, c’è ‘na regola importante:
fino a tre etti se pò fà leggera
poi più s’aumenta e più ce vò pesante.
Er sale è mejo poco, l’acqua assai,
un litro a etto, l’unica maniera,
perché la Pasta nun s’incolli mai.
II Un’antra cosa: mai bollilla stretta,
e quanno l’acqua è in piena bollitura,
se butta giù e la pila se riattura
pe’ fà riarzà er bollore in fretta in fretta.
Poi dopo un po’ s’assaggia: n’anticchietta;
appena è cotta, ancora bella dura,
se leva e je se ferma la cottura
coll’acqua fresca sotto la bocchetta.
Doppo girata un attimo, scolate:
quanno l’urtima gocciola viè fòri
conditela de prescia e scodellate.
Si c’è quarcuno attenti a controllavve:
« mangiate calmi, piano, da signori » ,
si state soli… attenti a nun strozzavve.
La Creazione
Dio disse: « Mò che ho fatto Cielo e Tera,
domani attacco Luce e Firmamento,
mercoledì fò er mare, doppo invento
farfalle e fiori pe’ la Primavera.
Pe’ giovedì fò er Sole, verso sera
fò li Pianeti, er Fòco, l’Acqua, er Vento,
così se venerdì nun vado lento,
faccio sabbato ingrese e bònasera! »
Finì defatti er sabbato abbonora.
« Mò » disse « vojo vede chi protesta
dicenno che er “Signore” nun lavora…
Ho sfacchinato quarant’ore… basta!
Domani ch’è domenica fò festa…
e prima de fa’ Adamo fò la Pasta! »
Aldo Fabrizi
La dieta
Doppo che ho rinnegato Pasta e pane,
so’ dieci giorni che nun calo, eppure
resisto, soffro e seguito le cure…
me pare un anno e so’ du’ settimane.
Nemmanco dormo più, le notti sane,
pe’ damme er conciabbocca a le torture,
le passo a immaginà le svojature
co’ la lingua de fòra come un cane.
Ma vale poi la pena de soffrì
lontano da ‘na tavola e ‘na sedia
pensanno che se deve da morì?
Nun è pe’ fà er fanatico romano;
però de fronte a ‘sto campà d’inedia,
mejo morì co’ la forchetta in mano!
Aldo Fabrizi
La panzanella
E che ce vo’
pe’ fa’ la Panzanella?
Nun è ch’er condimento sia un segreto,
oppure è stabbilito da un decreto,
però la qualità dev’esse quella.
In primise: acqua fresca de cannella,
in secondise: ojo d’uliveto,
e come terzo: quer di-vino aceto
che fa’ venì la febbre magnarella.
Pagnotta paesana un po’ intostata,
cotta all’antica,co’ la crosta scura,
bagnata fino a che nun s’è ammollata.
In più, per un boccone da signori,
abbasta rifinì la svojatura
co’ basilico, pepe e pommidori.
Aldo Fabrizi
Biografia di Aldo Fabrizi rappresenta l’anima di Roma, la cosiddetta Città Eterna,che l’ha sempre considerato il suo figlio prediletto. Del popolo romano l’attore ha canzonato in oltre cinquant’anni di carriera vizi e debolezze, con quel suo umorismo tanto cinico e disincantato, quanto dissacrante e tagliente, così caratterizzante del suo fare flemmatico e arguto. Sapeva scherzare su tutto, ma prima di tutto su se stesso, ed in particolar modo sul suo fisico corpulento, palese dimostrazione della sua smisurata passione per il cibo, e soprattutto per i piatti tipici della cucina romana, che egli stesso si deliziava nel preparare. Era la voce del “popolino”, dal quale egli proveniva e che ha sempre portato nel cuore. Attraverso i suoi tipici personaggi – con i quali ha conquistato le platee dell’Italia intera a partire dai suoi esordi teatrali nei primi anni Trenta, e che ha fortunatamente riproposto in televisione negli anni Settanta – come il vetturino il cui cavallo lo batte in fatto di stanchezza, il tranviere contro cui tutti i passeggeri si accaniscono, o il cameriere dai piedi stanchi, Fabrizi esprimeva il suo spirito caustico, e conduceva una sferzante satira sulla romanità, ma ancor più in generale sull’uomo qualunque del suo tempo. In cinema debuttò nel 1942, ma si sarebbe dovuto aspettare il 1945 perché egli avesse potuto dar prova di una profonda sensibilità artistica in un ruolo diverso dai soliti, stavolta drammatico, quello di un prete eroico che si fa fucilare dai tedeschi pur di non rivelare i nomi di alcuni partigiani, nel capolavoro di Rossellini, Roma città aperta. Il film – che lo vede per la terza volta al fianco dell’amica-nemica Anna Magnani, che in quanto a schiettezza e sfacciataggine riusciva a tenergli testa – gli offrì l’opportunità di fornire una struggente e sofferta interpretazione, densa di emotività, e carica di una coinvolgente naturalezza, dimostrando così di essere un attore a tutto tondo. La sua filmografia è sterminata: lo ricordiamo spesse volte al fianco dell’amico Totò, soprattutto nel film caustico-amaro Guardie e ladri (1951) di Steno e Mario Monicelli; e poi in una serie di svariati, e talvolta grotteschi personaggi, come il contadino furbo e bonario di Vivere in pace (1947) di Luigi Zampa, il padre egoista e protervo di Prima comunione (1950) di Alessandro Blasetti, lo sfortunato e bizzarro capofamiglia nella serie de “La famiglia Passaguai” (tre film dal 1951 al ’52), di cui egli stesso fu il regista, e il ricco e rozzo palazzinaro di C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, deluso e disincantato ritratto della pseudo-impegnata generazione di sinistra del periodo post-secondo conflitto mondiale. Dopo tanti impegni come attore cinematografico, il teatro lo rivide incontrastato mattatore nella celeberrima commedia musicale di Garinei e Giovannini, Rugantino, portata per la prima volta in scena nel 1962, ripetuta diverse volte negli anni successivi, e portata addirittura a New York. Accanto ad interpreti del calibro di Nino Manfredi e Bice Valori, Fabrizi impersonò il tragicomico personaggio di Mastro Titta, un boia della Roma papalina, che dietro il suo aspetto burbero e rude, si dimostrava sensibile e bonario. Da ricordare infine le sua spassosissime apparizioni televisive, e le sue deliziose raccolte di ricette e poesie, spiritosamente intitolate La pastasciutta (1971), Nonna minestra (1974) e Nonno pane (1980). La Roma paciosa e scanzonata che lo vide nascere, se lo portò via, in una triste mattinata primaverile del 1990, quando “er sor Aldo” aveva da qualche mese compiuto ottantaquattro anni.
Il “Berlinguer rivoluzionario” che vogliamo ricordare
-articolo di Alba Vastano-Enrico Berlinguer-La storia del segretario del Pci e i temi cardine della politica berlingueriana nel libro di Guido Liguori. L’uomo e il politico che ha contribuito alla costruzione del Partito Comunista Italiano negli anni Settanta e Ottanta. Da funzionario togliattiano alla segreteria di Luigi Longo.
Enrico Berlinguer
La storia del segretario del Pci Enrico Berlinguer e i temi cardine della politica berlingueriana nel libro di Guido Liguori. L’uomo e il politico che ha contribuito alla costruzione del Partito Comunista Italiano negli anni Settanta e Ottanta. Da funzionario togliattiano alla segreteria di Luigi Longo. Il compromesso storico e la questione morale. La politica internazionale. L’invito rivolto ai giovani, ma soprattutto la svolta finale a Sinistra.
Come non ricordarlo nel trentennale della sua scomparsa. Come non ricordarlo sempre. Come non ripercorrere oggi con la memoria quegli anni della nostra gioventù in cui c’era lui. Ripercorrerli per avere delle risposte a quel che é stato l’uomo e il politico, a quel che è stato il Partito Comunista Italiano. E il feedback della sua storia, della storia del partito di quel periodo è sicuramente positivo e vincente.“Un uomo introverso e malinconico, di immacolata onestà e sempre alle prese con una coscienza esigente”, lo ricordò così Indro Montanelli, in occasione dei suoi funerali nel 1984. Gli anni Settanta del Novecento sono stati per la storia del comunismo italiano gli anni di Berlinguer, anni che hanno segnato la storia della nostra “bella gioventù”. Berlinguer ci faceva sognare un’Italia migliore “..un’Italia che non era famosa solo per il cibo e per il vino, ma anche per la ricerca di un’originale coniugazione di democrazia e socialismo che suscitava interesse e rispetto in tutto il mondo”.
Così descrive quel periodo felice, Guido Liguori nella premessa del suo ultimo saggio “Berlinguer rivoluzionario”, edito da Carocci. E ci voleva questo saggio. Ci voleva per pensare, per ricordare e per riflettere sul senso che davamo alla politica, su cosa significava un tempo essere comunisti. L’appartenenza a un partito in cui non c’erano altre forze che quella dell’unità e della lotta di classe, soprattutto non c’erano tante sinistre, né divisioni in correnti. Non c’era altro che la lotta di classe per contrastare il capitalismo e per conquistare l’egemonia in un paese già allora dilaniato dalla corruzione. Di quel comunismo, di quel modo di fare le nostre lotte, Berlinguer ne era il protagonista. Un politico in “totus”. Soprattutto un uomo di grande integrità morale e intellettuale che ha saputo coinvolgere le masse popolari. Vi era un tempo quindi, il tempo di Berlinguer, in cui la politica era una cosa seria e priva di interessi personali, un tempo in cui le idee erano gli ideali, i nostri ideali da sventolare con orgoglio e con convinzione. E, riferendosi alla possibilità reale di fare una buona politica, scrive Liguori “ ..chi si sacrifica per essa e a essa dedica la vita, è un uomo da rispettare, come fu rispettato universalmente, quel comunista forte e timido insieme che fu Enrico Berlinguer”.
Già dalla copertina del libro curiosità e attrazione per i contenuti sono inevitabili. Perché l’uomo del compromesso storico e del sostegno ai governi di solidarietà nazionale viene definito un rivoluzionario? In realtà l’autore, nel suo libro avanza molte riserve sul compromesso storico, pur riconoscendo le motivazioni che spinsero tutto il Pci a proporlo alla Dc. È soprattutto nel secondo Berlinguer, quello dei primi anni Ottanta che riconosciamo il politico “rivoluzionario”, citato così dall’autore. Non solo l’uomo della ‘questione morale”, ma il fautore dei grandi movimenti dell’epoca, come sono stati il movimento femminista e quello pacifista, ma anche quello ecologista, oltre a quello operaio. Questa è stata la migliore politica di sinistra di Berlinguer, quella più viva e vivace, quella che più è rimasta nel cuore del Pci.
Fra una presentazione e l’altra della sua ultima opera letteraria su Berlinguer, Guido Liguori, docente universitario dell’Universita’ della Calabria, scrittore e saggista di molti testi gramsciani, si è fermato a parlarne, il 15 novembre, anche alla “BiblioGramsci”, la biblioteca popolare del circolo Prc di Valmelaina-Tufello, “nata” il quattro ottobre scorso. Intervistato da Valerio Strinati, presidente dell’Università popolare “Antonio Gramsci”, ha risposto con un’accurata analisi sui punti cardine della politica berlingueriana. «Partire dalle questioni internazionali per delineare la figura di Berlinguer è giusto e necessario. Berlinguer ha sempre avuto una vocazione per la politica internazionale, perché negli anni Cinquanta il giovane segretario faceva parte della Fgci e per un paio d’anni fu il principale esponente del movimento che comprendeva tutti i giovani comunisti a livello mondiale. Tant’è che fa la spola tra Budapest (sede dell’organizzazione) e l’Italia. Ha modo quindi di conoscere, fin da giovane, il mondo sovietico e il mondo del comunismo internazionale e di avere rapporti con i compagni dell’Unione sovietica». Liguori poi prosegue sulla scelta di Longo di affidare la direzione del partito a Berlinguer: «All’indomani dei fatti di Praga, Berlinguer scavalca il candidato numero uno, Giorgio Napolitano, e viene scelto come futuro segretario del Pci, proprio per la sua esperienza internazionale. Napolitano non aveva, né la frequentazione, né la capacità che aveva Berlinguer di dialogare con i sovietici e di non cedere alle loro pressioni». «Ovviamente questo è un processo contradditorio», continua l’autore. «Il fatto di rivendicare l’autonomia dei comunisti italiani e poi sempre più negli anni di marcare l’importanza della visione del partito comunista italiano, fa sì che la divisione con l’Unione Sovietica cominci ad essere una divisione di fondo sull’idea di socialismo da costruire nella democrazia». Liguori ricorda al proposito il famoso “Memoriale di Yalta” che Togliatti scrive pochi giorni prima di morire, da consegnare ai sovietici, in cui ribadiva la possibilità di raggiungere il socialismo attraverso vie diverse dal modello dell’Urss.
Il saggio di Liguori è davvero un tuffo in quel ventennio di storia vissuta con passione, una storia che non va dimenticata. Si potrà riattualizzare il pensiero del segretario del Partito Comunista Italiano in questa “povera” Italia e in una possibile (?) altra Europa? E nella ricorrenza del trentennale della sua morte, strumentalizzata da alcune correnti politiche che hanno paragonato il compromesso storico alle larghe intese, come ricordare onestamente Berlinguer? «Non è detto che bisogna fermarsi a Berlinguer e alle sue idee, ma sicuramente esse non vanno rimosse o mal interpretate. Bisognerebbe rileggere tutto ciò che lui ha scritto per renderci conto che le sue sono idee ancora importanti e valide che hanno ancor oggi molto da insegnarci», pensa l’autore.
E un invito ai giovani dall’autore (nella premessa del libro). “Mi piacerebbe che anche i più giovani, le ragazze e i ragazzi di oggi, imparassero a capire chi è stato e che cosa ha pensato Berlinguer. Vorrei che innanzitutto loro fossero i destinatari di questo libro”.
Autore dell’Articolo Alba Vastano “La maggior parte dei sudditi crede di essere tale perché il re è il Re. Non si rende conto che in realtà è il re che è il Re, perché essi sono sudditi” (Karl Marx)-
Artista Hans Bachmann-Titolo:”A Christmas Carol In Lucerne” anno 1887 –
Rainer Maria Rilke Poesia La nascita di Gesú-
Rainer Maria Rilke, nome completo René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke (Praga, 4 dicembre 1875 – Montreux, 29 dicembre 1926), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema.
È considerato uno dei più importanti poeti di lingua tedesca del XX secolo. Autore di opere sia in prosa che in poesia, è famoso soprattutto per le Elegie duinesi (iniziate durante un soggiorno a Duino), i Sonetti a Orfeo e I quaderni di Malte Laurids Brigge.
Poesia di Rainer Maria Rilke
La nascita di Gesú –
Se tu non fossi stata, in tua fattura, solo umiltà, — come poteva, o Donna, accader l’ineffabile prodigio, che illumina la Notte all’improvviso? L’Iddio che era in corruccio con le genti, s’è conciliato…. E viene al mondo in te.
Forse piú grande lo sognavi, Madre? Che vuol dire grandezza? Ogni oltre limite ed ogni oltre misura della terra, ch’Egli sovrasta e annulla, il suo destino va diritto nel mondo, ora, per vie finanche ignote ai trànsiti degli astri.
Guarda! Sono grandi questi Re. Travolsero innanzi al tempio del tuo Grembo santo i piú ricchi tesori della terra…. E tu forse stupisci, umile, ai doni. Ma guarda! Fra le pieghe dello scialle, il tuo Pargolo, già, tutto trascende. L’ambra che va lontano sui navigli, l’oro contesto in fulgidi gioielli, l’incenso che si esala e che c’inebria, passano, Donna. E lascian solamente amarezza d’inutili rimpianti….
Ma il Bimbo che ti splende, ora, nel grembo (domani lo saprai!) conduce e dona la Gioia che non passa e che si eterna.
Rainer Maria Rilke
(Traduzione di Vincenzo Errante)
da “La vita di Maria, 1912”, in “Rainer Maria Rilke, Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941
∗∗∗
Geburt Christi
Hättest du der Einfalt nicht, wie sollte dir geschehn, was jetzt die Nacht erhellt? Sieh, der Gott, der über Völkern grollte, macht sich mild und kommt in dir zur Welt.
Hast du dir ihn größer vorgestellt?
Was ist Größe? Quer durch alle Maße, die er durchstreicht, geht sein grades Los. Selbst ein Stern hat keine solche Straße. Siehst du, diese Könige sind groß,
und sie schleppen dir vor deinen Schoß
Schätze, die sie für die größten halten, und du staunst vielleicht bei dieser Gift —: aber schau in deines Tuches Falten, wie er jetzt schon alles übertrifft.
Aller Amber, den man weit verschifft, jeder Goldschmuck und das Luftgewürze, das sich trübend in die Sinne streut: alles dieses war von rascher Kürze, und am Ende hat man es bereut.
Aber (du wirst sehen): Er erfreut.
Rainer Maria Rilke
da “Das Marien-Leben”, Leipzig: Insel Verlag, 1912
Dipinto allegato è Opera dell’Artista Hans Bachmann-Titolo:”A Christmas Carol In Lucerne” anno 1887 –
Rainer Maria Rilke, nome completo René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke (Praga, 4 dicembre 1875 – Montreux, 29 dicembre 1926), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema.
È considerato uno dei più importanti poeti di lingua tedesca del XX secolo. Autore di opere sia in prosa che in poesia, è famoso soprattutto per le Elegie duinesi (iniziate durante un soggiorno a Duino), i Sonetti a Orfeo e I quaderni di Malte Laurids Brigge.
Rilke viene oggi riconosciuto come il maggior poeta tedesco dell’età moderna, come uno dei più grandi interpreti lirici della spiritualità moderna, ma la sua opera si ricollega più che altro al secolo precedente, ai simbolisti francesi (di cui tradusse anche diverse opere) e al clima decadente di fine Ottocento/inizio Novecento.
I temi di fondo delle opere di Rilke sono la religiosità, profondamente influenzata dall’ambiente cattolico della sua famiglia, ma che si modifica nelle opere seguenti ai viaggi in Russia in cui era venuto a contatto con l’anziano Tolstoj, cioè in Storie del buon Dio e nel Libro delle ore (in tedesco: Das Stundenbuch, 1899-1903).
Qui il Dio di Rilke appare panteistico e presente in tutte le cose, e la sua religiosità sembra più di tipo lirico-simbolico. Accanto a ciò l’altro grande elemento dell’uomo senza casa, presente anche in Franz Kafka, un uomo privo quindi delle certezze basilari sulla sua vita e che soffre profondamente per questa sua condizione.
A partire dal Libro delle immagini (Das Buch der Bilder, 1902 seconda edizione del 1906) la sua poesia prende una via nuova, sulla quale si sente l’influenza delle altre arti, pittura e scultura con le quali era venuto a contatto soprattutto nel suo soggiorno parigino; il poeta non vuole più parlare ma cerca una soggettività facendo parlare le cose, gli uomini, gli animali, ottenendo i suoi esiti più alti nelle Poesie Nuove (Neue Gedichte, 1907).
In seguito la produzione di Rilke sarà sempre più simbolica-profetica e filosofica, di non facile comprensione. Di particolare interesse per la sua poetica è il concetto di «spazio interno del mondo», quel «Weltinnenraum» che Rilke vede estendersi attraverso tutti gli esseri.
Dispute de Minerve et de Neptune, (1748)-Louvre,Parigi-
L’Olio di Oliva nella Mitologia
L’Olio di Oliva nella Mitologia-Un mito greco attribuisce ad Atena la creazione del primo Olivo che sorse nell’Acropoli a protezione della città di Atene.
La leggenda racconta che Poseidone ed Atena, disputandosi la sovranità dell’Attica, si sfidarono a chi avesse offerto il più bel dono al Popolo. Poseidone, colpendo con il suo tridente il suolo, fece sorgere il cavallo più potente e rapido, in grado di vincere tutte le battaglie ; Atena, colpendo la roccia con la sua lancia , fece nascere dalla terra il primo albero di Olivo per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione.
Zeus scelse l’invenzione più pacifica ed Atena divenne Dea di Atene. Un figlio di Poseidone cercò di sradicare l’albero creato da Atena, ma non vi riuscì, anzi si ferì nel commettere il gesto sacrilego e morì. Al British Museum di Londra si può ammirare una scultura del frontone occidentale del Partenone, dove l’artista Fidia ha rappresentato questo episodio mitologico. Secondo una leggenda riferita da Plinio e da Cicerone, sembrerebbe che sia stato Aristeno lo scopritore dell’Olivo e l’inventore del modo di estrarre l’olio all’Epoca fenicia. Lo stesso Plinio, invece, su altri suoi scritti, parlando dell’Italia, racconta che l’Olivo fu introdotto da Tarquinio Prisco quinto Re di Roma, questa ipotesi è la più verosimile visto che le più antiche tracce archeologiche finora raccolte sull’olivicoltura in Etruria risalirebbero al VII sec. a.C., descrivendo ben 15 metodi di coltivazione di questa pianta, che, ai suoi tempi, rappresentava già la base di importanti attività economiche e commerciali. L’olivicoltura era molto diffusa al tempo di Omero; l’Iliade e l’Odissea narrano spesso dell’Olivo e del suo Olio. A Roma l’Olivo era dedicato a Minerva e a Giove. I Romani, pur nella loro praticità di considerare l’Olio d’Oliva come merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono dai Greci alcuni aspetti simbolici dell’olivo. Onoravano i Cittadini illustri con corone di fronde di Olivo; così pure gli sposi il giorno delle nozze e della loro prima notte nunziale; ed infine i morti venivano inghirlandati per significare di essere dei vincitori nelle lotte della vita umana. Nell’area islamica molte leggende fanno riferimento all’Olivo e al suo prodotto; tra le tante storie si vuole ricordare quella di Alì Babà ed i suoi 40 ladroni nascosti negli otri che dovevano contenere Olio di Oliva.
Il quadro allegato rappresenta Dispute de Minerve et de Neptune, (1748)-Louvre,Parigi- “… e Atena ottenne di governare sull’Attica, poiché aveva fatto a quella terra il dono migliore, quello dell’ulivo……”
ULIVOAtena la creazione del primo OlivoAtena la creazione del primo OlivoULIVOAtena la creazione del primo Olivo
Antico Frantoioolio extravergine di oliva olio extravergine di oliva L’olio extravergine di olivaolio extravergine di olivaolio extravergine di olivaAtena la creazione del primo Olivoolio extravergine di olivaolio extravergine di olivaolio extravergine di oliva
Roma-l’Elegance Cafè jazz club propone Suddenly it’s Christmas Time -Silvia Manco Xmas Special Trio-
Roma-Per scaldare la sera della vigilia del Natale, l’Elegance Cafè jazz club propone l’irresistibile e suggestivo repertorio internazionale legato al Natale, declinato in chiave jazz dal trio in edizione “Xmas Special” guidato della pianista e vocalist Silvia Manco.
Silvia Manco Xmas Special Trio
La scelta dei brani è il risultato di un’accurata e ampia ricerca all’interno di diverse tradizioni musicali.
Non solo quella degli standard song americani ma anche quella più esotica del nord-est del Brasile, quella britannica dei Christmas Carols, quella Irish di origine folk e quella soulful del soul jazz afro-americano.
Sul palco la sera del 24 dicembre a Roma, la rilettura in chiave jazz conferirà unità di intento e coerenza sonora all’intero progetto restituendo un’atmosfera evocativa ma anche pervasa di ritmo ed energia.
Il disco uscito nel 2011 “Suddenly it’s Christmas time“, è disponibile su tutte le piattaforme digitali, da non perdere l’occasione per ascoltarlo dal vivo
Silvia Manco, piano e voce Francesco Puglisi contrabassso batteria e Valerio Vantaggio alla batteria.
SILVIA MANCO
La calda voce di Silvia Manco , pianista e cantante accompagnerà la cena della vigilia di Natale.
Il disco dedicato al Natale “Suddenly it’s Christmas time “è su tutte le piattaforme digitali , e poterlo ascolatare dal vivo la sera della Vigilia a Roma, sarà un’esperienza indimenticabile.
BIO
Pianista e cantante, oltre che compositrice e arrangiatrice, la passione e lo studio del pianoforte è stata di primaria importanza sin da quando era piccola
Le sue primissime esibizioni pubbliche sono avvenute in realtà accanto al padre che le fornirà davvero un repertorio straordinario e una scorta sempre così ricca di standard jazz, bossa nova e evergreen internazionali.
Spinta dal suo fascino per il jazz, a soli 19 anni si trasferisce a Roma, non solo luogo dove approfondirà dapprima lo studio del pianoforte jazz, dell’armonia e dell’arrangiamento.
Ma anche luogo dove incontra e conosce alcuni grandi artisti che non esiteranno ad incoraggiarla a dar vita ad un trio che porta il suo stesso nome, affiancando al ruolo di capogruppo quello di pianista in un gran numero di gruppi jazz della capitale.
Si è esibita in molte sedi internazionali in festival e jazz club in Europa, USA, Russia, Sud Africa, Montecarlo, Dubai.
Il trio, la cui figura rappresenta la ricerca di un suono ben radicato nella pura tradizione jazzistica, con uno sguardo penetrante a band capitanate da pianisti e vocalist come Nat King Cole, Shirley Horn e Blossom Dearie, si distingue per il repertorio di la canzone standard dal respiro ampio e melodioso
In tutti gli arrangiamenti, montati e confezionati dalla stessa pianista di questa band, è proprio il canto a tessere la trama su cui si svolge il dialogo tra le voci, il pianoforte e gli altri strumenti della sezione ritmica.
Le composizioni originali, i cui testi sono scritti in inglese, francese e italiano da Silvia Manco, virano armoniosamente verso lo stile moderno e sono intrise di musica contemporanea e influenza dell’autore, insieme all’abituale visita del jazz strumentale europeo e americano.
La costanza nelle fasi di scrittura, composizione ed elaborazione, allineate all’attività concertistica, contribuiscono alla pubblicazione del suo primo album, nel 2007, intitolato “Big City is for me”.
Seguito dal secondo album “Afternoon Songs” nel 2010 prodotto da Roberto Gatto, famoso batterista jazz italiano, nel 2011 “Suddenly it’s Christmas time”, nel 2012 “Casa Azul”.
L’ultimo cd uscito a febbraio 2019 si intitola “Hip! The Blossom Dearie Songbook”: in questo lavoro Silvia Manco con il suo trio americano basato a NY (Dezron Douglas al contrabbasso e Jerome Jennings alla batteria), e con il contributo di due straordinari special guest (Enrico Rava e Max Ionata), raccoglie l’eredità di Blossom Dearie, il più continentale dei pianisti/cantanti americani.
Silvia abbraccia questo repertorio senza tempo con un tocco di contemporaneità dimostrando un’attitudine da vera band leader.”
Informazioni, orari e prezzi
Siamo in Via Francesco Carletti, 5
ZONA OSTIENSE/PIRAMIDE
Ingresso € 40 con consumazione compresa nel prezzo.
PER L’ACQUISTO DRINK DELLA VIGILIA 24 DIC. ACQUISTANDO L’INGRESSO DAL BOTTON DI ACQUISTO DAL NOSTRO WEB.
Ingresso con prenotazione al tavolo per la cena, con 2 portate alla carta il concerto è incluso.
PER PRENOTARE LA CENA E CONCERTO (2 portate a scelta dal menu alla carta tra antipasti primi e secondo) E’ POSSIBILE FARLO VERSANDO UNA caparra di € 30 A PERSONA tramite il pulsante dal nostro sito web.
Piero Ciampi nasce a Livorno il 28 settembre del 1934. Il padre, Umberto, è un piccolo commerciante di pellami. Delle prime fasi della sua vita, complice il conflitto bellico, non si sa granchè [1]; le prime notizie si hanno dal momento in cui si iscrive alla facoltà di ingegneria dell’Università di Pisa. Quando si trova a circa metà degli esami decide di lasciare l’Università per ritornare a Livorno e provare l’avventura musicale[2]. Nel frattempo, per guadagnare qualche soldo, fa, qua e là, qualche lavoretto.
Piero Ciampi: il nostro Grande Poeta maledetto-
Piero Ciampi – Canzoni e poesie
IL TUO RICORDO
Il tuo ricordo è una strada piena di luce, una cometa luminosa, mi segue sempre, ovunque vada, sempre. Ora che non ci sei più credo ancora di averti vicina e torno ogni sera dove tu stringevi la mia mano. Ed il tuo viso è una sera piena di ombre ed il ricordo dei tuoi passi mi segue sempre, ovunque vada, sempre. Ora che tu non ci sei più io desidero silenzi, infiniti silenzi, infiniti deserti, usignoli tutti bianchi e pensieri sereni su una strada piena di luce che non ha mai fine.
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L’ULTIMA VOLTA CHE LA VIDI
I miei occhi erano pieni del suo sguardo, poi vidi i suoi passi allontanarsi sulla spiaggia… e fu l’ultima volta che la vidi L’ultima volta che la vidi mi chiese di fermare il tempo e mi dette uno scrigno pieno di comete. Io non posso ormai più andare tra i sorrisi della gente né chiedere alle cose un posto in mezzo a loro. L’ultima volta che la vidi mi chiese di fermare il tempo e mi dette una mano piena di carezze. Fu una lacrima candida e lunga che cadendo sopra un fiore mi fece ricordare che se bianco è bianco e nero è nero in questa vita io sono uno straniero. Senza di lei il giorno non ha né alba né tramonto e l’arcobaleno e il canto degli usignoli sono cose perdute…. Ed ogni sera ritornano su quella spiaggia processioni di stelle e di comete come l’ultima volta che la vidi.
Piero Ciampi: il nostro Grande Poeta maledetto-
….. ADIUS
Il tuo viso esiste fresco mentre una sera scende dolce sul porto. Tu mi manchi molto, ogni ora di più. La tua assenza è un assedio ma ti chiedo una tregua perchè un cuore giace inerte rossastro sulla strada e un gatto se lo mangia tra gente indifferente ma non sono io, sono gli altri. E così… Vuoi stare vicina? nooo? Ma vaffanculo. Sono quarant’anni che ti voglio dire… ma vaffanculo. Ma vaffanculo te e tutti i tuoi cari. Ma come? Ma sono secoli che ti amo, cinquemila anni, e tu mi dici di no? Sai che cosa ti dico? va-ffan-culo. Te, gli intellettuali e i pirati. Non ho altro da dirti. Sai che bel vaffanculo che ti porti nella tomba? Perché io sono bello, sono bellissimo, e dove vai? Ma vaffanculo. E non ridere, non conosci l’educazione, eh? Portami una sedia, e vattene.
….. MISERERE
A mille anni ho dimenticato in treno la mia borsa, dentro: le poesie, una camicia e qualche fazzoletto. Ho messo a soqquadro mezza polizia, la stazione, e mi guardavano co- me un pazzo. A Ponte Sisto ho bevuto sei litri al cubo, in Piazza del Biscione… sono morto. Questo è un miserere per te, per me, che non abbiamo saputo amarci. Noi, per colpa di quattro scemi, abbiamo dovuto subire l’equivoco e siamo soli. Questo è un miserere per te e per me, che non abbiamo mai capito che dovevamo difenderci. Gli uomini quando sono scemi sono nemici, tu non l’hai capito ed ora sei sola. Questo è un miserere per te e per me
….. TU CON LA TESTA IO CON IL CUORE
Tu, tu mi hai amato con la testa. Io, io ti ho amato con il cuore. Forse il tuo amore è più giusto forse il mio è più forte. Io ho paura della tua memoria perché fai troppi conti col passato e castighi i miei errori ignorando i tuoi e poi tu hai sposato il tuo orgoglio con la vanità. La nostra è una battaglia molto dura perché noi non ci concediamo mai un perdono, io col sentimento ti spavento tu con la logica mi sgomenti. Se dici che siamo soli su questa terra cerchiamo di evitare un addio: andiamo avanti con questo amore andiamo avanti tu con la testa, io con il cuore. Questo nostro amore è una cosa… una delle tante della vita. Noi stiamo rovinando tutto con le parole queste maledette parole…
….. L’AMORE E’ TUTTO QUI
Se sono solo come mai, non ho una lira e tu lo sai, perdonami; sono uno strano uomo che può frequentare solo te, abbracciami. Non sono morto e tu lo sai, se ti procuro tanti guai perdonami. Il dolce non lo mangi mai ma qualche volta ti rifai, abbracciami. tutte le cose che non hai accanto a me le troverai nel mondo dell’illusione. Tu vai sicura, vai così, perché io sono sempre qui qui!
….. VA
Va il suo corpo in ogni cuore, sembra un coltello. Lei apre senza pietà altre ferite oltre la mia e va con il suo corpo lungo la strada ed il cemento, è un teatro per le sue gambe sempre pronte ad una danza. Se ritardi, così viene l’attesa, la mia unica arma è un lungo silenzio. Io tra milioni di sguardi che si inseguono in terra ho scelto proprio il tuo ed ora tra miliardi di vite mi divido con te. Se perdi la pazienza grazie a un sorriso ritorni mia, poi apri la tua mano in un disegno sovrumano. La tua anima sta giocando in giardino, mi nascondo e la scruto ma il tuo corpo dov’è? Noi per nutrire l’amore ci sfidiamo a duello, sarà sempre così. Ma amore, non esiste un nemico più bello di te.
….. L’INCONTRO
Domani la mia camicia sarà pulita, le mie pupille bianche, il mio passo fermo, i calzoni stirati, le scarpe lucide, e la mano non deve tremare, costi quel che costi. Non ti potrò baciare perché anche tra noi due l’attesa è sacra e la diffidenza necessaria. Forse comincerò a prenderti la mano, poi non saprò come continuare, farò di tutto perché tu non capisca l’indifferenza che in questo mondo ci perseguita. Stanotte allenerò le mie labbra a sorridere e dovrò quindi pensare a lavarmi fino alla morte i denti. Vorrei piacerti come un tempo ma la mia pelle è stanca e non posso nascondere il mio volto. Dovresti essere forte e dirmi, lasciandomi alla mia vita di sempre, che ormai per te sono un estraneo e che ha ragione la gente quando dice che merito la solitudine. Ma guarda tu che cosa ti dico; sarebbe molto meglio per te che te ne andassi prima di incontrarmi.
….. CHIEDER PERDONO NON E’ PECCATO
Buongiorno, amore: sei ritornata, niente è cambiato, siamo gli stessi innamorati come una volta, tu sei la stessa, quella che amavo, le stesse mani, lo stesso viso, la stessa ansia nei nostri cuori. Quando mi hai visto tu hai sorriso: chieder perdono non è peccato. Sei ritornata, niente è cambiato, siamo gli stessi innamorati.
tratte da “Canzoni e poesie”
Lato side, Roma, 1980
Piero Ciampi: il nostro Grande Poeta maledetto-
La vita agra, 53 poesie di Piero Ciampi
L’unico Ciampi a cui dovremmo dedicare piazze e strade in ogni angolo d’Italia è Piero, perché era tutto quello che non vogliamo più che gli artisti siano: l’amarezza della vita agra, il dolore di essere meschini e non saper essere altro, il sarcasmo, il cinismo, talvolta pure la violenza, in versi, narrata, che è la violenza più dannata, contro quel problema volgare che ci attanaglia tutti: andare, camminare, lavorare. Campare. E farlo per quegli spiccioli con cui comprarsi un’ora di sollievo sopra il collo di una bottiglia, tra le cosce di una sconosciuta, dentro un taxi per nessuna parte o una frittata di cipolle, «cose che non ho mai avuto tutte insieme», raccontò in un’intervista: la felicità è una sigaretta consumata; se arriva, arriva a mozziconi.
Piero Ciampi era un Modigliani anacronistico, uno nato nella città giusta – a Livorno, in via Roma, praticamente di fronte alla casa natale di Modì – ma pareva avesse sbagliato epoca pur azzeccandola in pieno. Non c’è niente di romantico o decadente nella sua vita raminga e balorda, da bohémienne ottocentesco fuori tempo massimo. Non era uno scapigliato o un dandy; tendeva piuttosto a un epicureismo istintivo e dannato, da eterno insoddisfatto che se ne fotteva della ricerca estetica: era lui stesso l’estetica, la sua vita, la disperazione che gli tallonava il culo, sulla strada, come i poeti beat. Ciampi era il Majorana di Sciascia in fuga dal proprio talento, uno della genia dei Morselli o dei Campana, quelli che faticano a starsi dietro. La sua esistenza accadde tutta dentro al proprio tempo, fu tragicamente novecentesca e tragicamente italiana. Lo intuiva probabilmente pure lui, che non a caso nei primi dischi degli anni sessanta si firmava con lo pseudonimo di Piero Litaliano, tutto attaccato perché la sua era grammatica da osteria, una zuppa preparata con gli scarti di senso. Gliel’avevano dato i francesi, quel soprannome, accentando la O finale, in virtù del pathos tipicamente italico che infondeva alle sue interpretazioni canore. In realtà dentro quella voce, prima ancora che l’Italia, c’era Livorno; e nemmeno tutta: c’era soprattutto il quartiere Pontino dove Ciampi era nato tra il profumo del cacciucco e quello delle puttane, le urla dei portuali e le proteste dei disoccupati, quei vicoli che portavano nomi di canzoni come «via della Disperazione», strada senza autore in attesa del suo Bob Dylan. Processione di un’umanità dolente, assetata di tutto, affamata dalla miseria ma pure da qualcosa che si trova fuori dallo stomaco, fuori dalla pelle, fuori persino dal creato.
È l’umanità protagonista di canzoni che sovvertono Dickens intorno a un fuoco natalizio dove l’apologo si fa cenere per rinascere controfavola (Il Natale è il 24), che evocano Edgar Allan Poe in una nuova ornitologia dell’orrore, l’orrore squallido dello stentare quotidiano (Il merlo), che erigono monumenti all’artista solo se l’uomo è un irredimibile, un irrecuperabile, un irregolare (Ha tutte le carte in regola). Per certi versi Piero Ciampi è stato il nostro Céline – che conobbe durante il periodo di vagabondaggio in Francia nei locali in cui si esibiva Georges Brassens – il primo punk italiano, però con la chitarra classica: mentre Celentano e Buscaglione accoglievano l’America nel rock’n’roll e nello swing, Ciampi se l’andò a prendere in Francia. Nella sua carriera è venuto alle mani con Califano al bancone di un bar, ha insultato i giurati del premio Tenco, ha mandato a fare in culo il mago Silvan e più volte il proprio pubblico, soprattutto quello dei circoli d’élite, i borghesi, gli intellettuali, di cui gli interessavano solo i soldi. Una volta a Firenze abbandonò il palco dopo aver eseguito a malapena il primo brano, e non sazio sbeffeggiò il pubblico proclamandosi «il cantante più pagato d’Italia, trecentomila lire per mezza canzone»; un’altra volta dilapidò l’anticipo in contanti dalla RCA, ottenuto grazie all’intercessione dell’amico Gino Paoli, spendendolo tutto all’osteria di via dell’Oca, metà in vino e un’altra metà regalata a una prostituta «così stasera puoi fare a meno di lavorare». Era insofferente al successo, più che cercarlo sembrava fuggirlo. Spariva per mesi interi, diceva agli amici di essere in partenza per Tokyo o per l’America, ma poi lo ritrovavano ubriaco al porto di Livorno, isola-mondo di cui si sentiva il Robinson Crusoe; altre volte invece partiva davvero, improvvisamente, senza dire niente a nessuno, per Barcellona, per Stoccolma, per Dublino. A causa di queste fughe mandò in vacca numerose occasioni di svoltare la carriera, come quella volta nel 1974 quando a cercarlo fu Ornella Vanoni e lui risultava irrintracciabile anche al fido collaboratore Gianni Marchetti.
Era un emarginato, Ciampi, sapeva di esserlo e forse voleva esserlo; si definiva un arrabbiato, descrivendosi con tre aggettivi che sono un preciso identikit caratteriale – livornese, anarchico e comunista – però sul passaporto, alla voce professione, ci fece scrivere «poeta».
Come poeta Ciampi realizzò una sola raccolta, 53 poesie; gliela pubblicò nel 1973 Ennio Melis per la RCA in un’edizione elegante e spartana, dalla copertina totalmente bianca come il White Album dei Beatles. Resta forse il primo e unico caso in Italia in cui un’etichetta discografica abbia pubblicato un libro di poesie di un cantautore, riaffermando con una sola operazione editoriale quella continuità tra poesia e canzone ben presente alla tradizione romanza, dai trovatori provenzali agli stilnovisti, e poi sdoppiatasi in diramazioni distinte seppur tangenti. Quel volumetto torna adesso in libreria grazie a Lamantica Edizioni, arricchito da una premessa di Enrico De Angelis, curatore dell’ultima pubblicazione in cui vennero ristampate le 53 poesie (Piero Ciampi. Tutta l’opera. Arcana, 1992), un’introduzione critica di Diego Bertelli – che analizza l’esclusività della poetica ciampiana e la sua distanza tanto dalla tradizione lirica italiana quanto dalla sperimentazione novecentesca, mettendo altresì in risalto le affinità tematiche col concittadino Caproni e con la versificazione frammentata di Ungaretti – e una postfazione dell’editore Giovanni Peli.
Molti dei versi qui raccolti nacquero originariamente come estensioni delle canzoni, alcuni vennero pubblicati nei libretti allegati ai dischi, altri recitati da Ciampi nei concerti tra un brano e l’altro, altri ancora furono direttamente integrati alle canzoni, quasi che quei versi fossero protesi, rinforzi, aggiunte senza le quali la forma-canzone iniziale sarebbe rimasta monca, in qualche modo incompleta. Nell’universo lirico di Ciampi non c’è soluzione di continuità tra i due codici espressivi, poesia e canzone sono forme bastarde, promiscue come un fiammifero / ed una latta di benzina / fanno l’amore / sotto il tetto / di una mano. Si rincorrono a vicenda, l’una strattona l’altra a sé: se nelle canzoni ciampiane la melodia doveva farsi marcia irregolare per stare al passo di una metrica dispari, etilica, frantumata – un mucchio d’ossa raccolte dentro un fosso – in queste poesie i versi cantano da soli, senza musica, echeggiando la voce barcollante e insolente del loro autore.
Anche nella forma lirica pura la poetica di Ciampi rimane quello che è sempre stata: fragilità in rivolta, vita come strage continua, stupore amaro di animali chini «a sverginare stelle». E quando certi versi d’amore appaiono un po’ troppo aggressivi, è perché l’amore si dà in relazione, e la relazione è sangue e merda: un insetto che disfa «la nostra sottile e dolorosa ragnatela», dolori che si aggiungono addosso, mani che sfuggiranno sempre. E se per Ciampi non c’è redenzione nell’amore, tanto meno ce n’è in Cristo, figura poetica che ritorna spesso nelle sue poesie, ma è il Cristo di un ateo, il figlio di un cane non certo di Dio: ora muore investito da un’automobile, ora crepa di emorragia, ora si impicca in mezzo a scimmie che lo emulano. È lo stesso Cristo tra i chitarristi di una sua canzone, un acrobata in bilico su un tubo da cui cade di continuo, un viaggiatore incerimonioso che dimentica la valigia su quel treno schifoso da cui non voleva scendere:
«A mille anni
ho dimenticato
in treno
la mia borsa.
Dentro
le poesie
una camicia
e qualche fazzoletto.
Ho messo a soqquadro
mezza polizia
la stazione
e mi guardavano
come un pazzo.
A Ponte Sisto
ho bevuto
sei litri
al cubo.
In Piazza del Biscione
sono morto»
Piero Ciampi nasce a Livorno il 28 settembre del 1934. Il padre, Umberto, è un piccolo commerciante di pellami. Delle prime fasi della sua vita, complice il conflitto bellico, non si sa granchè [1]; le prime notizie si hanno dal momento in cui si iscrive alla facoltà di ingegneria dell’Università di Pisa. Quando si trova a circa metà degli esami decide di lasciare l’Università per ritornare a Livorno e provare l’avventura musicale[2]. Nel frattempo, per guadagnare qualche soldo, fa, qua e là, qualche lavoretto.
Chiamato al servizio militare, Piero parte per il CAR (Centro Addestramento Reclute nella terminologia del servizio di leva obbligatorio) a Pesaro. Durante le libere uscite va a suonare nei piccoli locali pesaresi, dove suscita l’interesse di Gianfranco Reverberi, che ne coglie la vena artistica e successivamente proverà ad inserirlo nel difficile mondo musicale. Inizialmente Piero suona il contrabbasso (suo primo strumento musicale che aveva imparato a suonare da autodidatta) in alcune orchestre del posto, ma in realtà si sente un cantautore e un poeta.
Nel 1957 senza soldi, con solo una chitarra e un biglietto di sola andata in mano, passa prima a Genova, dove va a trovare Reverberi, poi prosegue per Parigi, dove stringe amicizia con Louis-Ferdinand Céline, e va ad ascoltare il grande Georges Brassens. È proprio in Francia che nasce il “Ciampi chansonnier”.
Nel 1959 ritorna nell’amata Livorno, sempre senza alcun soldo in tasca. Per un mese se ne sta in giro per la città, ubriacandosi e pensando di fare il pescatore, ma l’amico Reverberi se lo porta a Milano convincendolo a lavorare per lui. Quando Crepax, amico di Reverberi, passa alla CGD, si porta dietro Piero Ciampi come cantautore “di scuderia”; gli fa incidere alcuni dischi e prova pure a venderli, con il nome artistico di Piero Litaliano. Nel 1963, comunque, “Piero Litaliano”, pubblica il suo primo LP che contiene, tra le altri, Autunno a Milano, Fino all’ultimo minuto e, soprattutto, Lungo treno del sud. Da questo momento però inizia il suo isolamento, un po’voluto dai suoi colleghi, che mal sopportano il suo carattere poco incline alla conciliazione, e molto cercato e voluto da Piero Ciampi stesso. La critica, a parte qualche eccezione, è severissima e stronca l’album, che infatti non ha successo (sarà poi inaspettatamente ristampato dalla CGD nel 1990). Piero allora lascia Milano e ritorna a Livorno, da dove, abbandonato il nome “Piero Litaliano”, inizia a scrivere e cantare con il proprio nome e cognome.
È questo però un periodo di non alta produzione artistica: produce un 45 giri di Georgia Moll e una canzone per Gigliola Cinquetti (“Ho bisogno di vederti“). Quello che Ciampi sembra non riesca a smettere è vagabondare (Svezia, Spagna, Inghilterra e probabilmente anche Giappone, tra le sue mete) e bere.
La sua vita amorosa è ugualmente difficile: dopo il fallito matrimonio con Moira – donna irlandese che, dopo meno di un anno di matrimonio, andrà via portandosi dietro il loro figlio Stefano (nato nel 1966) – anche con Gabriella, che gli darà una figlia, Mira, la convivenza finisce ben presto [3].
Nel 1967 produce un disco intero per Lucia Rango; Gino Paoli, uno dei suoi pochi “amici-colleghi” prova a portarlo con sé alla RCA, ma Piero, dopo aver preso un anticipo del contratto, non scriverà nemmeno una canzone. Nel frattempo coltiva anche la passione per la poesia, e in effetti egli si sente più un poeta che un cantante; scrive poesie scarne e brevi, quasi che fossero una metafora della sua vita.
Gli anni fra il 1973 e il 1974 avrebbero veramente potuto essere quelli della svolta artistica, ma i problemi con l’alcool e quelli con l’ambiente musicale in cui si deve confrontare, hanno oramai raggiunto un punto di non ritorno: sono di questo periodo diversi litigi con artisti di svariati campi. Tra i cantautori apprezza solo Fabrizio De André. Trova comunque il tempo per scrivere Io e te, Maria (rifiutata in un primo momento da Nicola Di Bari, che poi però la inciderà…), Bambino mio (cantata da Carmen Villani e scritta con Pino Pavone, un cantautore calabrese). Nel 1974 Ornella Vanoni vorrebbe produrre un album intero con canzoni di Ciampi, ma alla fine non se ne farà niente. Piero si ritrova a cantare in piccoli locali, dove non manca di insultare il ricco pubblico pagante.
Nel 1976 registra una serata al Club Tenco, che anni dopo viene pubblicata anche su CD. Tra la fine del 1976 e gli inizi del 1977 Ciampi si esibisce in concerto, senza tuttavia molto successo, con una serie di artisti conosciuti alla RCA: Paolo Conte, Nada e Renzo Zenobi; viene anche registrata una trasmissione televisiva, che però la Rai non trasmetterà mai. In compenso, in questi stessi anni diviene molto popolare agli ascoltatori di Radio Capodistria (emittente jugoslava all’epoca molto seguita in Italia centro-settentrionale), visto che non passa giorno che non venga mandato in onda un suo brano.
Negli ultimi anni Piero Ciampi torna sempre più frequentemente a Livorno. Il 19 gennaio1980, ricoverato a Roma, muore per un cancro alla gola, assistito da un medico-cantautore: Mimmo Locasciulli (che per ricordare l’amico Piero inciderà anni dopo una delle sue più belle canzoni: Tu no).
Piero Ciampi: il nostro Grande Poeta maledetto-
Articolo di Cristina Valentini -Livornese, classe 1934, Piero Ciampi è stato uno dei cantautori più importanti del ‘900 italiano.
Oggi, 19 gennaio, in occasione dell’anniversario della morte del poeta, abbiamo voluto ricordarlo così.
Anticoformista, controcorrente e senza ombra di dubbio riconoscibile come poeta maledetto a tutti gli effetti. Ci teneva così tanto da essersi fatto scrivere “poeta” alla voce “professione” sul passaporto.
Come cantante non raccoglie mai i favori della critica, nonostante le stupende pubblicazioni insieme all’amico di sempre Reverberi e al maestro Marchetti. L’attività di paroliere sembra invece regalargli più soddisfazioni: nel 1965 la sua Ho bisogno di vederti, cantata da Gigliola Cinquetti, arriva seconda al festival di Sanremo; negli anni ’70 invece scrive testi per Nada, che avrà poi un grande successo nel mercato discografico.
Ciampi passa la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 a vagabondare per i paesi più disparati. Nel ’57, a 23 anni, parte per la Francia senza una lira in tasca, ma riesce in qualche modo a mantenersi cantando le sue poesie per strada. Qui diventa un conoscitore ed estimatore della chanson francese e gli viene affibbiato il nome d’arte che lo accompagnerà durante i primi passi della sua carriera: “L’italianó“, poi trasformato in “Piero Litaliano“.
“Ha tutte le carte in regola per essere un artista: ha un carattere melanconico beve come un irlandese se incontra un disperato non chiede spiegazioni divide la sua cena con pittori ciechi, musicisti sordi, giocatori sfortunati, scrittori monchi”
Ha tutte le carte in regola (per essere un artista)è il manifesto artistico e culturale di Piero, dove l’autore parla del suo stile di vita assolutamente e incofutabilmente lontano dai canoni della società occidentale.
Le sue canzoni sono delle vere e proprie poesie. Malinconiche ma capaci di affondarti e affascinarti sin dal primo ascolto.
Ciampi è il perfetto esempio di tutta quella schiera di artisti incompresi in vita e celebrarti e osannati dopo la loro morte.
Dal 1995 proprio a Livorno è nato il Premio Ciampi, concorso riservato a canzoni inedite. Sono assegnati inoltre un premio per la miglior cover di una canzone di Piero, il premio al miglior esordio discografico dell’anno e un premio alla carriera.
Un bohémienne livornese, patrimonio artistico e culturale del nostro paese da consevervare e tramandare alle future generazioni, con cura.
I dipinti etruschi di Cerveteri in mostra al Museo Archeologico Nazionale di Firenze-
Cerveteri-“Dal 20 dicembre 2024 al 7 aprile 2025 il Museo Archeologico Nazionale di Firenze propone la mostra Visioni di miti e riti etruschi a Firenze, a cura di Daniele Federico Maras etruscologo e direttore del museo. Per l’occasione saranno esposte quattro lastre dipinte intere, risalenti alla fine del VI secolo a.C., recuperate a Cerveteri nel 2019 dalla Guardia di Finanza.
La rassegna è frutto della collaborazione tra il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, la Direzione Generale Musei del Ministero della Cultura, il Nucleo di Polizia economico-finanziaria di Roma della Guardia di Finanza – Sezione Tutela Beni demaniali e di interesse pubblico, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria Meridionale, in accordo con la Direzione regionale Musei nazionali della Toscana.
Le lastre dipinte
Le quattro lastre di terracotta dipinte, ricostruite da una serie di frammenti, furono recuperate nell’estate del 2019 dalla Guardia di Finanza, nel corso di un’operazione di contrasto al commercio clandestino di reperti archeologici. Sono state prodotte negli ultimi decenni del VI secolo a.C. in un’officina della città etrusca di Caere (l’odierna Cerveteri), probabilmente per decorare le pareti di un tempio. Il fregio della parte superiore, comune a tutte e quattro, raffigura un meandro spezzato che incornicia riquadri con uccelli acquatici e motivi floreali a stella. La superficie è stata danneggiata dai maldestri tentativi di pulizia dei ladri d’arte che le hanno strappate al loro contesto.
Una lastra raffigura il duello tra Achille e Pentesilea: l’eroe greco a sinistra, racchiuso in una pesante armatura, si ripara dietro lo scudo e si prepara a colpire la regina delle Amazzoni, che si scaglia verso di lui brandendo una spada insanguinata. Un’altra raffigura un uomo che brandisce un ramo dalle foglie dorate mentre insegue una donna dalla chioma riccia armata di arco: potrebbe trattarsi di Apollo e Artemide con i rispettivi attributi divini, oppure della vergine cacciatrice Atalanta sfidata alla corsa dal suo futuro sposo Melanione, che vinse la gara lasciando cadere tre mele d’oro per distrarla. Un’altra ancora raffigura il Giudizio di Paride: il messaggero degli dèi Hermes, dalle ali variopinte e con in mano uno scettro, precede Hera, prima delle tre dee in lizza per scegliere la più bella tra loro. In origine le altre due dee (Atena e Afrodite) e il giovane Paride chiamato a giudicare erano raffigurati su due lastre adiacenti, purtroppo andate perdute. E infine, sull’ultima lastra è raffigurato un giovane sacerdote dai capelli lunghi che ha appena completato un rito di divinazione osservando gli uccelli con il lituo (il bastone ricurvo che ora tiene sulla spalla) e sta comunicando la volontà degli dèi al suo compagno, il quale si affretta tenendo in mano un ramoscello con dei frutti rossi.
“Grazie a iniziative espositive come questa, che fa seguito a una breve anteprima nella primavera del 2024 a Vetulonia, si porta a compimento il ciclo della tutela per le quattro lastre, dalla protezione (assicurata dalla Guardia di Finanza), alla conservazione (resa possibile dalla Soprintendenza) fino alla valorizzazione (garantita nel contesto del Museo). Solo così lo sguardo etereo di Pentesilea, l’esuberante vitalità della coppia in corsa, l’esplosione di colori delle ali di Hermes, i gesti enigmatici degli aruspici torneranno a svolgere la funzione per cui sono stati creati: comunicare con il pubblico e trasmettere la voce degli artisti del passato”, ha dichiarato Maras, sin dall’inizio all’interno del gruppo di lavoro della Soprintendenza che ha studiato le lastre per renderle visibili al pubblico.
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