Torri piezometriche-Serbatori Idrici della Campagna Romana-Franco Leggeri Fotoreportage-Le prime torri piezometriche si fanno risalire all’Impero Romano, poiché la loro funzione, oltre ad avere un serbatoio come riserva per l’accumulo di acqua, è quella di, naturalmente, compensare la rete idrica in particolar modo lavorando per vasi comunicanti, proprio per ottenere una maggiore pressione nelle condutture rispetto alla pressione nella rete urbana dell’acquedotto.Negli schemi acquedottistici, spesso sono necessarie le torri piezometriche: in pratica sono delle vere e proprie “torri” composte da un serbatoio sollevato da terra grazie a tralicci, i quali possono essere in metallo o, molto più spesso, in muratura.Dal libro:Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana di Franco Leggeri.Foto Gallery dei Serbatori Idrici della Campagna Romana- Nord-Ovest–Castel di Guido-Residenza Aurelia di Castel di Guido- Borgo di Testa di Lepre- Serbatorio di Cecanibbio-
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Note
^ Il Catasto Alessandrino è un corpus di 426 mappe acquerellate voluto nel 1660 dal Presidente delle strade, regnante Alessandro VII, che dimostra lo stato delle proprietà fuori dalle Mura aureliane, organizzato secondo le direttrici delle strade consolari. Lo scopo era di assoggettare a contribuzione fiscale i proprietari dei terreni serviti dalle strade fuori le mura, per assicurarne la manutenzione. Il risultato, per noi moderni, è una rappresentazione fedelissima, minuziosa e pittoricamente assai interessante, della situazione dell’Agro romano al momento della sua stesura. Nelle piante vengono riportati anche costruzioni, monumenti, acque ecc., successivamente modificati e/o scomparsi, nonché informazioni sulle tenute. I documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, sono stati digitalizzati e sono accessibili in rete, dietro autenticazione.
Franco Leggeri-Fotoreportage dalla Campagna Romana-Preparazione del terreno per la semina del GRANO
La semina del granonella Campagna Romana avviene in autunno, ma la preparazione del terreno comincia un po’ tempo prima.Il primo passo è quello dell’aratura del campo dove vengono smossi piccoli canali di terra chiamati solchi. In seguito, utilizzando l’erpice il terreno viene spianato e le zolle di terra formatesi con l’aratura vengono sminuzzate e frantumate.L’operazione di semina viene fatta con la seminatrice, con la quale l’agricoltore depone i semi nei solchi precedentemente preparati, ricoprendoli poi con altra terra. Arrivato a maturazione, il grano viene raccolto con l’ausilio della mietitrebbia, il cui compito è quello di dividere i chicchi dagli steli della pianta, che vengono eliminati.
Avvicendamento del frumento
A partire dai primi anni dopo la seconda guerra mondiale la tecnica di coltivazione del frumento ha subito profonde trasformazioni grazie all’avanzamento della ricerca scientifica. Il miglioramento genetico, l’utilizzo di fertilizzanti (diserbanti, insetticidi e fungicidi) e il miglioramento dei mezzi agricoli hanno consentito lo sviluppo di varietà più produttive. Ma la sfida non si ferma, l’obbiettivo è quello di migliorare e trovare metodi di coltivazione e protezione delle piante, nell’ottica del risparmio energetico e della riduzione dell’impatto ambientale, non trascurando gli aspetti qualitativi e di salubrità dei prodotti.
Gli aspetti agronomici fondamentali che regolano la coltivazione del frumento, riguardano l’avvicendamento, la preparazione del terreno di semina, l’uso dei fertilizzanti per la difesa dai parassiti e dalle infestanti.
Gli antichi egizi furono tra i primi a capire che seminare sempre la stessa coltura con il tempo avrebbe provocato una “stanchezza del terreno”. Nel corso della storia si comprese che la rotazione delle culture fosse fondamentale per una resa ottimale della terra. Nell’Inghilterra della metà del ‘700 individuarono in modo scientifico come la rotazione quadriennale di determinate culture come rapa-orzo-trifoglio pratense-frumento) aumentassero il rapporto produttivo del frumento grazie all’azoto organico rilasciato nel terreno dal trifoglio pratense, specie appartenente alla famiglia delle leguminose.
Con l’avvicendamento del frumento, così come di qualsiasi altra specie erbacea, generalmente si ottengono produzioni maggiori e di migliore qualità.
Relativamente alla scelta delle colture da impiantare prima del grano, anche in Italia sono stati condotti numerosi esperimenti i cui risultati hanno consentito di definire da “rinnovo” la barbabietola da zucchero, la patata, il tabacco, il mais, il pomodoro e il girasole e “miglioratrici” il favino, l’erba medica, la fava, il pisello e la veccia. Il frumento ha mostrato la sua attitudine a sfruttare la fertilità che le leguminose lasciano nel suolo e la capacità che tale famiglia di piante ha nell’ostacolare la nascita e la crescita delle infestanti, anche se l’uso di concimi e le lavorazioni del terreno sono fondamentali.
Per quanto riguarda l’avvicendamento del grano con altri cereali, le esperienze condotte su mais e sorgo hanno evidenziato un effetto abbastanza favorevole sulla produttività del frumento, ma non della stessa entità raggiungibile con la semina di una coltura non cerealicola. Anche se il ringrano provoca effetti depressivi sulle rese di granella, nelle nostre regioni meridionali e insulari, spesso viene riseminato perché altre colture non trovano condizioni ambientali ed economiche tali da consentirne una conveniente coltivazione.
Nelle zone aride o semi-aride, risulta utile la tradizionale strategia di far precedere il frumento dal maggese.
Dopo il maggese, infatti, il cereale trova il terreno con una carica inferiore d’infestanti, una migliore disponibilità di elementi nutritivi derivanti dalla mineralizzazione della sostanza organica e una maggiore riserva di acqua, condizione che, nei climi aridi e semi-aridi, è adatta a rendere produttiva la coltivazione del grano nell’anno successivo.
Per quanto riguarda le problematiche legate all’avvicendamento, le specie da seminare prima del frumento devono essere selezionate anche in funzione dell’epoca di raccolta, poiché questa può limitare il tempo necessario per la preparazione del letto di semina del frumento. Infatti, nelle zone caratterizzate da un clima con frequenti piogge a fine estate o inizio autunno e in presenza di terreni argillosi, le colture estive con raccolta a fine stagione come il tabacco, il mais, il sorgo da granella, il riso e il girasole, possono rendere difficile la preparazione del terreno per la semina del frumento, a causa del compattamento del suolo bagnato in seguito al passaggio delle macchine di trebbiatura.
Lavorazione del terreno
Per poter procedere alla semina del frumento generalmente il terreno deve essere sottoposto a opportune lavorazioni, ma da circa ventanni però, è possibile eseguire anche la semina su “sodo”, cioè senza lavorare il terreno, grazie all’utilizzo della seminatrice. Le lavorazioni del terreno servono, essenzialmente, a fare in modo che il seme venga accolto e messo in condizioni innanzitutto di germogliare bene, quindi di fuoriuscire dal suolo e permettere l’ottimale sviluppo della piantina. Una volta che il terreno ospita al meglio il seme, deve essere anche abbastanza poroso da trattenere l’acqua e nello stesso tempo consentitire un’ottimale presenza e circolazione di gas quali ossigeno e anidride carbonica. La lavorazione del terreno varia per tipo, epoca e profondità, in base a diversi fattori, che possono essere la coltura precedente, le condizioni pedologiche e climatiche, generalmente si uniformano in base agli obiettivi economici e la qualità della granella. Ad ogni modo la scelta della lavorazione del terreno e della profondità, varia sempre in base alle necessità, che di solito coincidono con l’interramento dei fertilizzanti, dei residui colturali e con gli eventuali miglioramenti delle condizioni del terreno lasciate dalle colture precedenti.
Le lavorazioni si distinguono essenzialmente in principali e secondarie. L’aratura è la lavorazione principale e la più diffusa ancora oggi, di solito avviene in estate a una profondità di 20 e 25 cm in Italia settentrionale e centrale, mentre nel meridione oscilla tra 25 e 30 cm. In alcuni comprensori, allo scopo di correggere la struttura del terreno per favorire la regimazione idrica e l’aerazione del suolo, viene effettuata la lavorazione a due strati; in altre parole, si realizza prima una ripuntatura profonda 50-60 cm, utilizzando un ripuntatore, successivamente si ara a 25-30 cm. Le due operazioni possono essere eseguite contemporaneamente qualora si disponga di un araripuntatore. All’aratura seguono lavorazioni complementari come la frangizzollatura, l’erpicatura e la fresatura, che sono praticate con lo scopo di ottenere un letto di semina non zolloso, ben livellato, in cui il seme possa trovare le condizioni ottimali per germogliare e crescere al meglio. In alcune zone, si preferisce praticare arare in modo superficiale, a una profondità tra 10 e 15 cm, creando uno strato minimo adatto comunque alla nascita delle cariossidi e alla crescita delle piantine.
La semina su terreno sodo, accennata in precedenza, è molto diffusa grazie all’uso delle seminatrici che hanno dato buoni risultati in terreni non lavorati, specialmente in quelli dove era stata fatta una buona lavorazione per la coltura precedente. Questo sistema è adatto alle semine su terreni difficili, anche per colture raccolte tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, anche in condizioni di piogge frequenti. Questa semina è sicuramente più economica, perché non è eseguita nessuna lavorazione precedente del terreno, ma non è sempre consigliabile, sopratutto nel caso sia stato seminato precedentemente mais o sorgo. Infatti per il frumento seminato potrebbe rischiare una trasmissione di fusariosi, responsabili della contaminazione da micotossine nella granella. Inoltre, nel caso si scelga la semina su terreno non lavorato, è necessario predisporre la “pulizia del letto di semina” eliminando le piante infestanti nate dopo la raccolta della coltura precedente, con un trattamento diserbante.
-Preparazione del terreno per la semina del GRANO per uso Zootecnico-
CAMPAGNA ROMANA -11 ottobre 2022–Fotoreportage di Franco Leggeri– Preparazione del terreno per la semina del GRANO per uso Zootecnico- Lavorazione eseguita con un Trattore FIAT 140 sei cilindri che traina un erpice a disco frangizolle –
ROMA-Municipio XIII- Sito Archeologico MASSA GALLESINA
Fotoreportage di Franco Leggeri
Roma- 29 giugno 2018-Municipio XIII-MASSIMINA-MASSA GALLESINA-CASAL SELCE-
Fotoreportage di Franco Leggeri
PREMESSA-L’area fu oggetto di lavori d’indagini archeologiche preventive nel 2009, quando si era ipotizzato che in questa zona dovesse essere edificato lo Stadio della Roma.
Le foto allegate sono relative ai lavori del 2009 e alla situazione di oggi marzo 2017.Tutte le foto sono di Franco Leggeri.
Breve e sintetica storia del sito Archeologico MASSA GALLESINA a cura di Franco Leggeri.
Il territorio in esame è conformato come un vasto altopiano dalla superficie ondulata e in leggera pendenza , in cui i fossi e i torrenti hanno inciso i depositi sedimentari e vulcanici. Tutto il sistema idrografico fa capo al RIO GALERIA che scorre nell’omonima valle. I principali affluenti del Rio Galeria sono il Fosso della Questione in riva sinistra e dal Fosso della Selce in riva destra.
A)-L’insediamento storico area MASSA GALLESINA-
Tutte le foto sono di Franco Leggeri.
Dal punto di vista archeologico l’area in esame presenta siti databili dalla preistoria fino all’età medievale. La presenza umana è attestata già dal Paleolitico. Tutta l’area fu colonizzata dagli Etruschi che controllavano il corso d’acqua chiamato Careia ( da cui deriva il nome Rio Galeria), in epoca romana la zona , attraversata dalla via Cornelia, fu scarsamente popolata.
In età medievale successivamente alla crisi che travolse l’assetto territoriale tardoantico fra il V e VII secolo, seguì una fase di rinascita e riorganizzazione databile fra l’VIII e X secolo nella creazione delle domuscultae papali. In questa zona, infatti, nell’VIII secolo Papa Adriano realizzo la sua domusculta, una grande masseria per rifornire di frumento la Città di Roma; successivamente ; il sito fu trasformato da Papa Gregorio VII che vi fece costruire un Castello adibito a Villa e Fortilizio, oggi perduto. Fu soprattutto il dinamismo economico dei secoli XII-XIII ad incrementare la nascita di numerose aziende agricole (denominate casalia), tra le quali il Nibby ricorda la tenuta di Massa Gallesina, confinante con le tenute di Selce e Maglianella.
Massa Gallesina è una tenuta fuori delle porte San Pancrazio e Cavaleggeri a sinistra della via Aurelia , la quale appartiene a San Rocco e al principe Massimi, e va unita coll’altro fondo detto Pedica Maglianella. Comprende rubbia 147 (1)e confina con le tenute di Pedica Maglianella Sant’Ambrogio, Fontignano, Casale della Morte, Massimilla, Castel di Guido, Casal Selce e Maglianella. La tenuta è divisa nei quarti di Pedica Maglianella, Casale, Ara e Monte Rotondo. Il suo nome attuale è di origine incerta, ma forse una parte di essa , se non tutta, fu compresa nei feudi denominati nel secolo VIII Gratiniano, Rosario, Canneolo e Casale Mimilliarolo esistenti , secondo Cencio Camerario, presso la via Aurelia a 5 miglia distante da Roma, circostanza che col sito della tenuta di Massa Gallesina si accorda.
(1)una rubbia equivale a 18884 mq, ovvero quasi due ettari.
C) CATASTO ANNONARIO –Roma 1783- Agrimensori: PIETRO PAOLO e ANGELO QUALEATI,LUIGI CLERICI,GIOVANNI MEDIANTE,DOMENICO CAPPELLETTI e FILIPPO PEROTTI.
Nel Catasto annonario pubblicato in Roma nel 1803 dal titolo MEMORIE, LEGGI, ED OSSERVAZIONI SULLE CAMPAGNE E SULL’ANNONA DI ROMA (Parte Prima)
Autore -Nicola Maria Nicolaj.
Le tenute di MASSIMILLA, MASSA GALLESINA e PEDICA MAGLIANELLA. Per queste tenute come anche per le altre appresso, passa la celebre via Aurelia . Di questa via fa menzione Cicerone nell’Orazione contro Catilina, il quale per questa strada partì da Roma per congiungersi in Toscana con Manlio. Cicerone additava questa strada agli altri congiurati, perché sortissero dall’agitata Città. “ Unum etiam nunc concedam:exeant, procifiscatur, ne patiantur desiderio sui Catilinam misere tabascere. Demonstrabo ier; Aurelia via profectur est:si accelerare volent, ad vesperam consequetur.” Furono anche nella via Aurelia gli ORTI di GALBA (Lorium) , ove fu anche sepolto questo Imperatore. Dei vari tratti e diramazioni della via Aurelia o piuttosto delle molte strade , quale più, quale meno antica, chiamate con questo nome , si possono vedere gli antiquarj. Non men celebre è la via Aurelia pe’ i Cimiteri de’ SS.Martiri. Presso questa strada si enuncia quella de’ SS. Processo e Martiniano i quali in occasione del martirio de’ SS. Apostoli Pietro e Paolo, convertiti e condotti al supplizio nella via Aurelia, accompagnati e scortati dalle illustre femmina Lucina, furono poi in una possessione di lei sepolti. Ma il loro Cimitero si confonde forse con quello di Sant’Agata. Più vicino a Roma si ammira tuttora il Cimitero di San Calepodio, ove fu sepolto San Calisto Papa, San Pancrazio e poi anche il Pontefice San Giulio e per questo una parte di Cimitero si trova anche nominato di San giulio. Grande è la sua ampiezza sotto diverse Tenute e Vigne; è scavato molti piedi sotto terra nel tufo con moltissimi giri larghi , ed alti quanto un uomo vi possa comodamente camminare . Da ogni parte vi sono sepolture . Vi sono alcuni cunicoli , in uno dei quali sorge una vena di limpidissima acqua, la quale nei tempi delle persecuzioni ai Cristiani che quivi stavano nascosti e vi facevano le loro orazioni, veglie ed altre sacre funzioni, doveva servire non tanto per bere , quanto per uso del Battesimo: onde ancora oggi quest’acqua si ha in gran devozione. Sopra questo Cimitero è la Chiesa di San Pancrazio edificata da San Simmaco Papa, e parte anche della Villa Pamphilj la quale Villa è inclusa la Tenuta.
D) MASSA GALESINA-PEDICA MAGLIANELLA- Di pertinenza della Veneranda Chiesa di San Rocco e del Signor Marchese Massimi delle Colonne. Queste due tenute anche se una volta fra di loro erano separate e distinte formano ora un solo Corpo ed una sola Tenuta confinante con le Tenute della Pedica Maglianella del Venerando Monastero di Sant’Ambrogio, di Fontignano, di Casal della Morte, di Massimilla, di Castel di guido, della Selce dei SS. Domenico e Sisto e della Maglianella del Venerabile Capitolo di Sant’Angelo in Pescheria.
E) Tenuta e CASAL di SELCE-Il Casale prende il nome dall’originario proprietario Andre de Silice, che nel 1227 lo vendette alla Basilica di San Pietro. Successivamente , il CASALE SILICIS fu affidato e ceduto più volte. Attualmente si compone di una serie di piccoli fabbricati , notevolmente rimodernati, che non recano tracce visibili di costruzioni medievali. In un disegno de Catasto Alessandrino il Casale Silicis è rafficurato come composto da due piccoli edifici fiancheggiati da altrettante torrette , una delle quali aveva tre piani. Casal Selce costituiva, quasi certamente, una delle vedette preposte alla sorveglianza del Castello di MALAGROTTA.
Le foto allegate sono relative ai lavori del 2009 e alla situazione di oggi marzo 2017.Tutte le foto sono di Franco Leggeri.
Roma- Municipio XIII, Quartiere Casalotti-Le Catacombe della via Boccea-
Franco Leggeri Fotoreportage –
Il Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina, recentemente scomparso, ha riportato al culto dei fedeli e all’attenzione degli archeologi le Catacombe dei Santi martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC- Il 19 gennaio 1994 ,festa di San Mario, il Mons. Diego BONA guidò una processione di circa 500 fedeli verso le Catacombe ripristinando così un’antica tradizione popolare che si era persa nel corso degli anni. Nei pressi delle Catacombe vi è una piccola chiesetta dedicata a San Mario e Marta, eretta nel 1700 e restaurata nel 1871. In questa chiesetta ,nel 1909, il giovane sacerdote Don Giuseppe RONCALLI, futuro papa Giovanni XXIII- il Papa Buono, venne a celebrare la messa in memoria del fratello Mario. Papa Giovanni XXIII amava la via Boccea e la Campagna Romana durante le sue escursioni egli si deliziava nel gustare “ la buona ricotta di Boccea” che Gli veniva offerta dai pastori romani. A ricordo della presenza in questi luoghi di Papa Giovanni è stata posta in essere, nel 2004, una epigrafe marmorea nella chiesetta di Santa Maria sita all’interno del Castello della Porcareccia nel quartiere Casalotti.
Breve Storia dei Santi MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC.
Ultimo santuario della via Cornelia era quello dei martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC. Nel Martirologio Geronimiano sono ricordati il 16 e 20 gennaio. Sembrerebbe che il vero dies natalis fosse il 20 gennaio, in cui sono stati commemorati nel Sacramentario Gelasiano antico ( Saccr.Gel.,p.131; nel Gelasiano di S.Gallo invece sono anticipati al giorno 19 e vi mancano ABACUC e AUDIFAX (Gel. S. Gallo, p.20) .Di questi Martiri non si hanno notizie sicure.Secondo la passio (Acta SS. Gennaio, II, Parigi, 1863, pp. 578-583.) Mario e Marta erano nobili persiani; al tempo di Claudio il Gotico vennero a Roma , insieme con i figli Abacuc e Audifax per venerare i sepolcri degli Apostoli e aiutare i carcerati per la Fede.Arrestati a loro volta furono condannati dal prefetto Musciano e condotti sulla “ via Cornelia miliaro tertio decimo ad Nymphas Catabassi”: Mario, Abacuc e Audifax furono “decollati sub arenario” e i loro corpi bruciati; Marta invece “in Nympha necata est”. La Matrona Felicita raccolse i resti dei primi tre, Mario,Abacuc e Audifax, ed il corpo di Marta dal pozzo in cui era stato gettato, e li seppellì “ sub die tertio decimo Kalendas febraurium” (B.SS.VIII, p.165. Dall’indicazione topografica “ ad Nymphas” è nata la fantomatica martire Ninfa-cf.B.SS.,IX,p.1009).
I corpi dei Martiri sarebbero stati trasferiti da Papa Pasquale I nella Basilica di S. Prassede ( Lib. Pont.II, p. 64.).
Franco Leggeri Fotoreportage-Foto Gallery e Articolo sono di Franco Leggeri-
Attilio Bertolucci:C’è un proverbio che dice: “Dovrebbe sempre essere settembre”. Settembre ,un mese mite, dolce, venato appena di nostalgia, di una sottile malinconia. Un mese che i poeti come Attilio Bertolucci sentono vicino al loro cuore-Poesie di :Antonia Pozzi,Attilio Bertolucci,Luigi Pirandello,Leonardo Sciascia,Hermann Hesse,Grazia Rombolini,Forough Farrokhzad, Gabriele D’Annunzio.
ATTILIO BERTOLUCCI, “Sirio”, 1929
SETTEMBRE
Chiaro cielo di settembre
illuminato e paziente
sugli alberi frondosi
sulle tegole rosse
fresca erba
su cui volano farfalle
come i pensieri d’amore
nei tuoi occhi
giorno che scorri
senza nostalgie
canoro giorno di settembre
che ti specchi nel mio calmo cuore.
SETTEMBRE
Boschi miei
che le nuvole del settembre
lente percorrono
mentre le prime foglie
crollano giù dai rami
e adunano umidore per i sentieri
intanto che nel cielo
gli alberi si denudano —
così come di sera
quando cadono le ombre
giù dalle cime
s’incupisce la terra
e in alto si rivelano
i disegni dei monti
e delle stelle —
miei boschi
vi è tanta pace
in questa vostra muta
rovina
che in pace ora alla mia
rovina penso
e sono come chi
stia sulla riva di un lago
e guardi miti le cose
rispecchiate dall’acqua
“Settembre” di Luigi Pirandello
Le speranze se ne vanno
come rondini a fin d ’anno:
torneranno?
Nel mio cor vedovi e fidi
stanno ancora appesi i nidi
che di gridi
già sonaron brevi e gaj:
vaghe rondini, se mai
con i raj
del mio Sole tornerete,
le casucce vostre liete
troverete.
Pioggia di settembre, Leonardo Sciascia
Le gru rigano lente il cielo,
più avido è il grido dei corvi;
e il primo tuono rotola improvviso
tra gli scogli lividi delle nuvole,
spaurisce tra gli alberi il vento.
La pioggia avanza come nebbia,
urlante incalza il volo dei passeri.
Ora scroscia sulla vigna, tra gli ulivi;
per la rabbia dei lampi preghiere
cercano le vecchie contadine.
Ma ecco un umido sguardo azzurro
aprirsi nel chiuso volto del cielo;
lentamente si allarga fino a trovare
la strabica pupilla del sole.
Una luce radente fa nitido
Il solco dell’aratro, le siepi s’ingemmano;
tra le foglie sempre più rade
splende il grappolo niveo dei pistacchi.
Settembre di Hermann Hesse
Triste il giardino,
cade la fresca pioggia sui fiori
L’Estate trema
tranquillamente verso la fine.
Gocciola una dopo l’altra una foglia d’oro
giù dalla grande acacia.
L’estate sorride con stupore e nostalgia
nel sogno del Giardino morente.
S’attarda tra le rose,
Si ferma desiderosa di pace;
Lentamente chiude i suoi [grandi] occhi pesanti di stanchezza.
****************
September, Hermann Hesse
Der Garten trauert,
kühl sinkt in die Blumen der Regen.
Der Sommer schauert
still seinem Ende entgegen.
Golden tropft Blatt um Blatt
nieder vom hohen Akazienbaum.
Sommer lächelt erstaunt und matt
in den sterbenden Gartentraum.
Lange noch bei den Rosen
bleibt er stehn, seht sich nach Ruh.
Langsam tut er die großen,
müdgewordenen Augen zu.
“Ecco arriva settembre, mese dolce e propizio, di piogge a colorare i prati e di dolci frutti della terra.
Amo settembre, il sole è ancora caldo, si respira ancora aria di gioia e vacanza e qualcosa mi sussurra di sognare e reinventarmi, quasi fosse un nuovo inizio. E’ settembre.”
Settembre
Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
sì, la saluterò
la saluterò di nuovo.
Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.
Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natia
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestio, dolci romori.
Ah perché non son io cò miei pastori?
“Settembre, andiamo. È tempo di migrare.” Il primo giorno di settembre porta con sé la promessa di un nuovo inizio, il che si collega direttamente all’idea di movimento e alla prospettiva di avanzare in una direzione ben precisa.
In un solo verso della poesia I pastori, Gabriele D’Annunzio, il poeta vate, è riuscito ad esprimere entrambe queste sensazioni tipicamente settembrine: l’inizio e il movimento, tramite l’accostamento di due verbi “andare” e “migrare” che appaiono quasi sinonimici, eppure esprimono due moti differenti. L’uso dell’imperativo “andiamo” riflette la necessità di muoversi, di spostarsi, appare come una chiamata alle armi: levatevi, alzatevi, sottintende un incitamento. L’infinito “migrare” invece rimanda all’idea dell’erranza e al proposito della ricerca di un luogo più accogliente, quindi, in breve, al cambiamento.
Nel verso di apertura della lirica I pastori, D’Annunzio esprime una sorta di “passaggio di stato”: dalla stasi al moto, dalla pace alla irrequietezza, tutte sensazioni che, a ben vedere, la fine dell’estate porta con sé.
Settembre è iniziato, è tempo di andare; ciascuno torni alle attività consuete nella stagione che porta il profumo dell’uva matura evocando il tempo della raccolta e della vendemmia.
La poesia I pastori (il cui titolo originale era I pastori d’Abruzzo, Ndr) fu scritta da Gabriele D’Annunzio nel 1903 ed è contenuta nell’ultima sezione dell’Alcyone intitolata Sogni di terre lontane. La raccolta Alcyone rappresenta il vertice massimo della poetica d’annunziana e si presenta come un’autentica celebrazione della natura: nelle cinque sezioni dell’opera infatti il poeta descrive il trionfo della primavera sino all’arrivo dell’autunno. I pastori, ambientata nel tempo mite di settembre che preannuncia l’imminenza della stagione autunnale, rappresenta una delle liriche conclusive.
I pastori di Gabriele D’Annunzio: parafrasi
Settembre è arrivato, è ora di partire.
Adesso, in Abruzzo, i pastori, miei conterranei, lasciano i pascoli montani e scendono verso il mare:
si dirigono verso il mar Adriatico in burrasca che appare verde come i pascoli montani. Lungo il cammino hanno assaporato la dolce acqua delle montagne che ha il sapore delle loro terre e resterà nei loro tristi cuori di migranti per confortarli, affinché la loro nostalgia (della terra natia) sia meno dura.
I pastori hanno fabbricato nuovi bastoni di legno di nocciolo e ora camminano per il sentiero antico che conduce verso la pianura, quasi fosse un fiume d’erba silenzioso, seguendo le orme lasciate dai loro antenati.
È gioiosa la voce di colui che per primo scorge in lontananza il tremolio delle onde del mare. Ora il gregge procede lungo la costa. Il vento tace, mentre il sole si riverbera dorato sul mantello delle pecore, rendendolo di un colore simile alla sabbia.
Il movimento delle onde si accompagna al lento calpestio del gregge, sono rumori dolci.
Ah, perché io non sono con i miei pastori?
I pastori di Gabriele D’Annunzio: analisi e commento
Nella lirica I pastori, Gabriele D’Annunzio compone un idillio pastorale che sembra riflettere lo schema classico, seguendo la tradizione delle Bucoliche virgiliane. Come non associare ai pastori cantati da D’Annunzio, Titiro e Melibeo, i protagonisti della prima ecloga di Virgilio? Anche i pastori abruzzesi di D’Annunzio, proprio come Titiro, sono costretti a partire: ma il loro non sarà un esilio senza ritorno.
La lirica d’annunziana è pervasa da un sentimento di struggente nostalgia, che sembra ben accostarsi ai dolci moti dell’aria di settembre che segna la fine dell’estate. L’imminenza dell’autunno rievoca nel cuore del poeta vate la nostalgia e l’affetto per la propria terra natale, l’Abruzzo. Riportando in vita una delle tradizioni più antiche della propria terra, la pratica della transumanza, D’Annunzio sembra rispondere a questo nostalgico richiamo d’amore.
In quattro strofe in versi endecasillabi il poeta ritrae passo passo il cammino dei pastori che come ogni anno, seguendo una pratica antica, con l’arrivo del vento d’autunno abbandonano i pascoli montani per dirigersi verso le aree costiere. La lirica è chiusa significativamente da un endecasillabo finale, che appare isolato e distaccato dagli altri versi, e ci restituisce intatta la nostalgia del poeta tramite l’emergere della voce dell’Io lirico che improvvisamente si intromette nel canto con un grido accorato: “ah, perché io non sono con i miei pastori?”.
La poesia si apre con un’esortazione: l’invito a partire è dato dall’imperativo “andiamo”. Seguono quindi tutte le varie fasi del viaggio: dalla preparazione (i pastori si abbeverano alle fonti montane e forgiano i bastoni, Ndr) sino al cammino dai monti verso il mare. L’arrivo dei pastori alla meta viene descritto come un momento di quiete, riflette una pace idilliaca: il sole risplende sul manto delle pecore e il loro lento scalpiccio si accompagna allo sciacquio delle onde marine.
D’Annunzio evoca una serie di suoni onomatopeici che si riflettono nelle orecchie dei lettori come dolci rumori familiari, suoni che ci restituiscono l’atmosfera accogliente e piena di grazia di settembre. Ogni nuovo inizio possiede un suono dolce, d’altronde, e ci ricorda che la vita è un continuo “incominciare”.
I pastori di Gabriele D’Annunzio: figure retoriche
Apostrofe: la poesia si apre con un’esortazione “Settembre, andiamo”
Allitterazioni: numerose le allitterazioni dei suoi r e l che danno il ritmo alla poesia. Nel primo verso in particolare la ripetizione del suono “r” produce una ripetizione confortante che suggerisce la presa mnemonica del verso “settembre; migrare; ora; terra”.
Personificazione: il mare Adriatico viene definito “selvaggio” come un uomo straniero o un animale non ancora domato.
Similitudini: il mare è verde come i pascoli dei monti; la lana del gregge è dorata come la sabbia.
Metafora: “erbal fiume silente”, l’erba calpestata dai pastori appare come un fiume silenzioso in cui non s’ode neppure il lento sciabordio dell’acqua. Nel componimento sono frequenti i simboli e le analogie tra i pascoli e il mare.
Onomatopee: “isciacquio; calpestio” sono espressioni che evocano suoni.
Sinestesia: l’espressione “dolci rumori” produce l’accostamento di due sfere sensoriali diverse, quella uditiva e quella del gusto.
Epifrasi: nell’endecasillabo finale, definito dalla domanda retorica “perché io non sono con i miei pastori?” è racchiuso il senso dell’intero componimento, ovvero la nostalgia del poeta che ha dato origine al canto.
ROMA Municipio XIII–Castel di Guido – 9 settembre 2022-Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri-Le prime notizie del ponte sull’Arrone si hanno già in un documento dell’XI secolo dove viene citato un “Pons de Arrone”, mentre in una bolla papale del 1019 è citato un “pons marmoreus qui est super Arronem”; si ha notizia del rinvenimento, nelle vicinanze, di una lapide la quale testimonia che un certo “Dorus Latro” aveva restaurato le sponde del fiume, come si legge nella scheda 35 del Quilici .
Bibl.: La via Aurelia, scheda 35 ; Quilici, scheda 315; Brunetti Nardi, op.cit.,II,pag.64.
-Notizie Storiche del Fiume ARRONE-
Fiume della Comarca, il quale ha origine dal lago di Bracciano, essendo l’emissario naturale, e si scarica nel mare presso Maccarese. Esce dal lago a settentrione della Terra dell’Anguillara : passa sotto il ponte la Trave serve di limite ai tenimenti di Camoscie e Quarto s.Saba : traversa la via Claudia dopo la Osteria Nuova verso il XIV. Miglio da Roma: scorre sotto il Castello di Galera in un letto molto profondo, servendo di confine al tenimento di questo nome ed a quello di Centrone: traversa quelli di Monte Mario, e Buccèa: passa fra quelli di Testa di Lepre , Torrimpietra, Castel di Guido, e finalmente entra in quello di Maccarese, dove dopo aver servito allo irrigamento de’ campi entra in mare. Il ponte a due archi, sotto il quale attraversa la via Aurelia dopo Castel di Guido è antico e di massi quadrilateri. Quantunque negli scrittori greci e latini non si faccia menzione di questo fiume , null’altro il suo nome risente la origine etrusca, derivando probabilmente dalla stessa radice di ARUNS. Col nome di ARRONE viene ricordato l’anno 1053 in una bolla di Leone IX, nella quale fra i confini dei fondi Camelianum ,Olibula , Angellum, Pinum, Camaranum, Lauretum ec. Si pone così: a quarto (latere)rivum qui vocatur Arrone positum in territorio Galeriae . Veggasi il Bullarium Vaticanum T.L.
Si può vedere(foto allegate) il vecchio ponte dell’Arrone , ormai in disuso , il quale conserva il suo selciato originale .Nel parapetto si trova incorporato un blasone nobiliare medievale in marmo, mentre sono ancora visibili le vecchie paratie metalliche , vera archeologia industriale, le quali servivano per regolare il flusso dell’acqua destinata all’irrigazione della campagna circostante.
Lungo la strada che conduce a Fregene , sulla sinistra ,si vede il laghetto di “Mezzaluna” ed è proprio qui che Guido, Duca di Spoleto, condusse alla vittoria, contro i Saraceni nell856 d.C., le “milizie di Campagna” come le definì lo storico Prudenzio da Troyes.
-CURIOSITA’-
I volontari della Protezione Civile di Castel di Guido ,Capitanata dal Fondatore Attilio ZANIN, durante un lavoro di bonifica del canale di gronda dell’Aurelia che sversa le acque meteoriche nell’Arrone al Bivio di Fregene, hanno effettuato un lavoro di recupero molto interessante cioè quello di riportare alla “luce” le vecchie “CASEMATTE”. Queste strutture in c.a. furono costruite durante l’ultimo conflitto al fine di difendere Roma da possibili attacchi e neutralizzare l’avanzata di colonne motorizzate lungo la via Aurelia. Nota di colore sulla “CASAMATTA “. In una di queste strutture vi ha prestato servizio di guardia il musicista romano ARMANDO TROVAJOLI autore ,tra le altre melodie. della rivista musicale RUGANTINO .
Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri-per Ass.ne CORNELIA ANTIQUA
Origine e diffusione-Franco Leggeri Fotoreportage-La Maremmana è conosciuta come la razza della maremma toscana e laziale, e discende dal Bos Taurus Macroceros, il bovino dalle grandi corna (razza grigia della steppa) che dalle steppe asiatiche si è diffuso in Europa. I reperti archeologici di Caere (Cerveteri) e la testa taurina del museo di Vetulonia sono la conferma che la razza Maremmana occupava le attuali aree di allevamento (maremma toscana e laziale) fin dai tempi degli Etruschi. Nel tempo i bovini sono stati poi esportati in varie zone e diversi Paesi. Ad esempio, i Granduchi di Toscana esportavano i tori maremmani nei loro possedimenti in Ungheria per rinsanguare la razza Pustza. Con la progressiva bonifica dei terreni paludosi, la razza ebbe un notevole impulso tra le due guerre mondiali, grazie anche ad una intensa opera di selezione. La Maremmana in passato era una razza “da lavoro” e “da carne” ed il secondo dopoguerra, contraddistinto dalla meccanizzazione agricola e dalla riforma agraria, è stato l’evento che ha portato alla sua diminuzione in termini numerici. Oltre ciò, anche gli incroci hanno ulteriormente ridotto il numero dei capi in purezza.
Oggi continua il mantenimento e la valorizzazione della razza Maremmana che è conosciuta come “razza da carne”, ma anche come simbolo di biodiversità.
Questa razza è diffusa maggiormente nella sua culla d’origine, ovvero nelle regioni Lazio e Toscana, in particolare nelle province di Grosseto, Viterbo, Roma, Terni, Latina, Pisa, Livorno e Arezzo, ma possiamo trovare bovini maremmani, in minor numero, anche in altre regioni, come Marche, Umbria, Basilicata e Puglia. L’interesse verso questa razza è cresciuto anche da parte di operatori stranieri, in particolare spagnoli e centro americani, che vedono nella Maremmana il mezzo ideale per la valorizzazione di ambienti particolarmente difficili.
L’allevamento è di tipo brado: gli animali vivono all’aperto per tutto l’anno, riparandosi nelle macchie durante l’inverno. Le mandrie al pascolo vengono gestite, ancora oggi, dai butteri in sella ai cavalli maremmani. In primavera avviene la marcatura a fuoco dei soggetti di 1 anno e le vacche vengono imbrancate con i tori. La stagione delle monte dura circa 3 mesi: vengono formati dei gruppi di monta in cui il toro viene inserito con un rapporto di 1:20/30. Riguardo l’alimentazione, oltre all’erba di pascolo e ghiande dei boschi, vengono integrati fieno e granaglie; i bovini maremmani può essere somministrato anche foraggio di qualità inferiore.
Associazione allevatori
Nel 1957 è stata fondata l’Associazione Nazionale Allevatori Bovini da Carne (ANABIC) con sede a S. Martino in Colle (PG), che promuove il miglioramento genetico, valorizza e diffonde le razze bovine autoctone italiane (Marchigiana, Chianina, Romagnola, Maremmana e Podolica) e detiene il Libro Genealogico Nazionale unico delle Razze Bovine Italiane da Carne, il cui Regolamento fu approvato nel 1969. L’associazione partecipa anche alle iniziative di carattere promozionale e divulgative, collabora ai programmi di ricerca degli Organismi statali competenti ed Università, e fornisce l’assistenza tecnica agli operatori stranieri interessati ad allevare le Razze Italiane.
Consistenza
I capi di razza maremmana iscritti all’ANABIC* sono 11593. Le regioni più rappresentative della razza sono quelle d’origine: il Lazio (con 8844 capi e 168 allevamenti) e la Toscana (con 2543 capi e 65 allevamenti). E’ diffusa anche in altre regioni italiane come Basilicata (con 93 capi e 5 allevamenti) e Puglia 8con 86 capi e 3 allevamenti).
Secondo i dati della BDN – Anagrafe Nazionale Zootecnica (aggiornati al 31/12/2020), che include anche i capi iscritti, in Italia sono allevati 14785 bovini di razza Maremmana. Nel dettaglio, in base alla categoria di animali sono così suddivisi in: 809 da 0 a 6 mesi, 2059 da 6 a 12 mesi, 1715 da 12 a 24 mesi, e 10202 da 24 mesi in su. In particolare, nel Lazio sono presenti 10269 capi ed in Toscana 3468, in totale.
Caratteristiche morfologiche
I bovini maremmani sono di taglia grande e sono caratterizzati da elevata rusticità, solidità, robustezza scheletrica e tonicità muscolare. Inoltre, sono longevi e raggiungono anche i 15-16 anni di età.
Di seguito sono riportate le caratteristiche morfologiche indicate dallo “standard di razza”.
La grande struttura ossea è leggera, gli arti sono molto solidi, gli unghioni sono duri, gli appiombi sono generalmente perfetti ed i piedi sono forti e ben serrati, con talloni alti. La capacità addominale è idonea a contenere alimenti a bassa digeribilità, e il dorso è lungo e largo. La pigmentazione è nera nelle parti del musello, fondo dello scroto, nappa della coda ed unghioni. La persistenza di peli rossi è limitata alla regione del sincipite, la coda è grigia e la depigmentazione è parziale nelle aperture naturali. La cute è fine, elastica e nera. La testa è leggera, con musello ampio.
Il dimorfismo sessuale in questa razza è rappresentato dal colore del mantello e dalla forma delle corna. Il mantello è di colore grigio, più scuro nei tori e più chiaro nelle vacche. Le corna sono un tratto caratteristico della razza: a forma di semiluna nei maschi ed a forma di lira nelle femmine; negli adulti il colore delle corna è bianco-giallastro alla base e nero in punta.
Maschi: per i tori il peso medio è di 10-12 quintali e l’altezza media è di 150 cm. Hanno il mantello grigio scuro. Il collo è ben proporzionato e muscoloso con giogaia sviluppata; il profilo superiore è marcatamente convesso.
Femmine: per le vacche adulte il peso medio è di 6 – 8 quintali e l’altezza media è di 145 cm. Le bovine hanno il mantello grigio chiaro, il collo è lungo e leggero con giogaia sviluppata, e il profilo superiore è più rettilineo. La mammella appare sviluppata e vascolarizzata, con tessuto elastico e spugnoso, quarti regolari e con capezzoli ben diretti e di giuste dimensioni per l’allattamento. I parti sono spontanei e sono concentrati in primavera. Le vacche possiedono una spiccata attitudine materna ed assicurano una produzione di latte abbondante per l’accrescimento giornaliero del vitello ( > 1 kg).
I vitelli nascono con i mantello color fromentino che, dopo 3 mesi d’età, diventa grigio. Alla nascita pesano 30-40 kg e rimangono con la madre fino ai 6/7 mesi d’età. Vengono poi svezzati e venduti, oppure rimangono in azienda per l’ingrasso.
*(dati ANABIC aggiornati al 31/12/2020): le consistenze del Libro Genealogico includono sia gli animali iscritti ai Registri Principali Vacche e Tori, che hanno almeno due generazioni di ascendenti note (definiti dalla normativa comunitaria “di razza pura”), sia quelli iscritti al Registro Supplementare Vacche ed al Registro del Giovane Bestiame, che, pur appartenendo alla razza ed essendo iscritti al Libro, non possiedono una genealogia completa fino alla seconda generazione.
Fonte-Rivista online: RUMINANTIA®Web Magazine del mondo dei Ruminanti
-Il sorgere del sole ultimi giorni di agosto 2022 –
Fotoreportage di Franco LEGGERI
Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 – Fotoreportage di Franco LEGGERI-citando il Poeta Johann Wolfgang von Goethe che così dipinse la nostra Campagna Romana: “Armonia eterea, delle ombre chiare e azzurre, fuse nel vapore che tutto avvolge in una sinfonia di trasparenze lucenti”
Campagna Romana-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Etimologia
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Note
^ Il Catasto Alessandrino è un corpus di 426 mappe acquerellate voluto nel 1660 dal Presidente delle strade, regnante Alessandro VII, che dimostra lo stato delle proprietà fuori dalle Mura aureliane, organizzato secondo le direttrici delle strade consolari. Lo scopo era di assoggettare a contribuzione fiscale i proprietari dei terreni serviti dalle strade fuori le mura, per assicurarne la manutenzione. Il risultato, per noi moderni, è una rappresentazione fedelissima, minuziosa e pittoricamente assai interessante, della situazione dell’Agro romano al momento della sua stesura. Nelle piante vengono riportati anche costruzioni, monumenti, acque ecc., successivamente modificati e/o scomparsi, nonché informazioni sulle tenute. I documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, sono stati digitalizzati e sono accessibili in rete, dietro autenticazione.
Il Borgo di TRAGLIATA-La Storia di Tragliata in pillole-Franco Leggeri Fotoreportage–Al km 29 della Via Aurelia, tra Torrimpietra e Palidoro, sulla destra, in direzione delle colline, si dirama la Via del Casale Sant’Angelo, che porta verso Bracciano.Percorrendo questa strada che si snoda in aperta campagna tra i grandi poderi coltivati o lasciati a pascolo per bovini e ovini, sulla destra al km 8,5 si diparte la via di Tragliata che porta al castello omonimo per terminare dopo pochi chilometri al crocevia con la Via di Santa Maria di Galeria, Via dell’Arrone e la Via di Boccea. Il toponimo di Tragliata, riportato in antichi documenti come Talianum o Taliata, sembra derivare da “tagliata”, nome dato ai sentieri scavati nel tufo di origine etrusca. Il Castello di Tragliata-Località molto suggestiva, abitata fin dall’antichità più remota, come testimoniato da ritrovamenti etruschi e romani inglobati nelle costruzioni successive. Il castello, eretto tra il IX e il X secolo, aveva una funzione di difesa e di avvistamento ed era collegato visivamente con altre torri circostanti, come la vicina Torre del Pascolaro; trasformato successivamente in un grande casale ad uso abitativo ed agricolo, in alcuni tratti si possono notare avanzi di muratura precedente appartenenti alle opere di sostegno del fortilizio. Allo stato attuale, Tragliata si presenta come un borgo in magnifica posizione elevata, situato com’è su di una specie di rocca isolata in mezzo alla vallata del Rio Maggiore, ed è costituito da vari fabbricati che si affacciano su di un grande spazio erboso.I fianchi della collina sono scavati in più parti dalle tipiche grotte, utilizzate nel corso dei secoli come magazzini o ricovero di animali. Di proprietà privata, il castello è stato recentemente convertito in azienda agrituristica adibita a ricezione. Interessanti i grandi silos sotterranei di epoca etrusca utilizzati per la conservazione dei cereali.
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Franco Leggeri Fotoreportage-Chiesa Cattedrale Diocesi di Porto e S.Rufina-
STORIA del cinquantenario della Cattedrale dei Sacri Cuori di Gesù e Maria a la Storta.
-Nel 1957 – CINQUANTA ANNI FA…-
2007-il 27 ottobre,Il servo di Dio Papa Pio XII,
Visitava la Chiesa Cattedrale dei Sacri Cuori di Gesù e Maria a la Storta.
La Diocesi Suburbicaria di Porto – Santa Rufina, per desiderio e volontà del suo Pastore, il Vescovo Mons. Gino Reali, si appresta a ricordare il 50° anniversario della visita di Papa Pio XII alla Chiesa Cattedrale Diocesi di Porto e S.Rufina, avvenuta il 27 ottobre 1957.
La visita del Pontefice fu un avvenimento – eccezionale per quel tempo – che merita di essere ricordato in modo particolare.
Il Vescovo invitando l’intera Diocesi a celebrare il 50° sottolinea l’importanza del ricordo di quell’ evento come
Occasione per rendere grazie al Signore per aver donato alla Chiesa il “Pastor Angelicus”, il Papa della modernità e del grande Magistero.
Occasione per noi che ci obbliga ad uno speciale ricordo e senso di gratitudine verso un Papa che, attraverso il ministero dell’allora Vescovo, Sua Em.za il Cardinale Eugenio Tisserant, ha dimostrato verso la nostra Diocesi paterna condiscendenza e bontà.
E’ ancora occasione per ricordare e riconoscere la figura del grande Pontefice Pio XII di cui Sua Em.za il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha detto: “Oggi, liberida pregiudizi, si può riconoscere la grandezza e la completezza della figura di Papa Pacelli, la sua umanità e rivalutare il suo magistero”.
Le celebrazioni in programma dal 23 al 28 ottobre prevedono:
-Il 23 alle ore 20.30 : Conferenza: Tavola rotonda – ( partecipano: Padre Federico Lombardi, Tornielli Andrea, Di Giacomo Filippo )
-Il 26 alle ore 20.30 : concerto polifonico in Cattedrale: “Te Deum dentro la storia della Cattedrale”, diretto d’Alvaro Vatri.
-Il 27 alle ore 20.30 : proiezione del filmato documentario: “Pio XII il Principio di Dio” di Luigi Bizzarri, presentato dello stesso autore.
-Inoltre, Domenica 28 una Solenne Concelebrazione Eucaristica, presieduta del Vescovo Mons. Gino Reali.
La visita di Papa Pio XII alla Chiesa Cattedrale di Porto – S. Rufina nel lontano 1957 venne quasi a conclusione del lungo e travagliato percorso compiuto nel dare alla Diocesi, dopo secoli, e finalmente nel suo territorio, la propria Chiesa cattedrale.
E’ bene qui ricordare le varie tappe e fasi succedutesi nella progettazione e costruzione della Cattedrale dall’inizio nel 1923 fino alla sua consacrazione nel 1950, cui seguì la visita del Papa nel 1957.
UN PO’ DI STORIA
1 – La cattedrale “ prima della Cattedrale “ (1926-1946)
a cura di Alvaro VATRI
La Cattedrale de La Storta ha le sue “radici” nel 1923, quando fu costituito il Comitato per la costruzione di un Santuario nel luogo dove S. Ignazio di Loyola aveva avuto, nel novembre 1537, la visione cosi importante per la nascita dell’Ordine dei Gesuiti e per il suo stesso nome: Compagnia di Gesù. Precedentemente c’erano stati dei tentativi di realizzare un tale progetto: “si penso dapprima ad un ampliamento della cappella attuale, e se ne fece il disegno col suo preventivo esistenti nell’Archivio della Compagnia di Gesù. Pero le strettezze del luogo non avrebbero permesso un ingrandimento sufficiente ai bisogni, e per questa ed altre ragioni il progetto fu abbandonato”. Necessità dunque di dare decoro al luogo tanto importante per il “gran Patriarca”, ma anche necessità di venire incontro ai bisogni religiosi della popolazione della Parrocchia di Isola Farnese di cui “il Santuario è il vero centro naturale. Lo stato di abbandono della popolazione, nei riguardi religiosi e sociali, ci costringe a dire che l’erezione di questo nuovo tempio è une vera necessità morale per soddisfare convenientemente ai grandi e urgenti bisogni degli abitanti”. Ecco dunque anche l’interessamento del “Sommo Pontefice Pio X che negli ultimi anni prima della guerra (la I Guerra Mondiale, n.d.r.) convocò i cappellani dell’Agro Romano per conoscerne lo stato ed i bisogni religiosi. In tale occasione gli furono esposte anche le condizioni della Storta ed il Santo Padre, informato dei bisogni urgenti di quella popolazione, promise di farvi costruire una bella chiesa, con la casa per il cappellano, stanziando a tale scopo la somma richiesta. Da parte dei proprietari fu gia allora offerto il terreno necessario per la nuova fabbrica. L’immane catastrofe della guerra e la morte del Papa fecero naufragare anche questo progetto”.
Il progetto del 1923
Nel mese di luglio del 1923 il Cardinale Antonio Vico, Vescovo di Porto e Santa Rufina, decise che si doveva mettere mano alla costruzione di una nuova chiesa a La Storta. Diede quindi incarico al Vicario Generale Monsignor Carlo Grosso di invitare gli interessati per dare concretezza al progetto. Tutti i proprietari dei territori attigui a quello de La Storta dettero il loro appoggio. “Cosi fu costituito nell’adunanza del 18 luglio 1923 il nuovo Comitato, di cui Sua Eminenza il Cardinale Vico assunse la presidenza onoraria.
Trattandosi di un antico santuario di S. Ignazio di Loyola, si volle chiamare un suo figlio alla carica di presidente effettivo e quindi a questa fu eletto il P. Leopoldo Fonck S. J., Professore del Pontificio Istituto Biblico. Gli altri componenti il Comitato sono: Mgr. Carlo Grosso, Vicario Generale; Sac. D. Francesco Guglielmi, Arciprete Parroco dell’Isola Farnese, Segretario; Sac. D. Antonio D’Antoni; Comm. Ing. Carlo Grazioli; Cav. Stanislao Grazioli; Comm. Ing. Francesco Ceribelli; Avv. Cav. Luigi Filippo Re, Cameriere d’onore di Cappa e Spada di Sua Santità, Amministratore dell’Ecc.ma Casa Salviati”.
Dopo averne informato il Papa Pio XI, che accolse la notizia con grande soddisfazione, il Comitato passò alla fase operativa. Per il progetto fu interpellato l’architetto romano Giuseppe Astori che offrì la sua collaborazione come “personale e gratuito contributo alla iniziativa del Comitato”.
Nel novembre di quello stesso anno fu effettuato un sopralluogo per decidere il luogo dove erigere la chiesa e l’esame dei materiali per la sua costruzione. Quanti ai materiali gli esperti giudicarono di ottima qualità il tufo della grande cava appartenente all’Arcipretura dell’ Isola Farnese che pertanto fu offerto gratuitamente dal Parroco. La pozzolana dell’Arcipretura fu invece giudicata meno buona e quindi poco adatta ad una grande costruzione. Ma a tale necessità venne incontro il Sig. Mattaini, proprietario di una cava di pozzolana nella Valle della Storta, che donò il materiale ritenuto di ottima qualità. Per il trasporto dei materiali e delle altre cose i padroni delle tenute attigue a La Storta assicurarono che avrebbero messo a disposizione, “in quanto lo permetterebbero le circostanze, i loro carri, birrocci e camions. Inoltre si può sperare che dai coloni dei grandi fondi vicini, nei mesi più liberi da lavori urgenti, si presterà un opportuno aiuto per la mano d’opera richiesta”.
Quanto al luogo della erigenda chiesa, già precedentemente era stata individuata la collina attigua alla Cappella di S. Ignazio, tra la via Cassia e la ferrovia, che ha una superficie di circa 80.000 metri quadrati, di proprietà della duchessa Maria Salviati, come il luogo più adatto sia per motivi contingenti (la vicinanza, 15 metri in linea d’aria al luogo della Visione), sia in prospettiva in quanto punto di riferimento per il futuro quartiere che si sarebbe sviluppato inevitabilmente date le condizioni logistiche e urbanistiche (la via Cassia, la stazione ferroviaria, l’acquedotto dell’ Acqua Paola, la luce, il telefono e le poste) che la borgata presentava. La duchessa Maria Salviati donò circa 7000 metri quadri per la nuova chiesa e mise a disposizione del Comitato altri 7000 metri quadri a un prezzo di favore, per formare il piazzale davanti alla chiesa.
Il progetto dell’architetto Astori prevedeva una chiesa di 40 m. di lunghezza, 20 di larghezza e 18 di altezza. Egli stesso ne descrive lo stile: “La chiesa ha il tipo caratteristico del tardo Rinascimento italiano, quello che in Germania viene definito come “stilo gesuitico” (Jesuitenstil). Presenta perciò una sola navata con cappelle laterali, abside al fondo e copertura a volta… le esigenze della località hanno indotto ad aggiungere davanti all’ingresso un portico, perché l’entrata venga meglio difesa dalle intemperie… Nell’interno lasciano in evidenza grandi superficie piane, giacché intento dei promotori è di profittare nel modo più largo degli insegnamenti che la decorazione pittorica può fornire al pubblico semplice delle campagne”.Il Comitato prevedeva la dotazione anche di opere annesse: la casa del parroco con un bel giardino, alcune sale “per i circoli cattolici, un ricreatorio per i giovani, una grande sala per le conferenze popolari, un piccolo ufficio d’informazione per la gente di campagna, una sala per la biblioteca circolante… e inoltre alcuni locali da mettere, di comune accordo, a disposizione dell’Amministrazione comunale e del Comitato per le scuole dei contadini”. Conclude P. Fonck : “Ecco dunque ciò che vuol essere il Santuario di S. Ignazio alla Storta. Vuol soddisfare ad un duplice santo dovere. A gloria di Dio che accordò al Santo un così insigne favore nella povera cappella della Storta vuol degnamente onorare la memoria del gran Patriarca in un luogo che gli è rimasto sempre tanto caro e che si trova al presente in uno stato di triste abbandono. Nello spirito di Ignazio, e coi mezzi da lui suggeriti, e sotto il suo potente patrocinio celeste, vuol essere un centro benefico di attività rigeneratrice per il bene spirituale ed in un tempo pure per il progresso materiale di tutta la popolazione, della parrocchia, della diocesi, e di tutto l’Agro Romano”.Tre anni dopo la costituzione del Comitato, il 31 luglio 1926, fu posata la prima pietra della nuova chiesa, della quale nel frattempo era cambiato il progetto. La nuova costruzione fu progettata dall’Architetto Comm. Filippo Sneider. “L’architetto Sneider ha lavorato molto per il Vaticano al momento della Conciliazione. Contemporaneamente ai lavori a La Storta ha costruito sulla via Appia la Chiesa di Ognissanti, per don Orione, e c’è una grande somiglianza tra le due chiese, anche se quella è a croce latina, mentre la Cattedrale è a croce greca. Ma soprattutto c’è un elemento “stilistico” assolutamente identico: le finestre, che sono tre, inserite in un arco grande”.Ma poco dopo difficoltà di vario genere e mancanza di fondi dispersero il Comitato e costrinsero ad interrompere i lavori lasciando la costruzione allo stato di rudere, e in tale stato la trovò, nel 1946, il Cardinale Eugenio Tisserant divenuto vescovo della Diocesi[1].
2 – La nuova Cattedrale (1946-1957) – La visita di Papa Pio XII
a cura di don Adriano FURGONI
Ora è lo steso Cardinale Eugenio Tisserant che a più riprese racconta nelle sue lettere pastorali alla Diocesi (sono in tutto 20 lettere scritte dal 1946 al 1966) l’origine e la costruzione della nuova chiesa Cattedrale di Porto-S. Rufina dedicata ai SS. Cuori di Gesù e Maria.
Da S. Ippolito nell’Isola Sacra a La Storta sulla Via Cassia – Francigena
Nella quarta lettera pastorale del 22 agosto 1947 cosi scrive:
“Mancanza di una chiesa cattedrale.
Non è tutto : nella Diocesi di Porto e Santa Rufina non vi è soltanto insufficienza o scarsezza di chiese parrocchiali: essa difetta pure di quella Chiesa che dovrebbe essere il centro della vita diocesana: voglio dire la Cattedrale.
La Cattedrale nostra che era dedicata a S. Ippolito nell’Isola Sacra, fu distrutta, a quanto pare, nella prima metà del secolo XI e non fu mai ricostruita. In quel tempo la vita si ritirava dal litorale, troppo spesso disturbato dalle scorrerie di corsari mussulmani , venuti dai porti barbareschi, mentre la malaria rendeva una larga zona inabitabile, cosicché il nome di Porto si trasferì nel Medio Evo a Castelnuovo di Porto, vicino al Tevere, ben lungi dal porto di Traiano, che era il luogo suo originale, ed all’altra estremità della Diocesi Suburbicaria, che era stata formata con la riunione della Diocesi di Porto con quella di Santa Rufina – Selva Candida.
Ora mentre sarebbe poco ragionevole tentare la costruzione della Cattedrale in un luogo così eccentrico com’è l’Isola Sacra soggetto ad alluvioni e dove il getto delle fondamenta sarebbe oltremodo costoso, la Provvidenza sembra averci preparato la possibilità di avere una Cattedrale nel centro geometrico della Diocesi con spese relativamente limitate, qualora vogliamo terminare la Chiesa cominciata nel 1926 in località detta “La Storta”, al Km. 17 sulla via Cassia. Tale Chiesa, la cui ubicazione fu scelta in relazione con un episodio della vita di S. Ignazio di Loyola, che ebbe colà una importante visione, si trova in un luogo bene elevato, a 170 m. sul livello del mare e in una posizione tale che si può scorgere da quasi tutti i punti della Diocesi. Il Tempio della Storta è stato lasciato in abbandono per più di 20 anni ma i muri sono in ottimo stato di conservazione ed i lavori recentemente eseguiti per rettificare il tracciato della via Cassia sono stati fatti in modo tale che la Chiesa vi ha guadagnato in grandiosità, perché resa accessibile a mezzo di un maestoso scalone. La Chiesa ed il terreno sul quale essa è fabbricata, sono proprietà della Diocesi. Mentre dunque mi sforzerò di ottenere aiuti anche fuori della Diocesi, vi domando di incoraggiarmi nel compito che son disposto ad assumermi, di dotare cioè la Diocesi di Porto e Santa Rufina della degna Cattedrale”
Con il patrocinio di Maria Pellegrina (Peregrinatio Mariae – 1950)
La nuova Cattedrale sulla via dei pellegrini
E’ ancora il Cardinale Tisserant che, nella sua settima lettera Pastorale del 1950 manifesta alla diocesi il suo canto di lode e di ringraziamento al Signore per il dono della nuova Cattedrale spiegando il doppio titolo della sua dedicazione:
“Il programma della nostra Peregrinatio Mariae è stato combinato in modo che si termini nel giorno dell’Annunziata. Principiata l’8 dicembre, quando la Chiesa commemora la creazione dell’anima purissima di Maria, preservata nella sua Concezione dalla macchia del peccato originale, la visita della Madonna alle parrocchie e cappelle della Diocesi si concluderà nel giorno in cui si celebra la venuta nel suo seno del Figlio di Dio. Quel giorno, a Dio piacendo, avrà luogo la consacrazione della chiesa della Storta, completata per diventare la Cattedrale della diocesi suburbicaria di Porto e Santa Rufina, e, alla sera, Maria vi farà il suo ingresso solenne, affinché il suo simulacro vi dimori esposto alla venerazione di tutti.
Vi rammento brevemente la storia della nostra futura Cattedrale. Quando i pellegrini di Roma, che procedevano dal Nord attraverso il Viterbese arrivavano a quel tratto della Via Cassia, che per lasua sagoma diede alla località il nome di “Storta”,usavano salire sul monticello che dominava la strada ad occidente. Di là scorgevano a sinistra di Monte Mario la pianura di Roma e dal 1588 in poi, a destra dello stesso monte, la parte superiore della cupola di San Pietro. Potete immaginare la gioia di coloro che dopo giorni e giorni di penoso viaggio,
in carri, a cavallo o a piedi, vedevano finalmente a poche miglia la mèta della foro fatiche. Un canto di ringraziamento,un tripudio di lodi prorompeva dai loro petti: Te Deum, Benedictus, Magnificat, e ringraziavano con una preghiera ardente il Signore e la Sua Beata Madre, che li avevano protetti in mezzo a tanti pericoli su strade non sempre sicure, e conservati in salute. Una cappella era stata eretta sul cucuzzolo della collinetta, che non servendo per il ministero abituale dei pochissimi abitanti della zona era divenuto presto fatiscente.Verso la fine di novembre 1537 alla Storta passava s. Ignazio di Loyola, che procedeva verso Roma accompagnato da Pietro Fabro e da Giacomo Lainez; passava alla Storta e vi riceveva da Dio promesse per l’avvenire della sua Società.
La memoria della visione di S. Ignazio è rimasta fissata nella cappella che sorge sull’orlo della Via Cassia, ma tale cappellina sembrò insufficiente ad un Gesuita tedesco, il compianto P. Leopoldo Fonck, che, professore a Roma, amava far frequenti camminate attraverso l’Agro Romano e volentieri si raccoglieva alla Storta nel ricordo del suo beato Padre. Egli era devotissimo del Sacro Cuore e della Suora Visitandina che ricevette nel 1673 il Suo messaggio, S. Margherita Maria Alacoque, la cui canonizzazione era vicina quando il Padre tornò a Roma alla fine della prima guerra mondiale. P. Fonck sogno allora di fabbricare alla Storta, pensando anche alla cura pastorale dei contadini dell’Agro Romano, la prima chiesa che sarebbe stata dedicata alla Santa prediletta del S. Cuore di Gesù dopo la sua canonizzazione e cominciò a raccogliere fondi. Ma il suo piano era troppo grandioso e nel 1926 dovette abbandonare la costruzione senza poterla terminare, morendo poi nel 1930, fuori Roma.
Oggi, parecchie chiese sono state dedicate nel mondo a S. Margherita Maria e lo scopo che si era prefisso P. Fonck è caduto da sé. Siccome poi le somme spese dal 1946 a tutto’oggi superano assai quelle raccolte dal P. Fonck, ho deciso di dedicare la nostra nuova cattedrale al Redentore ed alla Sua amata Madre, sotto il doppiotitolo che manifesta tanto bene il loro amore per l’umanità, dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria. La nostra Madonna Pellegrina vi ha mostrato durante le ultime settimane le ricchezze del suo Cuore, tanto graziosamente additato dal Bambinello sorretto dal suo braccio sinistro: per il simulacro di Maria disporremo perciò un degno trono e vi ringrazio fin d’ora di quanto avete offerto per la decorazione della cappellina in cui sarà eretto”.
Le fatiche sopportate per la costruzione del nuovo Tempio
Dopo dieci anni di episcopato, nella 13 lettera pastorale del 15 aprile del 1956, il Cardinale Tisserant apre ancora il suo cuore di padre e pastore per raccontare alla sua chiesa diocesana le cure prestate nella costruzione della nuova Cattedrale, del campanile e del complesso sant’Eugenio:
“Quando, ancora prima di optare in Concistoro,mi ero informato sulla situazione della Diocesi, mi ero posto subito il quesito: come intensificare la vita religiosa, senza una Cattedrale ed un centro diocesano? Il titolo di cattedrale era attribuito allora alla cappella dell’antica residenza dei Vescovi, vicina al Porto di Traiano; ma quella cappella era di cosi modeste dimensioni che non si prestava, né alla maestà delle cerimonie pontificali, né alla convocazione di adunanze numerose. Per di più, la stessa residenza aveva cessato di essere proprietà diocesana, da quanto il mio predecessore, il Cardinal Baggiani, l’aveva ceduta all’Istituto dei Figli di S; Maria Immacolata.
Ora accade che, proprio nei primi mesi del 1946 ricevetti l’invito di recarmi l’anno seguente negli Stati Uniti d’America in occasione del secondo centenario della fondazione di una Università, con la quale avevo avuto relazioni come addetto al governo della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il Santo Padre mi autorizzò ad assentarmi anche per un lungo periodo e cominciai a sognare che quell’invito poteva fornirmi l’occasione di risorse, con cui attuare la costruzione di una cattedrale. C’era a La Storta il rudere di una grande chiesa cominciata nel
1926 ed abbandonata da venti anni. La Storta si trovava al centro geometrico della Diocesi, almeno come questa si presentava prima dello smembramento delle due parrocchie di Grotta Rossa e Prima Porta. L’ubicazione del santuario sulla sommità di un cucuzzolo isolato e alto, conveniva ad una chiesa, destinata a diventare il centro spirituale di una vasta zona, dominata fino ai suoi primi margini dall’altura in questione.
Perciò quando, pochi giorni dopo la mia presa di possesso, fui autorizzato dal Santo Padre a cedere al Governo italiano una striscia di terreno, che doveva servire a rettificare il tracciato della Via Cassia, potei porre come condizione che il muro di sostegno avesse carattere monumentale, cosi come la scala di accesso alla futura cattedrale. Non ho domandato alla Diocesi nessun contributo per la costruzione della Cattedrale, consacrata il 25 marzo 1950, né per quella del campanile, terminato soltanto nel 1955, non per mancanza di fiducia nel vostro senso di collaborazione, ma perché sapevo che in molte parrocchie, se non in tutte, sarebbe stato necessario mettere in programma costruzioni di chiese o cappelle,rese indispensabili dal continuo aumento della popolazione dal 1900 a questa parte, e volevo lasciare integre le possibilità di concorsi finanziari locali.
Alcune circostanze provvidenziali mi hanno permesso di raccogliere i fondi per edificare la cattedrale, il suo campanile e la prima parte del Collegio Seminario, sviluppato poi, dall’Opera del Cenacolo nell’Istituto S. Eugenio; ho potuto, anche per altre costruzioni, interessare benefattori estranei alla Diocesi, la cui generosità merita la nostra viva riconoscenza”.
Il grande evento della visita di Papa Pio XII alla Cattedrale
Proprio 50 anni fa, il 27 ottobre del 1957 il Papa Pio XII compie il suo viaggio più lungo fuori delle mura Vaticane e da Castel Gondolfo.Ma lasciamo che sia ancora il Cardinale Tisserant nella sua 15 lettera pastorale del 1958 a raccontarci la straordinarietà e il significato di quella visita: “Si compiono in questi giorni dodici anni, da quando ho preso la responsabilità del governo della Diocesi di Porto e S. Rufina. In questo ultimo anno, oltre la solenne celebrazione del Sinodo diocesano, molto altro lavoro è stato compiuto. Sono fatti ed opere importanti, ma c’è stato quest’anno un avvenimento, che merita di essere ricordato in modo particolare, ed è la venuta del Sommo Pontefice a S. Maria di Galeria, per l’inaugurazione del nuovo centro radiofonico della Santa Sede, con la Sua visita alla Cattedrale della Diocesi di Porto e S. Rufina. Non potremo mai essere abbastanza riconoscenti a Pio XII, per quell’atto di sovrana condiscendenza. La bontà del papa per la Diocesi, manifestatasi già tante volte ed in tanti modi, ci obbliga ad uno speciale senso di gratitudine e spero che la vostra riconoscenza si manifesterà con una maggiore, affettuosa deferenza per l’augusta persona di Sua Santità ed una più perfetta ubbidienza a tutte le direttive, date dal Papa stesso o dalle autorità della Curia Romana, che sono interpreti del Suo volere. Soprattu pregherete per il Santo Padre, perché Iddio lo conservi in buona salute e Lo protegga contro tutti i pericoli, per il maggior bene della nostra Santa Chiesa.Affinché i nostri posteri rimangano edotti dal favore, che ricevemmo il 27 ottobre 1957, una lapide sarà inaugurata fra poco nella Cattedrale de La Storta, con un’iscrizione latina, che vi diamo qui in traduzione.“In questo tempio Cattedrale della diocesi di Porto e S. Rufina, cominciato nel 1926 dal P. Fonck S.J. e nel 1950 condotto a termine e consacrato dal Card. Eugenio Tisserant, Decano del S. Collegio e Vescovo della stessa diocesi, il 27 ottobre 1957 sosto molto volentieri il Sommo Pontefice Pio XII, diretto alla non lontana Galeria; il Quale volle cosi, con la Sua stessa augusta presenza, testimoniare all’Eminentissimo Cardinale, quanta compiacenza e quale benevolenza nutrisse verso di lui, sia per la costruzione del sacro tempio, si, e molto più per l’ammirabile zelo spiegato nel governo dei suoi fedeli.
Dall’ Osservatore Romano
L’ Osservatore Romano del 28-29 ottobre 1957 titolava in prima pagina, corredata da grandi foto dell’evento: Il Sommo Pontefice benedice ed inaugura con un suo messaggio al mondo il nuovo Centro della Radio Vaticana in Santa Maria di Galeria.
Fu proprio nel viaggio da Catelgandolfo a Santa Maria di Galeria, il viaggio più lungo fatto dal Pontefice, che il Papa, transitando per la via Cassia, si fermò a la Storta e visitò la Cattedrale ancora non del tutto ultimata.
Nella seconda pagina del giornale, nella cronaca del viaggio papale leggiamo il racconto della Visita: “Sua Santità partiva da Castelgandolfo verso le ore 9.00 in forma strettamente privata…il Santo Padre è stato acclamato lungo il percorso, dalla popolazione di Castelgandolfo e da numerosi gruppi di fedeli che attendevano sull’Appia, l’Appia Pignatelli, Ponte Garibaldi, il Lungotevere fino a Piazza della Rovere ,il Ponte Duca d’Aosta, Piazza Pasquale Paoli, il Lungotevere fino all’altezza di Valle Giulia, Ponte Flaminio, la Via Cassia Nuova e la Cassia Vecchia e la Braccianese. Particolarmente entusiastico il saluto dei malati di Villa San Pietro all’ingresso della clinica dei Fatebenefratelli. A la Storta, che fa parte della Diocesi Suburbicaria di Porto e Santa Rufina, Sua Santità è giunto alle ore 9.50 ed ha compiuto una breve sosta, salutato da una folla plaudente. Sulla porta della Cattedrale, consacrata il 25 marzo 1950, e dedicata ai Sacri Cuori di Gesù e Maria, attendeva l’Emm.mo Cardinale Decano del Sacro Collegio, Eugenio Tisserant, Vescovo di Porto e Santa Rufina. Erano con l’Emm.mo Cardinale il suo Vescovo Ausiliare, S. E. Mons. Pietro Villa e il Capitolo Cattedrale. Presente all’ingresso, S. E. Rev.ma Mons. Angelo Dell’Acqua., Sostituto della Segretaria di Stato. Il Cardinale porgeva l’acqua benedetta al Sommo Pontefice che, segnatosi, aspergeva la folla ed entrava nella Cattedrale,tra le filiali acclamazioni del popolo, recandosi ad adorare i Santissimo. Sua Emm.za Rev.ma il Cardinale Tisserant, illustrava quindi succintamente il tempio all’Augusto Pontefice, il Quale si soffermava pure esprimendo il Suo paterno compiacimento, dinanzi alle artistiche stazioni della Via Crucis,eseguite dal nipote del cardinale Prof. Albert Serrure, il quale ha riprodotto fedelmente il paesaggio e le varie località dei Luoghi Santi. Uscito dalla Cattedrale il Supremo Pastore, mentre le Associazioni di Azione Cattolica e la popolazione Gli rinnovano con entusiastica manifestazione l’attestato del loro filiale devotissimo affetto, dopo avere percorso in vettura parte del perimetro esterno della chiesa, proseguiva per Santa Maria di Galeria , ove giungeva alle ore 10.20”.
Una memorabile “ottobrata” romana :Racconto di un testimone
Tra i testimoni di quella Visita il Parroco di allora, Mons. Garlo Bessonnet che, nonostante la
sua veneranda età – quest’anno ha celebrato il 60° anniversario di ordinazione sacerdotale –
ricorda benissimo, in tutti i particolari, la visita del papa alla Cattedrale. Gli abbiamo chiesto di
raccontarla. La racconta come una “ Memorabile ottobrata romana”.
“Tante sono le chiese e i luoghi visitati dagli ultimi papi a partire da Giovanni XXIII che difficilmente si possono contare. Prima di papa Roncalli non era così; per quasi un secolo, dal 1870 fino agli anni 1960, i Sommi Pontefici sono stati molto sedentari.
In fondo alla nostra chiesa cattedrale, a destra del portone centrale, una lapide , scritta in latino, riporta l’evento.
L’avvenimento aveva allora un carattere singolare, eccezionale.
L’anno 1957 fu molto importante per la nostra Cattedrale.
Nei primi giorni di agosto, in coincidenza con il 50° anniversario dell’ordinazione sacerdotale del Cardinale Vescovo Eugenio Tisserant, vi si tenne il Sinodo diocesano: per tre giorni consecutivi tutto il clero è stato impegnato in un lavoro intenso di celebrazioni, discussioni, votazioni, ecc. portato avanti con slancio malgrado il gran caldo.
Nel cuore dell’estate giunse la notizia che il Santo Padre Pio XII, nel recarsi dalla sua residenza estiva di Castel Gandolfo a Santa Maria di Galeria per inaugurare il nuovo Centro trasmittente della Radio Vaticana, avrebbe fatto una sosta alla Storta.
Siccome allora, come l’abbiamo detto sopra, i Papi uscivano poco l’annuncio suscitò molto entusiasmo: La Storta sarebbe stata una tappa del più lungo viaggio effettuato da Papa Pacelli durante i quasi venti anni del suo pontificato! Fu deciso di addobbare sfarzosamente con tappeti e drappeggi la cappella del SS.mo Sacramento davanti al quale il Papa doveva fermarsi in adorazione. Le forze di sicurezza vennero per un sopralluogo minuzioso. Lo spazio destinato ai fedeli fu limitato al transetto destro della chiesa; molti parrocchiani della Storta dovettero accontentarsi di stare lungo la Via Cassia per vedere passare il Papa in macchina.
La domenica 27 ottobre fu una splendida giornata di sole. Nel cuore della mattinata, al suono delle campane inaugurate da poco, la macchina targata “SCV 1” si fermò davanti al portone centrale. Ossequiato dal Cardinale Eugenio Tisserant e accompagnato da Mons. Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato, Sua Santità Pio XII fece il suo ingresso dirigendosi poi a sinistra verso l’altare del SS.mo. Tutti si inginocchiarono; dall’altare maggiore sul quale era stato aperto il messale, in qualità di parroco io ebbi l’onore di cantare in latino l’orazione “pro Papa”. Dopo un momento di adorazione in silenzio, il Santo Padre impartì la Benedizione Apostolica, poi si fermò ad ascoltare con compiacimento alcune spiegazioni che gli diede il Cardinale prima di presentargli il suo vescovo ausiliare Mons. Pietro Villa, il cancelliere vescovile Mons. Tito Mancini e i membri del Capitolo Cattedrale, intervenuti al completo.
La visita durò poco più di un quarto d’ora.
Nel vedere l’aspetto fisico del Papa, che stava nel suo ottantunesimo anno di età, nessuno poteva prevedere che meno di un anno dopo, il 9 ottobre 1958, doveva morire.
Abituati come siamo ora, a partire dalla seconda metà del 20° secolo, allo stile pastorale delle visite dei papi possiamo rimanere sorpresi dal carattere protocollare della sosta di Pio XII. Tale gesto era comunque un segno di alto riconoscimento per lo zelo e la generosità del Cardinale Decano del Sacro Collegio a favore della Diocesi Portuense e fu al contempo un valido incentivo ed incoraggiamento per i sacerdoti e gli operatori pastorali di allora. Il Papa fece dono alla Cattedrale di un bel calice.
Per molto tempo in Cattedrale nelle sante messe dell’ultima domenica di ottobre, suffragando la sua anima, si fece memoria del “Pastor Angelicus” Eugenio Pacelli nel ricordo del suo ultimo viaggio, una bella e indimenticabile ottobrata romana”.
[1] Tutte le citazioni da Leopoldo Fonck S.J “La Storta” Un antico santuario di S. Ignazio di Loyola alle porte di Roma. Roma, 1924.
FOTO GALLERY-Le Foto originali sono di Franco Leggeri
FOTO GALLERY-Le Foto originali sono di Franco Leggeri
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.