La piccola Thérèse di Lisieux s’impossessò senza timore delle virtù di Cristo per avvicinarsi a Dio. La sua poesia “Se io avessi commesso tutti i crimini possibili…” riassume perfettamente la grazia della sua “piccola via”, alla portata di tutti.
Santa Thérèse di Lisieux è un genio spirituale la cui audacia si fonda su una teologia sicurissima. La Chiesa non l’ha forse riconosciuta come uno dei suoi dottori? È alla luce della sua solidità dottrinale che possiamo meditare la sua celebre poesia “Se io avessi commesso…”:
Se io avessi commesso tutti i crimini possibili
conserverei sempre la stessa fiducia,
perché so bene che quella legione di offese
non è che una goccia d’acqua in un braciere ardente.
La rivelazione del Sinai ci insegna che Dio è un fuoco che non consuma. A che può servire un fuoco, se non a bruciare? Ora, il mistero di un fuoco che brucia senza consumare non è comprensibile che se vediamo all’opera un Essere che, come un “braciere ardente”, brucia in noi i nostri peccati senza distruggerci. E poiché Dio è infinito in misericordia, quest’ultima sarà sempre superiore all’insieme delle nostre trasgressioni, cosa che sostiene Thérèse nel conservare fiducia malgrado “tutti i crimini possibili”. Benché serissimi, questi ultimi sono come “gocce d’acqua” comparate al braciere della misericordia divina.
Un cuore che soffre
Sì, ho bisogno di un cuore tutto ardente di tenerezza,
che resti punto di appoggio per me, e che senza alcun tornaconto
ami tutto di me, perfino la mia debolezza,
e che non mi lasci mai, né di giorno né di notte.
Qui la poesia sottintende la divinità di Cristo: quale altro cuore potrebbe non lasciare il credente «né di giorno né di notte», se non quello onnipresente di Dio? Anzi, Dio – che conosce le proprie creature – non è mai disgustato dalle loro debolezze, al contrario vi ravvisa l’occasione di spalancare ancora di più la propria misericordia.
No: non sono riuscita a trovare alcuna altra creatura
che mi amasse fino a questo punto, e senza mai morire.
Perché ho bisogno di un Dio che prenda la mia natura,
che diventi mio fratello, e che possa soffrire.
In questa quartina Thérèse sottolinea la realtà dell’Incarnazione: in Gesù, Dio si è fatto pienamente uomo al punto da essere diventato capace di soffrire. Egli resta nondimeno Dio, e dopo essere risorto al terzo giorno non può più morire.
Notiamo che la fraternità di Cristo rispetto a noi risulta esemplata sulla sua capacità di soffrire come noi e con noi. È questa amicizia nella solidarietà che spinge Thérèse a meravigliarsi di un Dio che l’«amasse fino a questo punto».
La santità di Gesù è la nostra
So fin troppo bene che tutti i nostri atti di giustizia
non hanno il minimo valore davanti al tuo sguardo,
e per dare prezzo a tutti i miei sacrifici
sì, voglio gettarli fin dentro al tuo cuore divino.
Thérèse non si fa troppe illusioni sulla giustizia degli uomini. Ad ogni modo non si scoraggia: non cerca in sé stessa la virtù, ma in Gesù. La comunione dei santi significa anzitutto comunione nelle cose sante. Ora, la prima “cosa santa” è Gesù stesso. Quel che è suo è pure, per l’opera della Redenzione, diventato nostro, così come nell’Incarnazione quel che è nostro è diventato suo. Noi gli abbiamo dato una natura mortale e, in cambio, egli ci ha donato la sua santità. In virtù di questo admirabile commercium, tutto a nostro vantaggio, i nostri sacrifici assumono valore quando vengono appuntati sulla Croce.
L’amore perfetto
No, neppure una creatura hai trovato senza colpa
in mezzo ai bagliori: ci donasti allora la tua legge
e nel tuo cuore sacro, Gesù, mi nascondo.
No, non tremo perché la mia virtù sei tu.
Santa Teresa di Lisieux
Questa quartina completa la precedente. La Scrittura afferma che anche gli angeli non sono puri agli occhi di Dio. A fortiori gli uomini! E tuttavia ancora una volta Thérèse «non trema»: «L’amore perfetto esclude il timore» (1Gv 4,18). Effettivamente, perché tremare laddove, per la fede, la nostra virtù non è la nostra ma quella dell’Uomo perfetto, Gesù? In ciascuno di noi il Padre vede il Figlio nel quale «noi ci nascondiamo», secondo le parole della poesia: come potrebbe Egli trattarci altrimenti, allora, che come figlie e figli amatissimi?
Paradossalmente, è la piccola via di Thérèse che ci offre la sicurezza di poter stare senza paura davanti a Dio. Come una bambina, Thérèse si rimette completamente al nostro Padre celeste per arrivare a camminare sulle vette. Anche la sua spiritualità, ancorata in una teologia sicurissima, è liberatrice perché porta a compimento quel che Gesù è venuto a elemosinare su questa terra: la nostra fede e la nostra fiducia. La santa di Lisieux opera una sorta di prodigiosa sintesi dello spirituale e del dottrinale.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]
Tarquinia (VT): nella necropoli etrusca del sito Unesco scoperta nuova tomba dipinta
Tarquinia-Straordinaria scoperta nel sito Unesco di Tarquinia nella necropoli etrusca, dove gli archeologi hanno ritrovato una nuova tomba a camera dipinta: le pitture sulle pareti mostrano scene di danza e di officina. La scoperta risale alla fine del 2022, anche se è stata comunicata dalla Soprintendenza di Viterbo soltanto in queste ore. Tutto comincia nel corso di un’ispezione della Soprintendenza a seguito dell’apertura di alcune cavità nel terreno: l’eccezionale scoperta è avvenuta nella necropoli etrusca dei Monterozzi, vicino a Tarquinia, dove gli archeospeleologi, esplorando quelle cavità, hanno confermato che si trattava di sepolcri già visitati da scavatori clandestini in passato. Tuttavia, una delle tombe celava un segreto ancora intatto: il crollo di una parete aveva rivelato una camera funeraria più profonda, decorata con scene dipinte dai colori straordinariamente vividi.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Questa nuova tomba, catalogata con il numero 6438, è stata dedicata alla memoria di Franco Adamo, rinomato restauratore delle tombe dipinte di Tarquinia, scomparso nel maggio 2022. Il ritrovamento rappresenta un evento di grande rilievo per l’archeologia etrusca, riportando alla luce uno spaccato di vita e cultura di oltre duemila anni fa.
La scoperta è frutto del lavoro della Soprintendenza di Viterbo e dell’Etruria Meridionale, e in particolare degli archeologi Daniele F. Maras e Rossella Zaccagnini del Ministero della Cultura, assieme ai collaboratori esterni Gloria Adinolfi e Rodolfo Carmagnola, mentre lo scavo è stato condotto da Archeomatica s.r.l.s., e il restauro delle superfici da Adele Cecchini e Mariangela Santella. A.S.S.O. si è invece occupata delle operazioni di archeospeologia.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Un delicato lavoro di scavo e messa in sicurezza
Per evitare che il sito venisse compromesso da tombaroli o da visitatori imprudenti, la Soprintendenza ha mantenuto il massimo riserbo sulle operazioni di scavo Grazie a un finanziamento straordinario del Ministero della Cultura, gli archeologi hanno potuto condurre un intervento meticoloso per mettere in sicurezza la tomba e preservarne il delicato equilibrio: per queste ragioni, oltre che per studiare quanto riemerso, la notizia è stata comunicata due anni dopo l’effettivo ritrovamento.
“Dopo aver ripristinato l’accesso alla camera funeraria”, spiega Daniele F. Maras, il funzionario archeologo responsabile della scoperta, oggi direttore del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, “e una volta installata una porta metallica, lo scavo archeologico ha dimostrato che tutto il materiale raccolto non apparteneva al corredo della tomba dipinta, che risale alla metà del V secolo a.C., ma era franato da quella superiore, più antica di oltre un secolo, della fine dell’epoca Orientalizzante”.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Una stratificazione complessa tra storia e natura
L’indagine archeologica ha rivelato una situazione unica e complessa. La tomba dipinta era stata scavata in profondità sotto una sepoltura preesistente. In epoca antica, ladri di tombe erano riusciti a penetrare nel sepolcro forando il lastrone di chiusura, saccheggiando il corredo originario. Successivamente, il crollo della camera superiore ha portato con sé detriti e oggetti, mescolandoli ai resti della tomba inferiore.
Di ciò che un tempo costituiva il corredo funerario della tomba dipinta restano solo pochi frammenti di ceramica attica a figure rosse, testimonianza del pregio degli oggetti deposti con il defunto. Tuttavia, il vero tesoro del ritrovamento è rappresentato dagli affreschi che decorano le pareti della camera funeraria.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Scene di danza e di officina: un’iconografia senza precedenti
Le pitture parietali, ancora in fase di restauro, offrono uno spaccato unico della cultura etrusca. La parete sinistra è animata da una danza frenetica: uomini e donne si muovono in cerchio attorno a un elegante flautista, in una scena che esprime la vitalità e il gusto per la celebrazione tipici del popolo etrusco.
Sulla parete di fondo, invece, emergono le figure di una donna – forse la defunta – e due giovani, ma parte della decorazione è andata irrimediabilmente perduta a causa di un crollo. Ancora più enigmatica è la parete destra, dove affiora un’officina metallurgica in attività. Gli studiosi ipotizzano che possa rappresentare il mitico laboratorio del dio Sethlans (equivalente etrusco di Efesto), oppure un’officina reale appartenente alla famiglia sepolta.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Restauro e tecnologie avanzate per riportare i colori alla luce
Gli interventi di restauro sono ancora in corso e richiedono estrema precisione. “Il livello straordinario delle pitture”, commenta con soddisfazione la soprintendente Margherita Eichberg, “è evidente già nel primo tassello di restauro, operato da Adele Cecchini e Mariangela Santella, che mette in luce la raffinatezza dei dettagli delle figure del flautista e di uno dei danzatori”. E aggiunge Daniele Maras: “Da decenni, questa è la prima nuova tomba dipinta con fregio figurato che viene scoperta a Tarquinia e si preannuncia molto intrigante per la sua storia, per il livello artistico e per alcune delle scene rappresentate, uniche nel loro genere”.
Il progetto di conservazione prevede la costruzione di una struttura protettiva intorno alla tomba, dotata di una porta a taglio termico per garantire condizioni climatiche ottimali. Inoltre, gli archeologi stanno applicando tecnologie avanzate di imaging multispettrale per recuperare i colori scomparsi dei pigmenti antichi. I primi test hanno già dato risultati sorprendenti, restituendo nuova luce a queste straordinarie testimonianze dell’arte funeraria etrusca.
Scoperta eccezionale a Tarquinia nuova tomba dipinta nella necropoli etrusca
Verso un futuro di studi e accessibilità pubblica
Mentre il restauro procede, gli archeologi continuano a studiare il materiale raccolto per comprendere meglio il contesto storico e sociale della tomba. L’obiettivo a lungo termine è quello di rendere il sito accessibile al pubblico, permettendo di ammirare da vicino questa straordinaria testimonianza dell’arte e della cultura etrusca.
Il ritrovamento della tomba n. 6438 non è solo una grande scoperta per l’archeologia italiana, ma un tassello fondamentale per riscoprire l’identità di un popolo che, attraverso la bellezza delle sue pitture funerarie, continua a raccontare la propria storia a distanza di millenni.
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
Dalla raccolta:Fotografie per raccontare Roma e la sua Campagna Romana.
FOTO di Franco Leggeri IL SORGERE DEL SOLE su ROMA e il suo GAZOMETRO 14 giugno 2023
“Storia del Gasometro (o Gazometro) di Roma”
Dove si trova
Lungo la via Ostiense, sul lato destro uscendo da Roma, per la precisione in via del Commercio 9/11, si impone la presenza di un’enorme struttura cilindrica, metallica che ormai fa parte del paesaggio urbano della città di Roma. Anzi, è stato definito “un pezzo pregiato dello skyline di Roma”. Si tratta del gasometro o gazometro. L’area che ospita il gasometro, fin dall’antichità, è stata deputata ad accogliere le derrate alimentari e le merci necessarie all’approvvigionamento dell’Urbe.
Nel 1863 la zona è stata attraversata dalla ferrovia costruita da Pio IX e vi è stato costruito il ponte dell’Industria (che i romani chiamano “ponte di ferro”). La presenza della ferrovia ha stimolato la crescita di alcuni insediamenti commerciali ed industriali, come il mattatoio e i Mercati Generali (dove confluivano tutta la frutta e la verdura destinate al commercio al dettaglio).
Perché è stato costruito e che cosa è
Agli inizi del XX secolo il sindaco Ernesto Nathan, uno dei migliori che abbia servito Roma, ha cominciato a promuovere una politica industriale, perciò nella zona fu costruito lo stabilimento del Gas (ora Italgas) con il Gasometro. Il gasometro è una struttura inventata nel 1789 dal fisico francese Antoine-Laurent de Lavoisier che veniva usata per accumulare il gas che in origine veniva prodotto per gassificazione del carbone e poi per cracking del petrolio.
La gassificazione è un processo chimico che permette di trasformare in monossido di carbonio, in idrogeno e in altre sostanze gassose materiali ricchi di carbonio, come per esempio carbone, petrolio o biomassa. Nel gasometro romano veniva distillato e opportunamente depurato, soprattutto il carbon fossile. Il gas veniva prodotto nei forni di distillazione e poi temporaneamente immagazzinato nei gasometri.
Quando è stato costruito
Il complesso del gasometro di Roma fu progettato nel 1909 e la struttura oggi visibile è stata preceduta da tre gasometri “minori” che sono stati costruiti dalla Samuel Cuttler & Sons di Londra tra il 1910 e il 1912. Il gas ivi prodotto veniva utilizzato sia per l’illuminazione pubblica, sia per quella domestica.
La struttura ancora visibile, in ferro, è stata messa in opera tra il 1935 e il 1937 dalla società Ansaldo di Genova e dalla tedesca Klonne Dortmund. Misura un’altezza di m 89,10 e un diametro di m 63; i pali che la compongono raggiungono una lunghezza totale di km 36; la sua capienza è di 200.000 mc di gas.
Come funziona
Il gasometro aveva la funzione di contenere il gas, dopo la sua produzione che avveniva nei forni e prima della distribuzione. Il gasometro, quando era in funzione, si alzava e si abbassava; il nostro gasometro è del tipo detto a “telescopio” che vuol dire che il cilindro interno si innalza e si abbassa, attraverso le guide laterali, indicando la quantità di gas contenuto.
I gasometri non avevano un grande capienza e quindi non potevano essere utilizzati come serbatoio a lungo termine, ma si limitavano solo a regolare a breve termine il passaggio tra la produzione del gas e il suo consumo.
Quando e perché è stato dismesso
Con la diffusione del gas metano il gasometro è caduto in disuso. Infatti nel 1960 si decide di portare a Roma il metano naturale. Nel 1970 il gas metano ha cominciato ad alimentare il quartiere di Spinaceto e nel 1981 è stata avviata la completa metanizzazione della città di Roma. La società Italgas che prima produceva il gas, attualmente si occupa solo della sua distribuzione.
Dagli anni ’90 sono state avanzate varie ipotesi di recupero del gasometro, ma ad oggi non è stato realizzato nulla. Nella zona limitrofa però, dalla fine degli anni ’90, sono stati aperti numerosi locali (discoteche, ristoranti, pub, gelaterie) e adesso il quartiere intorno al gasometro si annovera tra quelli che fanno da sfondo alla “movida” romana.
Franco Leggeri-Fotoreportage-ROMA e il suo GAZOMETRO
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Franco Leggeri Fotoreportage- L’Alba nella Campagna Romana-
Franco Leggeri Fotoreportage- L’alba nella Campagna Romana
Franco Leggeri Fotoreportage- L’alba nella Campagna Romana è un’immersione nel silenzio che suscita emozioni , evoca suggestioni che poi si perdono nell’infinità del cielo romano. Fotografare è come toccare a mani nude la purezza della rugiada ancora addormentata sull’erba e godere , a beneficio della fotocamera, dei chiarori dell’alba, di questa luce e di questo immenso silenzio per avere delle immagini irripetibili . Farsi accarezzare dai raggi del sole che si è “appena svegliato” e accende i colori di questa Campagna,significa gioire dell’intimità di questo luogo d’incontro che è un vero e grandioso dono di Dio.
Franco Leggeri Fotoreportage- L’alba nella Campagna Romana
Sono le 5:30 di un mattino estivo e mi resta ancora poco tempo per vivere in compagnia di questa bellezza ammantata di pace. Ora sta iniziando il traffico e le auto infrangono e distruggono il silenzio. Tra poco inizia il caos della “civiltà “, ma restano ancora momenti per essere con me stesso e fotografare ancora una volta l’Alba e il suo disperdersi nel giorno . Questi sono attimi che, se li sai centellinare, possono diventare infiniti e dare un piacevole senso di assenza di gravità e anche l’illusione che sia possibile fluttuare nell’armonia della bellezza. Sono tantissimi anni che godo la magia della Campagna Romana così carica di storia che gli alberi, i cespugli e le pietre sanno raccontare a chi sa ascoltare i loro sussurri. Ormai mi rimane difficile immaginare come sarebbero le mie mattine senza la bellezza di questa visione, dove i colori che la dipingono nascono da una tavolozza infinita che ogni giorno la trasforma in un affresco di stupefacente potenza che incide la mia anima, oltre il limite oscuro .
Franco Leggeri Fotoreportage- L’alba nella Campagna Romana
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La Campagna Romana o Agro Romano, in senso storico o tradizionale, non coincide con nessuna delle odierne suddivisioni amministrative e neppure con l’area che potrebbe definirsi come banlieue di Roma. Essa comprende il comune di Roma (1507,6 km2) eccetto l’area occupata dalla città coi quartieri e suburbî (222 km2) cioè 1285,6 km2 cui sono peraltro da aggiungere il comune di Aprilia (177,6 km2) costituito nel 1937, e parte dei comuni di Anzio, Nettuno, Pomezia e Marino; in quest’ultimo comune si trova l’aeroporto di Ciampino coi nuclei abitati dipendenti, compresa la così detta Città giardino Appia (v. ciampino, in questa App.). Il fatto più notevole che caratterizza l’ultimo ventennio è il progressivo rapido ripopolamento della Campagna. Limitandoci al territorio pertinente al Comune di Roma, i 62.500 ab. (residenti) del 1936, sono divenuti 120.781 nel 1981 e 161.886 nel 1956. L’incremento è dovuto non tanto al moltiplicarsi delle case sparse, quanto al costituirsi di nuclei che sono spesso antichi casali trasformati, dotati di chiesa, scuola, stazione sanitaria, ovvero di nuove unità rurali, o infine di veri e proprî centri. Di questi il più recente censimento ne annovera 42, dei quali uno, il Lido di Ostia è ormai una cittadina di circa 20.000 ab., altri due o tre hanno popolazione superiore a 5000 ab. (oltre a Ciampino) e sette o otto popolazione superiore a 1000 ab. Il richiamo della popolazione verso il mare è evidente. Dopo il Lido, il centro più popoloso è Fiumicino, che acquisterà nuovo incremento con l’apertura al traffico (1961) del grande aeroporto intercontinentale; a nord di Fiumicino è Fregene; a sud del Tevere Tor Vaianica, a prescindere dalle altre recenti “marine” che si succedono fino ad Anzio. Altra ben visibile trasformazione della Campagna, del resto connessa con la precedente, è la riduzione delle aree pascolive a vantaggio delle coltivazioni. Tra queste predomina ancora il grano, ma nelle zone periferiche compare la vite (anche per frutto), altri alberi fruttiferi, prati da foraggio e, in plaghe più ricche di acqua, colture orticole. La Campagna comprende due grandi bonifiche effettuate secondo piani predisposti, la bonifica di Maccarese e quella di Porto-Isola Sacra, oltre ad altre minori; comprende anche taluni grossi centri di allevamento, come Torrimpietra. L’allevamento bovino si sviluppa, quello ovino declina a causa della accennata riduzione del pascolo naturale. Manifesta è anche la trasformazione o integrazione della rete stradale. Le antiche vie consolari irraggianti dalla città che ancora costituiscono lo schema fondamentale, sono collegate da vie trasversali (a cominciare dal “grande raccordo anulare” corrente a 11-15 km dal centro di Roma), da collegamenti secondarî, da strade vicinali e di bonifica. La parte della Campagna più vicina alle aree suburbane viene a poco a poco assorbita dalla espansione del Suburbio stesso sia verso il mare (dove i quartieri dell’EUR sono, secondo il reparto del 1951, ancora fuori del Suburbio), sia verso est (via Tiburtina), sia verso sud-est (vie Prenestina e Casilina), sia anche verso nord (via Cassia).e (via Aurelia) Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Franco Leggeri Fotoreportage- L’alba nella Campagna Romana
Franco Leggeri Fotoreportage- L’alba nella Campagna Romana
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Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Franco Leggeri Fotoreportage- L’alba nella Campagna Romana
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-Fotoreportage di Franco Leggeri-Associazione CORNELIA ANTIQUA
ROMA- Gianicolo- LA CASA DI MICHELANGELO-
ROMA LA CASA DI MICHELANGELO AL GIANICOLO
ROMA- Gianicolo- LA CASA DI MICHELANGELO-Come si legge dall’epigrafe :Questa è la facciata della casa detta di Michelangelo già in via delle Tre Pile –demolita nell’anno MCMXXX (1930) fu ricostruita ad ornamento della passeggiata pubblica – XXI aprile MCMXLI-XIX E.F.
Associazione CORNELIA ANTIQUA-Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–ROMA LA CASA DI MICHELANGELO AL GIANICOLOROMA LA CASA DI MICHELANGELO AL GIANICOLOROMA LA CASA DI MICHELANGELO AL GIANICOLOROMA LA CASA DI MICHELANGELO AL GIANICOLOAssociazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali.Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo !Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com– Cell-3930705272–
ROMA LA CASA DI MICHELANGELO AL GIANICOLOMichelangelo Buonarroti, vita Fonte: ansa Michelangelo Buonarroti è nato a Caprese nel 1475 e morto a Roma nel 1564. È stato uno scultore, pittore, architetto e poeta, era nato da un padre discendente di una famiglia fiorentina di tradizione guelfa che, alla nascita di Michelangelo, era podestà di Chiusi e di Caprese. La madre è morta quando Michelangelo aveva appena 6 anni. Avviato agli studi sotto la guida dell’umanista Francesco da Urbino, Michelangelo ha manifestato da subito tendenze artistiche. Incoraggiato da Francesco Granacci, è riuscito a convincere il padre e la famiglia e, nell’aprile 1488, è entrato come apprendista nella bottega dei pittori Domenico e David Ghirlandaio. Fin dal 1489 ha però preferito frequentare i giardini medicei di San Marco, per studiare le antiche sculture e i cartoni moderni ed imparare le tecniche della scultura sotto la guida di Bertoldo di Giovanni, allievo e collaboratore di Donatello. I disegni dei primi anni, copie di figure di maestri del passato, come Giotto e Masaccio, rivelano in Michelangelo una straordinaria capacità di orientarsi criticamente ed individuare i punti fondamentali della tradizione artistica, accogliendone l’eredità e ponendosi come il più diretto continuatore. Nei giardini di San Marco ha eseguito piccole figure in terracotta e una Testa di fauno in marmo, suscitando l’interesse e l’ammirazione di Lorenzo il Magnifico, che lo ha accolto nel suo palazzo di Via Larga, dove Michelangelo , preso a benvolere da Poliziano, è venuto in contatto con gli umanisti della cerchia medicea, assimilandone le dottrine platoniche. Tra la fine del 1490 e i primi mesi del 1492 ha scolpito la Madonna della scala e la Battaglia dei Centauri e dei Lapiti. Alla morte di Lorenzo il Magnifico, è tornato nella casa paterna continuando a scolpire e intensificando gli studi di anatomia grazie alla dissezione di cadaveri che gli venivano procurati di nascosto dal priore di Santo Spirito, per il quale ha eseguito un Crocifisso ligneo. Michelangelo, biografia Agli anni 1493 e 1494 risale anche la profonda impressione suscitata nell’animo dell’artista dalla predicazione di Savonarola. Nell’ottobre del 1494, sconvolto dalle sommosse che avrebbero portato in breve alla caduta dei Medici, ha abbandonato Firenze, rifugiandosi prima a Venezia e poi a Bologna, dove è rimasto per circa un anno presso Gianfrancesco Aldrovandi. In questo periodo ha scolpito per l’arca di San Domenico due piccole figure (San Procolo e San Petronio) e un Angelo inginocchiato. Tornato a Firenze alla fine del 1495, vi è rimasto 6 mesi, durante i quali ha eseguito un Cupido dormiente e un San Giovannino. Dopo, forse a causa della mancanza di commissioni nella repubblica savonaroliana, si è recato a Roma, conquistando in pochi anni una grande rinomanza con il Bacco, scolpito per il banchiere Iacopo Galli, e con la Pietà vaticana, realizzata per il cardinale francese Jean Bilhères de Lagraulas. Di nuovo a Firenze nella primavera del 1501, vi è rimasto per quattro anni, ricevendo importanti commissioni da privati, dalla signoria, dall’Opera del duomo e dalle più potenti corporazioni: commissioni che testimoniano il continuo e rapidissimo crescere della sua fama. Stilisticamente vicina alla Pietà vaticana è la severa immagine della Madonna col Bambino di Bruges, mentre il tondo Pitti (la Vergine col Figlio e san Giovannino) e il tondo Taddei, scolpiti qualche tempo più tardi, rivelano l’interesse per l’opera di Leonardo che, presente a Firenze in quegli anni, aveva esposto alla Santissima Annunziata il cartone della Santa Anna, suscitando enorme ammirazione. Delle 15 statuette per l’altare Piccolomini nel duomo di Siena, previste in un contratto del giugno 1501, solo 4 sono state fornite ed eseguite in gran parte da Baccio da Montelupo su disegni di Michelangelo, che ha lasciato incompiuto anche un David bronzeo ordinatogli dalla signoria nel 1502 per il maresciallo Pierre de Rohan. L’opera che ha impegnato maggiormente l’artista fra l’agosto 1501 e l’aprile 1504 è stata il David marmoreo, destinato a Santa Maria del Fiore ma collocato davanti all’ingresso del palazzo della Signoria. Allo stupore per il prodigioso virtuosismo tecnico dell’artista, che ha saputo trarre la gigantesca figura, senza aggiungere altri pezzi, da un enorme blocco già sbozzato quarant’anni prima da Agostino di Duccio e poi abbandonato, è stata senza dubbio superiore l’ammirazione per la resa della struttura e dei minimi particolari anatomici del corpo vigoroso, in posizione di stasi, ma carico di tensione, pronto all’azione, e per l’energica caratterizzazione del volto che riflette l’ideale rinascimentale dell’uomo libero e creatore del proprio destino. Michelangelo Buonarroti, riassunto Altra commissione di grande prestigio, da parte del gonfaloniere Soderini, è stata quella di un affresco raffigurante la Battaglia di Cascina per il salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Poco prima del cartone della Battaglia di Cascina, Michelangelo aveva dipinto per Agnolo Doni un tondo con la Sacra Famiglia, in cui le tre vigorose figure in primo piano, annodate da una catena di movimenti a spirale, sono inserite in uno spazio articolato che anticipa motivi propri dei pittori manieristi. L’invito a Roma da parte di Giulio II nel marzo 1505 e l’incarico di costruire il monumento funebre del pontefice hanno acceso la fantasia dell’artista che si è messo all’opera con entusiasmo, ideando un complesso architettonico che doveva sfidare la grandiosità degli antichi mausolei. Il progetto prevedeva un edificio di forma rettangolare con una cella funeraria coperta a cupola. All’esterno nell’ordine inferiore le 4 facciate erano divise da pilastri, con figure di Schiavi addossate, che racchiudevano nicchie con immagini di Vittorie. Più in alto quattro grandi figure rappresentavano il Vecchio e il Nuovo Testamento (Mosè e San Paolo) e la Vita attiva e la Vita contemplativa. Il coronamento era costituito dalle allegorie del Cielo e della Terra (o da due angeli) sorreggenti un’urna. Dopo un soggiorno di 8 mesi a Carrara per la scelta e l’estrazione dei marmi necessari, Michelangelo è tornato a Roma, impaziente di iniziare a scolpire, ma il pontefice nel frattempo aveva deciso di far erigere il nuovo San Pietro secondo i piani di Bramante. Michelangelo ha lasciato Roma il giorno prima dell’inizio dei lavori ed è tornato Firenze il 17 agosto 1506, inseguito invano dai messi papali e da lettere minacciose che gli ingiungevano di ritornare “sotto pena della sua disgrazia”. Tramite Giuliano da Sangallo ha offerto al papa di continuare a occuparsi del monumento a Firenze, dove è rimasto tre mesi riprendendo i lavori per la Battaglia di Cascina e per il San Matteo, l’unica iniziata delle 12 statue di apostoli commissionate dall’Opera di Santa Maria del Fiore nel 1503. Alla fine di novembre, in seguito alle continue sollecitazioni di Soderini, ha raggiunto a Bologna Giulio II ed ha fatto pace con lui, accettando l’ordinazione di una grande statua in bronzo raffigurante il pontefice. La scultura, che è costata a Michelangelo più di un anno di fatiche, è stata collocata sulla facciata di San Petronio nel febbraio 1508, ma tre anni dopo è stata distrutta in seguito al ritorno dei Bentivoglio. Il contratto per la decorazione ad affresco della volta della Cappella Sistina è stato sottoscritto nel maggio 1508: Michelangelo, accettato l’incarico con riluttanza, si è presto appassionato all’opera, ampliandone il programma e riversandovi tutto il patrimonio di idee e visioni che si erano accumulate in lui, fin dal tempo dei primi progetti per la sepoltura di Giulio II. Figure e architettura dipinta sono legate in un moto ascensionale che coinvolge lo spettatore, spingendone lo sguardo, oltre le gigantesche figure dei Profeti e delle Sibille, verso le Storie della Genesi, che raffigurano insieme le vicende dell’umanità “ante legem” e l’ascesa dell’anima all’intuizione del divino. Terminati gli affreschi Michelangelo ha ripreso i lavori per la sepoltura di Giulio II, firmando, dopo la morte del pontefice, un secondo contratto (maggio 1513), modificando e ingrandendo in parte il progetto originario ed eseguendo, nello spazio di tre anni, due figure di Schiavi e il Mosè. Un terzo contratto per il monumento, con un progetto ridotto nelle dimensioni, è stato stipulato nel 1516, ma neppure allora l’opera è stata condotta a termine a causa dei continui impegni dell’artista. La stessa sorte è toccata ai successivi progetti del 1526 e del 1532. Solo la sesta versione del monumento (1542), freddo riflesso del grandioso sogno giovanile, affidata in gran parte all’esecuzione degli aiuti, è stata terminata e collocata in San Pietro in Vincoli (1545). Le opere di Michelangelo A Giulio II era succeduto Leone X, il cardinale Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo, legato al Buonarroti da buoni rapporti fin dalla giovinezza. Dal nuovo pontefice Michelangelo ha ottenuto il primo importante incarico di natura architettonica: l’esecuzione della facciata di San Lorenzo a Firenze. Michelangelo ha preparato il modello in breve tempo (maggio-settembre 1517) e ha iniziato a occuparsi dell’estrazione dei marmi dalle cave di Carrara e Pietrasanta, ma nel marzo 1520, forse a causa della difficoltà di reperire i fondi necessari all’impresa, il papa ha annullato il contratto, sostituendo l’incarico con quello di trasformare una cappella di San Lorenzo in cappella funeraria dei Medici. Alla fine Michelangelo ha accettato la nuova commissione ed è rimasto a Firenze nonostante le sollecitazioni degli amici romani a trasferirsi a Roma dove gli incarichi più ambiti presso la corte pontificia erano rimasti vacanti alla morte di Raffaello. Il progetto definitivo per la Sacrestia Nuova di San Lorenzo e le tombe medicee è stato approvato all’inizio del 1521 e, nel 1525, l’organizzazione architettonica era già compiuta nelle parti fondamentali. Un anno prima era iniziata anche l’esecuzione delle statue per le tombe di Lorenzo, duca di Urbino, e di Giuliano, duca di Nemours. Ai lavori per la Sacrestia Nuova si intrecciarono quelli per la costruzione di una libreria nel convento di San Lorenzo, di cui Michelangelo aveva ricevuto la commissione da Clemente VII nel dicembre 1523. Approvati i primi progetti, che probabilmente già prevedevano una sala rettangolare e un vestibolo, l’esecuzione ha avuto inizio nell’agosto 1524. I lavori, interrotti nel 1526, sono stati ripresi solo 23 anni dopo. Il periodo seguente è stato tra i più travagliati della vita di Michelangelo che, dopo il sacco di Roma e la cacciata dei Medici da Firenze, ha abbracciato la causa repubblicana, entrando a far parte dei “Nove della milizia” e accettando (6 aprile 1529) la carica di “governatore e procuratore generale sopra alla fabrica et fortificazione delle mura delle città”. Si è recato allora a Ferrara per studiare le celebri opere difensive, ricevuto con grande onore dal duca Alfonso I d’Este, per il quale ha dipinto una Leda, e, di ritorno a Firenze, ha eseguito una serie di progetti per le mura e le porte, non realizzati per l’opposizione del gonfaloniere Niccolò Capponi. Il 21 settembre, presentendo il tradimento del Baglioni, non trovando ascolto presso la signoria, ha lasciato Firenze riparando a Venezia, incerto se proseguire per la Francia. Bandito dalla repubblica, il 15 dicembre è tornato nella città assediata dalle truppe imperiali e papali, riprendendo i lavori alle fortificazioni. Caduta la città (12 agosto 1530), si è dovuto nascondere per sfuggire a vendette private, finché non ha ottenuto il perdono di Clemente VII. Ha ripreso allora i lavori abbandonati alle tombe medicee ed è stato costretto anche ad accettare commissioni dai vincitori: un David-Apollo e progetti di una casa per il commissario pontificio Baccio Valori. Fonte: ansa Il Giudizio universale Tra il 1532 e il 1534 ha scolpito una figura virile di Vittoria e 4 Prigioni per la tomba di Giulio II. Insofferente per la nuova situazione politica di Firenze, venuto meno, anche in seguito alla morte del padre, ogni legame con la città, nel 1534 si è stabilito a Roma, accogliendo l’invito di Clemente VII e l’incarico di dipingere sulla parete dell’altare nella Cappella Sistina il Giudizio universale. Alla morte di Clemente VII la commissione gli è stata confermata dal nuovo pontefice Paolo III e l’affresco, iniziato nel 1536, è stato scoperto il 31 ottobre 1541. Sconvolgendo la tradizionale iconografia del tema, l’artista ha raffigurato l’atto finale della storia dell’umanità in uno spazio infinito, un cielo senza confini, rischiarato in basso da lividi bagliori, contro il quale si stagliano con violento contrasto quasi 400 figure, raggruppate senza ordine di piani e di grandezze, trascinate in un turbine che le travolge con moto vorticoso, scatenato dal gesto terribile del Cristo-Giudice che appare, in mezzo alla disperazione dei dannati e allo sgomento di santi, martiri e beati, nello splendore di un nimbo luminoso. Con il Giudizio, l’opera di Michelangelo appare, già agli occhi dei contemporanei, il momento culminante della secolare tradizione artistica, ma allo stesso tempo anche rivoluzionaria e polemica nei confronti della tradizione stessa. Le certezze morali e intellettuali del primo Rinascimento, la concezione dell’uomo padrone del proprio destino e la celebrazione della sua indomabile energia lasciano il passo alla visione di una immane tragedia che travolge l’umanità intera, dolente e sgomenta di fronte alla imperscrutabile condanna e al senso della propria fragilità e impotenza. Ma il Giudizio è stato anche l’opera che ha aperto la polemica fra i denigratori e gli esaltatori dell’opera di Michelangelo: da un lato c’erano le accuse di irreligiosità, di abbandono dell’iconografia tradizionale e di scandalosa licenza; dall’altro l’esaltazione della sua opera come conclusione di un grandioso processo e la celebrazione dell’artista e della tradizione fiorentina. Altre opere Contemporaneo all’affresco del Giudizio è il busto di Bruto, eseguito per il cardinale Ridolfi, uno degli esuli fiorentini che Michelangelo ha frequentato assiduamente a Roma. Al decennio seguente, oltre alla definitiva collocazione in San Pietro in Vincoli della tomba di Giulio II, per la quale l’artista ha eseguito allora le figure di Lia e Rachele, appartengono gli affreschi della Cappella Paolina, con la Conversione di Saulo (1542-1545) e il Martirio di san Pietro (1546-1550). Negli ultimi 20 anni gli interessi di Buonarroti, giunto al culmine della fama e circondato dall’ammirazione delle giovani generazioni di artisti che si sforzavano di imitare le sue opere, si spostarono verso l’attività architettonica. In questo periodo Michelangelo, oltre a inviare a Firenze istruzioni per i lavori conclusivi della Biblioteca laurenziana, ha progettato la sistemazione prospettica e monumentale di Piazza del Campidoglio, la ricostruzione a pianta centrale della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini (1550-1559), la trasformazione del tepidarium delle terme di Diocleziano nella basilica di Santa Maria degli Angeli. Ha poi preparato disegni per la cappella Sforza in Santa Maria Maggiore e per Porta Pia; ha continuato, dopo la morte di Antonio da Sangallo il Giovane (1546), la costruzione di Palazzo Farnese; ed ha assunto la direzione dei lavori per la nuova Basilica Vaticana (dal gennaio 1547). Scartando i progetti di Raffaello e del Sangallo, è voluto tornare alla pianta centrale bramantesca ed ha concepito l’edificio come un colossale organismo plastico, trasferendo all’esterno l’ordine gigante dei pilastri che costituiva il nucleo della struttura interna e convogliando nella grande cupola la tensione di tutte le membrature. Le sculture degli ultimi anni (la Pietà da Palestrina, la Pietà del Duomo di Firenze e la Pietà Rondanini) riprendevano un unico tema: il compianto sul Cristo morto, interpretato nelle ultime due come superamento del dolore in una beatitudine per l’abbandono del carcere terreno. Michelangelo poeta Di Michelangelo rimangono inoltre un nutrito epistolario e circa 300 componimenti poetici, pochi anteriori al 1520, anche se è probabile che l’attività poetica sia iniziata già negli anni giovanili, stimolata dalla lezione dei poeti e dal fatto che l’artista aveva trascorso gli anni della sua formazione artistica e spirituale in un ambiente di straordinaria vivacità culturale. Buonarroti trovava nell’esercizio letterario un mezzo per fissare e chiarire pensieri e moti dell’animo, ma è indubbio che solo piuttosto tardi, trovata dopo molti tentativi una propria misura espressiva, si è dedicato alla poesia con una certa assiduità. A partire dal quarto decennio del secolo motivi centrali del suo canzoniere sono state le teorie platoniche sull’amore. L’esaltazione della bellezza fisica come manifestazione di un’armonia spirituale, rivelazione e incarnazione del divino, si accompagnava alla concezione dell’amore non come vincolo umano, ma come legame universale. Nelle rime degli ultimi anni, invece, sono diventati temi dominanti i motivi di carattere religioso: pensieri di morte e senso angoscioso del peccato, disperazione della salvezza e invocazioni. Le Rime occupano un posto di rilievo nella lirica del Cinquecento, soprattutto per il loro tono particolare, energico e austero, che tradisce la tensione verso una più intensa potenza espressiva. Molto importante è anche l’epistolario che, pur contenendo rari accenni all’attività artistica, permette di approfondire la conoscenza del suo mondo interiore, rivelando l’attaccamento al nucleo familiare, la devozione per il padre, l’animo impaziente e travagliato, la scontrosa e sospettosa solitudine, la generosità e una vocazione espressiva. Michelangelo è morto a 88 anni, dopo breve malattia, il 18 febbraio 1564, nella sua casa di Macel dei Corvi, a Roma. Il suo corpo, segretamente trasportato a Firenze dal nipote Leonardo, è stato sepolto in Santa Croce.
DEA SABINA-Olio Extravergine di Oliva “Sabina Dop” è “il migliore del mondo”
Claudio Galeno (129 d.C-216 d.C.), padre della moderna Farmacopea:“L’olio della Sabina il migliore del mondo”.Nei territori della Sabina, tra Roma e Rieti, si produce l’olio Sabina Dop, antichissimo olio extravergine di oliva ottenuto dalle varieta’ di olive Carboncella, Leccino, Raja, Frantoio, Olivastrone, Moraiolo, Olivago, Salviana e Rosciola. L‘olio Sabina Dop ha un colore giallo oro dai riflessi verdi, il suo sapore e’ aromatico e l’acidità massima è pari allo 0,60%.
Olio Extravergine di Oliva Sabina DopClaudio Galeno (Κλαύδιος Γαληνός)
Claudio Galeno (Κλαύδιος Γαληνός) – è considerato, dopo Ippocrate, il medico più illustre dell’antichità.Nato a Pergamo nel 129 d. C., figlio dell’architetto Nicone che diresse i suoi studî, frequentò le scuole dei filosofi greci e s’approfondì ben presto nello studio della filosofia aristotelica. Studiò medicina nella sua città natale, poi a Smirne ove si dedicò particolarmente a ricerche anatomiche, si recò quindi in Alessandria, e nel 157 tornò a Pergamo dove divenne medico della scuola dei gladiatori acquistando una vasta conoscenza nel campo della chirurgia. Nel 162 si portò a Roma ove presto ebbe grande rinomanza; nel 166, essendo scoppiata una grave epidemia, abbandonò l’Italia e tornò a Pergamo, ma fu ben presto richiamato a Roma da Marco Aurelio (169). Medico dell’imperatore ne ebbe la piena fiducia, lo curò ripetutamente e nel 176 lo guarì da una malattia erroneamente dignosticata dagli altri medici. La sua attività scientifica fu particolarmente intensa negli anni fra il 169 e il 180, cioè fino alla morte di Marco Aurelio. Sotto gl’imperatori che succedettero G. continuò a essere il medico di fiducia di corte; morì nel 201, non è noto se a Roma o a Pergamo.
. L’attività scientifica di G. fu così vasta, profonda e molteplice, che egli ebbe a giusta ragione la fama d’essere stato, dopo Ippocrate, il più insigne medico dell’antichità classica. Non tutti i suoi scritti ci sono conservati; molti di essi bruciarono nell’incendio del tempio della Pace. Non meno di quattrocento sono gli scritti a lui attribuiti. L’autore stesso divide le sue opere in sette gruppi: anatomia, patologia, terapia, diagnostica e prognostica, commentarî degli scritti ippocratici, filosofia e grammatica. Centotto sono gli scritti medici che sono giunti fino a noi, alcuni di questi però soltanto attraverso la traduzione araba, altri in frammenti. Settantadue libri appartengono al gruppo dei commentari, non meno di 175 erano gli scritti filosofici.
Le opere sono tutte scritte in greco. Fra quelle che furono più studiate e citate e generalmente considerate come le più importanti vanno nominate in prima linea la Θεραπευτικὴ μέϑοδος (Methodus medendi), testo classico di terapia, noto sotto il nome di Megatechne, e la Τέχνη ἰατρική (Ars medica), generalmente indicato col nome di Microtechne, che contiene un riassunto di tutto il sistema galenico e costituì per molti secoli il testo fondamentale dell’insegnamento medico.
I libri anatomici di G. dimostrano come egli si sia occupato dell’anatomia degli animali, particolarmente del maiale e della capra, e abbia conosciuto la letteratura anatomica degli Alessandrini. Sembra di potersi rilevare che egli abbia avuto una tecnica esatta nelle preparazioni anatomiche; ripetutamente afferma d’aver esaminato e studiato le ossa delle scimmie, i visceri di varî animali, e da questi studî egli trasse direttamente e immediatamente conclusioni per l’anatomia umana. Questa anatomia di G., ricca di alcune preziose osservazioni, specialmente nel campo dell’osteologia, della miologia, e dell’anatomia del sistema nervoso (G. fu il primo a descrivere i nervi cerebrali e a distinguere i nervi motori dai sensorî), contiene anche grandi errori, fra i quali primissimo quello di aver affermato l’esistenza di una comunicazione fra il cuore destro e il cuore sinistro attraverso i fori del setto cardiaco.
Il motivo principale sul quale si fonda la fama di G. è da ricercarsi nella sua geniale intuizione dell’orientamento sperimentale e analitico della medicina, nelle sue doti eccellenti di osservatore e di critico e infine nell’aver egli saputo seguire l’ideologia monoteistica che s’andava formando. Galeno volle raccogliere sistematicamente tutto ciò che sino a lui si sapeva in fatto di medicina, riaffermando la necessità dell’analisi e l’opportunità di derivare la terapia dalla conoscenza della malattia e delle sue cause. Ippocratico nel seguire le massime fondamentali della scuola di Coo, egli si allontanò dall’antico maestro nella concezione della malattia, che egli non considerò più come una discrasia, cioè come un perturbamento nell’armonia, ma come un fatto locale, come un’alterazione dei singoli organi. Egli cercò di dimostrare col suo sistema che la struttura degli organi è conforme allo scopo preesistente al quale essi sono destinati, che ogni organismo è costruito secondo un piano logico prescritto da un Ente supremo. G. si stacca da Ippocrate in quanto non riconosce più in linea assoluta l’azione sanatrice della natura e non considera funzione del medico il lasciarsi guidare da essa, ma il combattere i sintomi.
Secondo la dottrina galenica, il pneuma che è l’essenza della vita è di tre qualità: il pneuma psychicón (spirito animale) ha sede nel cervello, centro delle sensazioni e dei movimenti; il pneuma zooticón (spirito vitale) risiede nel cuore, si manifesta nel polso; il pneuma physicón (spirito naturale) ha il suo centro nel fegato e nelle vene. La vita psichica, l’animale e la vegetativa hanno differenti funzioni e sono dirette da forze che hanno una propria sfera d’azione. Il corpo non è che uno strumento dell’anima. Il sistema galenico ebbe ben presto l’appoggio dei Padri della Chiesa, ciò che spiega come la dottrina galenica rimanga immutabile e inattaccabile fino al Rinascimento e G. assuma nel campo della medicina il medesimo posto che Aristotele tenne nel campo della filosofia.
Anatomico, fisiologo dotato d’uno spirito d’osservazione così acuto e d’una così profonda passione per l’esperimento da poter essere considerato come il creatore della fisiologia sperimentale, medico di grande esperienza, G. fu senza dubbio il fondatore della medicina sistematica. I suoi scritti furono studiati dai medici dei tempi posteriori come testi classici, ma l’autorità a lui conferita dagli studiosi in un’epoca di grave decadenza dello spirito scientifico, fece del sistema galenico un “noli me tangere” e diede a tutte le sue affermazioni il valore di altrettanti dogmi. Così il tesoro di esperienze e di idee feconde che si trova nelle opere di G. si cristallizzò e divenne sterile. Oltre ai libri citati, sono fra i più importanti degli scritti galenici i seguenti: 1. Scritti di commenti ad Ippocrate: Il Glossario di Ippocrate con 15 commentarî; 2. Anatomici e fisiologici: Dell’uso delle parti del corpo umano, l. XVII; Dei dogmi di Ippocrate e di Platone, l. IX; Delle amministrazioni anatomiche, l. XV. 3. Scritti di igiene: Della conservazione della salute, l. VI. 4. Scritti di dietetica: Della dieta dimagrante, Dei buoni e cattivi succhi degli alimenti; 5. Scritti di terapia: Dei temperamenti e delle facoltà dei medicamenti semplici, l. XII; Degli antidoti, l. II; Del metodo di curare, l. XIV. Molti altri scritti trattano di etiologia, di patologia e di diagnostica.
Ediz.: Delle antiche edizioni greche di G. la più importante è quella in cinque volumi, pubblicata da Aldo Manuzio a Venezia nel 1525. L’edizione latina più antica è quella pubblicata a Venezia da Filippo Pinzio De Caneto il 27 agosto 1490 in due volumi. Delle edizioni moderne e complete, una delle migliori è l’ed. greca edita dal Kühn, Lipsia 1821-33, in 22 volumi con la traduzione latina a fronte. L’edizione pubblicata dal Daremberg (Parigi 1854-1856) contiene un’eccellente traduzione francese degli scritti anatomici e fisiologici. Una nuova ed. critica delle opere di G. è in corso di pubblicazione nel Corpus medicorum graecorum, per cura dell’Accademia prussiana delle scienze.
Bibl.: Fra i saggi completi di bibliografia galenica va citato in prima linea quello di L. Choulant, in Handbuch der Bücherkunde für die ältere Medizin, Lipsia 1841, rist. Monaco 1926. Intorno alla vita e alle opere di G. esiste una letteratura vastissima; infiniti sono i commentarî ai suoi scritti, dato che fra il 1400 e il 1700 quasi tutti gli autori di opere mediche usavano presentare i loro lavori sotto la veste di commentarî di uno o dell’altro dei libri di Ippocrate o di Galeno. Fra le più importanti opere moderne: J. G. Ackermann (Prefazione all’edizione del Kühn), Lipsia 1821; J. Mayer-Steineg, Ein Tag im Leben des Galen, Lipsia 1913; M. Meyerhof, Über echte und unechte Schriften Galens nach arabischen Quellen, in Ber. der Pr. Akad. der Wissenschaften, XXVIII, 1928; G. Bilancioni, G., Milano 1930. Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
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Oliviero Toscani, il nostro Ansel Adams?Articolo del fotografo Marco Scataglini
La recente scomparsa di Oliviero Toscani mi ha fatto molto riflettere. E’ stato davvero il nostro Ansel Adams, ovviamente non dal punto di vista fotografico – mai due fotografi sono stati tanto diversi – quanto da quello della fama.
Oliviero Toscani
Come ho scritto in un recente post, a differenza di musicisti o anche esponenti di altre arti, i fotografi sono abituati al fatto che poche persone conoscano davvero i “propri eroi”e così i nomi di Luigi Ghirri o di Mimmo Jodice, di Walker Evans o Stieglitz, non dicono granché alle persone che non appartengono al nostro mondo. E non è qualcosa che riguarda solo l’Italia, ovviamente, anzi è generalizzata. Nel mondo anglosassone, e non solo, c’è un unico esempio di fotografo noto quasi a tutti: Ansel Adams, appunto.
E non tanto per le sue fotografie (anche) quanto per il suo impegno ecologista, le sue battaglie per la salvaguardia della natura e la creazione di Parchi Nazionali, e per essere stato anche il fotografo che nel 1979 ha realizzato il ritratto ufficiale del presidente Jimmy Carter (a colori!), recentemente scomparso.
Presidente Jimmy Carter-Foto di Oliviero Toscani
In Italia la stessa sorte è toccata a Oliviero Toscani. Della sua morte ne parlano giornali, radio e televisioni – da giorni – con ricordi, testimonianze, coccodrilli scritti in precedenza, visto che Toscani era da tempo malato. Di tutte queste testimonianze di autentica stima e affetto mi ha colpito il fatto che l’elemento strettamente fotografico rimanesse quasi sullo sfondo.
A parte, s’intende, chi scrive di fotografia e riconosce in Toscani uno dei maestri, gli altri ne sottolineano il carattere estroso, polemico, sempre sopra le righe, i diversi processi subiti per diffamazione e così via. La sua vita è stata un susseguirsi di dichiarazioni urticanti ma mai banali, una continua ricerca dell’autentico, senza nascondersi dietro il “politicamente corretto”. Era indubbiamente un uomo libero. Tuttavia leggendo o ascoltando le lamentazioni per la sua morte, ho avuto sempre l’impressione che non si parlasse tanto di un fotografo, quanto di un personaggio pubblico qualunque, di un “intellettuale” sui generis, un po’ come quando si parla di Sgarbi non si pensa al fatto che sia un critico d’arte, ma un acceso polemista.
E invece Toscani non sarebbe stato quel che è stato se non fosse stato soprattutto un fotografo. Quel che aveva da dire – per davvero – lo ha detto con le sue foto. O meglio, per essere più precisi, con le idee dietro le sue foto. Perché di fatto, sebbene immediate e dirette, le sue immagini erano molto concettuali, ma non il “Concettuale” con la “C” maiuscola dei soliti “Artisti” (con la A maiuscola anch’essi) ma un concettuale fatto per essere compreso, chiaro, con pochi fraintendimenti.
Foto di Oliviero Toscani
Questo perché Toscani non amava i giri di parole ma in particolare detestava i “giri d’immagine”, insomma le sue foto dovevano dire quel che avevano da dire sbattendotelo in faccia. Per questo scandalizzavano e però sono rimaste nella nostra memoria anche dopo molti anni, basti pensare a tutte le pubblicità della Benetton. Foto come quella dei tre cuori umani, di tre origini diverse (un africano, un europeo e un asiatico) rendevano perfettamente l’idea del fatto che dentro siamo fatti tutti allo stesso modo. Colpiva, infastidiva pure, ma era immediatamente comprensibile. E lo stesso vale per le sue foto di condannati a morte, per il bacio tra un prete e una monaca e così via.
La verità però è che Toscani ha legato la sua fama a immagini come queste, ma era anche molto altro. Ho vecchie riviste degli anni ’70 con la pubblicità della Olympus OM 2 dove un giovane Toscani ne illustrava le meraviglie nell’uso per il reportage, genere a cui allora si dedicava. Era in grado di raccontare luoghi e persone, di immergersi in realtà complesse come – per citare un progetto relativamente recente, del 1996 – il paese di Corleone e di trarne così un catalogo Benetton che era contemporaneamente una storia basata sui volti delle persone, sui loro gesti, sui loro atteggiamenti e appunto la promozione di un marchio iconico.
Fotocamere Olympus-Foto di Oliviero Toscani
Se dovessimo dire che fotografo era, probabilmente dovremmo considerarlo un ritrattista: sapeva cogliere l’essenza di chi aveva davanti, ma ci metteva molto del proprio, e sapeva fondere le due cose con efficacia, specialmente perché – come ricorda Andrea Scanzi in un suo articolo – non gli riusciva proprio di mentire. Motivo per cui ebbe molte critiche, ad esempio, per un servizio sulla ex-ministro Maria Elena Boschi uscito su “Maxim” e in cui non avrebbe reso adeguatamente il suo soggetto. Insomma, lo si accusava di non aver ripreso la Boschi per quello che il pubblico si aspettava: elegante e sexy. Non è questo il ruolo di un fotografo, sembrerebbe di poter dedurre da tali critiche, trasformare tutto in “Glamour”?
Poteva piacere o meno (ad esempio non è mai stato uno dei miei fotografi di riferimento) ma difficilmente se ne poteva disconoscere il ruolo avuto per scuotere la sonnolenta fotografia italiana, e per questo basti pensare alla sua straordinaria rivista “Colors”, realizzata per i Benetton a partire dal 1991, ampiamente anticipatrice di tante riviste che oggi si atteggiano a “cosa nuova”.
Mi rendo conto che anch’io sto scrivendo una sorta di elegia su Toscani, non era il mio intento. Quello che mi premeva sottolineare è l’importanza del suo ruolo, soprattutto per far conoscere la fotografia fuori dai soliti recinti più o meno intellettuali. Veniva sempre chiamato “fotografo” anche quando nelle interviste lo si sollecitava a parlare di altro. Era comunque la voce di un fotografo quella che rispondeva, una voce che non poteva essere disgiunta da quello sguardo sensibile, attento, ironico, istrionico. E in quanto fotografo ha anche cercato costantemente di far crescere i giovani che si affacciavano a questo mondo, come Adams è stato un vero ambasciatore della nostra arte presso il grande pubblico. Questo gli ha inimicato tanti fotografi che vedevano in lui una sorta di antitesi a quello che dovrebbe essere il ruolo del serio intellettuale che si esprime con le immagini.
Foto di Oliviero Toscani
Ma la verità è anche che Toscani era inimitabile. Non lo dico nel senso che realizzava fotografie tecnicamente inarrivabili, anzi. Il fatto è che erano foto davvero “sue”, in cui il ruolo del fotografo, la sua prorompente personalità, erano parte integrante del soggetto.
I fotografi amatoriali amano Ghirri – e quelli della sua “scuola” – perché pensano di potersi ispirare a lui, perché il suo approccio può essere “copiato”, anche se il più delle volte con risultati francamente non proprio apprezzabili. Fatto sta che la Rete è piena di fotografie “alla Ghirri”, di foto di architettura “alla Basilico”, di foto di paesaggi “alla Guidi” e così via. Ed è singolare pensare che questi tre fotografi che ho citato come esempio in realtà siano poco noti al pubblico generalista, che invece conosce Toscani. Viceversa nessun fotografo si sogna di imitare Toscani perché è sostanzialmente impossibile se non si diventa almeno un po’ come lui era. La corrispondenza tra le sue immagini e il suo modo di essere era quasi perfetta.
Sia chiaro, ogni fotografo è unico e inimitabile, ma – permettetemi la forzatura semantica – Toscani era il più unico di tutti, specialmente quando non premeva il pulsante di scatto della fotocamera. Per questo ho spesso incontrato fotografi che non lo apprezzavano, sostenendo che era soprattutto un “personaggio”, più che un artista o “un creativo”, parola che tra l’altro Toscani detestava. Uno buono per stare in televisione o alla radio, per scrivere libri ironici (come “Non sono obiettivo“, uscito per Feltrinelli nel 2001, il cui titolo dice tutto) ma scontato e banale dal punto di vista meramente tecnico. E si sa che i fotoamatori guardano soprattutto l’aspetto tecnico, invece di quello intellettuale.
Ho sempre risposto che il personaggio e il fotografo, le parole e le fotografie in Toscani erano un tutt’uno, lo rendevano una miscela perfetta e per certi versi esplosiva di leggerezza e profondità, di caustica polemica e insondabile ironia. Un fotografo di altri tempi eppure contemporaneo, direi necessario.
Foto di Oliviero Toscani
Qualche mese fa, al Festival di Reggio Emilia, c’era una sua mostra risalente alla fine degli anni ’90: una serie di fotografie di cacche (Toscani ha sapientemente intitolato il progetto “Cacas“), insomma escrementi sia umani che animali. Le foto sono su fondo bianco, semplici, ben realizzate, ma con una potenza eccezionale. Dopo i primi facili sorrisini, ed ecco la parte divertente e divertita dell’operazione, lo spettatore entra in un tumulto di riflessioni e considerazioni, ed è questa la parte profonda – irriverente ma mai autocompiaciuta – di ogni progetto del fotografo milanese. Scommetto che avrà considerato questa serie di immagini una galleria di ritratti dei suoi detrattori, ma in verità ha poi scritto che “la cacca è l’unica cosa che l’essere umano fa senza copiare gli altri, non c’è niente di più personale e ogni volta è un’opera d’arte“. Capito cosa significa essere Oliviero Toscani? Intellettuale senza fare l’intellettuale, profondo apparendo superficiale. Saper giocare con le contraddizioni come un prestigiatore o un circense. Appunto: unico.
E certo: ci vuole anche il coraggio. Vorrei veder voi mettervi lì a collezionare cacche fresche (e scommetto odorose) e a fotografarle con tutto l’armamentario di “bank” e stativi, per poi farsi ridere dietro.
Per questo, per la sua indiscutibile capacità di farci riflettere e arrabbiare è stato davvero un maestro della fotografia, la cui verve indubbiamente ci mancherà.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
-8) Edward Jenner –Medico -Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 8) Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni–
– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da siti Web – Enciclopedia Treccani.on line e Wikipedia
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma – Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Edward Jenner e il vaccino contro il vaiolo
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Un racconto sulla nascita del primo vaccino contro il vaiolo quale strumento fondamentale per sconfiggere le malattie infettive.
L’umanità deve molto all’inglese Edward Jenner, medico di campagna che nel 1749 con il suo metodo sperimentale, salvò il mondo dal vaiolo ed aprì la strada agli studi immunologici.
Nel libro, La formidabile impresa. La medicina dopo la rivoluzione mRNA, Roberto Burioni racconta come fu inventato il primo vaccino contro il vaiolo e di come questa scoperta abbia sensibilmente contribuito al progresso scientifico.
Come è nato il vaccino del vaiolo?
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Il vaccino si chiama così grazie alle vacche. Nella seconda metà del Settecento, il medico inglese Edward Jenner aveva notato che di solito le ragazze di campagna avevano una pella meravigliosa, senza traccia dei butteri del vaiolo, una terribile malattia che uccideva il 20-30% dei contagiati e lasciava cicatrici deturpanti sulla pelle dei guariti.
Un giorno, mentre infuriava un’epidemia di vaiolo, Jenner si recò in visita presso la famiglia di un agricoltore e quando trovò la figlia intenta a mungere una mucca le chiese, per attaccare bottone, se avesse paura di contrarre il vaiolo. «No» rispose la ragazza, «io ho già preso il vaiolo delle mucche, e non prenderò quindi il vaiolo degli uomini. Guardi la mia mano: questo è il segno del vaiolo delle mucche e io sono immune.» Che le persone occupate nell’accudire e mungere il bestiame fossero in qualche modo protette dal vaiolo era risaputo tra gli agricoltori, e a Jenner l’idea di immunizzare le persone utilizzando il vaiolo delle mucche ronzava da tempo nella testa, quindi decise di metterla in pratica.
L’occasione si presentò quando, nel 1796, una mungitrice – si chiamava Sarah Nelmes – arrivò nel suo studio per farsi curare il vaiolo bovino. Una delle mucche della sua fattoria si era ammalata, lei l’aveva ugualmente munta, nonostante avesse le mani screpolate, e alla fine si era ritrovata infettata, riportandone brutte lesioni.
Presso il dottore lavorava un uomo poverissimo, senza casa, che sbarcava il lunario facendo il giardiniere e aveva un figlio di 8 anni, James Phipps. Jenner mandò immediatamente a chiamare il ragazzino, prese del fluido dalle lesioni della mungitrice e glielo inoculò in un braccio. James non ebbe gravi problemi, a parte il fatto che dopo una decina di giorni cominciò a sentire dolore nel sito della puntura e un certo malessere generale. Presto però tutto passò e James tornò in perfetta salute, con una cicatrice nel punto in cui era avvenuta l’inoculazione. Jenner allora pensò che fosse arrivato il momento di capire se la puntura che aveva praticato fosse veramente in grado di proteggere il suo piccolo paziente.
Per farla breve, contagiò con il vaiolo il povero James (un medico che oggi si comportasse nello stesso modo sarebbe giustamente considerato un criminale), che sopravvisse. In segno di riconoscenza, Jenner gli regalò una piccola tenuta di campagna. James Phipps visse felice fino a 70 anni (un’età venerabile per i tempi) con moglie e due figli.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Dal vaccino vaiolo al vaccino anti-Covid e oltre
Il primo vaccino era stato inventato, e il nome «vaccino» ha origine proprio nel fatto che per immunizzare e proteggere i pazienti si utilizzava il vaiolo vaccino, cioè dei bovini. L’aggettivo – lo stesso che usiamo parlando del latte vaccino per distinguerlo per esempio da quello caprino – aveva conseguito un risultato tanto importante da diventare anche un sostantivo.
Biografia di Edward Jenner-Biografia scritta da Francesco Centorrino
Edward Jenner, noto medico e naturalista britannico, è conosciuto per aver introdotto il vaccino contro il vaiolo e per questo è considerato il padre dell’immunizzazione.
Edward Jenner è nato a Berkeley, cittadina del Gloucestershire (Inghilterra), il 17 maggio 1748, grazie ai suoi genitori condusse un’educazione classica, infatti il latino diventò parte del suo linguaggio quotidiano. Dal 1756 al 1761 studiò grammatica presso la Grammar School di Cirencester.
Il giovane Jenner, all’età di 13 anni, dovette scegliere un impiego e scelse di diventare medico. Dopo essere stato rifiutato ad Oxford, a causa delle sue precedenti condizioni di salute, in quanto da piccolo si ammalò di vaiolo, venne affidato a Mr. Ludlow. Con il chirurgo Ludlow rimase per sette anni ed imparò tutto quello che gli serviva per la professione di medico di campagna.
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
A 21 anni si trasferì a Londra per incrementare la sua esperienza nella pratica ospedaliera. A Londra fu assistente di John Hunter, ex chirurgo dell’esercito, presso il St. George’s Hospital. Nel maggio 1772 termina il suo apprendistato con Hunter e si dedica alla pratica della fisica, della chimica, alla materia medica e all’ostetricia. Hunter con il suo metodo stimolò così tanto il giovane Jenner che anche al termine dell’apprendistato i due continuarono a scambiarsi lettere.
Jenner nel 1773 decise però di ritornare a Berkeley e dedicarsi alla sua professione, solo dopo pochi mesi gli affari andavano alla grande. Tornato a Berkeley Jenner si dedicò anche a diversi studi come quelli riguardanti il tartaro emetico o il cuculo.
Anni dopo, nel 1788 sposò Catherine Kingscote che si ammalò successivamente di tubercolosi e morì nel 1815.
Fu agli inizi del 1800 che Jenner iniziò i suoi studi per combattere il vaiolo giungendo alla scoperta di un vaccino.
Gli ultimi anni della sua vita sono segnati da numerosi lutti ed il 26 gennaio 1823 Jenner si spense a causa delle conseguenze di un improvviso colpo apoplettico.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Focus: la scoperta del vaccino contro il vaiolo
In Europa tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 una delle malattie più diffuse era il vaiolo: infezione contagiosa che si manifestava con pustole e lesioni cutanee.
I casi di vaiolo crescevano sempre più rapidamente, una persona malata su sei moriva e a Londra in un solo anno morivano circa 3000 persone. Chi riusciva a sopravvivere diventava immune alla malattia.
Per contrastare il vaiolo si ricorreva alla variolizzazione, ossia inoculare nel soggetto da immunizzare materiale prelevato da lesioni di pazienti meno gravi, infatti a Londra nel 1746 si aprì un ospedale in cui i malati di vaiolo venivano sottoposti a questa pratica. Successivamente si iniziò a riconoscere la pericolosità e l’inefficienza del metodo.
Edward Jenner nello svolgere la sua professione, si recava presso le fattorie, così venne a conoscenza dell’esistenza di una forma di vaiolo meno intensa rispetto al vaiolo umano, che guariva rapidamente e rendeva l’uomo immune da un secondo contagio. Si trattava del vaiolo vaccino che colpiva vacche e buoi e che poteva essere contratto anche dall’uomo.
Jenner iniziò così gli studi sul vaiolo e capì che l’uomo poteva essere immunizzato usando secrezioni di animali o uomini affetti da vaiolo vaccino.
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Prima vaccinazione
Jenner nel mettere a punto una cura contro il vaiolo impiegò 20 anni e nel 1796 ci fu la prima vaccinazione: inoculò ad un bambino di otto anni, James Phipps, pus contenuto nelle pustole della mano di una donna affetta da vaiolo vaccino. Il giovane Phipps si ammalò di vaiolo vaccino e guarì in poche settimane. In seguitò Jenner gli somministrò il vaiolo umano ed il bambino non mostrò alcun sintomo, era stato immunizzato.
La pratica che da quel momento in poi è utilizzata per combattere il vaiolo non era più la variolizzazione, ma l’inoculazione jenneriana, successivamente venne coniato il termine vaccinazione. E’ grazie a questa scoperta che Jenner è considerato il padre dell’immunologia.
L’anno successivo alla prima vaccinazione, Jenner ha scritto un resoconto della sua sperimentazione sul piccolo Phipps, ma non venne accettata dalla Royal Society in quanto la sua intuizione era considerata troppo rivoluzionaria. Così nel 1798 Edward Jenner pubblicò a sue spese “An inquiry into causes and effects of the variolae vaccinae”, relazione delle sue esperienze riguardanti la vaccinazione in cui venne utilizzato per la prima volta il termine virus.
Grazie alla scoperta di Jenner i casi di vaiolo hanno iniziato a ridursi, lo stesso Napoleone ha reso obbligatoria la vaccinazione per il suo esercito. Nel 1800 a Berlino è stata fondata la Royal Vaccine Institution. Solo nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarerà debellato il vaiolo a livello globale.
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Contributo scientifico di Edward Jenner
Edward Jenner oltre alla sua professione di medico e chirurgo si dedicò a diversi studi, testimoniando il suo interesse non solo per la medicina, ma anche per la natura.
Uno degli studi più importanti che condusse fu quello sul comportamento del cuculo. Egli descrisse dapprima il canto dell’uccello ed in seguito le tecniche di accoppiamento. Jenner notò che il cuculo deposita le uova nel nido di altri uccelli (come la passera scopaiola) che non le distinguono dalle proprie. Il pulcino di cuculo spinge fuori le altre uova e pulcini dal nido in cui si trova in modo da essere l’unico a ricevere il cibo dai genitori adottivi. Grazie a questo studio, nel 1789, Jenner venne nominato membro della Royal Society.
Tra il 1776 e il 1778, invece, si dedicò allo studio degli istrici facendo particolare attenzione al loro letargo durante i mesi invernali ed iniziò anche uno studio sui delfini. Inoltre, grazie alla sua corrispondenza con Hunter, capì che quest’ultimo presentava i sintomi tipici dell’angina pectoris e condusse degli studi a riguardo. Intuì che il problema era dovuto, presumibilmente, alla formazione di uno strato di cartilagine a livello delle arterie coronarie e ciò ostruiva il flusso sanguigno.
Jenner effettuò anche studi sull’aerostato costruendone uno proprio alimentato ad idrogeno e, tra il 1783 e 1784, scrisse un opuscolo sul tartaro emetico, “Cursory observations on emetic tartar wherein is pointed out an improved method of preparing essence of antimony by a solution of emetic tartar in wine“, auspicando ad un maggiore utilizzo delle medicine in campo medico.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Riconoscimenti al Edward Jenner
Il dottor Jenner ottenne numerosi riconoscimenti come chirurgo, difatti veniva chiamato per svolgere operazioni complesse e anche pochi anni prima della morte, nel 1816, effettuò una brillante tracheotomia, testimoniando così la sua bravura.
E’ grazie alla scoperta del vaccino contro il vaiolo che Jenner, nonostante i numerosi oppositori, conquistò una grande fama, infatti ricevette inviti da importanti personalità quali il re Giorgio III, la regina Carlotta ed il principe di Galles. Nel febbraio del 1800 ricevette la medaglia della marina per servizi medici, la prima di una lunga serie.
Il valore della vaccinazione fu talmente compreso in Inghilterra che il Parlamento inglese donò a Jenner 30.000 sterline per incoraggiare ulteriormente le sue ricerche.
Oggi siamo ancora qui a celebrare il dottor Jenner senza il quale l’umanità non avrebbe sconfitto un problema così grave come quello del vaiolo.
Franco Leggeri Fotoreportage- Ospedale Spallanzani di Roma
Fonti
https://aulascienze.scuola.zanichelli.it
http://www.isavemyplanet.org
http://www.ovovideo.com
https://www.paginemediche.it
http://www.storiadellamedicina.net
https://www.vaccinarsintoscana.org
https://it.wikipedia.org
Biografia scritta da Francesco Centorrino e scrivo per Microbiologia Italia. Mi sono laureato a Messina in Biologia con il massimo dei voti ed attualmente lavoro come microbiologo in un laboratorio scientifico. Amo scrivere articoli inerenti alla salute, medicina, scienza, nutrizione e tanto altro.
Edward Jenner – the Original Vaccinator
Edward Jenner – Medico è il padre dell’immunizzazione-Creò il primo vaccino contro il vaiolo-
Dr. Edward Jenner was a man who has saved millions of lives due to his discovery of cowpox as the most effective treatment for the killer disease of smallpox. Born in 1749, he was orphaned at the age of five years, his parents both dying within two months of each other in 1754. He was sent away to boarding school at the age of eight years, and whilst there was subjected to be inoculated with a small amount of smallpox which was the standard treatment of the day, although it was a matter of luck as to whether the patient survived or not. He suffered side effects that haunted him to his dying day. Luckily for us, he survived his ordeal, and as an adult, he dedicated his life to finding a more effective and much safer cure for smallpox and despite a great deal of opposition from some of his medical colleagues, found the cure and in 1980, the World Health Organisation officially announced that smallpox had finally been eliminated. There is a statue of him in Gloucester Cathedral and sadly visitors to the cathedral know little or nothing about him. As the 200th anniversary of his death in 1823 approaches, this book attempts to show the reader how much we owe him.
Descrizione del libro di Tersilio Leggio, storico di Farfa e della Sabina Il cammino di Francesco – San Francesco visse nella Valle Santa una delle stagioni più intense della sua breve vita. Con certezza si sa che giunse nel reatino nel 1223, ma non si possono escludere soggiorni precedenti. Il Cammino, documentato dalle foto del grande fotografo Steve McCurry, è composto da otto tappe: parte da Rieti e si dipana attraverso la Valle Santa toccando i quattro Santuari francescani. A queste tappe si aggiunge il cammino verso il Faggio di San Francesco a Rivodutri e l’ascesa al monte Terminillo per la visita alla reliquia del corpo del Poverello di Assisi.
Tersilio Leggio, storico di Farfa e della Sabina, ci ha lasciati nella giornata del 29 aprile. È con profonda commozione che esprimo a titolo personale e a nome dell’Istituto storico italiano per il medio evo le più sentite condoglianze alla famiglia dell’amico carissimo e insigne studioso.
La figura di Tersilio Leggio ha rappresentato un esempio luminoso di storico con una profonda e appassionata conoscenza del territorio, che ha saputo coniugare felicemente con l’impegno civile di amministratore. Il suo contributo alla conoscenza e alla valorizzazione del territorio sabino e reatino rimane un punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia comprenderne la storia e l’identità. Animatore instancabile di ricerche sulla storia di Farfa, ha condiviso con chi scrive e con l’Istituto storico italiano per il medio evo numerosi progetti, non ultimo la creazione della collana “Fonti e studi farfensi”, per la quale ha pubblicato ancora recentemente un contributo sulle origini del monachesimo in Sabina.
La sua testimonianza di storico impegnato e provvisto di una profonda umanità resterà nitida e radicata in tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di partecipare della sua generosa opera di studioso e di uomo.
Umberto Longo
Prof. 𝗧𝗲𝗿𝘀𝗶𝗹𝗶𝗼 𝗟𝗲𝗴𝗴𝗶𝗼
Tersilio Leggio è storico del medioevo, autore di numerosi saggi sull’Italia mediana, e in particolare su Rieti e sulla Sabina. Tra i suoi titoli ricordiamo il volume Ad fines regni. Amatrice, la Montagna e le alte valli del Tronto, del Velino e dell’Aterno dal X al XIII secolo (L’Aquila 2011).
L’olio d’oliva e la sua storia-Biblioteca DEA SABINA-L’olivo coltivato o domestico deriva dall’olivo selvatico o oleastro che cresce nei luoghi rupestri, isolato o in forma boschiva, e dai cui minuscoli frutti si trae un olio amaro il cui uso è, però, sempre stato limitato.
I Greci conoscevano diverse varietà di olivi selvatici cui davano nomi diversi, agrielaìa, kòtinos, phulìa; i Romani invece, le riunivano tutte sotto la denominazione oleaster, che è poi quella passata nel vocabolario botanico moderno.
La patria di origine dell’olivo va con ogni probabilità ricercata in Asia Minore: infatti, mentre in sanscrito non esiste la parola olivo e gli Assiri ed i Babilonesi, che evidentemente ignoravano questa pianta e i suoi frutti, usavano solo olio di sesamo, l’olivo era viceversa conosciuto da popoli semitici come gli Armeni e gli Egiziani.
L’OLIO D’OLIVA
Non solo, anche nei libri dell’Antico Testamento l’olivo e l’olio di oliva sono spesso nominati : basti pensare che la colomba dell’arca porta a Noè un ramo d’olivo colto sul montagna dell’Armenia.
La trasformazione dell’oleaster in olivo domestico pare sia stata opera di popolazioni della Siria. Molto presto l’uso di coltivare l’olivo passò dall’Asia minore alle isole dell’arcipelago, e quindi in Grecia: lo Sichelieman riferisce di aver raccolto noccioli d’oliva sia negli scavi del palazzo di Tirino sia in quelli delle case e delle tombe di Micene e, nell’Odissea, troviamo scritto che Ulisse aveva intagliato il suo letto nuziale in un enorme tronco di olivo.
L’OLIO D’OLIVA
In Grecia esistevano molti e fiorenti oliveti; particolarmente ricca ne era l’Attica e soprattutto la pianura vicina ad Atene. D’altra parte l’olivo era la pianta sacra alla dea Atena ed era stata lei che, in gara con Poseidone per il possesso dell’Attica, aveva vinto facendo nascere l’ulivo dalla sua asta vibrata nel terreno. In suo onore si celebravano le feste dette Panatenee, durante le quali gli atleti vincitori delle gare ricevevano anfore contenenti olio raffinato: si tratta di anfore di una forma molto particolare, con corpo assai panciuto, collo breve, fondo stretto e piccole anse “a maniglia”, dette per questo loro particolare uso, panatenaiche.
L’olio attico era considerato tra i migliori; ma si apprezzavano molto anche gli olii di Sicione, dell’Eubea, di Samo, di Cirene, di Cipro e di alcune regioni della Focile. Le olive costituivano inoltre la ricchezza della pianura di Delfi sacra ad Apollo.
L’OLIO D’OLIVA
Le zone della Magna Grecia dove più florida era la coltura dell’olivo erano quelle di Sibari e di Taranto; nell’Italia centrale, si segnalavano in primo luogo il territorio di Venafro, quindi la Sabina e il Piceno, mentre nell’Italia del nord erano famose le coste della Liguria.
L’olivo esigeva molte cure, che potevano risultare anche costose, ma i proprietari degli oliveti erano ben ripagati dei loro disagi: non solo la cucina, ma anche i bagni, i giochi, i ginnasi e persino i funerali, esigevano l’impiego di grandi quantità di olio.
Le olive venivano raccolte, a seconda dell’uso cui erano destinate, in periodi diversi: ancora acerbe (olive albae o acerbae), non del tutto mature (olive variae o fuscae), mature (olive nigrae). Si raccomandava di staccarle dal ramo con le mani ad una ad una; quelle che non si potevano cogliere salendo sugli alberi, venivano fatte cadere servendosi di lunghi bastoni flessibili (in greco ractriai), sempre ponendo la massima attenzione a non danneggiarle. Alcuni aiutanti raccattavano e riunivano le olive battute che, solitamente venivano macinate il più presto possibile.
L’OLIO D’OLIVA
In Grecia l’olio era generalmente prodotto dai proprietari stessi degli oliveti che spesso procedevano anche alla sua vendita; il mercante di olio si chiamava elaiopòles o elaiokàpelos.
La vendita al dettaglio non si praticava solo in campagna o nelle botteghe; era ugualmente attiva nell’agorà, dove si vendevano le merci più diverse. I mercanti erano installati in baracche, sotto umili tende o, più comunemente, all’aperto, ma questa situazione migliorò ben presto quando furono edificati i primi portici.
Per quanto riguarda l’Italia, è importante sottolineare che la presenza di noccioli di oliva in contesti archeologici e documentata fino al Mesolitico. Tali attestazioni non significano necessariamente che già in epoca preistorica l’olivo venisse coltivato, anche perché all’esame dei noccioli non è possibile stabilire se si trattasse di olivastri oppure di olivi domestici. Sono comunque evidenze significative, soprattutto se inquadrate nel più generale panorama archeologico e vegetazionale della penisola italiana, che fanno ragionevolmente presumere un precoce riferimento all’olivo coltivato. Certamente il passaggio da una fase di semplice conoscenza della pianta a quella del suo sfruttamento agricolo avrà richiesto un lungo periodo, ciò nonostante, quanto esposto sembra sufficiente per sollevare almeno qualche perplessità sulle teorie che sostengono che l’olivo sia stato introdotto in Italia dai primi coloni greci; pur senza dimenticare che dal greco derivano sia la parola olivo (elaìa), sia il termine etrusco amurca che, nella sua forma greca amòrghe, indica quel liquido amaro ottenuto dalla prima spremitura delle olive, che veniva scartato ed utilizzato come concime, nella concia delle pelli e nell’essiccazione del legno.
L’OLIO D’OLIVA
Il vero problema, dunque, non è stabilire a quando risalga la presenza dei primi olivi in Italia, dato che certamente si trattava di piante che esistevano da molto tempo, almeno in forme selvatiche, quanto piuttosto definire il periodo in cui è cominciata la loro coltivazione in età storica, momento importante che segna l’inizio dello sfruttamento razionale delle campagne, tipico della civiltà urbana.
Le evidenze linguistiche, letterarie ed archeologiche permettono di affermare che, già fra l’VIII e il VII sec. a.C. non solo la coltivazione dell’olivo era praticata, ma esistevano colture organizzate che, grazie al clima mediterraneo, ben presto permisero la formazione di un surplus destinato agli scambi.
Per quanto riguarda l’età storica esistono anche evidenze paleobotaniche: sono da ricordare il relitto della nave del Giglio, del 600 a.C. circa, con le sue anfore estrusche piene di olive conservate e la cosiddetta “Tomba delle Olive” di Cerveteri, databile al 575-550 a.C., contenente, oltre ad un servizio di vasi bronzei per il banchetto, anche una sorta di caldaia piena di noccioli di olive.
L’OLIO D’OLIVA
Non è facile ricostruire il paesaggio agrario dell’Etruria antica: le trasformazioni subite nel corso del tempo, e soprattutto l’impoverimento e l’abbandono delle campagne, iniziato in età romana, impediscono di cogliere, in tutti i suoi dettagli, una situazione che doveva essere comunque piuttosto fiorente. Anche il panorama offerto dalle fonti antiche va letto con prudenza, tenendo conto del contesto storiografico di appartenenza in cui dominavano la memoria di un passato felice e i riscontri di un realtà contemporanea, quella della prima età imperiale, in cui i caratteri del paesaggio etrusco e i metodi di conduzione agricola erano senz’altro strutturati in modo diverso.
Per quanto riguarda i riscontri forniti dall’archeologia, le ricerche condotte in questi ultimi anni sui vasi-contenitori hanno permesso di analizzare, negli aspetti complementari di produzione, consumo e smercio, tipi di agricoltura intensiva quali le coltivazioni dell’olivo e della vite.
Dopo una prima fase in cui i contenitori di olio deposti nelle tombe principesche del Lazio e dell’Etruria risultano essere in massima parte di importazione, nel corso del terzo quarto del VII sec. a.C. inizia una produzione in loco di questi vasi, destinata nel tempo ad intensificarsi: si tratta non solo di contenitori di essenze odorose a base di olio, ma anche di recipienti destinati a contenere olio alimentare. E’ il momento in cui l’olio e il vino da beni preziosi di marca esotica, inclusi nel commercio di beni di lusso, diventano in Etruria prodotti di largo uso come attestano appunto i loro contenitori che diventano frequentissimi nei corredi tombali in età alto e medio-arcaica: particolarmente diffusi sono i piccoli balsamari in bucchero e in ceramica figulina, che imitano gli aryballoy e gli alabastra corinzi di importazione.
Per quanto riguarda l’ambito alimentare l’olio è sempre stato uno dei prodotti principali dell’antichità classica. Nel mondo romano non si usava altro condimento per cucinare, e per condire le insalate si utilizzava l’olio migliore: particolarmente rinomati erano l’olio verde di Venafro, come attestano , e quello della Liburnia in Istria; pessimo era considerato l’olio africano che veniva usato esclusivamente per l’illuminazione. Non mancavano allora, come oggi, le contraffazioni, se dobbiamo credere ad una ricetta di Apicio che insegnava a contraffare l’olio della Liburnia utilizzando un prodotto spagnolo.
Essendo poco raffinato e dato che non si adottavano trattamenti particolari atti a conservarlo, l’olio diveniva rancido molto rapidamente; l’unica soluzione era dunque salarlo.
L’OLIO D’OLIVA
Per questo motivo si consigliava anche di conservare il più a lungo possibile le olive, in maniera da poter fare, sul momento, olio fresco da offrire nelle oliere ai convitati in ogni periodo dell’anno. Si rendeva quindi necessario cogliere le olive quando erano ancora verdi sull’albero e riporle sott’olio.
In epoca imperiale le olive si servivano in tutte le cene, anche in quelle più importanti: come diceva Marziale, esse costituivano sia l’inizio che la fine del pasto, venivano cioè, sia portate come antipasti, sia offerte quando, finito di mangiare, ci si intratteneva a bere.
Solitamente erano conservate in salamoia, ben coperte dal liquido, fino al momento di usarle, poi si scolavano e si snocciolavano tritandole con vari aromi e miele. Le olive bianche venivano anche marinate in aceto e, condite in questo modo, erano pronte all’uso. Inoltre, con le olive più pregiate e più grosse, si facevano ottime conserve che duravano tutto l’anno e fornivano un nutriente ed economico companatico.Con le olive verdi si facevano le colymbadas (letteralmente “le affiorate”), così dette perché galleggiavano in un liquido fatto di una parte di salamoia satura e due parti di aceto. La preparazione consisteva nel praticare alle olive, dopo la salagione, due o tre incisioni con un pezzo di canna, e quindi tenerle immerse per tre giorni in aceto; poi le olive venivano scolate e sistemate con prezzemolo e ruta, in vasi da conserve che erano poi riempiti con salamoia e aceto facendo in modo che restassero ben coperte. Dopo venti giorni erano pronte per essere portate in tavola.
L’OLIO D’OLIVA
Un altro tipo di conserva era l’epityrum che si faceva sempre con le olive migliori, di solito le orcite e le pausiane: era una salsa molto saporita che si otteneva da frutti colti quando cominciavano appena ad ingiallire, scartando quelli con qualche difetto. Dopo aver fatto asciugare le olive sulle stuoie per un giorno, si mettevano in un fiscolo nuovo, cioè in una di quelle ceste di fibra vegetale fatte a forma di tasca, con un foro superiore e uno inferiore, in cui si racchiudevano le olive frantumate per poi spremere l’olio; quindi si lasciavano una notte intera sotto la pressa. Dopo di che venivano sminuzzate e condite con sale e aromi e, dopo aver messo l’impasto così ottenuto in un vaso lo ricopriva d’olio.
Vi erano poi le conserve di olive nere, che si potevano fare sia con le pausiane mature che con le orcite ed in alcuni casi anche con le olive della qualità Nevia: la preparazione consisteva nel tenerle per 30-40 giorni sotto sale, poi, una volta scosso via tutto il sale, metterle sotto sapa defrutum.
Altre volte, più semplicemente, si mettevano le olive sotto sale con bacche di lentisco e con semi di finocchio selvatico.
Catone, Plinio e Columella e tutti gli scrittore latini di agricoltura più famosi hanno lasciato insegnamenti sulla coltivazione dell’olivo e sulla produzione dell’olio.
E noto, ad esempio, che l’olio che si otteneva dalla torchiatura era piuttosto denso e che, per farlo diventare più fluido, occorreva riscaldare l’ambiente in cui veniva preparato per evitare che si rapprendesse: è per questo che l’olio aveva spesso odore di fumo. In qualche occasione, e naturalmente a seconda della temperatura esterna, era sufficiente che il locale dei torchi (torcular) fosse rivolto a sud ed esposto ai raggi del sole, anzi, gli esperti ritenevano che questa fosse la soluzione migliore per garantire la buona qualità del prodotto. E infatti, nella villa della Pisanella a Poggioreale, dove è venuto alla luce un interessante esemplare di torchio da olio, la cella olearia era intiepidita naturalmente, in virtù della sua esposizione al sole.
Gli autori antichi descrivono minuziosamente le macchine impiegate dai Greci e dai Romani per la torchiatura delle olive; le scoperte archeologiche hanno poi permesso di controllare e di completare le loro testimonianze.
La prima fase della preparazione dell’olio d’oliva consisteva nello schiacciamento dei frutti. La mola olearia assomigliava a quella granaria, essendo anch’essa costituita da due pietre cilindriche, una fissa, il bacino o sottomola, l’altra mobile, la mola verticale: l’operazione di schiacciamento era seguita in modo assai semplice, facendo rotolare una pietra cilindrica avanti e indietro sopra le olive poste in un contenitore.
Il “frantoio” romano, puntualmente descritto da Columella (I sec. d.C.) era di un tipo assai simile a quelli usati anche in età moderna.
Sulla base dei dati disponibili è possibile proporne una ricostruzione più che plausibile. In dettaglio, gli elementi componenti la macchina dovevano essere i seguenti:
Base in muratura, superiormente concava, per meglio alloggiare la sottomola
Sottomola
Sostegno verticale in legno dove è infilata la stanga. L’inserzione di questa nel sostegno doveva prevedere la possibilità di regolare l’altezza della mola per non schiacciare i noccioli delle olive
Disco della mola, costituito da una pietra cilindrica che l’uso deforma leggermente in senso troncoconico. Il disco è inserito nella stanga in modo da poter girare sia intorno al sostegno centrale, sia attorno al proprio asse. Il disco della mola era mantenuto nella posizione corretta per mezzo di cunei in legno (clavi)
Stanga, la cui estremità è collegata ai finimenti che imbrigliano l’asino sottoposto alla mola.
L’OLIO D’OLIVA
Quando il perno centrale veniva fatto ruotare, i rulli giravano rapidamente a una distanza regolabile sopra il recipiente che conteneva le olive era così possibile separare la polpa senza schiacciare i noccioli
Dopo la frangitura, le olive venivano pressate. Per questo secondo passaggio in antico venivano usate presse a trave, simili a quelle usate per il vino. Sembra che la pressa a trave abbia avuto origine e si sia sviluppata nella civiltà egea, dove la coltivazione delle olive era già diffusa agli inizi dell’età del bronzo, ma non si sa con certezza a quale epoca risalga.
I resti più antichi conosciuti di una pressa e di un bacino per schiacciare le olive sono quelli rinvenuti a Creta che appartengono al periodo minoico (1880-1500 a.C. ca.): sono però insufficienti per una ricostruzione dettagliata dello strumento. Un’altra pressa a trave per olive, risalente al tardo periodo elladico (1600-1250 a.C. ca.) fu trovata in una delle isole Cicladi. Dopo il 1000 a.C. circa, le presse di questo tipo divennero più frequenti e ne esistono alcune rappresentazioni, in particolare su vasi attici a figure nere del VI sec. a.C.
L’OLIO D’OLIVA
La pressa a trave applica il principio della leva: un’estremità della trave era appoggiata in un incavo del muro, o fra due pilastri di pietra, l’altra veniva tirata giù o spesso caricata con pesi (uomini e pietre). Le olive, sistemate in sacchi o tra tavole di legno, venivano schiacciate sotto la parte centrale della trave e il succo era raccolto in un recipiente sistemato sotto il piano della pressa.
Plinio descrive con molta chiarezza quattro tipi di presse. La prima è la vecchia pressa trave di cui parla anche Catone (234-149 a.C.) il cui funzionamento è stato però nel frattempo alquanto meccanizzato. Un’estremità della trave, spesso lunga fino a 15 metri, era fissata sotto una sbarra trasversale posta tra due pali di legno. Le olive schiacciate erano ammucchiate sotto questa pesante trave e la pressione veniva esercitata facendo abbassare l’altra estremità della trave che era tirata in basso da una fune arrotolata intorno ad un tamburo del diametro di 40-50 centimetri. Un secondo miglioramento che permetteva una pressione regolare e prolungata, era attuato nella pressa descritta da Erone (I sec. d.C.), ma gia nota da molto tempo e probabilmente inventata in Grecia. Tale pressa era costituita da un peso di pietra, una trave e un tamburo girevole, Partendo dalla base, una corda passava sotto una puleggia collocata sul peso e sopra un’altra puleggia situata sulla trave, raggiungendo il tamburo. Quando la corda era avvolta al tamburo la trave riceveva l’intero peso della pietra.
La massa da pressare era racchiusa in vari modi: dentro fiscoli di corda, giunchi intrecciati, o cesti. Oppure: “le olive venivano schiacciate dentro cesti di vimini o mettendo la pasta tra due asticelle” (Plinio).
Le presse a trave erano particolarmente adatte per operazioni su larga scala, quando invece si trattava di quantità limitate, come anche nel caso di semi oleosi, si preferivano altri metodi come la pressa a vite. Di quest’ultima Plinio dice che sembra sia stata introdotta a Roma verso la fine del I secolo a.C., ma che era stata probabilmente inventata in Grecia nel II o I secolo a.C.
L’OLIO D’OLIVA
In una versione perfezionata di questo tipo di pressa, descritta sia da Erone sia da Plinio, la vite solleva un peso di pietra. Questo tipo, chiamato anche “pressa greca”, era senz’altro in uso a Roma ai tempi di Vetruvio (I sec. a.C.).
Quindi l’olio veniva messo a decantare in vasche che precedevano il lacus destinato alla raccolta finale del prodotto.
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